Abstract
La voce contiene un’analisi dei congedi di maternità e paternità regolati dal d.lgs. n. 151/2001 rispettivamente nel capo III e IV (artt. 16 e ss. e artt. 28 e ss. del t.u.). Ci si sofferma in particolare sulle modifiche della normativa in vigore che dal 2001 in poi hanno inciso sui contenuti del t.u. o, comunque, sugli istituti oggetto di attenzione. Particolare rilevanza è attribuita all’influenza del diritto dell’Unione europea, alla ricca giurisprudenza costituzionale, di merito e di legittimità chiamata a tracciare i connotati del diritto vivente al congedo di maternità e paternità fortemente condizionati anche dall’evoluzione socio-culturale e scientifica del tema.
Nel Capo III e Capo IV del d.lgs. n. 26.3.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), da ora t.u., sono contenute le regole dedicate al congedo di maternità e di paternità: il primo – prevalentemente derivato dalla disciplina originaria della l. 30.12.1971, n. 1204, come integrata dalla l. 8.3.2000, n. 53 e da altre fonti normative tra cui il d.lgs. 16.9.1996, n. 564 in materia di trattamento previdenziale – fornisce il quadro del congedo di maternità delle sole lavoratrici alle quali si estende il campo generale di applicazione del t.u., in connessione alla nascita di un figlio, alle adozioni e agli affidamenti, nazionali e internazionali, specificando il relativo trattamento economico, normativo e previdenziale; il secondo, dedicato esplicitamente al congedo di paternità, disciplina una delle maggiori novità di carattere sistematico introdotte dalla l. n. 53/2000 riconoscendo al padre il diritto ad astenersi dal lavoro non solo «nei primi tre mesi dalla nascita del figlio» ma per tutta la durata del congedo (di maternità) spettante alla madre. La previsione dello specifico congedo di paternità trae origine da una pronunzia additiva della Corte costituzionale (C. cost., 19.1.1987, n. 1) che aveva dichiarato la illegittimità dell’art. 7 l. 9.12.1977, n. 903 (poi abrogato dalla l. n. 53/2000).
La sostituzione del termine “astensione” assorbito in quella di “congedo” in conformità con la terminologia del diritto Ue che ha accompagnato la redazione del t.u. (art. 2 lett. a, b) – già valorizzato nella l. n. 53/2000 di attuazione della dir. 3.6.1996, n. 96/34/CE – non può essere ridotta a semplice correzione lessicale. Appare, piuttosto, il segnale eloquente del mutamento di prospettiva generale nella specifica materia, frutto di un processo continuo di adattamento scientifico, sociale e culturale che ha trovato, in tempi più recenti, specchio in connotati fondativi di una nuova sistematicità di un tema classico come quello delle sospensioni del rapporto di lavoro. L’orizzonte di riferimento nella specifica materia appare oggi in modo sempre più evidente, quello del diritto Ue, con la rinnovata attenzione al tema della cura e dei correlativi strumenti giuridici, anche grazie all’apporto costante (non sempre innovativo) della Corte di giustizia e del rapporto dialettico tra le istituzioni dell’Ue chiamate a dettare regole uniformi. L’arricchimento scientifico della giuslavoristica domestica si registra nell’affermazione di diritti ulteriori, nel riconoscimento di valori diversi dal passato e dell’elaborazione di specifici strumenti giuridici rinnovati di valorizzazione del legame tra genitorialità e lavoro. Il riconoscimento di una “nuova” dogmatica della sospensioni del rapporto di lavoro con la quale il modello nazionale dovrebbe confrontarsi in modo compiuto nella logica della valorizzazione dell’autonomia e dell’uniformità del diritto europeo da quelli nazionali è graduale, ma inesorabile. È sufficiente ricordare l’elaborazione giurisprudenziale di un principio d’indifferenza del rapporto di lavoro all’utilizzo del congedo parentale per comprendere la differenza considerevole che esiste tra il modello civilistico di sviluppo delle sospensioni del rapporto regolate negli artt. 2110 e 2111 c.c. e la tecnica di valorizzazione dell’esclusione di ogni conseguenza pregiudizievole sul rapporto di lavoro nascente da una – più o meno generale – affermazione del principio di parità di trattamento.
Sono vari i fattori che incidono sulla complessità di un confronto compiuto con il diritto dell’Ue in questa specifica materia. In primo luogo, il rinvio a un assetto di regole riconducibile a due macro aree tematiche distinte, tendenti a intersecarsi nell’interpretazione concreta offerta dalla Corte di Lussemburgo: tutela della maternità e congedo parentale, da una parte (dir. 19.10.1992, 92/85/CE in fase di attuale modifica, v. infra, § 2; dir. 96/34 abrogata dalla successiva dir. 8.3.2010, 10/18/UE); diritto antidiscriminatorio, non solo basato sul fattore del genere, dall’altra (dir. 5.7.2006, 2006/54/CE; dir. 29.6.2000, 00/43CE e dir. 27.11.2000, 00/78/CE). La complessità, inoltre, si misura con il mancato allineamento tra evoluzione sociale, culturale, scientifica e regole Ue la cui approvazione è soggetta a condizionamenti politici significativi. È sufficiente pensare alle difficoltà di adattamento legislativo della dir. 92/85/CE alla Raccomandazione approvata dal Parlamento Ue nel 2008; oppure allo stretto legame che esiste tra direttiva sul congedo parentale rivista, mancata approvazione della revisione della direttiva orario di lavoro 2003/88/CE e modificazione proposta della direttiva 92/85/CE sulla tutela della salute delle lavoratrici in gravidanza. Questo legame segnala una speciale propensione del legislatore europeo a lambire le questioni spinose in materia di conciliazione tempi di vita e di lavoro o, ancora meglio, in materia di flessibilità oraria orientata a soddisfare le esigenze di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Ma segnala anche l’aggiornata prospettiva nella quale si colloca il congedo di maternità. Nella Risoluzione di modifica della dir. 92/85/CE approvata nel 2010 dal PE, la riscrittura dei Considerando introduttivi assume una forte valenza valoriale e l’aggiornamento mirato del testo consente di modificare la direttiva indubbiamente datata, come dimostrano gli esiti di casi recenti trattati dalla Corte di giustizia Ue (v. infra, § 2.1). In particolare risulta rafforzato è il legame con la tematica dei congedi di cura preso atto che “tutti i genitori hanno il diritto di prendersi cura dei loro figli” e con riguardo al congedo di maternità, si afferma l’idea di un nucleo obbligatorio dello stesso di almeno sei settimane dopo il parto, accompagnato da un periodo ulteriore più flessibile e volontario che può essere trasformato anche in modalità differenziate di organizzazione dell’orario di lavoro.
