Conoscenza informatica della giurisprudenza e privacy
Principi della CEDU e della Costituzione impongono di dare pubblicità alle decisioni giudiziarie mediante archivi pubblici. La macchina decisoria, impossibile da conoscere per via deduttiva, diventa più prevedibile con la conoscenza delle decisioni già adottate, specie nell’era dei big data. L’esigenza di pubblicità trova un limite nella privacy delle parti; nel 2018 il GDPR (General Data Protection Regulation) e il regolamento di adeguamento mutano solo apparentemente il quadro normativo di riferimento. Iniziative del Ministero e del C.S.M. ancora non realizzate, vanno invece nella direzione di pubblicare alcune soltanto delle decisioni, mentre incertezze sulla competenza a decidere, in assenza della nomina dei DPO (Data Protection Officer), aumentano le difficoltà nella realizzazione di archivi giurisprudenziali massivi; sul portale servizi telematici del Ministero della giustizia, ve ne è uno, ma solo parziale.
Vi è chi ha visto nel diritto una macchina, dal Leviatano di Hobbes passando per Max Weber, che parla di calcolabilità del diritto, e poi a Kelsen che ci vede una «specifica tecnica sociale» e, in letteratura, Kafka1; macchina, per i suoi determinismi, fondati su deduzioni logiche, proprio per questo a volte disumananti. L’esperienza è tuttavia che, tanto per le qualità dei testi normativi che per il necessario pluralismo nelle interpretazioni, il diritto sia ben lontano da quella calcolabilità di cui parlava Max Weber ed è ficcante la notazione di Giovanni Tarello per cui «che da enunciati intesi come norme derivino abitualmente significati univoci non contraddittori, nell’ambito di una società-ordinamento, può essere vero per piccole comunità isolate che non conoscono mutamenti sociali, come una tribù del Mato Grosso o come il Monte Athos; ma certo non vale per gli ordinamenti giuridici moderni»2.
Dunque, se la interpretazione ha anche un significato prescrittivo, le decisioni del giudice partecipano alla creazione dell’ordinamento e la conoscibilità di queste decisioni deve equipararsi alla necessaria conoscibilità delle norme stesse: costituisce un diritto inalienabile, collegato alla norma applicata. In altre parole la decisione giudiziaria è un atto che fa parte di un sistema giuridico e in quanto tale deve essere conosciuto, anche per essere in qualche modo prevedibile. Inoltre la conoscenza delle decisioni – di tutte o del maggior numero di esse – consente, specie con i moderni metodi di elaborazione della conoscenza portate dall’informatica, di ricostruire per via induttiva quella calcolabilità del diritto che, come si è visto, è stata criticata quando ipotizzata per via deduttiva.
La prescrizione dell’art. 6 CEDU per cui la sentenza va resa pubblicamente, va costruita non solo come tutela delle parti, ma anche come garanzia di interessi generali alla correttezza della giurisdizione e alla conoscibilità dell’ordinamento3.
Una analisi OSCE del 20084 sull’accesso alle decisioni giudiziarie ha concluso che la pubblicità dei provvedimenti è parte essenziale del giudizio pubblico e non è raggiunta se può accedere ai testi solo una categoria di cittadini, individuando nelle tecnologie la strada principale di conoscenza.
Una banca dati delle decisioni completa e accessibile tutela anche altri interessi costituzionali, quali la parità delle parti e la motivazione dei provvedimenti.
