Abstract
Vengono esaminati i rapporti tra i coniugi derivanti dal matrimonio. Trattasi di rapporti personali e rapporti patrimoniali che attengono, rispettivamente, allo svolgimento della vita familiare e all’accesso dei coniugi alle sostanze e ai redditi conseguiti durante il matrimonio. Lo svolgersi dei rapporti personali involge la dimensione esistenziale dei coniugi e dunque incide sul governo della famiglia, mentre l’esplicarsi dei rapporti patrimoniali connota i singoli regimi patrimoniali della famiglia e dunque orienta l’appartenenza dei beni prodotti dai coniugi in costanza di matrimonio.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ancora regolava i rapporti tra i coniugi e degli stessi con i figli nel capo relativo al matrimonio (artt. 143 ss. c.c.). Pur aprendosi alla tutela dei figli nati fuori del matrimonio (es. art. 261 c.c.), il paradigma dei doveri genitoriali era organizzato intorno alla classe dei diritti e doveri derivanti dal matrimonio. Sono così disciplinate le fondamentali relazioni, coniugale e genitoriale, che si articolano in vari doveri e diritti in capo ai componenti della famiglia. Tali doveri e diritti sono sì distinti, ma non parcellizzati in tanti autonomi rapporti, caratterizzati da singole posizioni attive e passive: tutti insieme si intrecciano e si integrano nel sistema relazionale della comunità familiare. La violazione di tali doveri rileva sia nella prospettiva civile, quale inadempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio (artt. 143 ss. c.c.), che nella dimensione penale quale violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.).
È solo con la l. 10.12.2012, n. 219, che viene delineato formalmente uno statuto unitario della filiazione, con unicità dello stato di figlio, così prefigurandosi una trattazione unitaria dei figli nati dentro il matrimonio o fuori del matrimonio (v. Filiazione).
La riforma del diritto di famiglia del 1975 regola i rapporti tra i coniugi secondo il modello costituzionale fissato dall’art. 29 Cost., disegnato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Gli artt. 143 ss. regolano dunque i rapporti tra i coniugi secondo un criterio di parità degli stessi: l’art. 143 fissa il principio generale che, con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. È un regime inderogabile: i coniugi non possono derogare ai doveri e ai diritti provenienti dal matrimonio (art. 160 c.c.), né possono regolare i propri rapporti patrimoniali con riferimento generico a leggi o agli usi (art. 161 c.c.).
Con l’art. 144 c.c. si introduce la regola dell’accordo nel governo della famiglia, per cui i coniugi «concordano tra loro l’indirizzo di vita familiare», con il potere di ciascuno di attuare l’indirizzo concordato (art. 144). Come per il contratto, la volontà negoziale giuridicamente rilevante è la risultante dell’incontro tra i due apporti volitivi: esprime l’intento comune di perseguire uno scopo condiviso. La tensione all’accordo e il risultato stesso dell’accordo segnano il limite alla eguale esplicazione delle libertà dei coniugi: nella ricerca dell’accordo ciascuno dei coniugi, su un piano paritario, si autolimita pur di realizzare l’unita della famiglia concordemente perseguita. È in fondo il delicato crinale in cui la pari libertà dei coniugi deve armonizzarsi con la pari responsabilità degli stessi nel realizzare un risultato di comunione di vita concordemente avvertito come un ‘bene’ essenziale. La unità della famiglia esprime l’esito della eguale tensione dei coniugi verso la realizzazione della comunione di vita tra gli stessi edificata col matrimonio: l’unità della famiglia non è imposta dal capofamiglia ma ricercata e sorretta dall’accordo insieme perseguito. La legge prescrive gli obblighi derivanti dal matrimonio; ma è evidente che le relative violazioni, ancorché manifestatesi durante la vita familiare, sono verificate essenzialmente in occasione del dissolvimento del matrimonio, specie per separazione personale, in funzione della dichiarazione di addebito della separazione stessa: quando cioè i coniugi, smarrita l’affectio coniugalis, ripercorrono severamente la vita coniugale, cercando nelle aule giudiziarie artificiose rivalse o appaganti tutele per i comportamenti tenuti durante il matrimonio.
