congiure
Racconti e descrizioni di c., trame e macchinazioni segrete ricorrono con frequenza negli scritti machiavelliani, in particolare nei carteggi diplomatico-amministrativi e nelle Istorie fiorentine. Ma è nei Discorsi – nel celebre cap. vi del terzo libro – che il tema viene affrontato da M. in forma sistematica e con l’ambizione di offrirne, al tempo stesso, un’ampia casistica storica (tratta dal mondo classico come dalla storia italiana a lui più vicina), una classificazione di massima, un’elaborazione concettuale e una disamina tecnica. Si tratta di una sezione dell’opera, intitolata per l’appunto Delle congiure, che ha sempre colpito lettori e critici in virtù della sua insolita lunghezza. Si è perciò ipotizzato che essa sia da considerare alla stregua di un trattatello autonomo, che non a caso ha spesso goduto di una sua circolazione e diffusione indipendente, attestata già dalla tradizione manoscritta. Dei codici sui quali ci si è basati per realizzare le moderne edizioni critiche dei Discorsi, infatti, ben due sono costituiti da trascrizioni – distinte anche se probabilmente discendenti da un capostipite comune, entrambe risalenti alla prima metà del 16° sec. – proprio del capitolo sulle c.: il codice Palatino 1104, cc. 45r-56v (BNCF) e il manoscritto X di Balìa, Carteggio, Responsive 119, cc. 290-319 (ASF). Il che lascia immaginare che questa parte dei Discorsi sia stata letta come opera a sé sin dagli anni di poco successivi alla sua composizione e sia magari stata oggetto di discussioni durante le riunioni degli Orti Oricellari frequentate da M. tra il 1516 e il 1519.
Ma è in Francia che, pochi decenni dopo la scomparsa di M., si inaugura una tradizione che tende a considerare le sue riflessioni sulle c. come un testo indipendente. Esso per la scabrosità della materia trattata – la conquista del potere o l’eliminazione del nemico politico attraverso l’omicidio, la sedizione di una minoranza organizzata contro l’ordine costituito – da un lato si riallaccia alla letteratura classica sul tema dei complotti politici e del tirannicidio e, dall’altro, sembra presentare più connessioni con il Principe (dove il tema viene affrontato nel cap. xix sulla base di formulazioni analoghe a quelle contenute dei Discorsi) che con la sua opera sulle repubbliche (all’interno della quale figura in effetti alla stregua di una anomala digressione). Nel 1575, per esempio, compare a Parigi, per i tipi di Abel l’Angelier, una versione del Bellum Catilinae di Sallustio, realizzata da Jérôme de Chomedey (L’histoire de la conjuration de Catilin), che in appendice presenta il Traicté des coniurations, extraict du troisiesme livre des Discours de Machiavel, ossia un’estrapolazione del capitolo dei Discorsi sulle congiure. Nel 1822 appare, sempre a Parigi e presso l’editore Chassériau, una traduzione anonima del Principe che in appendice riporta il trattato Des conspirations. Nel 1842 il Traité des conspirations et du régicide (che include, accanto al cap. vi, anche la traduzione in francese dei capp. vii e viii sempre del terzo libro dei Discorsi) compare come ultima sezione (dopo il Traité de la République e il Traité du Prince, ou de la Monarchie) delle OEuvres politiques de Machiavel stampate a Parigi da Lavigne Libraire-Éditeur e curate da Paul Christian, che vi premette, come guida alla lettura, un Essai sur l’esprit révolutionnaire. La traduzione utilizzata è quella classica realizzata da Charles-Philippe Toussaint Guiraudet nel 1799 per la sua edizione delle OEuvres de Machiavel, che verrà ripresa a metà del Novecento, in Francia nel 1935 e in Belgio nel 1944, in due edizioni del Principe che in appendice ripropongono a loro volta il Traité des conspirations et du régicide proprio nella versione già apparsa nel 1842.
