CAPACCIO (1246), CONGIURA DI
Nel settembre del 1245, poco dopo l'inizio del concilio di Lione (v.), furono scoperti nel convento di Fontevivo, presso Parma, alcuni documenti che rivelavano un complotto per assassinare Federico II e suo figlio Enzo nel quale erano coinvolti alcuni cittadini di Parma. L'imperatore, informato di ciò, si recò subito nella città, fedelissima alla causa sveva, per evitarne la defezione e per incoraggiare i suoi numerosi sostenitori.
A Parma si trovò di fronte a una sorpresa: il cognato di papa Innocenzo IV, Bernardo Orlando Rossi (v.), uno dei suoi più importanti sostenitori nell'Italia settentrionale, che era stato più volte potestà imperiale in importanti città, era fuggito insieme a un gruppo di cavalieri sostenitori del partito papale. Apparve a questo punto chiaro a Federico che il pontefice progettava la sua eliminazione fisica. Negli stessi giorni anche a Reggio era scoppiato un movimento di sedizione antimperiale, capeggiato dai Fogliano, una famiglia imparentata con Innocenzo IV.
In attesa di capire meglio le mosse dell'avversario, Federico decise di trascorrere l'inverno tra il 1245 e il 1246 a Grosseto, dove avrebbe potuto dedicarsi anche alla caccia con il falcone. Qui giunse, nel dicembre del 1245, Pandolfo di Fasanella, già valletto imperiale, intimo di Federico, che era stato da poco sollevato dall'incarico di capitano generale in Toscana, perché accusato di irregolarità nell'esercizio delle sue funzioni.
Nel marzo del 1246, un corriere del conte Riccardo di Caserta, genero di Federico, vicario generale della Marca e di Spoleto, comunicò all'imperatore che il conte era stato segretamente informato da un pugliese, Giovanni di Presenzano, dell'organizzazione di una vasta congiura, che avrebbe dovuto, il giorno dopo, portare all'uccisione dell'imperatore e di suo figlio Enzo. Non solo, durante un banchetto avrebbe dovuto essere ucciso anche Ezzelino da Romano; Parma avrebbe dovuto passare alla parte guelfa. Infine, il messo disse che il cardinale Ranieri da Viterbo, alla testa di un esercito pontificio, era già penetrato nel territorio imperiale, in Umbria, presso Spello, per sostenere la rivolta.
I congiurati che erano alla corte di Grosseto, impauriti, prima che Federico iniziasse le indagini, decisero di fuggire subito a Roma: li capeggiavano Pandolfo di Fasanella e Giacomo di Morra, già vicario generale nelle Marche, figlio del gran giustiziere Enrico, da pochi mesi deceduto.
La loro fuga confermò la validità dell'informazione inviata dal conte di Caserta. Il 'fatto mostruoso' fu anche confermato da una serie di fenomeni naturali, che sarebbero avvenuti alla scoperta della congiura, rilevati e interpretati dall'astrologo Guido Bonatti nella sua torre di Forlì: il sole e la luna non apparvero, le stelle impallidirono, precipitò una pioggia di sangue, la terra fu avvolta in una profonda tenebra, il mare si gonfiò tra tuoni e fulmini.
Federico cercò allora di conoscere la reale portata della congiura. Su ciò sono rimaste alcune lettere imperiali, ma i nomi dei congiurati sono pure noti grazie a due documenti posteriori: un Libellum de inquisitione del tempo di Carlo d'Angiò, e le 'restituzioni' papali agli antichi sostenitori guelfi del Regno avvenute dopo la caduta degli Svevi. Il quadro generale del complotto fu ben presto chiaro. Ordito a Lione, esso avrebbe dovuto rappresentare, nell'ambito della politica papale, il primo passo per l'abbattimento del dominio svevo. Alla tesi asserente l'estraneità del papa alla congiura, si oppone una evidenza documentaria inoppugnabile. Oltre al ruolo di primo piano svolto da Bernardo Orlando Rossi e dalle città di Parma e di Reggio, nonché al tempestivo intervento armato del cardinale Ranieri da Viterbo, sono da segnalare altri tre importanti elementi. Che il vescovo di Bamberga, di ritorno da Lione, annunciò alla fine del 1245 ai tedeschi che Federico II sarebbe morto entro breve tempo di morte violenta per mano dei suoi amici più fidati; che i primi congiurati che furono fatti prigionieri attestarono, non sotto tortura, mentre ricevevano il sacramento, di aver preso la croce contro Federico per esortazione dei Frati mendicanti e di essere stati autorizzati all'azione da lettere del papa; che nel maggio 1246, mentre l'imperatore era ancora impegnato nella lotta contro i congiurati in Campania, Innocenzo IV, che aveva già deposto Federico, faceva eleggere presso Würzburg, da un'assemblea composta in prevalenza da principi ecclesiastici, il langravio di Turingia Enrico Raspe 're di Roma'.
