congiunzioni
Le congiunzioni sono elementi invariabili del discorso (➔ parti del discorso) che uniscono (lat. coniunctio, da coniungĕre «unire insieme») due elementi sintattici: elettivamente due frasi; nel caso delle congiunzioni coordinative (➔ coordinative, congiunzioni), anche parole o sintagmi in una stessa frase. Le congiunzioni appartengono a una classe tendenzialmente chiusa e possono essere classificate secondo criteri morfologici (in semplici e complesse), sintattici (in coordinative e subordinative), semantici (a seconda del contenuto della relazione che stabiliscono). Sono di solito collocate all’inizio del sintagma o della frase che si aggiunge.
Nella linguistica moderna (a partire almeno da Dijk 1977) vengono incluse nella più ampia famiglia dei connettivi, ovvero degli elementi che collegano due porzioni di testo assicurando la coesione (➔ coesione, procedure di). Tra i connettivi rientrano anche elementi tradizionalmente assegnati ad altre parti del discorso: preposizioni (e locuzioni preposizionali), avverbi (e locuzioni avverbiali) e sintagmi di vario tipo che, alla stregua delle congiunzioni, hanno una funzione di giunzione e raccordo tra sequenze discorsive di varia ampiezza.
In particolare, si preferisce impiegare (sulla scia della grammatica generativa) il termine complementatore per indicare l’elemento (per es., che) che ha come proprio complemento una frase (➔ completive, frasi), dando così luogo a un costituente sintattico di cui rappresenta la testa; il termine è normalmente impiegato solo nell’ambito della subordinazione completiva, ed è esteso ad alcune preposizioni (Graffi 1994: 194 segg.).
Dal punto di vista formale si distinguono le congiunzioni semplici, formate da una sola parola (come se), da quelle complesse; queste ultime comprendono le congiunzioni composte univerbate (come sebbene, dove il raddoppiamento è spia della fusione di se e bene: ➔ univerbazione) e quelle analitiche, che hanno lo statuto di locuzioni congiuntive (come anche se). Si noti che le congiunzioni complesse possono essere formate con materiale grammaticale (per es., sebbene, combinazione di una congiunzione semplice e un avverbio, o perché, combinazione di una preposizione e una congiunzione semplice) o essere costruite intorno a un elemento lessicale: un verbo (dato che) o un nome (dal momento che). Tranne alcuni casi, le locuzioni costruite intorno a un nome hanno una struttura non cristallizzata (per es., di modo che può alternare con in modo che).
Si noti che alcune congiunzioni, pur mantenendo la loro identità funzionale, presentano varianti posizionali dovute a ragioni di eufonia: per es., e / ed, o / od (oggi in disuso) a seconda del segmento fonico che segue (➔ allografi; ➔ fonetica sintattica); altre varianti formali possono essere legate alla concorrenza di forme sintetiche e analitiche di una stessa congiunzione: per es., dimodoché/di modo che (➔ locuzioni).
Dal punto di vista della funzione sintattica le congiunzioni si distinguono in coordinative, se uniscono parole, sintagmi o proposizioni sintatticamente equivalenti, stabilendo un rapporto paritario o simmetrico, e subordinative, se congiungono elementi aventi funzione diversa, stabilendo un rapporto gerarchico o asimmetrico, di dipendenza tra la proposizione o il sintagma che introducono e la principale (➔ subordinate, frasi).
Le congiunzioni coordinative sono sintatticamente indipendenti dagli elementi congiunti; le subordinative sono invece integrate nella frase o nel sintagma che introducono. Mentre le coordinative possono funzionare anche all’interno di una frase semplice, le subordinative sono specializzate nel collegamento di frasi.
A seconda del contenuto della relazione che stabiliscono, le congiunzioni coordinative possono essere classificate come copulative, se stabiliscono un semplice rapporto di addizione, come e e la sua controparte negativa né (entrambe usate anche in coppie correlative: e ... e ..., né ... né ...); avversative, come ma, se esprimono una contrapposizione; disgiuntive, come o, se indicano separazione ed esclusione o alternativa.
Queste congiunzioni sono studiate anche dalla logica col nome di operatori logici o booleani, a ognuno dei quali è assegnato un simbolo algebrico. Si noti che nell’ambito della disgiunzione l’italiano, a differenza del latino, non distingue i due tipi previsti dalla logica: la disgiuntiva esclusiva (corrispondente al significato del latino aut) e la disgiuntiva inclusiva (corrispondente al latino vel); entrambi i valori sono raccolti dalla congiunzione o, che in alcuni contesti può avere inoltre un valore esplicativo (corrispondente al latino idest «cioè»). Con valore disgiuntivo inclusivo è oggi diffusa la formula e / o (ricalcata sull’inglese and / or).
Anche ma ha in italiano due diversi valori, uno avversativo-oppositivo e uno avversativo-limitativo, che in lingue come il tedesco e lo spagnolo corrispondono a due congiunzioni distinte (cfr. tedesco sondern e aber, spagnolo sino e pero). Per gli altri usi di ma cfr. § 4.