Dal matrimonio derivano gli obblighi uguali e reciproci di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione (art. 143, co. 2). C’è da rilevare come il dovere di assistenza morale implichi anche la esplicazione della vita sessuale, in se e nella sua proiezione verso la procreazione, come dimensione esistenziale della persona umana. Si è stabilito che anche il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’art. 143 c.c., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale (Cass., 6.11.2012, n. 19112; Cass., 23.3.2005, n. 6276). Quanto all’obbligo di coabitazione, lo stesso non importa una stringente presenza nella casa familiare: si è precisato che l’allontanamento dalla residenza familiare non concreta violazione dell’obbligo di coabitazione allorché risulti legittimato da una ‘giusta causa’, vale a dire dalla presenza di situazioni di fatto di per sé incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare (Cass., 24.2.2011, n. 4540; Cass., 20.1.2006, n. 1202).
Il diritto all’assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi (art. 146, co. 1); il giudice può, secondo le circostanze, ordinare il sequestro dei beni del coniuge allontanatosi, nella misura atta a garantire l’adempimento dei detti obblighi (art. 146, co. 3). La proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce «giusta causa di allontanamento» dalla residenza familiare (art. 146, co. 2). La disciplina si collega alla previsione dell’obbligo di coabitazione (art. 143, co. 2), della cui portata e violazione si è detto sopra.
La violazione dei doveri derivanti dal matrimonio, oltre che rilevare giuridicamente in occasione della separazione personale dei coniugi per poter comportare la dichiarazione di addebito della separazione, integra anche un fatto illecito ex artt. 2043 e 2059 c.c. per lesione dei diritti della personalità, oltre che un reato. Pertanto possono coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri, le finalità, radicalmente differenti (Cass., 1.6.2012, n. 8862). Si è anzi stabilito che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione non sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa ai danni inferti alla persona (Cass., 15.9.2011, n. 18853).
La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze (art. 143 bis). Il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall’uso possa derivarle grave pregiudizio (art. 156 bis): è da immaginare che l’intervento del giudice abbia ragione di svolgersi in occasione di una vicenda di separazione. A seguito del divorzio la moglie perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio; ciò nonostante il tribunale, con la sentenza di divorzio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela: decisione modificabile con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti (art. 5 l. 1.12.1970, n. 898). Ma è noto come tutta la materia dei cognomi, e segnatamente con riguardo alla trasmissione ai figli, dopo i rilievi della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, è innanzi al Parlamento per l’assunzione di un regime che non discrimini tra l’uomo e la donna (marito o moglie, padre o madre).
Entrambi i coniugi hanno altresì il dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia secondo un criterio di proporzionalità, per cui ciascuno dei coniugi vi è tenuto in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143, co. 3); dovere che rileva con le medesime caratteristiche nel mantenimento dei figli (art. 148 e 315) e nella determinazione dell’assegno di mantenimento in sede di separazione (art. 155) e di divorzio (art. 5 l. n. 898/1970). Il principio di proporzionalità nella contribuzione ai bisogni della famiglia attraversa l’intero diritto di famiglia, connotando la stessa come una comunità organizzata su base solidale e comunistica, per cui tutti i componenti della famiglia partecipano secondo le proprie possibilità e ricevono dalla famiglia secondo i propri bisogni (fondamentale rimane il lavoro di Falzea, A., Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, 609 ss.). I bisogni della famiglia, peraltro, non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale (Cass., 17.9.2004, n. 18749).
L’art. 144 c.c. fissa un generale criterio di organizzazione del gruppo familiare: entrambi i coniugi hanno il dovere di concordare l’indirizzo della vita familiare (co. 1); ciascuno degli stessi ha il potere di attuare l’indirizzo concordato (co. 2). Si delineano, pertanto, due prospettive di osservazione della comunità familiare intimamente connesse: l’una, è rivolta alla verifica della formazione dell’accordo nel governo della famiglia; l’altra, è orientata alla determinazione dell’indirizzo familiare (In generale, Moscarini, V., Parità coniugale e governo della famiglia, Milano, 1974; Paradiso, M., I rapporti personali tra coniugi, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1990, 137 ss.).