Tutti i congiurati avevano ricoperto delle cariche molto importanti ed erano stati familiari dell'imperatore, ritenuti degni della massima fiducia. Gli altri sostenitori 'esterni' della congiura erano poi tutti imparentati con i congiurati di primo piano: Riccardo e Roberto di Fasanella, Goffredo di Morra. Una menzione a parte meritano i conti di S. Severino, perché al loro casato apparteneva anche Riccardo, conte di Caserta, colui che svelò la congiura. Federico era nemico del casato dei Sanseverino e nel 1223 ne aveva confiscato i feudi. Quando Giacomo Sanseverino morì crociato nel 1227, il fratello Tommaso gli successe nei feudi di S. Severino e Rocca Cilento, che permutò poi con la contea di Marsico, già possesso del nonno materno. Tommaso, che fu anch'egli della congiura, sposò Perna di Morra ed ebbe per figli Guglielmo e Ruggero, che sposarono due sorelle della famiglia de Aquino. Anche l'altro ramo dei Sanseverino, rappresentato da Tommaso, conte di Caserta, era stato privato dei suoi feudi nel 1223; il conte venne prima incarcerato, poi, liberato grazie al papa, consegnò suo figlio Riccardo in ostaggio a Federico e partì per l'esilio. La contea di Caserta fu allora 'sospesa' e il giovane Riccardo, educato a corte in qualità di valletto imperiale, raggiunta la maggiore età, fu investito della contea paterna. Nel marzo 1246 svelò la congiura e restò fedele all'imperatore fino sul letto di morte e fu tra i testimoni del suo testamento. Una fedeltà limitata però alla sola persona dell'imperatore: già nel giugno 1251, infatti, Riccardo era passato dalla parte pontificia, dopo aver ottenuto la conferma dei feudi.
Scoperta la trama, Federico accorse immediatamente nel Regno, mentre i suoi sostenitori avevano già iniziato ad assalire nel Cilento le rocche dei traditori: Sala Consilina fu occupata, Altavilla Silentina rasa al suolo. I congiurati si rifugiarono così nel castello di Capaccio, sperando nell'aiuto del pontefice, ma nel torrido luglio, rimasti privi di acqua, furono alla fine costretti ad arrendersi. Federico fece ben centocinquanta prigionieri.
Le punizioni dei traditori furono esemplari e commisurate alla colpa. Mutilati del naso, delle mani e delle gambe, accecati con un ferro ardente perché non potessero più guardare in faccia il loro signore, gli antichi amici furono trascinati al cospetto dello spietato giudice: Federico li condannò, secondo la lex pompeia, come violenti e li trattò da parricidi. Come tali, avendo operato contro natura, furono giustiziati secondo i quattro elementi di essa: alcuni furono trascinati da cavalli sino a morte, altri bruciati vivi, impiccati, infilati in sacchi di cuoio e gettati in mare (secondo la legge romana dei parricidi: Federico fece per di più introdurre nei sacchi dei serpenti velenosi).
Solo con Tebaldo Francesco, il principale tra i congiurati, l'imperatore si permise un'eccezione: accecato e mutilato, doveva, con cinque altri, essere trascinato per tutti i climi della terra, di città in città, di re in re, di principe in principe, perché tutto l'orbe vedesse tale mostro.
Fonti e Bibl.: Annales Placentini, a cura di J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Paris 1856, pp. 205 ss. P. Collenuccio, Compendio dell'Istoria del regno di Napoli, Venetia 1591, pp. 95 ss.; B. Boncompagni, Della vita e delle opere di Guido Bonatti, Roma 1851, pp. 24 ss.; C. Rodenberg, Papst Innocenz IV. und das Königreich Sizilien, Halle 1892, pp. 41 ss.; K. Hampe, Papst Innocenz IV. und die sizilische Verschwörung von 1246, Heidelberg 1923; E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, pp. 634-644, 740-743; G. Tescione, Caserta medievale e i suoi conti e signori, Caserta 1990; L. Kalby, Il feudo di Sant'Angelo a Fasanella, Salerno 1991; E. Cuozzo, La Nobiltà dell'Italia meridionale e gli Hohenstaufen, ivi 1995, pp. 61-63, 74-76, 151-160; N. Kamp, Fasanella, Matteo di, in Dizionario Biografico Italiani, XLV, Roma 1995, pp. 194-196; Id., Fasanella, Pandolfo di, ibid., pp. 196-202; Id., Fasanella, Riccardo di, ibid., pp. 202-203; Id., Fasanella, Tommaso di, ibid., pp. 203-204.