Confucio
Pensatore cinese (Shandong, 551 a.C. ca.-Qufu 479 a.C.). Il suo cognome era Kong, ma è passato alla storia col nome di Kong Fuzi (Maestro Kong), da cui i gesuiti del sec. 16º derivarono la forma latina Confutius (it. Confucio) allorché il padre Matteo Ricci latinizzò il termine; la forma Confucius fu dovuta al padre Prospero Intorcetta (1666), mentre Daniello Bartoli la traslitterò in Confusio. Secondo la tradizione C. apparteneva a una famiglia che possiede un sicuro e completo albero genealogico fino alla generazione oggi vivente. Molti suoi membri si resero illustri nella letteratura e nella scienza, quasi senza interruzione. I discendenti diretti di C. hanno abitato il luogo stesso dove egli insegnò e morì, e hanno custodito la tomba e il tempio eretto in suo onore per la prima volta durante la dinastia Han, distrutto dai Mongoli nel 1214, ricostruito da Qubilay nel 1294, incendiatosi nel 1724, ricostruito nel 1730 e nuovamente saccheggiato dai briganti nel 1930. Gli incerti dati storici vogliono che C. nascesse nel principato di Lu, nello Shandong, ma che la sua famiglia fosse originaria di quello di Song, lasciato dai Zhou ai discendenti della dinastia Shang, lignaggi con i quali C. conservò rapporti sentimentali o culturali importanti. Sembra che la sua famiglia non fosse particolarmente agiata; con un padre di settant’anni, discendente da una famiglia di funzionari, sarebbe stato allevato in povertà dalla madre vedova. Comunque ebbe ascendenza aristocratica, come conferma il tipo di educazione ricevuta sulla base delle cosiddette «sei arti» (riti, musica, tiro con l’arco, guida dei carri, calligrafia, matematica). C. sarebbe quindi stato un membro della classe dei ru, dotti o specialisti che consigliavano i principi e partecipavano all’amministrazione degli Stati. Nel 501 C. sarebbe entrato al servizio del principe di Lu, Ding, e avrebbe contribuito a sventare una cospirazione contro di lui. Insoddisfatto per la condotta del signore, avrebbe lasciato Lu nel 496 a.C. per poi vagare per vari Paesi per tredici anni. C., come Socrate, secondo la tradizione, credeva di avere un demone famigliare, il duca Zhou, figlio del re Wen, il fondatore della dinastia dei Zhou, il quale gli appariva in sogno, gli dava consigli e gli trasmetteva la dottrina degli antichi. Egli insegnava nella sala principale della sua casa, talvolta in forma solenne, talvolta informalmente. Accettava dai suoi discepoli qualunque compenso, anche piccolo. Insegnava soprattutto i riti, la musica, la letteratura. Alla fine sarebbe tornato nella terra natale dove si sarebbe dedicato all’insegnamento e all’edizione di testi antichi fino alla morte. La sua opera principale sono i cosiddetti lun yu, a suo tempo resi dai gesuiti in latino come analecta e tradotti come «dialoghi». Sembra in realtà che questo breve testo, in venti libri, sia stato rimaneggiato dai suoi discepoli, forse dopo la sua morte, sebbene porti la sua impronta. Le altre opere attribuitegli dalla tradizione, compresa Primavere e autunni, dovrebbero risalire al periodo Han, né più né meno che la redazione a lui attribuita dei Cinque classici. L’attività letteraria di C. presumibilmente si rivolse a un insieme di opere nelle quali era riversata in quel momento la sapienza dell’epoca dei Zhou e che comprendevano scritti di natura storica, poetico-letteraria, divinatoria, musicale e altro ancora. La sua figura si colloca perciò al confine fra il periodo della storia della Cina noto come Primavere e autunni (770-454 a.C.) e quello degli Stati combattenti (453-221 a.C.). Si tratta di una fase di frammentazione politica, durante la quale assistiamo all’eclisse della classe nobiliare del periodo Zhou e alla formazione di numerose scuole di pensiero fra le quali il confucianesimo stesso riveste una particolare importanza. Il suo esatto contenuto originario, però, per il carattere aforistico e privo di sistematicità dei «dialoghi», risulta abbastanza difficile da ricostruire, anche perché i numerosi commentari e le interpretazioni che ne vennero date in seguito in più casi ne alterarono la dottrina. C. si disse tramite del sapere di un’epoca precedente e negò di insegnare qualche cosa di nuovo. Al centro del suo pensiero, che privilegia l’ordine e il benessere della società, mentre dice di aver poco interesse per il mondo degli spiriti, o addirittura di ignorarlo, c’è il dao, ovvero il principio basilare dell’universo. Probabilmente egli riteneva che i suoi tempi ne avessero smarrito la nozione e per questo motivo proclamò il principio della «rettificazione dei nomi», che assegnava a ogni posizione sociale (padre, figlio, sovrano, suddito, moglie, amico) un codice in termini di etichetta e di comportamento. Poiché questi ultimi nella vecchia Cina avevano però avuto un significato essenzialmente «rituale», che si stava perdendo nel momento in cui l’aristocrazia stava decadendo dalle funzioni tradizionali, la dottrina di C. spostava il concetto di virtù sul piano della morale individuale. C. poneva al centro i concetti di umanità (ren), lealtà (zhong) e reciprocità o mansuetudine (shu), i quali esplicitano ciò che vi è di caratteristico nell’uomo e si proiettano nei cosiddetti wulun, ovvero le cinque relazioni fondamentali, talvolta dette «dell’obbedienza», dall’osservanza delle quali dipende il buon andamento della società, secondo un’appropriata ritualità, la cui armonia corrisponde a quella della musica. Era perciò al rispetto per questo tipo di virtù, che escludeva il ricorso alla coercizione nel rapporto fra il principe e i sudditi, o fra i principi tra loro, salvo alcuni casi, che andava ricondotta la fortuna degli Stati. Coltivare la conoscenza significava potenziare le capacità umane spostandone l’interesse dalla dimensione dell’uomo «meschino» a quella del «gentiluomo», o anche dell’uomo «superiore», che si situa su un gradino ancora più alto ed è intento all’interesse generale più che a quello particolare, secondo un principio che verosimilmente rifletteva la cultura dell’élite aristocratica dalla quale C. proveniva. La tradizione afferma che il principe di Lu, dopo la morte di C., gli dedicò un tempio e istituì sacrifici che, sospesi durante il regno dell’imperatore Qin Shihuangdi, furono ripresi dalla dinastia Han. Più tardi, e specialmente sotto i Song e i Ming, in ogni città furono eretti templi (wenmiao) nei quali erano onorati C. e i suoi principali discepoli; fin dal sec. 6° i funzionari erano tenuti a compiervi sacrifici e altri atti rituali, ai quali nella capitale prendeva parte anche l’imperatore. A C. furono dati vari titoli onorifici, come quello di Zhinshen (santo perfetto). Dopo la caduta dell’impero (1911), un culto vero e proprio si è conservato solo negli ambienti più tradizionalisti e, dopo il 1949, solo a Taiwan. La valutazione del confucianesimo come eredità culturale ha invece attraversato varie fasi: la condanna più violenta è stata espressa durante il periodo maoista, mentre negli anni Ottanta si è assistito a una ripresa degli studi confuciani esplicitamente approvata e giustificata dai vertici della Repubblica popolare cinese. In sintonia con tale atteggiamento si è proceduto al restauro dei monumenti legati alla memoria di C., in particolare a Qufu, dove esiste una ricca e virtualmente completa biblioteca di opere confuciane.