Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del pensiero medievale compaiono varie forme di scetticismo, a partire dalla discussione agostiniana sulla filosofia accademica. Nel tardo Medioevo il dibattito si concentra su temi particolari che ruotano intorno al modo di concepire l’oggetto della conoscenza e il suo rapporto con la realtà esterna alla mente. La ricerca di un fondamento per il sapere rende particolarmente complesse le discussioni su certezza ed evidenza.
Giovanni di Bassoles
Scienza e teologia
Commento alle Sentenze
Dico dunque brevemente che la teologia non è una scienza, e che è tanto impossibile che essa sia una scienza in senso proprio quanto è impossibile che un uomo sia un asino […]. Dico che è impossibile ottenere delle dimostrazioni teologiche relativamente alla Sacra Scrittura; e che perciò il fatto che risorgeremo è semplicemente oggetto di fede […]. Alcuni si sforzano di trovare delle dimostrazioni in teologia utilizzando argomenti tratti da altre scienze, come fanno spesso quei dottori che mescolano fisica e teologia. Ma tali argomenti forniscono prove estranee, e non teologiche, e quando vengono impiegati in teologia non rpoducono una dimostrazione scientifica (evidentiam scientialem) il che non è possibile, ma solo un argomento probabile.
in L. Bianchi e E. Randi, Le verità dissonanti, Roma-Bari, Laterza, 1990
Nicola d’Autrecourt
È poi evidente che nel sonno le cose non ci appaiono nella loro immediatezza. Infatti, sebbene qualcuno creda nel sonno di aver visto accampamenti, luci celesti ed altre cose, tuttavia, tutti possono sperimentare, quando sono svegli, che ciò che loro appare mediante la vista è più chiaro ed è di natura diversa; perciò sono maggiormente disposti a concedere il proprio assenso a questo tipo di sensazioni […]. Ora, le sensazioni nelle quali, come ho detto, le cose stanno così come appaiono, sono del tutto chiare, come quando il colore rosso appare a chi guarda attraverso un mezzo non contraffatto, così chiaramente che niente risulta più chiaro. Per questo motivo […] si precisa che doveva trattarsi di una sensazione chiara e ultimamente evidente.
in F. Bottin, La scienza degli occamisti, Rimini, Maggioli, 1982
Agostino d’Ippona
Occhio e intelletto
La vera religione, cap. XXXIII
Ma neppure gli occhi ingannano; essi non sono in grado di far altro che riportare alla mente le loro impressioni […] se qualcuno ritiene che il remo in acqua sia spezzato e che torni integro una volta che ne è tolto, ciò non dipende dal fatto che ha un cattivo organo di senso, ma dal fatto che giudica erroneamente. Data la sua natura, infatti, l’occhio non poteva né doveva vedere diversamente nell’acqua; giacchè, se l’aria e l’acqua sono tra loro differenti, è legittimo che si abbiano percezioni diverse nei due elementi, l’occhio perciò vede in modo corretto; del resto, è stato fatto per questo, soltanto per vedere; chi sbaglia invece è l’anima alla quale […] è stata data la mente, non l’occhio.
Agostino d’Ippona, La vera religione
La discussione sul rapporto tra conoscenza e scetticismo nel XIV secolo implica un giudizio complessivo sulla storia della filosofia medievale. Quanti hanno considerato il Trecento come un’epoca di esaurimento intellettuale e di dubbio generalizzato, dopo il periodo delle grandi sintesi filosofiche e teologiche del secolo precedente, hanno visto lo scetticismo di questo periodo come l’elemento destinato a mettere in crisi la sintesi di ragione e fede, di aristotelismo e pensiero cristiano.