a) Con riguardo alla formazione dell’accordo, l’art. 144, nell’indicare il criterio consensuale quale metodo di determinazione dell’indirizzo di vita familiare, esprime una dichiarazione di principio, indicativa della pari condizione coniugale e del modo come perennemente attuarla nella comunità familiare. Recita in maniera significativa la Relazione al progetto unificato di riforma del diritto di famiglia: «i coniugi debbono essere stimolati a decidere insieme, a concordare insieme»; e più avanti «l’accordo è una meta alla quale tutte le famiglie devono tendere in ogni momento della vita». Il referente dell’art. 144 non è dunque un atto determinativo dell’indirizzo familiare, ma lo svolgimento dell’attività familiare che deve riflettere la pari rilevanza di entrambi i coniugi nel governo della famiglia: il criterio consensuale non è un requisito soggettivo degli atti, che devono provenire necessariamente da entrambi, ma è una regola dell’azione coniugale che deve rispettare il principio paritario nella organizzazione della vita familiare. La regola dell’accordo fa da supporto al principio di parità tra i coniugi: anche l’unità della famiglia va realizzata attraverso la eguaglianza dei coniugi, che deve spingere all’accordo.
b) Venendo all’indirizzo di vita familiare, c’è da rilevare, preliminarmente, come nel nostro paese, a differenza di altri paesi (specie nordamericani, ma ormai anche europei), è più raro che i coniugi stipulino patti prematrimoniali o anche in corso di matrimonio con i quali regolino lo svolgimento della vita familiare ovvero le conseguenze del dissolvimento del rapporto coniugale. È la prassi dell’accadere ad avere il sopravvento sul programma (eventuale) pattuito tra i coniugi: i comportamenti dei coniugi, valutati oggettivamente ed in reciproca connessione, sono rivelatori del modello di vita familiare. Si prospetta dunque una nozione dell’indirizzo di vita familiare quale giuridicamente è destinata ad operare, e cioè indicativa del modo di determinarsi della coppia nell’esplicazione della vita familiare. La ricognizione delle singole manifestazioni della coppia, attraverso (talvolta) specifiche intese o (più spesso) singoli comportamenti assunti, consente di delineare la comune azione coniugale e dunque l’indirizzo di vita familiare realizzato. L’agire individuale dei coniugi è proprio del soggetto agente e come tale è sottoposto al giudizio di meritevolezza dell’ordinamento e produce i suoi effetti; ma in quanto è diretto a soddisfare ‘esigenze’ (di membri) della famiglia secondo i meccanismi dell’art. 144 si atteggia quale esplicazione di attività familiare e dunque è soggetto anche alla disciplina propria della comunità familiare: il singolo atto è cioè rivolto all’attuazione di interessi comuni ai coniugi. Però non potrà mai determinarsi la riferibilità al coniuge assente dell’iniziativa individuale di un coniuge che si riveli contraria al regime primario: è sempre consentito a ciascun coniuge chiedere l’applicazione dello statuto inderogabile del rapporto coniugale e dunque sottrarsi all’osservanza di un indirizzo familiare imposto da uno solo dei coniugi o da entrambi attuato in contrasto con il regime primario.
c) Sull’esperienza di altri paesi, si tende a guardare con interesse anche nel nostro paese alla esperienza dei cd. patti prematrimoniali. In realtà tali patti, allo stato, hanno una flebile incidenza sulla vita familiare in quanto, come gli accordi di indirizzo di vita familiare, sono destinati a convivere con tanti fatti ed evenienze della vita familiare che segnano in fatto la volontà programmatica dei coniugi; invece, mostrano invece la propria rilevanza in occasione della crisi coniugale, in quanto regolano anticipatamente l’assetto di interessi all’atto del dissolvimento del matrimonio: perciò è in tale ottica che vanno valutati.
La disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi si articola con la previsione di più tipi di regime patrimoniale della famiglia. È in generale una normativa regolatrice dei criteri di distribuzione tra i coniugi dei risultati economici dell’attività familiare (artt. 159 ss.), che fissano le appartenenze dei diritti acquisiti, le attribuzioni dei risparmi e degli utili realizzati, le imputazioni delle attività imprenditoriali svolte.
Sono in particolare prefigurati due regimi di derivazione legale e cioè operanti automaticamente (la comunione legale e l’impresa familiare) e tre regimi di fonte convenzionale e cioè costituiti per volontà dei coniugi (la comunione convenzionale, la separazione dei beni e il fondo patrimoniale). In realtà, tra i vari regimi apprestati, solo due sono regimi generali per contenere la regolazione di tutti i rapporti patrimoniali tra i coniugi, e sono la comunione legale e la separazione dei beni; mentre gli altri tre regimi sono regimi particolari per regolare solo profili o settori dell’economia familiare, avendo riguardo la comunione convenzionale e il fondo patrimoniale a singoli beni o categorie di beni e l’impresa familiare solo alla iniziativa economica. Inoltre la comunione convenzionale si atteggia come una variante negoziale della comunione legale, mentre il fondo patrimoniale e l’impresa familiare sono congiuntivi con un generale regime patrimoniale, potendo convivere sia con la comunione legale (o convenzionale) che con la separazione dei beni.