Sotto il primo profilo è sempre più chiaro, con le più recenti tecniche di analisi dei dati, che la conoscenza del precedente del giudice cui è affidata la decisione, o dei giudici dello stesso tribunale o che trattano quella materia, costituisce elemento di possibile previsione dell’andamento del processo. Poiché una delle parti potrebbe per la sua qualità avere maggiore accesso a queste informazioni – si pensi alle banche o alle grandi società con un rilevante contenzioso specifico – la parte che dispone di minori informazioni si trova in situazione dispari: un singolo attore processuale privo di accesso ai casi consimili intentati con la controparte è pregiudicato rispetto a chi può conoscere assai meglio orientamenti e decisioni della autorità giudiziaria, proprio perché emessi nei suoi confronti. L’informatizzazione della giustizia, ove le decisioni sono testi informatici trattabili, accentua questa disparità, la quale può essere ovviata soltanto assicurando quel che già prevede il c. privacy, cioè la completa disponibilità della giurisprudenza, anche di merito, tramite Internet. Con riguardo alla motivazione, poiché oggi l’art. 118 disp. att. c.p.c. consente di «esporre le ragioni giuridiche della decisione anche con riferimento a precedenti conformi»5 la conoscibilità delle decisioni precedenti tocca il principio di cui all’art. 111, co. 6, Cost. Anche quando si faccia riferimento a clausole generali quali la buona fede o l’equità contrattuale, la conoscenza di precedenti casi consimili assicura la coerenza interpretativa dell’organo giudicante, oltre a contribuire alla prevedibilità della decisione e anche a tal fine è la generalità delle decisioni che interessa, non una sola, quand’anche magnifica.
Per questa somma di ragioni il c. privacy afferma il dovere di pubblicare le decisioni giudiziarie, sul sito delle singole autorità giudiziarie, cui corrisponde il diritto del cittadino di conoscere, per altro ancora irrealizzato. In tal senso è puntuale e letterale la previsione dell’ult. co. dell’art. 51: «le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale delle medesime autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste nel presente capo»6. Lo stesso decreto prevede alcune limitazioni alla pubblicabilità dei dati identificativi degli interessati, nel successivo art. 52, ma conclude poi all’ult. co. di tale disposizione che «fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali». Così pure è prevista la accessibilità «mediante reti di comunicazione elettronica» dei dati identificativi delle questioni pendenti innanzi all’autorità giudiziaria. Se ne deduce che la generalità è la pubblicazione integrale, con i dati identificativi, dei provvedimenti giudiziari, anche sulla rete Internet, mentre le eccezioni sono quelle tipizzate dall’art. 52, e solo quelle poiché il capo 3 sulla informatica giuridica, del c. privacy è composto dai soli artt. 51 e 527.
Il Garante per la privacy ha stabilito linee guida in materia di trattamento dati personali nella riproduzione dei provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica, il 2 dicembre 20108. Questo provvedimento pare ampliare rispetto a quanto qui sostenuto gli obblighi di riservatezza, parlando di un dovere di oscuramento nei provvedimenti giudiziari che contengano i dati sensibili di cui all’art. 4, co. 1, c. privacy (quali la salute o l’orientamento sessuale), richiamando l’art. 26, co. 4, c. privacy, secondo il quale il diritto alla riservatezza su questi aspetti può essere sacrificato soltanto in virtù di diritti di rango almeno pari o di libertà fondamentale inviolabile. Come sopra visto nella pubblicazione della giurisprudenza sono però ravvisabili diritti costituzionali. Per questo l’art. 52, co. 2, c. privacy, cui pure si rifà il Garante, richiama la possibilità di apporre la annotazione relativa alla mancata menzione dei dati personali degli interessati, ma a tutela di loro diritti o dignità e su loro richiesta: non si tratta quindi di un dovere pubblico di anonimizzazione generale, ma di un diritto delle parti singole.
Va considerato che l’interessato potrebbe avere, anche in quelle materie indicate dal Garante, interesse alla pubblicazione della decisione, per esempio quando si tratti di rivendicare diritti di categorie discriminate in relazione all’inclinazione sessuale, ovvero di affermare diritti di persone sofferenti di particolari malattie.
Sembra quindi criticabile la indicazione del Garante, dovendosi riconoscere che anche in queste delicate materie il metro migliore è pur sempre quello dell’interessato, poiché la privacy non rientra fra i diritti indisponibili della persona.