La congiunzione e ha un contenuto meno definito rispetto a ma e o e, di conseguenza, un potere di codifica molto debole; l’interpretazione della relazione, in questo caso, richiede spesso un arricchimento inferenziale, come nell’es. dantesco:
(1) Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto (Dante, Inf. XXVI, 136)
dove e non si limita a sommare le due proposizioni ma instaura un rapporto che può essere interpretato come avversativo (si noti, a rinforzo, la presenza degli antonimi allegrarsi e pianto) oltre che di rapida successione temporale (suggerita anche dall’avverbio tosto).
La maggior parte delle grammatiche include tra le congiunzioni coordinative anche una serie di forme anaforiche deboli (che rimandano cioè, sia pure in modo non puntuale, a un antecedente discorsivo) (➔ anafora; ➔ anaforiche, espressioni) come anche o tuttavia, che nei dizionari sono classificate di volta in volta come congiunzioni o come avverbi. Si tratta in realtà di elementi che non operano un collegamento a livello grammaticale, ovvero di espressione, ma a livello testuale, ovvero di contenuto, e hanno un comportamento più simile a quello degli avverbi che a quello delle congiunzioni coordinative: a differenza di queste ultime, che non possono essere cumulate tra di loro, gli anaforici possono essere accompagnati da una congiunzione; inoltre, mentre le congiunzioni sono sempre collocate a inizio di frase, gli anaforici hanno una posizione libera all’interno della frase (Prandi 2006: 224 segg., 322 segg.). Di questa natura sono le cosiddette congiunzioni conclusive (come così, sicché) e le dichiarative o esplicative (come cioè, ovvero, infatti), che non lavorano a livello frasale, ma testuale (cfr. § 4).
Le congiunzioni subordinative possono collegare a una frase principale una subordinata completiva, argomentale, o una subordinata non completiva, avverbiale o circostanziale o margine.
Nel primo caso, la subordinata è richiesta e regolata dal verbo della principale; la congiunzione codifica una relazione grammaticale di soggetto o oggetto, è semanticamente vuota e la sua funzione è puramente formale: è il caso di che in so che tornerà, dove la proposizione introdotta da che è argomento del verbo sapere. Nel secondo caso, la subordinata codifica una relazione concettuale che si aggiunge a un nucleo di frase indipendente. La congiunzione è scelta in base al suo contenuto, che è pertinente per la definizione del tipo di relazione tra principale e subordinata: temporale, causale, consecutiva, ecc. (Prandi 2006: 318 segg.; ➔ causalità, espressione della; ➔ temporalità, espressione della).
Si noti che il grado di accuratezza con cui una congiunzione codifica la relazione dipende dalla specializzazione semantica della congiunzione stessa: si va da che, operatore di subordinazione generico e polivalente (usato anche per introdurre una vasta gamma di subordinate non completive), a congiunzioni che possono esprimere relazioni diverse a seconda del contesto (come perché, utilizzato sia per la causa sia per il motivo, e quindi anche per il fine), per arrivare a congiunzioni specializzate nell’espressione di un solo tipo di relazione (come benché o sebbene per la concessiva).
Sulla base del contenuto e degli impieghi preferenziali si distinguono comunque le seguenti categorie di congiunzioni e locuzioni, che introducono le subordinate avverbiali omonime:
(a) temporali (quando, mentre, finché, dopo / prima che, ecc.);
(b) causali (perché, poiché, siccome, ecc.);
(c) finali (perché, affinché, ecc.);
(d) concessive (sebbene, benché, ecc.);
(e) condizionali (se, qualora, purché, ecc.);
(f) consecutive (così … che, a tal punto che, ecc.);
(g) comparative (più / meno … che, tanto … quanto … ecc.);
(h) limitative (a meno che, per quanto, ecc.).
Alle congiunzioni e locuzioni subordinative, che introducono subordinate esplicite di modo finito, corrispondono le ➔ preposizioni e le locuzioni preposizionali (➔ preposizionali, locuzioni), che introducono la forma implicita all’infinito: ad es., per le finali, per, al fine di, ecc.
Alcune congiunzioni non si limitano a collegare due frasi, ma operano a un livello più ampio. Anziché integrarsi sintatticamente e semanticamente nella struttura frasale in cui sono inserite, queste congiunzioni (dette testuali) sono autonome e il loro valore può essere stabilito solo a partire dall’esame del più ampio cotesto e contesto comunicativo.
Il caso più noto e studiato è quello del ma che, oltre a essere usato come congiunzione coordinativa con valore avversativo, ha una serie di usi pragmatici, che segnalano cioè un atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato stesso o all’enunciazione. In questi casi il ma è solitamente collocato in apertura di frase.
Un primo esempio è rappresentato da frasi esclamative abrupte in cui il ma segnala la contrarietà del parlante (ma tu guarda!, ma bravo!, ma no!). Il ma può essere inoltre usato a inizio di frase con un valore parafrasabile all’incirca come «nonostante sia vero quanto detto (o presupposto) finora, più importante ancora è quello che segue …». Lo si incontra nello scritto dopo una pausa forte (marcata da un punto o punto e virgola) o a inizio assoluto di testo, per segnare il passaggio ad altro argomento o per rinviare enfaticamente a un argomento noto; nel parlato lo si incontra all’inizio di battute dialogiche come segnale di presa di parola in un turno di conversazione o come mezzo per interrompere l’interlocutore.