A livello nazionale, la sostituzione dell’astensione obbligatoria per maternità in congedo obbligatorio, ma più flessibile e derogabile del passato, abbinato a uno specifico congedo di paternità in forte evoluzione non solo giurisprudenziale (v. infra, § 3.2), rappresenta la sintesi di un ideale percorso lavoristico che dalla tutela del contraente debole nel rapporto di lavoro arriva a proiettarsi nella complessa ricerca di strumenti, ad oggi in parte sperimentali, al «fine di sostenere la genitorialità», «promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» (come recita l’art. 4, co. 24 della l. 28.6.2012, n. 92, con formula che ricorda l’ampiezza degli obiettivi fissati nell’art. 1 della l. n. 53/2000, discostandosene significativamente per l’appropriatezza degli strumenti predisposti al loro raggiungimento). Il contesto valoriale di riferimento allargato dalla sola tutela della salute e sicurezza della lavoratrice e del nascituro alla conciliazione condivisa dei carichi di cura tra i genitori-lavoratori titolari di contratti di lavoro non standard, condiziona ogni studio del congedo di maternità e di paternità. Già di per sé complesso in quando teso a correlare il diritto del lavoro con la disciplina previdenziale fino al diritto della sicurezza sul lavoro, il tema risulta ulteriormente arricchito dall’istanza di garanzia del principio di parità di trattamento e dallo sviluppo di tecniche specifiche di diritto antidiscriminatorio di matrice Ue.
In questo quadro articolato sulla base del trattamento offerto dall’ordinamento ai soggetti titolari dei diritti a congedo di maternità e paternità, nel prossimo futuro, sono destinate ad essere valorizzate riflessioni relative alla tipologia delle famiglie (allargate, monogenitoriali, omogenitoriali), con carichi di cura particolarmente pesanti (a partire dalla tutela della disabilità) fino agli effetti riflessi della libera circolazione delle persone e dei loro familiari nell’Ue nella logica della tutela della maternità e della paternità. Tale complesse questioni sono d’interesse anche lavoristico e meritano adeguate e compiute riflessioni.
Ai fini del corretto inquadramento del congedo di maternità regolato dall’art. 16 t.u., un disposto rimasto sostanzialmente immutato dopo il riordino effettuato nel 2001, alcune precisazioni paiono opportune. Pur collocato sotto il Capo III dedicato ad un nuovo Congedo di maternità, la superata astensione obbligatoria regolata nell’art. 4 l. 30.12.1971, n. 1204 non si trasforma completamente rispetto al passato, ma mantiene tutte le sue caratteristiche strutturali di divieto assoluto di adibizione della madre al lavoro, salva l’eventuale flessibilità temporale regolata dal successivo art. 20 e qualche aggiustamento delle modalità di computo. Il congedo di maternità può essere esteso (art. 17), è indennizzato (art. 22), è riconosciuto per adozioni e affidamenti, anche internazionali (art. 26), ma soprattutto è supportato da una specifica sanzione penale (art. 18). L’art. 16 – intitolato appunto Divieto di adibire al lavoro le donne – vieta al datore di lavoro di far svolgere, direttamente o anche solo consentire, lo svolgimento di prestazioni di lavoro di qualsiasi tipo e natura, alle lavoratrici di cui sia a conoscenza dello stato di maternità, nell’arco di cinque mesi prima e dopo il parto. Le disposizioni citate precisano che la lavoratrice deve astenersi durante i due mesi precedenti e i tre mesi successivi la data presunta del parto (oppure il mese precedente ed i quattro successivi in caso di esercizio dell’opzione consentita dall’art. 20, con esclusione delle madri adottive o affidatarie ex art. 26, co. 2, per le quali l’utilizzo del congedo rimane frutto di una libera scelta e non di un obbligo).