È importante stabilire i limiti della anonimizzazione dovuta, rispetto a quella facoltativa o dovuta solo su richiesta della parte, poiché la diffusione della giurisprudenza, riconosciuta come diritto, necessita di limiti certi, per non esporre l’attività di pubblicazione a rischi e timori non ben definiti.
Appare chiaro dalla lettura del c. privacy il diverso trattamento riservato ai dati giudiziari rispetto ai dati sensibili ordinari, proprio perché nell’attività giurisdizionale vengono in questione interessi alla pubblicità ben diversi da quelli di altre attività, quali possono essere l’assistenza, la cura, l’erario. Perciò il c. privacy ha una sezione apposita sui dati giudiziari e perciò le norme degli artt. 51 e 52, sull’informatica giudiziaria, si pongono come eccezioni al regime generale.
Va rimarcato che l’unica pronuncia della Corte di cassazione9 circa la pubblicazione di dati personali in una banca dati giudiziaria è contraria all’orientamento qui espresso, applicando l’art. 22 c. privacy, sui dati cd. sensibilissimi e cioè quelli in materia di salute, anche ai provvedimenti giudiziari pubblicati sui siti istituzionali della autorità decidente10. La sentenza richiama le linee guida del Garante sopra esaminate e non affronta il tema della comparazione degli interessi del privato con quello pubblico alla divulgazione delle decisioni giudiziarie. In realtà l’art. 22 c. privacy pare riferirsi non tanto ai provvedimenti giudiziari, quanto ai registri, al trattamento cioè propriamente detto di dati, mediante database: ai registri di cancelleria più che alla pubblicazione dei provvedimenti. La materia e la decisione appaiono comunque da rivedere alla luce della intervenuta abrogazione dell’art. 22, ad opera del d.lgs. 10.8.2018, n. 10111. Nel giudizio di prevalenza fra l’interesse alla privacy e la giurisdizione e a ciò che ne consegue, come la pubblicazione, va tenuto presente che l’art. 9 del recente GDPR12 stabilisce esclusioni dal divieto di trattamento dei dati cd. sensibilissimi, quando sia «necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali». In altre parole: se una persona agisce in giudizio non resta nella propria sfera privata, ma coinvolge sempre una sfera pubblica.
All’esigenza di pubblicità della giurisprudenza si contrappone il diritto alla riservatezza delle parti, riconosciuto dall’art. 8 CEDU come parte del rispetto della vita privata: è da notare tuttavia che la medesima disposizione consente l’ingerenza nella privacy «prevista dalla legge» qualora necessario per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri. Adempiuta la riserva di legge di cui al detto art. 8, con le previsioni degli artt. 51 e 52 c. privacy, va rilevato come la pubblicazione delle decisioni dell’autorità giudiziaria attenga alla giurisdizione, nel senso più sopra rilevato, ed alla sua pubblicità posta a protezione di diritti e libertà di tutti.
L’art. 6 CEDU prevede delle deroghe alla pubblicità delle decisioni in vista di interessi che sono la moralità e l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, gli interessi dei minori e la protezione della vita delle parti in causa, con una clausola di chiusura per i casi, ritenuti dal tribunale, di circostanze speciali che possono ledere gli interessi della giustizia. Le eccezioni previste dalla normativa italiana sono più ristrette ed attengono il coinvolgimento di minori, previsto anche dalla CEDU, nonché i procedimenti in materia di rapporti di famiglia o di stato delle persone13. A questi casi di omissione obbligatoria dei dati si aggiunge sempre la richiesta della persona interessata, lasciando quindi ai singoli soggetti la scelta di comparire o meno con i propri dati nella pubblicazione dei provvedimenti14. Va piuttosto rilevato come siano sostanzialmente divenute obsolete, almeno per il processo civile, le modalità di anonimizzazione del c. privacy, il quale prevede che sull’originale del provvedimento sia apposta un’annotazione che precluda l’indicazione delle generalità e dei dati identificativi «in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento»: ciò presuppone un originale cartaceo, mentre oggi la gran parte dei provvedimenti di merito sono documenti informatici firmati, difficilmente annotabili.