Il regime patrimoniale privilegiato dal legislatore è la comunione legale: è regime legale per discendere automaticamente per effetto del matrimonio; ma è anche dispositivo, per potere essere derogato dai coniugi (art. 159). In contrapposizione al cd. regime primario, è dunque un regime secondario per essere modificabile e addirittura derogabile dai coniugi.
Le molte motivazioni che hanno fatto da sfondo alla introduzione della comunione come regime legale della famiglia hanno trovato composizione nella enucleazione di un regime composito, che può raffigurarsi come regime legale, a contenuto non universale, con autonomia di deroga ma a struttura obbligata (cfr. Bocchini, F., Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013, 57 ss.). In particolare il modello di comunione accolto dalla novella esprime un sistema cd. misto e cioè composito che attinge al regime comunitario, a quello separatista ed a quello di partecipazione differita; sicché, con riguardo ad una medesima coppia in regime di comunione legale, convivono tre sottoregimi: una comunione immediata (art. 177, lett. a) e d), e co. 2); una comunione de residuo, anche detta eventuale o a partecipazione differita (art. 177, lett. b) e c), e art. 178); una separazione dei beni, con la previsione di beni personali (art. 179).
a) Il sottoregime di comunione immediata è quello che tipicamente esprime la peculiarità del regime di comunione legale, appunto per l’immediatezza della caduta in comunione dei beni acquistati. Sono oggetto di comunione immediata: i diritti acquistati dai coniugi congiuntamente o separatamente dopo il matrimonio (art. 177, lett. a); le aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi (art. 177, lett. d); gli utili e gli incrementi delle aziende personali di uno dei coniugi, gestite da entrambi (art. 177, co. 2). La caduta in comunione si determina ex lege e cioè automaticamente in virtù e al momento della fattispecie acquisitiva: irrilevante è la partecipazione all’atto di acquisto di uno o di entrambi i coniugi, come irrilevante è la provenienza del danaro, potendo lo stesso essere personale di uno dei coniugi o appartenere ad entrambi. Si presume che le fortune economiche e dunque l’accumulazione di capitali intervenuta durante la vita familiare siano dovute in misura non distinguibile all’attiva partecipazione spirituale e materiale di entrambi i coniugi. C’è dunque alla base dell’acquisto una presunzione legale di congiunta formazione del risparmio. C’è unanimità di opinioni circa la caduta in comunione dei diritti reali; mentre molte perplessità persistono rispetto ad altre tipologie di diritti. In particolare, quanto alla sorte dei diritti di credito, la Cassazione ha da tempo assunto un indirizzo granitico circa la non caduta in comunione degli stessi (Cass., 24.1.2008, n. 1548; Cass., 4.3.2003, n. 3185), anche se emergono alcune aperture (Cass., 9.10.2007, n. 21098). Con riguardo agli acquisti di partecipazioni sociali, cadono in comunione immediata ex art. 177, lett. a), gli acquisti di partecipazioni rivolti ad una trasformazione del risparmio in capitale per goderne gli utili: sono così oggetto di comunione immediata le partecipazioni in società per azioni ed in società a responsabilità limitata, nonché quelle relative alla posizione di accomandante nelle società in accomandita semplice e nelle società in accomandita per azioni, trattandosi di acquisizioni di mere titolarità senza connessione di attività economica; sono anche oggetto di comunione immediata le obbligazioni societarie e gli strumenti finanziari. Per gli acquisti di partecipazioni in società cooperative, è diffusa l’opinione che cadano in comunione immediata, ex art. 177, lett. a), quei vantaggi che si traducono in un “acquisto” per il cooperatore (Cfr. Bassi, A., Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici (artt. 2511-2548), in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1988, 363; cfr. Cass., 11.6.2005, n. 12382; Cass., 12.5.1998, n. 4757). In presenza di un’attività economica opera un ulteriore criterio (egualmente portante della riforma): la titolarità dell’impresa. L’azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi (cogestita) cade senz’altro in comunione immediata in ragione della coimprenditorialità dei coniugi: la presunzione di congiunta formazione del risparmio per la costituzione dell’azienda dopo il matrimonio, accompagnata alla cogestione, determina la caduta in comunione immediata dell’azienda (azienda coniugale) (art. 177, lett. d), con la conseguenza che gli atti di disposizione dell’azienda rimangono soggetti alla disciplina dell’amministrazione della comunione legale (artt. 180 ss.). Viceversa l’azienda costituita da uno dei coniugi prima del matrimonio è ‘bene personale’ del coniuge: l’assenza di una congiunta formazione del risparmio per la costituzione dell’azienda implica che l’azienda rimane bene personale del coniuge che l’ha costituita. Se però, a seguito del matrimonio, inizi una cogestione della stessa, la successiva cogestione comporta che, pur rimanendo l’azienda nella titolarità esclusiva del coniuge che l’ha costituita, cadano in comunione gli ‘utili’ e gli ‘incrementi’ maturati dall’azienda (art. 177, co. 2).