Il modesto risultato d’attuazione della delega in materia di riordino di tutti i congedi esistenti nell’ordinamento nazionale ex art. 23, l. 4.11.2010, n. 183, cd. Collegato lavoro, non ha inciso sulle regole del t.u. se non in materia di congedo di maternità. L’art. 2 d.lgs. 18.7.2011, n. 119, in particolare, risulta dedicato alla ripresa dell’attività lavorativa da parte della lavoratrice che lo chieda a seguito di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione, «nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità», previa autorizzazione da parte del medico specialista del Servizio sanitario nazionale e del medico competente. Con l’aggiunta di un co. 1-bis direttamente all’art. 16 del t.u., il legislatore nel 2011 ha consentito di superare tutti i problemi posti dalla perdurante vigenza dell’art. 12 del d.P.R. 25.11.1076, n. 1026 che, considerando parto a tutti gli effetti l’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gravidanza, comportava la conseguente applicazione del divieto di adibire la lavoratrice al lavoro «durante i tre mesi dopo il parto» senza esclusione alcuna (lo stesso problema non può porsi per l’aborto volontario essendo ammesso solo entro il primi tre mesi della gestazione: art. 19 t.u. e l. 22.5.1978, n. 194). Il nuovo co. 1-bis nel riconoscere la facoltà delle lavoratrici di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa, salvo un preavviso di dieci giorni al datore di lavoro, consente di modificare alla radice l’impronta complessiva dell’intervento del legislatore in materia: il congedo di maternità rimane obbligatorio, ma derogabile nelle specifiche ipotesi in esso regolate, cresciute nel corso del tempo. Così facendo, il legislatore pone fine ad insopportabili incongruenze tra regole in vigore dal 1971 e situazioni concrete legate alla maternità, già evidenziate dalla dottrina e che la redazione del testo unico di maternità e paternità non aveva risolto nel 2001 (Gottardi, D., La tutela della maternità e della paternità, in Zatti P., diretto da, Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, in Tratt. di diritto di famiglia, Milano, 2012, 536 ss., a cura di Lenti, Milano, 2012, 536 ss.). La modifica apportata all’art. 16 da parte dell’art. 2 d.lgs. n. 119/2011 concorre a riqualificare gli strumenti tradizionali di tutela della salute per la lavoratrice in gravidanza, l’ambito nel quale è stato sempre collocato l’istituto del congedo di maternità: una tutela che cambia i connotati, trasformandosi da automatica e assoluta in flessibile e fortemente orientata alla valorizzazione delle tutela psicofisica della lavoratrice, in conformità al concetto ampio di salute valorizzato nel testo unico di salute e sicurezza, definita appunto come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità» (art. 2, lett. o, d.lgs. 9.4.2008, n. 81). Conferma tale processo anche la pronuncia d’incostituzionalità dello stesso articolo art. 16 t.u. affermata dalla quasi coeva pronuncia C. cost., 7.4.2011, n. 116, che ha considerato illegittimo il trattamento della madre offerta dall’ordinamento in caso di parto prematuro con ricovero del neonato per un lungo periodo in una struttura sanitaria. I giudici hanno riconosciuto alla madre la facoltà di riprendere l’attività lavorativa «a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica» potendo utilizzare «il congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare». Come ampiamente spiegato nell’ordinanza di rinvio, prima della pronuncia d’incostituzionalità la lavoratrice risultava in congedo di maternità fino alla sua scadenza, impossibilitata a riprendere l’attività lavorativa, esistendo uno specifico divieto per il datore di lavoro, sanzionato anche penalmente (art. 16 e art. 18 t.u.). Dopo la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 16, con riflessi sulla tipizzazione delle sanzioni contenuta nel successivo art. 18, la lavoratrice «previa presentazione di documentazione medica attestante la sua idoneità alle mansioni cui è preposta» può «chiedere di riprendere l’attività per poter poi usufruire del restante periodo di congedo a decorrere dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare». Il congedo rimane obbligatorio, ma dopo la rilettura offerta dalla Corte costituzionale il divieto appare meno “assoluto”.
Scontata la parificazione tra madre biologica e madre adottiva e affidataria, con decorrenza del congedo e della relativa indennità dalla data d’ingresso del minore nella famiglia (salvo per le adozioni internazionali per le quali la data può essere anticipata: art. 26 t.u.) e tenuto conto della modifica terminologica in virtù della quale in tutta la legislazione vigente le parole «figli naturali» sono sostituite con «figli nati fuori dal matrimonio» (ex art. 103, co. 3, d.lgs. 28.12.2013, n. 154), dal diritto Ue arrivano sollecitazioni giurisprudenziali a riflettere sull’estensione della tutela di maternità alle madri che ricorrono a tecniche di fecondazione assistita. Ci si riferisce, in particolare, a C. giust., 26.2.2008, C-506/06, Mayr, un caso di licenziamento di una lavoratrice che si sottopone alla fecondazione in vitro. Per la Corte, la dir. 92/85/CE non si applica a tale lavoratrice «qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice». Pur non essendo qualificata «lavoratrice in gravidanza», il licenziamento a lei intimato è da considerarsi discriminatorio in base alla dir. 76/207/CEE (oggi dir. 2006/54/CE), se «la stessa si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento». Rinviano a tale precedente pronuncia le successive C. giust., 18.3.2014, C-167/12, CD/ST e C. giust., 18.3.2014, C-363/12, Z/ A Government department, The Board of management of a community school, entrambe dedicate al trattamento spettante alla madre committente in due ipotesi diverse di contratto di maternità per surroga trattate dal diritto del Regno Unito e dell’Irlanda. La Corte conferma l’esclusione di ogni riconoscimento del congedo di maternità anche se la madre, come nel caso irlandese, «dopo la nascita effettivamente allatti, o comunque possa allattare, al seno il bambino». Il diritto antidiscriminatorio non soccorre nessuna delle madri ricorrenti perché «non costituisce una discriminazione fondata sul sesso il rifiuto di un datore di lavoro di riconoscere un congedo di maternità a una madre committente che abbia avuto un figlio mediante un contratto di maternità surrogata», come non risulta applicabile la dir. 2000/78/CE perché «non costituisce una discriminazione fondata sull’handicap il fatto di negare la concessione di un congedo retribuito equivalente a un congedo di maternità o a un congedo di adozione a una lavoratrice che sia incapace di sostenere una gravidanza e si sia avvalsa di un contratto di maternità surrogata».