Il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali15 e il 4 settembre 2018 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto di adeguamento16, senza variare la situazione normativa precedente per la parte che interessa le decisioni giudiziarie, anche se in generale sono mutate sanzioni, responsabilità e quadro di riferimento. Unica variazione è stata quella di eliminare la specificazione della finalità di informazione giuridica per le riproduzioni delle decisioni da emendare, per cui oggi l’obbligo prescinde dalla finalità, il che sembra opportuno se si vuole effettivamente tutelare la privacy delle parti17. Resta quindi confermato il precedente dovere di dare pubblicità alle decisioni dell’autorità giudiziaria, anche tramite Internet, salva manifestazione contraria degli interessati e salvi il coinvolgimento di minori e le materie dei rapporti di famiglia e stato delle persone. Si deve casomai rilevare che il regolamento europeo prevede delle eccezioni ai doveri di riservatezza in presenza di interessi pubblici di rilievo, quali quello alla conoscenza della giurisprudenza.
Il decreto ministeriale sulla organizzazione dell’ufficio per il processo18 si occupa in buona parte dei tirocini dei neolaureati presso gli uffici giudiziari; poi all’art. 7 prevede una banca dati della giurisprudenza di merito che avrebbe dovuto debuttare il 31 dicembre 2016 assicurando «la fruibilità dei dati in essa contenuti su base nazionale», con un periodo di sperimentazione di un anno. Ad oggi non esiste questo archivio.
I presidenti della corte d’appello e dei tribunali avrebbero dovuto stabilire i criteri per la selezione dei provvedimenti, avvalendosi poi, per lo screening del materiale, dei tirocinanti e dell’ufficio del processo.
Questo schema di banca dati “antologica” è stato poi ripreso dal Consiglio superiore della magistratura. L’archivio della Corte di cassazione, tenuto dal Centro elaborazione dati della Corte (CED), con il sistema Italgiure, aveva in origine, accanto agli archivi di legittimità, una sezione di merito alimentata tramite uffici periferici che identificavano, massima vano e inserivano provvedimenti specifici; era impossibile ai tempi pubblicare tutti i provvedimenti, come poi avrebbe invece previsto l’art. 51 c. privacy.
Per la difficoltà di reperire provvedimenti e di stabilire criteri uniformi di selezione, la sezione del cosiddetto sistema Italgiure dedicata al merito è stata abbandonata.
Con delibera del 31 ottobre 201719, d’accordo con il CED, il C.S.M. ha stabilito linee guida per ricostituire una banca dati della giurisprudenza di merito gestita tramite Italgiure-Web. Successivamente con delibera 9 maggio 201820 si è provveduto a ulteriormente definire queste linee guida, stabilendo l’opera di alcuni referenti dell’archivio di merito (acronimo RAM) incaricati di raccogliere in ciascun distretto i provvedimenti civili e penali da inserire, identificabili tramite i criteri fissati dalla delibera.
L’impostazione è simile a quella del decreto del Ministero della giustizia 1.10.2015, ma è più definita la organizzazione; nel 2018 si è arrivati solo alla fase di individuazione dei referenti.
Le delibere fanno riferimento anche a questioni di privacy, al § 3, riservando ai soli magistrati la consultazione e rinviando ad una fase successiva l’eventuale apertura ad ulteriori utenti.
Peraltro lo stesso C.S.M. con successiva delibera del 12 settembre 201821 ha espunto il riferimento alla necessità di minimizzare la possibilità che i dati personali figurino nell’archivio delle decisioni, perché questo sarebbe inizialmente riservato ai soli magistrati.
Tale modifica in realtà prende atto che i dati personali nelle decisioni possono non essere mascherati e quindi dell’esistenza di un interesse alla loro conoscibilità: se fossero non divulgabili in assoluto non avrebbe senso consentirne la conoscenza ai soli magistrati.
In effetti i casi giudiziari per tradizione, specie anglosassone, sono noti con il nome delle parti, senza che nessuno se ne sia mai lamentato22.