Tuttavia richiami alla tradizione scettica appaiono in differenti momenti del pensiero medievale: nel XII secolo in Giovanni di Salisbury, che si dichiara seguace del probabilismo accademico e, prima ancora, in Agostinoche è la fonte principale, insieme a Cicerone, da cui i pensatori medievali apprendono le dottrine dello scetticismo antico (il termine scepticus non compare prima degli anni Trenta del XV secolo, mentre in precedenza si utilizza il termine academicus).
In nessun pensatore medievale si riscontra uno scetticismo radicale, dogmatico, che neghi ogni possibilità di conoscenza, mentre emergono invece forme di scetticismo critico che aprono discussioni sui limiti e le possibilità della conoscenza umana, sul problema del fondamento e sul concetto di probabile come ambito all’interno del quale condurre una ricerca aperta a continui approfondimenti, quasi si trattasse – secondo alcuni studiosi – di una forma di modestia intellettuale più che di scetticismo vero e proprio. Nello stesso tempo la forma critica di dubbio scettico consente di limitare ogni tentativo assolutizzante della ragione e ogni costruzione metafisica che si proponga come definitiva e comprensiva della realtà e della verità.
Un tratto caratteristico della riflessione filosofica trecentesca è l’attenzione al carattere contingente della realtà e ai compiti dell’uomo considerato nella sua finitudine individuale. La conoscenza non è più circoscritta alle verità universali e necessarie, ma indirizzata verso una maggior considerazione delle realtà particolari e contingenti. In quest’ambito, risulta sicuramente significativa la distinzione proposta da Duns Scoto tra notitia intuitiva e abstractiva: un’articolazione di piani conoscitivi che permette di apprendere la realtà nella sua presenza individuale e nella sua attuale esistenza (notitia intuitiva) senza per questo perdere la possibilità di raggiungere, secondo un’altra modalità conoscitiva, un concetto universale (notitia abstractiva). A fianco di una teoria dell’astrazione delle forme universali dalla materia, tipica della tradizione epistemologica aristotelica del XIII secolo, Duns Scoto privilegia invece una forma di conoscenza che, nel contesto delle riflessioni francescane sul valore dell’esperienza sensibile e del recupero del pensiero neoplatonico e di Agostino, permette un contatto diretto e immediato con la realtà.
La distinzione tra notitia intuitiva e notitia abstractiva viene ripresa, criticata e modificata da alcuni autori del XIV secolo, come Pietro Aureolo, Guglielmo di Ockham, Walter Chatton e Adam Wodeham, protagonisti di dibattiti volti a chiarire alcuni aspetti problematici della conoscenza. Una prima questione fondamentale riguarda la relazione che si instaura tra soggetto e oggetto del conoscere, ossia, in primo luogo, se l’oggetto venga recepito passivamente dal soggetto conoscente oppure si possa attribuire all’anima qualche forma di attività nella conoscenza sensibile e, in secondo luogo, se sia necessario ricorrere a una rappresentazione che riproduce nella mente la forma dell’oggetto conosciuto oppure si possa evitare il ricorso a qualsiasi intermediario.
Il tentativo di comprendere se nel processo conoscitivo il rapporto tra soggetto e oggetto richieda la presenza di intermediari apre inevitabilmente un ulteriore ambito problematico: che cosa gli autori tardo medievali intendano per oggetto in quanto conosciuto e quale sia il suo statuto ontologico. In Aureolo e Ockham si rende evidente la volontà di eliminare ogni considerazione dell’oggetto conosciuto come riproduzione, duplicato, copia dell’oggetto reale. Per Aureolo, ad esempio, una cosa, quando viene conosciuta, acquisisce un essere apparente e intenzionale (esse apparens o esse obiective); per cui risulta non un’altra cosa rispetto all’ente reale (ad esempio una immagine che lo rappresenta) ma la medesima cosa nel suo essere conosciuta. Dopo una prima teoria in cui pare propendere per l’attribuzione di uno stato rappresentativo sui generis ai concetti universali (ficta), spinto anche dalle critiche di Walter Chatton, Guglielmo di Ockham giunge a una teoria secondo la quale l’oggetto conosciuto, il concetto, non è in alcun modo assimilabile a un’immagine; esso è inteso piuttosto come un segno linguistico che esprime la sua proprietà principale nella capacità di rimandare ad altro da sé, ossia nel condurre immediatamente (sine notitia) alla cosa reale di cui è segno, all’interno di una proposizione mentale. I concetti sono, dunque, sia i termini del linguaggio mentale sia gli atti mentali stessi che si riferiscono alle cose. Nel processo, immediato e naturale, che lega mente e realtà, il rasoio di Ockham non ammette alcun ente intermedio di carattere rappresentativo.