La delicatezza delle questioni trattate, le diverse sensibilità in materia e la mancata omogeneizzazione dei trattamenti riconosciuti nei diversi paesi Ue alla maternità surrogata hanno sicuramente inciso sulla cautela dei giudici e degli avvocati generali a Lussemburgo, ma non si può negare che il risultato raggiunto e le argomentazioni utilizzate dalla Corte di giustizia appaiano opinabili. Scindendo in modo netto tra maternità biologica (l’unica tutelata in modo completo), maternità sociale (tipica delle adozioni e degli affidi) e tutela del minore che – a seguito della vincolatività della Carta dei diritti fondamentali affermata dall’art. 6 TUE – appare titolare di diritti di cura propri (argomentando dall’art. 34 della Carta così come interpretata nella pronuncia C. giust., 16.9.2010, C-149/10, Zoi Chatzi), la Corte esclude il riconoscimento del congedo di maternità, ma anche di ogni interpretazione orientata alla tutela dei diritti fondamentali di entrambe le madri coinvolte nei casi. La Corte si sofferma sull’identificazione dei diversi momenti della gestazione-nascita-cura del figlio escludendo ogni tutela equivalente laddove, nel caso concreto, si registri solo l’ultima parte di quel processo; il congedo è escluso anche laddove la madre committente arrivi ad allattare il figlio. Con ciò si riconosce unicità di tutela (anche solo potenziale) alla madre biologica di un figlio riconosciuto da una madre diversa (titolare del solo congedo parentale e non certo di un congedo di maternità per adozione). Il passaggio argomentativo è obiettivamente scivoloso perché esplicitamente scinde il congedo dalla genitorialità, con un’enfasi eccessiva sulla sola funzione di tutela della salute e sicurezza della madre biologica a discapito della concorrente funzione di protezione del minore, una posizione condivisa con la giurisprudenza nazionale. In Italia, la maternità per surroga è vietata dalla l. 19.2.2004, n. 40, ma la giurisprudenza ha avuto occasione di pronunciarsi evidenziando il bisogno di regole nella specifica materia ispirate alla tutela dei diritti di tutte le parti coinvolte dal contratto. Proprio in ragione del divieto, in sede penale, si è perseguito il delitto di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale ex art. 495 c.p. laddove i genitori abbiano indotto in errore, simulando il carattere naturale dello status filiationis nei confronti della pubblica autorità per nascondere la maternità surrogata (Trib. Milano, 13.1.2014, in www.iusexplorer.it); i giudici hanno comunque escluso lo stato di adottabilità del minore, in quanto «curato dalla coppia in maniera ottimale e con esiti felici» in un’ipotesi di cittadini stranieri residenti in Italia, che hanno contratto la surroga nel loro paese d’origine dove risultava ammessa (Trib. minorenni Milano, 19.10.2012, in Dir. Fam. 2013, 3, I, 989 ss.); la magistratura, ancora, è chiamata ad intervenire in sede di delibazione di provvedimenti giudiziari stranieri; in particolare, ha escluso la contrarietà all’ordine pubblico internazionale nonostante il divieto esistente a livello nazionale e la prevalenza della «maternità biologica» sulla «maternità sociale»: App. Bari, 13.2.2009, in Giur. merito, 2010, 2, 249. In particolare, il Trib. Forlì, 25.10.2011 (in Dir. Fam., 2013, 2, 532 ss.) ritorna sulla prevalenza della maternità biologica: fermo restando l’illecito penale e il riconoscimento della paternità, aggiunge che non può essere invece «considerata madre legittima dei nati la moglie (…), donna che non ha in alcun modo fatto nascere alla vita i due gemelli, non avendoli né concepiti, né condotti in sé stessa durante la loro gestazione, né partoriti: manca del tutto tra la donna ed i nati la necessaria relazione naturale e giuridica d'ordine parentale, che, di regola, dà vita al rapporto di maternità anche sul piano anagrafico».
Ferma alla legittimazione dell’art. 118A del TCEE seguito all’Atto unico europeo entrato in vigore dal 1987, la dir. 92/85/CE, oltre che datata nel complesso, è redatta avendo prioritaria (se non unica) finalità di tutela della salute della lavoratrice con contratto di lavoro standard. La proposta di modifica ferma da anni per veti incrociati di Parlamento, Commissione e Consiglio, si limita a ribadire il tradizionale campo di applicazione della direttiva (implicitamente) limitato alle lavoratrici standard. Riconosce un «congedo di maternità obbligatorio di sei settimane (… ) a tutte le lavoratrici (…) a prescindere dal numero di giorni di lavoro prestati prima del parto», senza però sancire esplicitamente l’indifferenza contrattuale ai fini della tutela. Seppur non regolata in termini generali e astratti, la tutela della maternità delle lavoratrici a tempo parziale, a tempo determinato e con contratto di lavoro interinale si può ricavare dalle specifiche regole dedicate alla parità di trattamento contenute nelle dir. 15.12.1997, 97/81/CE (art. 4), dir. 28.6.1999, 99/70/CE (art. 4) e dir. 19.11.2008, 08/104/CE (art. 5 che richiama espressamente tra le condizioni per la parità di trattamento anche la protezione della gravidanza e dell’allattamento e i divieti di discriminazione, non solo di genere).