Organi quali il Ministero della giustizia o il C.S.M. hanno sicuramente interesse alle raccolte giurisprudenziali ed hanno voce in capitolo nella produzione dei documenti giudiziari, nella loro raccolta; non possiedono tuttavia le professionalità e l’esperienza per essere editori, per organizzare cioè il sapere contenuto nelle decisioni giudiziarie, collegarle, trovare il modo migliore per offrirle come materiale culturale. Esula dalle loro normali competenze. Si tratta oltretutto di un gran numero di documenti annualmente prodotti, in relazione logica complessa fra loro. Complessa è dunque l’opera di chi si appresti a rendersi sostanzialmente editore della giurisprudenza, pur secondo criteri prefissati, quali quelli delle delibere C.S.M. Il codice della amministrazione digitale indica invece la strada del riuso, cioè di dare la disponibilità di dati, nella specie le decisioni, in formato riutilizzabile per una successiva libera attività di edizione, o solo per la consultazione degli interessati23. Ciò spiega probabilmente il sostanziale fallimento dell’archivio di merito di Italgiure, ai tempi, la mancata realizzazione del decreto ministeriale e le odierne difficoltà del C.S.M., dove siamo poco oltre alle linee guida, con già modificazioni a pochi mesi dalla approvazione del primo documento. Modificazioni che cadono proprio su uno dei nodi ancora irrisolti e cioè la anonimizzazione o meno dei provvedimenti da pubblicare, sul quale le scelte appaiono ancora incerte, nel dubbio fra archivi riservati a categorie di utenti o aperte al pubblico di Internet, sulla tecnologia e sul quantum dovuto in tema di anonimizzazione. In questo non è chiarissimo il Garante, che sembra applicare ai documenti una norma, l’art. 22 c. privacy, in realtà destinata al governo dei dati, ad impedire canali di ricerca e trattamenti che consentano di raccogliere informazioni ritenute sensibili. Le interpretazioni lasciate a magistrati capi degli uffici, normalmente estranei alle problematiche di privacy e di dati informatizzati, non possono che essere superficiali ed effettivamente mutevoli, come dimostra il revirement dello stesso C.S.M. a distanza di pochi mesi.
Mentre i privati si dotano, anche nell’interesse di terzi, di professionalità dedicate e responsabilizzate sui temi della privacy, i cd. DPO, Data Protection Officer, figura prevista dal GDPR, ciò non è ancora avvenuto rispetto ai dati giudiziari, il che aumenta le incertezze. A questo si aggiunge il problema del doppio governo, cioè della necessaria collaborazione fra uffici giudiziari e Ministero della giustizia, per l’art. 110 Cost., che rende complesso capire a chi spetti la nomina. La scelta del DPO appare comunque difficile perché, laddove si trattasse di un responsabile interno, deve essere dotato della necessaria autonomia e competenza: il personale del Ministero è necessariamente vincolato gerarchicamente, mentre i magistrati non hanno competenza né potere sui sistemi. Laddove invece si optasse per uno o più responsabili esterni, si dovrebbe procedere comunque a gara o appalto, reperendo le relative risorse finanziarie. La delibera del C.S.M. mostra di ritenere la titolarità dei dati attribuita ai capi degli uffici, nel momento in cui richiede il consenso di questi per la disponibilità dei provvedimenti; ciò non è però così chiaro dal d.m. 27.4.2009 sui registri informatizzati e sui dati giudiziari. Le scelte sull’oscuramento del singolo provvedimento ex art. 52 c. privacy sono poi di competenza dell’autorità giudiziaria, mentre la delibera del C.S.M. sovrappone proprie indicazioni. Anche questo mostra come il sovrapporsi di competenze contribuisca alle incertezze.