b) Il sottoregime della comunione de residuo, anche detta a partecipazione eventuale o differita, ha riguardo a ciò che residua (ovvero che non è stato consumato) al momento dello scioglimento della comunione dei seguenti cespiti: frutti dei beni personali di ciascuno dei coniugi (art. 177, lett. b); proventi dell’attività separata (art. 177, lett. c); beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e incrementi dell’impresa individuale indipendentemente dal momento di costituzione della stessa (art. 178). È corretto considerare i beni oggetto di comunione de residuo come rientranti nella comunione ordinaria (artt. 1100 ss.), con oggetto appunto il residuo dei detti beni al momento dello scioglimento della comunione. Ricadono in comunione de residuo anche le partecipazioni sociali con responsabilità patrimoniale illimitata, riproponendosi per tali partecipazioni il medesimo ordine di idee che assiste la sorte dell’impresa individuale. Sono pertanto oggetto di comunione de residuo precipuamente le partecipazioni in società semplice ed in società in nome collettivo, nonché quelle relative alla posizione di accomandatario nelle società in accomandita semplice e nelle società in accomandita per azioni, per comportare le stesse esplicazione di attività economica (con connessa responsabilità illimitata e soggezione a fallimento).
c) Il terzo sottoregime ha riguardo ai cd. beni personali (art. 179 c.c.), dei quali, cioè, ciascuno dei coniugi ha la titolarità esclusiva. È proprio la previsione di ‘beni personali’ a suggerire la qualificazione della comunione legale come regime non universale: è lo stesso regime di comunione legale che si atteggia con la esistenza di beni in proprietà esclusiva dei singoli coniugi. Rispetto agli stessi opera la regola propria del regime di separazione dei beni, per cui «ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo» (art. 217 c.c.). È possibile un’aggregazione delle singole categorie di beni in tre fondamentali classi. Anzitutto i beni di cui il coniuge era proprietario prima del matrimonio o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento (lett. a); a tale categoria è assimilabile anche l’ipotesi di acquisto di beni durante il matrimonio ma prima di instaurazione del regime di comunione legale, per essere il matrimonio irrilevante rispetto al regime delle appartenenze dei beni. Sono inoltre personali i beni acquisiti per donazione o successione, tranne che nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che sono attribuiti alla comunione (lett. b). Sono personali anche i beni di uso strettamente personale (lett. c) e i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge (lett. d), tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione, per i quali operano gli artt. 177, lett. d) e 178; i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno alla persona e la pensione per la perdita parziale o totale della capacità lavorativa (lett. e). Complementari ai beni sopra indicati sono i beni acquistati in surrogazione di beni personali, con il prezzo del trasferimento degli stessi o col loro scambio, quando ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto (lett. f).