La scelta di considerare come indipendente il capitolo sulle c. dei Discorsi è stata operata anche in altri contesti linguistici, in modo più occasionale. Nell’Italia risorgimentale, un estratto del capitolo compare nell’Elettuario contro le sette segrete pubblicato a Modena nel 1853 dalla Tipografia Vincenti: una denuncia del cospirazionismo massonico-carbonaro di marca cattolico-controrivoluzionaria che usa M. per mostrare a quali pericoli e fallimenti vadano incontro coloro che congiurano contro l’ordine stabilito. In versione integrale esso è stato pubblicato in una edizione portoghese dell’opuscolo machiavelliano apparsa nel 1945 a Lisbona presso l’editore Cosmos, nella traduzione di Berta Mendes, con prefazione e note di Manuel Mendes: il titolo di quest’appendice al Principe, Tratado des conspirações e do regicídio, e una veloce lettura della medesima denunciano chiaramente la dipendenza di questa versione lusitana da quella francese di Guiraudet dianzi ricordata. Nel 2010 il capitolo Delle congiure è stato pubblicato in inglese con il titolo On conspiracies, insieme ad altri brani tratti dai Discorsi che presentano un’attinenza – in verità non sempre diretta – con il tema. Una raccolta commentata di tutti i testi machiavelliani riferiti alle c. – oltre il capitolo dei Discorsi anche il xix del Principe, lo scritto sul Tradimento del Duca Valentino e i diversi episodi di c. presenti nelle Istorie fiorentine – è infine apparsa in Italia nel 2014 (Sulle congiure, a cura di A. Campi).
Il capitolo Delle congiure si apre con una vistosa contraddizione, lasciata irrisolta da M. e indicativa del suo modo di argomentare spesso segnato da incongruenze logiche e da forzature o manipolazioni nella ricostruzione dei fatti, funzionali tuttavia allo svolgimento del suo discorso politico. Se da un lato si sostiene che a causa di complotti e cospirazioni si sono visti «molti più principi avere perduta la vita e lo stato che per guerra aperta» (III vi 3), il che sembrerebbe attestare la loro efficacia alla luce dell’esperienza storica antica e a lui coeva, dall’altro si argomenta che le c. rappresentano un genere d’impresa «difficile e pericolosissima in ogni sua parte; donde ne nasce che molte se ne tentano, e pochissime hanno il fine desiderato» (III vi 4). Lo scetticismo circa l’utilità pratico-politica di un simile strumento di lotta si ritrova, con parole simili, anche nel Principe («le difficultà che sono da la parte de’ congiuranti sono infinite, e per esperienza si vede molte essere state le congiure e poche avere avuto buono fine»: xix 11), e può essere spiegato – considerata la data di composizione di entrambi i testi, notoriamente successiva al suo allontanamento dall’ufficio di cancelliere del novembre 1512 e da non estendere oltre il 1517 – ricordando la traumatica esperienza del febbraio 1513, quando M. si trovò coinvolto suo malgrado in una effimera trama cospirativa (quella messa a punto da Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi contro Giuliano de’ Medici) che gli costò qualche settimana di carcere e la tortura. Da qui anche gli inviti alla prudenza e l’atteggiamento quasi fatalistico con i quali il capitolo sembra aprirsi: se ai principi viene consigliato, per sfuggire il pericolo sempre in agguato di c., di ricercare e mantenere con ogni mezzo il favore del popolo (essere «odiato dallo universale» per le offese portate «nella roba, nel sangue o nell’onore» dei sudditi e per le minacce rivolte a questi ultimi rappresenta infatti il movente principale delle c.), ai privati, tentati dall’immischiarsi in una pratica che M. giudica effimera e velleitaria per il fatto stesso di essere concepita e messa in atto da una consorteria o da un piccolo gruppo, viene invece rivolto l’invito «a essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto» (un monito che richiama quello contenuto in Principe iii 1: «li uomini mutano volentieri signore, credendo migliorare, e questa credenza li fa pigliare l’arme contro a quello: di che e’ s’ingannano, perché veggono poi per esperienza avere piggiorato»).
Ma la disapprovazione, se non l’avversione vera e propria, per questo genere di imprese non impedisce a M. di proporne, come accennato, una trattazione analitica, vista la loro frequenza nel contesto politico dell’epoca e considerato il rilievo a esse assegnato nella storiografia greco-romana da lui così assiduamente frequentata.