Gli strumenti principali con cui il soggetto conosce la realtà esterna, ossia i sensi, sono messi in discussione da un punto di vista particolare. Il problema è di valutare se la sensazione possa essere intesa come testimonianza certa di conoscenza, in quanto costituisce il momento iniziale di ogni indagine conoscitiva. La possibilità di cadere in forme di scetticismo, relativismo conoscitivo, soggettivismo diventa il metro con cui gli autori di cui si sta parlando valutano le loro teorie della conoscenza che dovrebbero offrire un accesso garantito alla realtà e, nello stesso tempo, rendere conto delle esperienze che testimoniano del fatto che i sensi ingannano, ossia delle esperienze decettive, delle illusioni e degli errori dei sensi.
È significativo osservare come esperienze di questo tipo vengano interpretate in modo differente; Aureolo se ne serve proprio per mostrare la natura peculiare dell’oggetto conosciuto (esse apparens), cioè il suo essere intenzionale e per sottolineare che l’intuizione di un oggetto reale (notitia intuitiva) prescinde dalla presenza reale dell’oggetto (notitia evidens). Per altri invece, come Ockham (e in parte Wodeham), le esperienze di illusione percettiva dipendono da un errore di giudizio, e in particolare da scorrette inferenze logiche che, opportunamente corrette, impediscono all’intelletto di accordare il proprio assenso ad accadimenti erronei. Talvolta è l’immaginazione a venire considerata causa delle illusioni dei sensi, come accade per Chatton. Questi autori non solo recuperano gli esempi di decezione, illusione ed errore dai testi agostiniani, in particolare dal De trinitate, ma se ne servono anche, come Agostino, non per certificare un caso di errore percettivo e quindi di inganno dei sensi, ma per rendere espliciti aspetti – la presenza di un’immagine impressa nel senso, la natura dell’oggetto conosciuto, l’attività dell’immaginazione – che non risultano evidenti durante il normale processo della visione sensibile.
Come emerge dai problemi considerati, la riflessione sulla conoscenza si orienta, nel XIV secolo, lungo alcune linee fondamentali. Si tratta in primo luogo di ridefinirne la forma e i caratteri, all’interno di un progressivo tentativo di semplificarla e di ridurla agli elementi costitutivi, così da permettere un contatto diretto tra il soggetto e l’oggetto del conoscere. Si tende a privilegiare l’ente concreto nella sua individualità e contingenza e a pensare quindi che l’oggetto materiale e singolare venga percepito e appreso non più attraverso mediazioni concettuali o per speciem.
Ogni forma di mediazione conoscitiva viene intesa come una possibile sospensione della relazione tra atto conoscitivo e oggetto reale, che apre la questione di un rinvio all’infinito del referente degli atti mentali e quindi rende possibili esiti scettici. Questo tipo di atteggiamento viene alimentato, in particolare con Ockham, dalle discussioni che nascono intorno alla conoscenza intuitiva del non esistente causata o conservata in modo naturale o per diretto intervento divino (il riferimento in questo caso è alla possibilità di Dio di agire de potentia absoluta che si distingue da quello de potentia ordinata). È tuttavia importante ricordare che il problema della conoscenza del non esistente si muove su due diversi livelli di discorso: da un lato la possibilità di conoscere come esistente qualcosa che non esiste, dall’altro la formulazione di giudizi di non esistenza.