Insieme con la comunione legale, l’impresa familiare costituisce l’altro regime legale della famiglia per operare di diritto e cioè automaticamente quando ricorra un’attività di impresa che si svolga con le caratteristiche fissate dall’art. 230 bis c.c. (intitolato appunto alla impresa familiare). È un regime particolare, in quanto riferito alla sola dimensione dell’attività di impresa del singolo coniuge, perciò destinato comunque a convivere con uno dei regimi generali (comunione legale o separazione dei beni). È inoltre un regime residuale in quanto destinato ad operare solo in assenza di un diverso rapporto, come ad es. di società o di lavoro dipendente (artt. 2094, 2251 ss., 2549). Finalità dell’istituto è di apprestare una giusta remunerazione a quei familiari che prestano la propria attività nell’impresa altrui, al fine di evitare che il lavoro svolto resti privo di remunerazione in quanto correlato ad una generica quanto astratta affectio familiaris. Si è propensi a ritenere che anche il convivente more uxorio possa avvalersi della disciplina in questione. Presupposto della tutela è che il familiare presti continuativamente e cioè non occasionalmente la propria attività in quanto ‘collabora’ all’impresa che – come sembra ormai ritenere la prevalente giurisprudenza – resta nella titolarità individuale del coniuge imprenditore che l’organizza e gestisce a proprio rischio. I diritti del familiare sono di carattere patrimoniale e amministrativo.
Quanto ai diritti patrimoniali, ai sensi dell’art. 230 bis, co. 1, il familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e ha diritto a partecipare agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (secondo il generale principio dell’art. 36 Cost.). È indirizzo invalso che gli utili da attribuire ai partecipanti all'impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l'impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l'ammontare degli utili da distribuire (Cass. 23.6.2008, n.17057). I crediti in parola si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall'art. 2946 c.c. (Cass., 27.9.2010, n. 20273). Il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari partecipi dell’impresa familiare col consenso di tutti i partecipi (art. 230 bis co. 4).
Quanto ai diritti amministrativi, le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa; i familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi (ex art. 316 c.c.).
Alla cessazione per qualsiasi causa della prestazione di lavoro ed altresì in caso di alienazione dell'azienda, il familiare ha diritto ad una liquidazione in danaro: il pagamento può avvenire in più annualità; in difetto di accordo è determinata dal giudice (art. 230 bis, co. 4). In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda, i partecipi all’impresa hanno diritto di prelazione sulla azienda: si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disciplina sul retratto successorio (art. 732 c.c.) che rappresenta la normativa generale di riferimento della prelazione legale (art. 230 bis, co. 5).
Per l’art. 159 c.c. il regime di comunione legale opera in mancanza di diversa convenzione. E’ dunque in potere dei coniugi sia di abbandonare il regime di comunione legale, adottando il regime di separazione dei beni (artt. 215 ss. c.c.); sia di apportare modifiche al regime legale, dando vita ad una comunione convenzionale (artt. 210 ss c.c.); sia ancora di adottare un meccanismo aggiuntivo di sostegno alle esigenze della famiglia, con la costituzione di un fondo patrimoniale (artt. 167 ss.). Il potere di deroga incontra il fondamentale limite nel carattere inderogabile dei diritti e dei doveri derivanti dal matrimonio (ex art. 160 c.c.): il riferimento, nella dimensione patrimoniale, è precipuamente al dovere di contribuzione che sostanzia il regime primario (artt. 143 ss.).
Gli atti preposti alla disponibilità del regime patrimoniale sono le convenzioni matrimoniali, di cui la legge non dà la nozione né indica specificamente il contenuto, ma di cui si limita a regolare la forma, il tempo di stipulazione e la pubblicità per l’opponibilità ai terzi (artt. 162 e 163 c.c.). Le stesse si atteggiano quali atti dispositivi del regime patrimoniale della famiglia. Possono essere stipulate in ogni tempo, sia prima che dopo il matrimonio, e sono atti solenni in quanto vanno stipulate per atto pubblico a pena di nullità e nell’atto devono essere necessariamente costituiti i testimoni; la scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio (art. 162, co. 1-3). Sono soggette a pubblicità cd. dichiarativa: non sono opponibili ai terzi quando non risultano annotati di seguito all’atto di matrimonio (ex art. 103, d.P.R. n. 396/2000) la data della convenzione, il notaio rogante e le generalità dei contraenti. La scelta del regime di separazione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio è con questo pubblicizzata (art. 162, co. 4, c.c.).
I coniugi possono, mediante convenzione matrimoniale, modificare il regime di comunione legale purché i patti modificativi non siano in contrasto con l’art. 161 (non possono cioè contenere un riferimento generico a leggi o usi) (art. 210, co. 1, c.c.); ma è da ritenere che non possano neppure essere in contrasto con l’art. 160 (relativo a diritti e doveri inderogabili). Né sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote, limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale (art. 210, co. 3, c.c.). La legge cioè si limita a indicare un elemento minimo, indefettibile, perché ricorra un regime patrimoniale di comunione (sebbene convenzionale): che almeno sui beni elencati dagli artt. 177 e 178 c.c. (rispettivamente oggetto di comunione immediata o destinati a cadere in comunione di residuo) sia assicurata la regola della uguaglianza delle quote e dell’amministrazione paritaria, come espressioni di una comunità paritaria.