In Italia, la moltiplicazione del quadro dei contratti flessibili ovvero subordinati non standard rende il compito della definizione dei margini di tutela della maternità alquanto complesso, fortemente condizionato dal legame stretto tra tutela sostanziale (il congedo) e tutela previdenziale (la relativa indennità), risolta in modo appagante solo per il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 16 e ss. del t.u.). La dottrina da tempo (Gottardi, D., op. cit.) segnala la complessiva inadeguatezza del sistema in vigore fondato sulla concorrenza della tutela sostanziale e di matrice previdenziale, auspicando una revisione complessiva del sistema di regole. De jure condito, per ogni contratto di lavoro in vigore, occorre ricercare la specifica risposta di tutela alla maternità (non alla paternità, mai nominata nemmeno incidentalmente). Chiarito nelle disposizioni di apertura del t.u. (art. 2, lett. a) che per «lavoratrice» o «lavoratore», «salvo che non sia altrimenti specificato, si intendono i dipendenti, compresi quelli con contratto di apprendistato, di amministrazioni pubbliche, di privati datori di lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative», il campo di applicazione soggettivo ulteriore del congedo di maternità e paternità, risulta precisato dal successivo Capo X Disposizioni speciali, contenente precisazioni ulteriori in tema di lavoro a termine prestato per la Pubblica amministrazione, personale militare, lavoro stagionale, lavoro a tempo parziale, lavoro a domicilio, lavoro domestico, in agricoltura o occupate in lavori socialmente utili oltre che alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata dell’Inps; alle lavoratrici strettamente autonome e libere professioniste si applicano, invece, i successivi Capi XI e XII ad esse espressamente dedicati (v. infra, § 2.3).
Se la parificazione piena tra lavoro standard ed apprendistato può ricavarsi dal richiamo esplicito contenuto nell’art. 2 del t.u. e dall’art. 1 del d.lgs. 14.9.2011, n. 167 che qualifica il contratto come «un contratto di lavoro a tempo indeterminato», rimane criticabile la scelta di non menzionare la maternità tra gli specifici eventi elencati nel successivo art. 2, lett. h. Pare, in effetti, labile il rifermento alle sole sospensioni non volontarie del rapporto al fine di individuare la specifica tutela offerta dal legislatore: salva l’esclusione del congedo parentale (qualificato correttamente una sospensione potestativa) e scontato il riconoscimento della tutela della maternità prevista dagli artt. 16 e ss. in quanto compatibili con le caratteristiche del contratto, la soluzione delle questioni del livello di trattamento complessivamente riconosciuto alla lavoratrice sono devolute alla contrattazione collettiva, restando espressamente regolato dalla legge solo il prolungamento del periodo di apprendistato. Al di fuori dell’esplicito elenco contenuta nell’art. 2 del t.u., si collocano il contratto di lavoro a tempo parziale, il contratto a termine e il contratto di somministrazione che, salve alcune precisazioni di carattere tecnico contenute nel Capo X, vedono regolata la maternità nei rispettivi atti legislativi attraverso il riferimento all’applicazione del generale principio di parità di trattamento (si rinvia, rispettivamente, all’art. 4 d.lgs. 25.2.2000, n. 61; all’art. 6 d.lgs. 6.9.2001, n. 368; all’art. 23 d.lgs. 10.9.2003, n. 276). Decisamente più complicata l’effettività della tutela per la lavoratrice intermittente o con contratto di lavoro condiviso: per la prima, la discontinuità della prestazione di lavoro e il riproporzionamento della tutela sostanziale ed economica di lavoro rende il processo di parificazione (seppur riconosciuto dall’art. 38 del d.lgs. n. 276/2003) di difficile affermazione. Considerazioni dello stesso tenore possono svolgersi per il contratto di lavoro ripartito a coppia che non chiarisce se l’assenza dovuta a maternità sia assorbita dalla solidarietà negativa che lega i contitolari del rapporto di lavoro oppure se il rapporto di lavoro condiviso possa essere sospeso (artt. 41 e ss. d.lgs. n. 276/2003; in particolare, si rinvia all’art. 44 per il riconoscimento del principio di non discriminazione). Espressamente esclusa la tutela di maternità nel lavoro accessorio che riconosce solo quella antinfortunistica (art. 70 e ss. d.lgs. n. 276/2003).
La tutela della maternità nell’ambito dei rapporti di lavoro autonomi (ivi comprese le collaborazioni e le libere professioni) soffre di un processo di costante divenire scarsamente influenzato da un completo processo di adattamento al diritto Ue. In base al Considerando 18 della dir. 15.7.2010, n. 10/41/UE, la «vulnerabilità economica e fisica delle lavoratrici autonome gestanti e delle coniugi gestanti e, se e nella misura in cui siano riconosciute dal diritto nazionale, delle conviventi gestanti di lavoratori autonomi impone che venga loro riconosciuto il diritto alle prestazioni di maternità», fissate a livello nazionale, suggerendo nel Considerando successivo che la protezione offerta sia “analoga” a quella delle lavoratrici dipendenti, quanto meno in termini di durata del congedo che può essere obbligatorio o facoltativo ed eventualmente accompagnato da specifici servizi di “supplenza temporanea”, alternativi o parzialmente riconducibili all’indennità di carattere economico. Il t.u. all’art. 66 e 67, ricompone le disposizioni della l. 29.12.1987 di attuazione della dir. 11.12.1986, n. 86/613/CEE oggi abrogata, trasposta per il solo profilo dell’indennità di maternità delle lavoratrici autonome corrisposta per la durata di cinque mesi, come per il lavoro subordinato (esclusa la flessibilità, ma con espressa aggiunta di un congedo parentale) senza soffermarsi sugli altri contenuti della direttiva (come le nozioni di discriminazione espressamente richiamate oppure il regime di protezione evocato per chi collabora nell’impresa familiare). Anche la l. 24.12.2012, n. 228 (art. 1, co. 336, lett. a) ha trasposto solo parzialmente, come in passato, la più recente direttiva in materia di parità di trattamento per chi esercita un lavoro autonomo, preoccupandosi solo dell’estensione del solo campo di applicazione dell’indennità già prevista alle “pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acqua interne” (all’elenco già contenuto nell’art. 67 t.u.).