Di fronte al rischio di cadere in forme di scetticismo radicale si cerca un fondamento sicuro su cui costruire l’edificio del sapere. Si rende evidente la necessità di trovare un nuovo criterio di certezza oltre a quello assicurato dalla logica, perché l’oggetto della conoscenza non è più solo l’esito di un’argomentazione deduttiva ma qualcosa che esiste in un tempo e in uno spazio determinato. L’uso della logica aristotelica viene messo in discussione in ambito teologico attraverso la ricerca di una forma logica non aristotelica (la cosiddetta logica fidei) alternativa e differente; si fa strada a partire dalle riflessioni di Duns Scoto e degli autori a lui successivi l’impossibilità di una teologia scientifica e si propone un nuovo modello di razionalità che consenta alla teologia di affermare la propria autonomia e indipendenza dalla filosofia e di ridefinire il proprio fondamento epistemologico.
Anche rispetto alla conoscenza scientifica si approfondisce il problema di quanto le strutture logiche e conoscitive consentano di cogliere la realtà, in un contesto che tende progressivamente ad accentuare il carattere linguistico e proposizionale di questo tipo di sapere. A partire dalla posizione di Ockham, che vede nella proposizione (complexum) l’oggetto diretto della scienza, si sviluppano nella prima metà del XIV secolo in Inghilterra e in Francia dibattiti filosofici sull’oggetto della conoscenza scientifica, volti a chiarire il legame tra linguaggio e realtà esterna. Alcuni, come Ockham e Robert Holkot, identificano l’oggetto della scienza con la proposizione, ossia in generale con la struttura linguistico-mentale in cui la conoscenza si organizza; alcuni lo identificano con la realtà extra animam e propongono una dottrina realista come Chatton; altri infine, come Wodeham e soprattutto Gregorio da Rimini, tentano di trovare una via intermedia tra proposizionalismo e realismo, identificando l’oggetto della scienza con il significato della proposizione (complete significabile) distinto sia dalla proposizione sia dalla realtà esterna.
L’evidenza e la certezza divengono quindi problemi centrali della filosofia trecentesca; di fronte ai cambiamenti apportati alle teorie della conoscenza e all’ambito della scienza, lo sforzo di assicurare un legame tra pensiero, linguaggio e realtà porta a conferire valore sempre maggiore alla conoscenza empirica, elevando la sensazione e in particolare la visione a fonte principale di conoscenza certa ed evidente.
Proprio questo accade con Pietro Aureolo e Nicola d’Autrecourt, per i quali l’ambito dell’esperienza certa ed evidente è costituito da ciò che i sensi colgono come apparere in pleno lumine o apparentia plena. È significativo notare questo aspetto in un pensatore come Nicola d’Autrecourt, a lungo interpretato dalla storiografia come un rappresentante dello scetticismo tardo medievale per la sua critica ai principi fondamentali della metafisica aristotelico-tomista, come il principio di causa, di sostanza e di finalità. Restringendo l’ambito della conoscenza evidente solamente all’esperienza diretta dei cinque sensi (conoscenza intuitiva), al principio logico di non contraddizione e alle proposizioni a esso riconducibili, Nicola sottolinea come il nesso causa-effetto, ad esempio, non presenti mai un aspetto analitico né si dia come dato dell’esperienza sensibile: si conosce solamente la congiunzione di più fatti grazie al formarsi di un habitus conjecturativus.
Le cose esteriori vengono conosciute perché appaiono come sono realmente e questo loro apparire consente di formulare giudizi sulla realtà esterna. Nicola, sottolineando il forte legame tra apparenza, verità e certezza, mette sullo stesso piano apparire e conoscenza sensibile, a cui affida la funzione di far conoscere l’oggetto come qualcosa realmente esistente nel mondo esterno.