Si tratta di un fenomeno diffuso in italiano fin dalle origini, in testi di ogni livello. Si vedano gli esempi (2) e (3), tratti dalla nostra tradizione poetica, in cui è evidente che il ma non ha alcun rapporto con il verbo della frase che segue, e serve a mettere in luce l’organizzazione conferita al discorso:
(2) Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri
(Dante, Inf. V, passaggio dai vv. 116-117 ai vv. 118-120)
(3) Sempre caro mi fu quest’ermo colle
[…]
Ma sedendo e mirando
(Giacomo Leopardi, “Infinito”, passaggio dai vv. 1-3 ai vv. 4-8)
Si tratta del resto di un valore che ritroviamo nelle congiunzioni corrispondenti di varie altre lingue (cfr. francese mais). Come il ma si comportano e, o e, più raramente, né:
(4) E cielo e terra si mostrò qual era (Giovanni Pascoli, “Il lampo”, v. 1)
(5) Né più mai toccherò le sacre sponde (Ugo Foscolo, “A Zacinto”, v. 1)
Nel caso delle congiunzioni subordinanti che operano a livello testuale anziché frasale, l’autonomia rispetto alla frase che segue è ancora più marcata, come mostra la possibilità di collocarsi in posizione diversa da quella iniziale (eventualmente isolate da pause) e, in alcuni casi, la perdita dell’effetto sul modo verbale (per es., comunque quando non è seguito da un verbo al congiuntivo con valore concessivo, ma all’indicativo o al condizionale, e assume un valore parafrasabile come «in ogni caso»).
Hanno un comportamento simile allorché, benché, perché, quando, sebbene, semmai, sicché, ecc., e locuzioni come fatto sta o sta di fatto, per cui, per quanto, ecc. Ci sono poi alcuni elementi, come infatti, dunque, del resto, il cui funzionamento può essere descritto solo in ambito testuale.
I valori testuali e pragmatici delle diverse congiunzioni sono registrati e descritti negli strumenti lessicografici più aggiornati, a partire dal DISC.
Nel passaggio dal latino all’italiano il sistema delle congiunzioni ha subito una drastica riduzione: tra le coordinative si sono conservate e < et, né < nec, o < aut (ma con cumulo delle funzioni di vel), ma < magis «più» (che soppianta il classico sed). Il fenomeno è ancora più evidente per le congiunzioni subordinative: in italiano sono rimasti solo i continuatori della temporale quando (> quando), della comparativa quomodo (> come), dell’ipotetica si (> se) e del polivalente quod. Quest’ultimo, in realtà, è stato soppiantato nelle lingue romanze da un elemento que, la cui origine è motivo di discussione (cfr. Herman 1963: 125 segg.), ma che può essere considerato di fatto l’erede funzionale del quod tardo-latino; quest’ultimo aveva assunto infatti il ruolo di subordinante generico (usato tanto per le completive che per le non completive), il cui valore era ricavabile solo dal contesto. Da questo elemento è derivato il che italiano.
Tale impoverimento è stato bilanciato da un lato dalla tendenza ad ampliare l’uso di preposizioni (in particolare a < lat. ad, di < lat. de, per < lat. per) e avverbi (si veda il caso del citato magis), dall’altro da un processo di espansione delle forme analitiche rispetto alle forme sintetiche. Questi due fattori concomitanti hanno portato allo sviluppo di un gran numero di locuzioni congiuntive, generalmente formate con l’aggiunta del che, alcune delle quali si sono poi grammaticalizzate (è il caso di per che > perché; ➔ grammaticalizzazione). Nella costruzione delle locuzioni è ravvisabile la tendenza all’uso di incapsulatori cataforici (➔ catafora; ➔ incapsulatori) della relazione: innanzitutto il pronome ciò, che anticipa il contenuto della frase che segue e che ha dato luogo a congiunzioni oggi cadute in disuso (come acciocché, congiunzione finale primaria nell’italiano antico); quindi, in una progressiva esigenza di esplicitare la relazione, non demandandone l’interpretazione a un generico rimando testuale, si è affermato il ricorso a nomi predicativi (è il caso di a fine che > affinché, dove il nome fine qualifica esplicitamente la relazione transfrastica come finale; ma anche allo scopo di, con l’obiettivo di, ecc.; ➔ finali, frasi).
DISC 1997 = Il Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Giunti.
Dijk, Teun A. van (1977), Text and context. Explorations in the semantics and pragmatics of discorse, London - New York, Longman (trad. it. Testo e contesto. Semantica e pragmatica del discorso, Bologna, il Mulino, 1980).
Graffi, Giorgio (1994), Sintassi, Bologna, il Mulino.
Herman, Jozsef (1963), La formation du sistème roman des conjonctions de subordination, Berlin, Akademie Verlag.
Prandi, Michele (2006), Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET Università.