Le regole del t.u. e la lunga serie di atti a queste collegati (in particolare, il d.lgs. n. 276/2003 e la l. 24.12.2007, n. 244) delineano un quadro regolativo altamente variegato nel quale la tutela della maternità prevista risulta equiparata a quella del lavoro subordinato solo per le collaboratrici (coordinate e continuative e a progetto, con un notevole ritardo per quanto riguarda la disciplina previdenziale: si rinvia al d.m. 4.4.2002 e al successivo d.m. 12.7.2007 che dispone per le lavoratrici iscritte alla gestione separata una indennità di maternità per i periodi di astensione obbligatoria previsti dall’art. 16 del t.u. con estensione della stessa ai periodi di estensione del divieto motivati da ragioni di tutela della salute della donna e del nascituro ex art. 17 t.u.), mentre per il lavoro autonomo in senso stretto l’indennità di maternità per la durata di cinque mesi è solo in via del tutto opzionale accompagnata all’astensione dal lavoro. Per le libere professioniste, inoltre, le regole del t.u. modificate nel 2003 al fine di introdurre un tetto all’importo massimo dell’indennità (grazie all’inserimento congiunto di un limite di cinque volte l’importo minimo, calcolato con riferimento al solo reddito derivante da lavoro autonomo e non più in base all’intero reddito percepito ai fini fiscali), devono completarsi con specifiche disposizioni dei singoli ordini professionali: le indennità sono garantite alle madri professioniste, mentre la presenza al lavoro consente di garantire l’assolvimento «in modo adeguato alla funzione materna», dato che la libera professionista «non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale. Ciò può avvenire lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana» (come scrive la stessa C. cost., 3.10.1998, n. 3). In virtù dell’enfasi posta in premessa sui processi di comparazione tra le singole posizioni soggettive di tutela che caratterizza il presente (ma in misura sempre maggiore anche il futuro prossimo) giova riportare il quadro tracciato di recente dalla Consulta chiamata a decidere sulla scelta del legislatore di non allineare a cinque mesi di indennità prevista per la madre collaboratrice in caso di adozione o affido di un figlio rispetto ai tre previsti ex art. 64 t.u. Nella pronuncia C. cost., 22.11.2012, n. 257, sulla base della premessa della plurima funzionalità del congedo di maternità, non legato solo alla tutela della salute della madre, ma teso ad agevolare il processo di formazione e crescita del bambino, i giudici ricordano la necessità che il legislatore crei una presenza più intensa degli adottanti cui spetta «a responsabilità di gestire la delicata fase dell’ingresso del minore nella sua nuova famiglia». Aggiungendo che. seppur vero che «tra lavoratrici dipendenti e lavoratrici iscritte alla gestione separata sussistono differenze che rendono le due categorie non omogenee», ragionando di tutela della maternità adottiva e preadottiva, «vengono in rilievo non già tali diversità, bensì la necessità di adeguata assistenza per il minore nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia (…) e tale necessità si presenta con connotati identici per entrambe la categorie di lavoratrici». Non è un caso che la motivazione si regga sul richiamo alla precedente pronuncia C. cost., 11.10.2005, n. 385 occasionata dalla richiesta di riconoscimento dell’indennità di maternità ex art. 70 e 72 del padre libero professionista con minore in affido (v. infra).