Per prima cosa viene avanzata una distinzione tra le c. «contro a uno principe» (cui è dedicata la gran parte delle sue riflessioni e implicanti un semplice cambio alla guida del potere), quelle «contro alla patria» (che perseguono invece un mutamento costituzionale, la volontà di passare da una repubblica o monarchia corrotta al principato come nell’esempio storicamente paradigmatico, pur nel suo fallimento, di Catilina; esse sono trattate brevemente solo a conclusione del capitolo) e quelle «che si fanno per dare una terra a’ nimici che la assediano» (già analizzate in Discorsi II xxxii 16-24).
Viene poi chiarito cosa debba intendersi propriamente per c., prestando fede alla sua etimologia latina (cum-iurare): un atto collettivo basato sul vincolo di un giuramento, da tenere distinto dall’azione individuale o dal classico tirannicidio («Uno non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe»: III vi 27).
Da ultimo è precisato come il presupposto per così dire sociologico delle c. – del primo tipo – sia rappresentato dalla prossimità fisica dei cospiratori con il principe, dall’appartenere cioè alla sua cerchia o dall’avere la «entrata facile» (III vi 38) al potere («Dico trovarsi nelle istorie tutte le congiure essere fatte da uomini grandi o familiarissimi del principe»: III vi 36; «Vedesi pertanto quelli che hanno congiurato essere stati tutti uomini grandi o familiari del principe»: III vi 41); mentre quello psicologico è da rinvenirsi principalmente nell’ingratitudine e nella «cupidità del dominare» (III vi 46) di coloro che, avendo ottenuto dal principe ogni sorta di privilegio e vantaggio, finiscono per ambirne la posizione a costo della sua eliminazione (come quei cospiratori romani, addotti per esempio nel testo, dai loro imperatori e protettori «constituiti in tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro alla perfezione della potenza altro che lo impero»: III vi 42).
A partire da queste premesse, M. dedica quindi particolare attenzione agli aspetti tecnico-operativi delle c., a conferma dell’orientamento sovente pragmatico e strumentale del suo pensiero e del fatto che, per quanto rischiose, le c. possono a certe condizioni essere coronate da successo e rappresentare una modalità, se non legittima in alcuni casi necessaria o utile, di cambiamento politico e negli equilibri del potere. Ne discendono consigli pratici, regole e ricette su come evitare i pericoli e i contrattempi che esse implicano e sugli accorgimenti per neutralizzarle o portarle a buon fine, che paiono rivolti indifferentemente ai principi come agli «uomini privati» e che, nel corso dei secoli, hanno finito per far considerare queste celebri pagine come una sorta di manuale a uso di uomini di potere e aspiranti cospiratori redatto con un intento quasi pedagogico (da considerare perverso o edificante a seconda del punto di vista dei lettori).
Le difficoltà che, a giudizio di M., le c. comportano riguardano le tre diverse fasi tecniche del loro svolgimento: «in tali casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono» (III vi 25), esse presentano complicazioni «prima, in su ’l fatto, e poi» (III vi 51). Nella fase iniziale, quella dell’ideazione, il problema è mantenere il segreto, tanto più grande se quest’ultimo è condiviso tra molti soggetti («De’ fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi»: III vi 57). Il rischio, tanto maggiore quanto più si estende la rete dei partecipanti al complotto, è quello della delazione o del tradimento, ovvero dell’imprudenza («quando uno congiurato ne parla poco cauto»: III vi 62). Ne segue la necessità, per chi ne sia l’artefice o il promotore, di rivelare il proprio piano eversivo solo a persone realmente fidate o meglio a nessuno e comunque solo al momento di passare all’azione; e ciò anche per non dare il tempo di essere denunciati e per non lasciare prove delle proprie intenzioni che possano risultare compromettenti (ma si tenga presente la chiosa, per così dire tecnica, contenuta nella Vita di Castruccio Castracani: «in queste cose [nelle c.] se il poco numero è sufficiente al segreto, non basta alla executione»).
Per quanto riguarda l’esecuzione, le difficoltà nascono invece
o da variare l’ordine; o da mancare l’animo a colui che esequisce; o da errore che lo esecutore faccia per poca prudenza; o per non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare (III vi 100).