Quanto all’oggetto, per l’art. 210, co. 2, i beni indicati dalle lettere c), d) ed e) dell’art. 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale: non possono perciò formare oggetto di comunione, neppure convenzionale, i beni di uso strettamente personale, i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa, per la dimensione esistenziale che tutti li accomuna. Ciò implica che, per un verso, i coniugi possano ampliare l’oggetto della comunione, con il solo limite di non potervi comprendere i beni indicati dalla norma; dall’altro, che i coniugi possano restringere senza limiti l’oggetto della comunione, come peraltro si ricava dall’art. 2647 c.c. che sottopone genericamente a trascrizione le convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione.
L’instaurazione del regime di separazione dei beni comporta che ciascuno dei coniugi conserva la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 215) e ha il diritto di liberamente disporne. A ciascuno dei coniugi è accordata la possibilità di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro «la proprietà esclusiva» di un bene (art. 219, co. 1); i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono considerati in «proprietà indivisa per pari quota» di entrambi i coniugi e cioè in comunione ordinaria tra gli stessi (art. 219, co. 2). Anche con riguardo alle somme di danaro, la cointestazione comporta presunzione di comunione ordinaria della somma depositata, perciò soggetta agli artt. 1100 ss. (arg. art. 219). I conflitti con i terzi vanno risolti attraverso i comuni criteri che presiedono alla circolazione dei beni, e perciò avendosi riguardo agli strumenti di pubblicità e alle connotazioni del possesso.
Ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo (art. 217, co. 1). Il coniuge che gode dei beni dell’altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario (art. 218). Un’articolata disciplina è dedicata alle ipotesi di conferimento ad un coniuge della procura ad amministrare i beni dell’altro (art. 217).
Il fondo patrimoniale non costituisce un regime patrimoniale autosufficiente, come la comunione (legale o convenzionale) e la separazione, ma convive con con ognuno di essi quale rafforzativo dei doveri familiari. Ciascuno o ambedue i coniugi (per atto pubblico) o un terzo (anche per testamento) possono costituire, sia prima che durante il matrimonio, un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia; i titoli di credito devono essere vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo, per assicurare la conoscibilità del vincolo (art. 167). La costituzione tra coniugi avviene mediante convenzione matrimoniale, soggetta alle regole degli artt. 162 e 163 c.c.; la costituzione effettuata dal terzo per atto tra vivi si perfeziona con l’accettazione dei coniugi, che può essere fatta anche con atto pubblico posteriore (art. 167, co. 2). La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta di regola ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione; i relativi frutti sono impiegati per i bisogni della famiglia (art. 168, co. 1 e 2). L’amministrazione dei beni è regolata dalle norme relative all’amministrazione della comunione legale (artt. 180 ss.) (art. 168, co. 3). Il fondo patrimoniale (e dunque il vincolo di destinazione inerente ai beni costituiti in fondo) cessa con l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 171, co. 1). Però il fondo perdura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio.
Per l’art. 170 c.c. l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi «non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia» (art. 170). Essendo i beni conferiti nel fondo patrimoniale aggredibili solo a determinate condizioni, si è sviluppato un uso distorto del fondo patrimoniale, piegandosi l’istituto a frapporre un ostacolo ai creditori nell’escussione dei beni, così da aggirare la regola della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore: la giurisprudenza, proprio al fine di ostacolare la fraudolenta prassi del ricorso al fondo patrimoniale, ha stabilito che la costituzione del fondo patrimoniale, compiuta in frode ai creditori, possa essere revocata; in particolare ha rilevato che la costituzione del fondo patrimoniale è soggetta al (più agevole) meccanismo di revocatoria degli atti a titolo gratuito, sia ordinaria (Cass., 23.9.2004, n. 19131; Cass., 17.1.2007, n. 966) che fallimentare (Cass., 23.3.2005, n. 6267; Cass., 8.9.2004, n. 18065).
Artt. 143-148 c.c.; 159-230 bis c.c.; 342 bis e 342 ter c.c; 736 bis c.p.c.; d.P.R. 3.11.2000, n. 396.
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