Come anticipato in premessa (v. supra, § 1), è d’immediata evidenza che all’autonoma collocazione logistica non corrisponde un’autonomia piena e incondizionata del relativo diritto del padre al congedo, che rimane correlato all’impossibilità o alla scelta della madre di non utilizzarlo. Il congedo di paternità configura un diritto potestativo del padre lavoratore, in funzione sussidiaria e non pienamente alternativa alla madre, che sorge in presenza del verificarsi delle ipotesi contemplate dal co. 1 dell’art. 28 e cioè, morte o grave infermità della madre ovvero abbandono ovvero affidamento esclusivo del bambino al padre. Solo con il congedo di paternità “proprio” dei padri, espressamente regolato in via sperimentale con la l. n. 92/2012 la paternità acquisisce diretta ed autonoma rilevanza nella misura complessiva di tre giorni, seppur dal diverso regime giuridico offerto dal legislatore. Il congedo spetta, in effetti, solo in caso di morte, grave infermità, abbandono della madre e affidamento esclusivo al padre del figlio. Pur mantenendo la natura di diritto “trasferito” dalla madre al padre, il Trib. Firenze, sez. lav. 16.11.2009 (in Riv. giur. lav., III,10), consente di risolvere alcune ambiguità interpretative dell’art. 28. Il giudice, in particolare, ha riconosciuto al padre lavoratore un diritto autonomo alla fruizione del congedo di paternità regolato dall’art. 28 del d.lgs. n. 151/2001, a prescindere dal fatto che la madre sia o sia stata una lavoratrice. Il termine lavoratrice utilizzato nell’art. 28 deve intendersi, quindi, esclusivamente come madre. Ha altresì affermato che la durata del congedo è di 5 mesi quando la madre non ha utilizzato il congedo di maternità. Tale pronuncia contribuisce (per la prima volta, non essendoci precedenti specifici sul punto) in modo significativo a rendere il congedo di paternità, quanto possibile, indipendente dalla posizione giuridica della madre. Questa interpretazione dell’art. 28 in modo conforme al dettato costituzionale consente di chiarire un passaggio ambiguo del disposto stesso: il diritto del padre al congedo esiste anche quando la madre (che è impossibilitata o sceglie di non usarlo in una delle ipotesi previste: nel caso di specie la madre risulta in “cattivo stato di salute”) non è lavoratrice o è una lavoratrice che non risulta titolare del diritto all’indennità di maternità. Alleggerendo l’interpretazione dell’art. 28 da una serie di ambiguità non giustificate costituzionalmente, il tribunale chiarisce che le uniche condizioni per l’utilizzo legittimo da parte del padre del congedo ex art. 28 risultano le seguenti: titolarità da parte dello stesso di un contratto di lavoro subordinato, la nascita di un figlio e la patologica assenza della madre (per impossibilità - per morte o grave infermità - o per scelta della stessa in caso di abbandono del minore o per affido esclusivo al padre).
Nonostante la pronuncia tesa a rafforzare il parametro dell’autonomia della scelta dei genitori, occorre riconoscere che, nella normativa, il congedo di paternità rimaneva sempre trasferito dalla madre, la titolare principale (anche se non unica) del congedo: l’utilizzo da parte della stessa del congedo o la mera scelta di non utilizzarlo in una delle ipotesi previste, non rendeva il padre titolare di un diritto al congedo, se non nella forma del congedo parentale (regolato dall’art. 32 del t.u. in conformità al testo della dir. 96/34/CE e che può utilizzarsi anche nel periodo in cui la madre è in congedo di maternità). A prescindere dalla rubrica dell’art. 28, la perdurante sussidiarietà del congedo di paternità si è affrontata con l’art. 4, co. 24 e ss. della l. n. 92/2012 con una disposizione ampiamente enfatizzata dalla stampa, largamente criticata in dottrina. Il sostegno alla genitorialità (attuata con d.m. 22.12.2012), si fonda su due strumenti sperimentali chiamati a promuovere «una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Oltre al voucher utilizzabile per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per sostenere gli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati, è stato riconosciuto un congedo del padre lavoratore dipendente, da utilizzarsi «entro i cinque mesi dalla nascita del figlio». Il congedo è obbligatorio per un giorno, facoltativo per due, «anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima». Per questa parte, completamente retribuito e che può essere fruito contemporaneamente alla madre che vede anticipato il termine finale del congedo di maternità post-partum. Violazione della parità di trattamento tra donne e uomini è il profilo che ogni commentatore ha segnalato come difetto principale della disposizione, cui aggiungere il valore negativo (per la condivisione delle responsabilità, ma chiaramente ispirato dall’obiettivo di preservare l’organizzazione del lavoro dall’effetto negativo di un’assenza non attesa), il padre lavoratore «è tenuto a fornire preventiva comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti per astenersi dal lavoro almeno quindici giorni prima dei medesimi». I profili di potenziale illegittimità del disposto sono numerosi (si pensi al differente livello di trattamento retributivo per il congedo obbligatorio per padri e madri) e si affiancano alla palese inopportunità di alcune scelte regolative di contesto (come la tecnica del click day applicata al voucher).