L’attuazione di una c., sempre se non scoperta anzitempo, deve insomma fare i conti con gli imprevisti e il caso, che scombussolano il piano preordinato e costringono a variarlo all’ultimo momento, con l’imperizia o la mancanza di sangue freddo degli attentatori, con la poca prudenza con cui talvolta si scelgono gli obiettivi (come quando si ambisce a eliminarne due contemporaneamente) e con la reazione rabbiosa di chi ha la ventura di sopravvivere all’agguato.
Quanto ai pericoli che si corrono nella terza fase, una volta cioè portata a termine la c., si riducono a uno: «quando e’ rimane alcuno che vendichi il principe morto» (III vi 153), tanto più grande se «il popolo è amico del principe che tu hai morto». Con il che M. arriva al punto forse centrale della sua argomentazione, quello che fornisce coerenza teorica all’intera sua riflessione e giustifica sul piano politico la sua personale avversione verso tale forma di lotta: se è l’odio popolare contro il principe a creare l’umore collettivo (quindi le condizioni e la giustificazione) che spinge gli «uomini grandi» a cospirare, è il favore del popolo, per converso, il miglior antidoto alle trame eversive, se è vero – come si legge anche nel Principe – che contro un principe che sia «reputato», «eccellente» e «riverito» «con difficoltà si congiura» (xix 5). Se le c. sono, dal punto di vista operativo, un fenomeno per definizione elitario e socialmente ristretto, che si consuma per di più interamente nella sfera del potere, tra i pochi che lo detengono e i pochi che a esso aspirano, sfera dalla quale il popolo è dunque escluso, quest’ultimo è però l’arbitro che decreta, di là dal conseguimento o meno dell’obiettivo immediato di ogni singola c., la sua effettiva riuscita o il suo concreto fallimento dal punto di vista politico. I congiurati che, dopo aver ucciso il principe, non riescono a portare il popolo dalla loro parte, magari brandendo strumentalmente la bandiera della libertà dalla tirannide, sono destinati al fallimento ed esposti alla vendetta.
Resta il fatto, conclude M., che le c. sono comunque pericolose per il principe, anche nel caso fallisca l’intenzione di ucciderlo. Se esse gettano sempre un’ombra di infamia su chi le organizza, lasciano comunque un’ombra di sospetto anche su chi ne è stato la vittima. Tanto più marcato se il principe, dopo essere sfuggito ai sicari o averne scoperto e neutralizzato il piano criminale, è riuscito a ucciderli e perseguirli insieme ai loro complici: il popolo, infatti, finisce per credere «che la sia stata [la c.] invenzione di quel principe per isfogare l’avarizia e la crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che gli ha morti» (III vi 186).
Come anticipato, alcuni degli argomenti sulle c. sviluppati nei Discorsi si trovano sinteticamente esposti (anticipati o ripresi?) anche nella parte iniziale del cap. xix del Principe (De contemptu et odio fugiendo), tra i più discussi dalla critica a causa della sua struttura disarmonica e poco coerente, frutto di evidenti rimaneggiamenti e di cospicue integrazioni: la vacuità delle c. come mezzo per ribaltare gli assetti di potere; la difficoltà dei congiuranti a trovare complici leali, motivati e non disposti a tradire per convenienza; la raccomandazione al principe, di stampo utilitaristico, a fuggire «lo essere odiato o disprezzato» e a tenersi «el populo satisfatto di lui» (xix 9) per contenere le ambizioni degli «uomini grandi» e per evitare che gli si cospiri contro. Quest’ultimo punto M. sottopone a verifica storica ricorrendo a un’ampia casistica, attinta in larga parta dall’opera di Erodiano e riferita alla vita degli imperatori romani a cavallo dell’epoca dei Severi, ognuno dei quali – da Commodo a Massimino il Trace, passando per Caracalla e Alessandro Severo – fu artefice e vittima di complotti causati proprio dall’impossibilità di soddisfare contemporaneamente l’avidità dei soldati che lo sostenevano con le armi e la sete di potere dei nobili, dei generali e dei cortigiani che lo circondavano, e dal fatto di non essersi mai fondato sul sostegno popolare.
Ma soprattutto nelle Istorie fiorentine si debbono ricercare gli exempla che sostengono la visione machiavelliana delle c. e che, essendo riferiti a vicende storiche più attinenti alla sua diretta esperienza politica e alla sua conoscenza delle corti principesche, in qualche misura ne arricchiscono l’interpretazione. Le c., anche alla luce delle dinamiche conflittuali che hanno scandito la storia di Firenze sin dalle origini, vengono presentate in quest’opera come un fenomeno tendenzialmente disgregante e corrosivo, dal quale non scaturisce un nuovo ordine politico, semmai una perenne instabilità, frutto a sua volta di un sentimento di odio e vendetta tra le fazioni e le parti destinato a durare nel tempo e a minare la vita civile (è questo il valore assegnato alla c. nobiliare capeggiata a Firenze nel 1340 da Piero de’ Bardi e Bardo Frescobaldi: II xxxii). Esse sono dunque tipiche di quei contesti storici, come l’Italia quattrocentesca, nei quali non si sono ancora definiti assetti istituzionali e di potere stabili. Al tempo stesso viene prestata maggiore attenzione che nei Discorsi – basti pensare ai racconti della cospirazione di Stefano Porcari del 1453 (VI xxix) e del complotto che nel 1476 costò la vita a Galeazzo Maria Sforza (VII xxxiii-xxxiv) – alle motivazioni ideali delle c. (la gloria, l’onore, la difesa delle libertà, la lotta contro la tirannide o l’oscurantismo religioso), diverse cioè dall’intreccio di interessi economici, ambizioni di potere, faide tra fazioni e risentimenti privati che ne costituiscono la cagione principale, ben esemplificato, nelle Istorie, da episodi quali la c. contro Annibale Bentivoglio del 1445 (VI xix), la sedizione contro Piero de’ Medici del 1466 (VII x-xx) e la c. dei Pazzi del 1478 (VIII i-x).
Che il fenomeno cospira-torio non sia univoco nel suo significato politico e nelle sue modalità operative è anche dimostrato dal fatto che per descriverlo M. non ricorre solo al termine congiure, ma a un più articolato insieme di vocaboli e lemmi, utilizzati come sinonimi. Al tempo stesso, la parola congiura nei suoi scritti viene talvolta impiegata anche in un senso traslato e metaforico, ovvero per indicare situazioni o contesti diversi dall’omicidio per ragioni politiche. La costellazione semantica che indica le c. in senso proprio comprende termini, da considerare equivalenti nel significato, quali cospirazioni («da’ suoi cittadini non gli fu mai conspirato contro», Principe viii 22), trattati («i Fiorentini per trattato gli tolsono Pisa», Istorie II xxx 10; «ordinò […] certo trattato», M. ai Dieci di libertà, 7 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 338), pratiche («tenne pratiche in Cortona per torla a’ Fiorentini», Istorie II xxx 10), macchinazioni («tutti loro macchinavano e ordivano contro sua Eccellenza», M. ai Dieci di libertà, 20 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 378) e intelligenze («diconmi tutti a dua che questa è una intelligenzia al certo con Pandolfo», M. ai Dieci di Balìa, 11 apr. 1505, LCSG, 4° t., p. 419). Ma si trovano anche, specialmente negli scritti cancellereschi, ragionamenti, leghe e sette. Non ricorre invece in M. il termine complotto trattandosi di un lemma di matrice francese entrato nel linguaggio politico soltanto a partire dal 17° secolo.
Quanto ai significati traslati, comunque connessi con l’etimologia originaria del termine e con l’uso che se ne faceva nell’antichità, nei Discorsi II ii 40 «una congiura di republiche» è sinonimo di una lega o alleanza politico-militare, così come una «coniura fatta», nel Principe xiii 8, sta a indicare un accordo o intesa a danno di qualcuno. Ma congiurare è anche impiegato da M., come nell’uso linguistico odierno, per indicare il concorrere di più forze o eventi verso un medesimo obiettivo («a rovinare tanto imperio […] non una populazione ma molte furono quelle che […] congiurorono»: Istorie I i 4).
Le pagine scritte da M. sulle c. hanno avuto, nel corso dei secoli, lettori eccellenti e spesso personalmente coinvolti in trame e disegnieversivi, da Étienne Pasquier a Tommaso Campa-nella, dai dottrinari della ragion di Stato a Gabriel Naudé, dal cardinale di Retz ai patrioti-cospiratori del Risorgimento italiano, che ne hanno assorbito e spesso riadattato i precetti e gli insegnamenti tecnici.