Il Capo XII del t.u. contiene disposizioni dedicate espressamente e unicamente alle lavoratrici madri-libere professioniste (artt. 70 -73 t.u.). C. cost., 14.10.2005, n. 385 ha individuato il vulnus nella normativa in materia di tutela della maternità e paternità, che viola «sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore». L’alto numero di sentenze di merito pubblicate tra il 2005 e il 2010 dedicate all’indennità regolata dall’art. 70 dimostrano l’interesse concreto e crescente per la sua estensione, in cause promosse, esclusivamente, da padri avvocati che difendevano in proprio, il relativo diritto “in alternativa” alla madre, come scritto nella stessa C. cost. n. 385/2005. La qualificazione della sentenza come additiva di principio e il rinvio al legislatore chiamato a progettare un modello complessivo di tutela dei genitori conforme al dettato costituzionale, non ha impedito, in effetti, alla Consulta di individuare direttamente i requisiti per rendere gli artt. 70 e 72 del t.u. attivabili anche dai padri, nell’immediato, davanti ad un giudice, proprio mediante l’introduzione del requisito dell’utilizzo alternativo da parte dei genitori dell’indennità. Solo la mancata esplicitazione di questo elemento (testualmente non inserito in una disposizione nata per le sole madri-libere professioniste e nemmeno valutato nella sentenza del 2010), poteva impedire a qualunque giudice ordinario di interpretare quella parte del t.u. in modo non conforme alla Costituzione, come si esprime il Tribunale di Firenze in una delle sentenze favorevoli all’estensione pubblicata (Trib. Firenze, 20.6.2008, in Riv. giur. lav. 2009, 147 ss.; Trib. Termini Imerese, 4.10.2010, in Guida dir., 2010, 72 ss.; Trib. Alessandria, 27.5.2010, n. 226, in www.filodiritto.com; Trib. Savona, 23.2.2009, in www.iusexplorer.it; di contrario avviso, Trib. Rovigo, 20.02.2008, n. 29, Trib. Brescia, 25.2.2008; Trib. Roma, sez. lav. III, 21.3.08, n. 1174, pubblicate in La previdenza forense, 2008, 280; Trib. Bari, 9.10.2009, in www.giurisprudenzabarese.it, 2009). Le argomentazioni contrarie all’estensione al padre dell’indennità prevista per la madre segnalano la natura programmatica del precedente e/o la sua natura condizionata dal concreto caso deciso, legato ad un affido preadottivo e solo a quell’ipotesi estensibile. La successiva pronuncia C. cost. 28.7.2010, n. 285 concentra l’argomentazione sulla prevalente tutela della salute della madre in caso di maternità biologica con implicita svalutazione della genitorialità sociale, in questo caso adottiva (non equiparabile a quella biologica, l’unica che consente la fungibilità tra genitori), consolidando la mancanza di linearità di quella parte del processo argomentativo finalizzato all’equiparazione senza condizioni tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, compreso quello libero professionale. L’argomentazione si fonda sulla fungibilità funzionale tra genitori salva la tutela della salute della madre: la tutela della salute della madre rimane centrale nella costruzione di un modello d’intervento in materia, anche per le libere professioniste. Una lettura più approfondita, però, rende evidente che si tratta di un’argomentazione semplificante di un contesto di relazioni genitoriali complesse (già individuate in premessa) e di altrettanto complessi istituti giuridici, regolati dal legislatore e interpretati dai giudici segnalando plurime finalità composte e/o combinate difficilmente distinguibili le une dalle altre, come dimostra la tripartizione tra maternità, paternità e parentale dei congedi regolati dal t.u. come i permessi per la cura del figlio. Oltre che semplificante, ad una lettura approfondita, il percorso argomentativo di C. cost. n. 285/2010 rischia di apparire fuorviante perché fondato su un equivoco di non immediata evidenza relativo alle forme e agli strumenti di tutela esistenti per la madre libera professionista, la cui ricostruzione risulta disattesa dalla Corte, che sceglie di concentrarsi sulla sola analisi degli istituti di tutela previsti per il lavoro subordinato, in un processo di omogeneizzazione argomentativa che allontana dalla realtà della normativa nazionale. Nel senso che, la Corte, non si sofferma espressamente sulla libera professione, evitando di richiamare, tra i precedenti indicati della sua giurisprudenza, C. cost. n. 3/1998 (v. supra, § 2.3.) che spiega che «per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale». È quindi sul sostegno economico che si concentra la tutela della madre libera professionista: da una parte, la legge considera la salute della donna e del nascituro, soprattutto attraverso lo strumento dell'astensione dal lavoro, se prevista (come per le libere professioniste iscritte alla gestione separata dell’Inps, ma solo a partire dall’entrata in vigore del d.m. 12.7.2007), evitando nel contempo che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno, o più semplicemente una diminuzione del tenore di vita (Cinelli, M., Indennità di maternità e lavoro libero-professionale, in Giust. civ., 1998, 5, 1201). Oggi, l’art. 70 t.u. pare estensibile solo al padre libero professionista in affido preadottivo o, comunque, al solo genitore adottivo o affidatario con esclusione della paternità biologica (C. cost., n. 285/2010; a conferma Cass., 15.1.2013, n. 809, in Giust. civ. Mass., 2013).
D.lgs. n. 26.3.2001, n. 151; l. 28.6.2012, n. 92.
Bonardi, O., Misure a favore degli anziani, della genitorialità, dei disabili e degli stranieri, in Allamprese, A., Corraini I., Fassina L., a cura di, Rapporto di lavoro e ammortizzatori sociali dopo la l. 92/2012, 2012, Roma; Calafà, L., Congedi e rapporto di lavoro, 2004, Padova; Id., a cura di, Paternità e lavoro, 2007, Il Mulino, Bologna; Id., Il padre libero professionista dopo la sentenza Corte Cost. n. 385/2005, in Riv. giur. lav. 2009, 1 ,vol. LX , 147 ss.; Id., Il caso Meerts alla Corte di Giustizia e la “sostenibile leggerezza” dell’accordo quadro sul congedo parentale. Primi appunti sulla dir. 2010/18/UE, in Riv. dir. lav., 2010, II, 448 ss.; Cinelli, M., Indennità di maternità e lavoro libero-professionale, in Giust. civ., 1998, 5, 1201 ss.; Del Punta, R., La sospensione del rapporto di lavoro, in Comm. c.c. Schlesinger, sub artt. 2110 e 2111, 1992, Milano; Gottardi, D., La tutela della maternità e della paternità, in Zatti, P., diretto da, Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, in Tratt. di diritto di famiglia, Milano, 2012, 536 ss.; Gottardi, D., La condivisione delle responsabilità genitoriali in salsa italiana, in Lav. dir. 2012, 897 ss.; Veneziani, B.-Bavaro, V., Le dimensioni giuridiche dei tempi del lavoro, 2009, Bari; Vallauri, M. L., Rapporto di lavoro e appartenenza di genere: la discriminazione e i congedi parentali, in Sciarra, S., Caruso, B., a cura di, Trattato di diritto privato dell’Unione europea. Il lavoro subordinato, 2009, Torino, 261 ss.