Quanto alla critica contemporanea, essa al contrario sembra aver trascurato quest’aspetto della riflessione di M.: si è limitata a precisare che delle c. egli è stato un deciso avversario, in ragione delle sue disavventure biografiche e per il fatto di considerarle troppo pericolose e al dunque improduttive. Esistono tuttavia delle eccezioni a questa linea interpretativa, anche tra loro assai diverse. Rodolfo De Mattei, per es., ha enfatizzato le pagine sulle c. essendo queste ultime la dimostrazione esemplare di quanto M. fosse interessato al lato tecnico-operativo dei fenomeni politici, a partire da un orientamento essenzialmente empirico-naturalistico e da un atteggiamento praticostrumentale. Proprio dal modo asettico con cui M. si occupa delle c. risalterebbe dunque il «gusto clinico dello studioso di fatti politici, unicamente interessato dalla rappresentazione obiettiva di un evento nella sua nuda e ineluttabile realtà fenomenica» (De Mattei 1969, p. 63). Si tratta di una lettura analoga a quella coeva avanzata da Felix Gilbert (→). Anche secondo quest’ultimo il capitolo dei Discorsi sulle c. è il miglior esempio dell’atteggiamento fondamentalmente razionalistico e utilitaristico di M., che considera gli uomini come mossi unicamente dai loro interessi egoistici:
Minimizzando i moventi ideali dei tentativi di uccidere un tiranno, egli giunge alla conclusione che le c. non hanno alcuna probabilità di riuscire, perché ognuno, pensando anzitutto alla propria salvezza e ai propri interessi, all’insorgere degli inevitabili pericoli delle cospirazioni si vuol salvare a spese degli altri (Gilbert 1965; trad it. 1970, p. 136).
Decisamente eccentrica risulta invece l’interpretazione di Leo Strauss (condivisa dai principali esponenti della sua scuola, a partire da Harvey C. Mansfield Jr). Anche per Strauss (→) la riflessione machiavelliana sulle c. sarebbe da considerare paradigmatica e altamente espressiva, ma da una prospettiva assai particolare. Essa non confermerebbe tanto il carattere cinico e amorale dei suoi insegnamenti e la riduzione da lui operata dell’arte politica a mera tecnica di governo, ma mostrerebbe piuttosto quale sia stato il vero obiettivo di tutta la sua opera: liquidare la grande tradizione della filosofia classico-cristiana e il modello di ordine politico scaturito da quest’ultima. M., proprio perché maestro di c., non ha mai perso tempo a cospirare contro i potenti del suo tempo, ma si è invece dedicato a una trama di più vasto respiro storico-ideale, a una c. metafisica indirizzata contro il cristianesimo e la civiltà classica, nella quale egli avrebbe cercato di coinvolgere la gioventù del suo tempo proponendole il sogno di una rinascita spirituale ispirata ai valori del paganesimo antico. L’organizzazione, con le sole armi dell’intelletto, di questa grandiosa c. spirituale, che nulla ha a che vedere con le c. per il potere di cui M. si è limitato a proporre un’analisi dal punto di vista tecnico e a mostrare la sostanziale inefficacia, sarebbe stato il vero lascito alla storia del Segretario fiorentino: dal suo successo – conclude Strauss – è infatti scaturita quella Modernità che ancora oggi lo venera tra i suoi padri.
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: N. Machiavelli, Sulle congiure, a cura di A. Campi, Soveria Mannelli 2014.
Per gli studi critici si vedano: L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe 1958 (trad. it. Pensieri su Machiavelli, Milano 1970); F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini, Princeton 1965 (trad. it. Machiavelli e Guicciardini, Torino 1970); R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969; E. Fasano Guarini, Congiure «contro alla patria» e congiure «contro ad uno principe» nell’opera di Niccolò Machiavelli, in Complots et conjurations dans l’Europe moderne, a cura di Y.-M. Bercé, E. Fasano Guarini, Roma 1996, pp. 9-53; F. Russo, Machiavelli e le congiure, in Il realismo politico e la modernità, a cura di G. Dessì, M.P. Paternò, Roma 2005, pp. 9-32.