Le incertezze quanto alla anonimizzazione e perfino in capo a chi deve incaricarsi della pubblicazione della giurisprudenza si riflettono sulla difficoltà di individuare uno strumento idoneo. Nel processo civile telematico è da sempre presente un archivio giurisprudenziale, in origine alimentabile dalla cancelleria; poi è stata inserita una automazione che consente la scelta al magistrato. Questo archivio costituisce attuazione delle regole tecniche sul processo telematico, di cui all’art. 6, co. 6, d.m. 21.2.2011, n. 44, che stabilisce che siano accessibili le raccolte giurisprudenziali tramite il portale dei servizi telematici del dominio giustizia, senza impiego di credenziali. Poiché le medesime regole tecniche menzionano fra le premesse il decreto sulla privacy, si tratta della attuazione dell’art. 52 più volte citato. Tuttavia questo archivio si raggiunge dall’area riservata del portale, oltre che dai punti d’accesso dei professionisti, ma con credenziali; in ogni caso riporta una parte soltanto dei provvedimenti, senza risolvere il problema della anonimizzazione nei casi dovuti. Infine questo archivio è stato chiuso dal Ministero nel corso dell’anno per circa tre mesi. Si tratta quindi di un servizio che solo parzialmente raggiunge quello scopo di pubblicità delle decisioni affermato dal codice sulla privacy.
I progetti di archivi di provvedimenti fondati su una selezione, come si è visto essere quello del decreto ministeriale sull’ufficio del processo e poi quello dell’archivio di merito del C.S.M., tendono a creare un’antologia che non può che essere soggettiva, affidata alle capacità cognitive di uno o più esseri umani, oltretutto non addetti in specifico a questo compito editoriale, ma prima di tutto giudici, tirocinanti, capi degli uffici giudiziari. Anche scegliendo le menti più eccelse è difficile che un solo giurista possa avere la competenza necessaria nelle materie più diverse del diritto.
In tempi di big data, simili progetti rischiano l’anacronismo: alla analisi dell’uomo oggi può essere sostituita la disponibilità dei documenti per una analisi che sia frutto di una intelligenza collettiva o artificiale, tramite le moderne tecnologie.
Tecniche di analisi informatizzata possono oggi consentire di andare molto oltre la elaborazione dei singoli uomini, ma è necessario che sia analizzato un campione ampio di decisioni, possibilmente tutte, non solo una parte, oggetto di prescelta.
Questo è il senso innovativo degli artt. 51 e 52 c. privacy, purtroppo attuati solo in minima parte.
È chiaro che un’antologia delle decisioni non potrà mai realizzare quei principi di pubblicità e trasparenza dell’attività giudiziaria, di prevedibilità, in funzione anche della deflazione del servizio giustizia, di parità delle parti, che si sono volute sottolineare in apertura e che sono affidate alla accessibilità più ampia possibile delle decisioni del giudice.
Un diritto sempre più giurisprudenziale, ma prevedibile, necessita della conoscibilità degli orientamenti, anche quelli non innovativi o minoritari, stante il necessario pluralismo della giurisprudenza.
Una antologia dei provvedimenti avrebbe senso solo per aiutare la creazione di una macchina giudiziaria deduttiva, per illustrare cioè quelli che si ritengono i meccanismi logici corretti. Si è visto in apertura che vi è un altro senso della pubblicazione della giurisprudenza e cioè ricostruire per via induttiva quali sono i possibili percorsi interpretativi, anche e soprattutto nella loro pluralità. Ipotizzare ed illustrare un rigido determinismo è possibile, come insegna Giovanni Tarello, solo in ordinamenti fermi e chiusi, in comunità isolate e piccole, nelle quali l’evoluzione, anche del pensiero giuridico, possa dirsi sostanzialmente inesistente.
Il problema dunque è scegliere fra questi due orientamenti nella pubblicazione della giurisprudenza: fra il florilegio e i big data.
1 Interessante il sunto di Itzcovich, G., Sulla metafora del diritto come macchina, in Diritto & questioni pubbliche, 2009, 379 ss.
2 La citazione è riportata in Rovelli, L., I processi civili in Cassazione, Milano, 2018, 4.
3 Un diritto da intendersi in senso ampio, comprendendovi l’accessibilità al testo della decisione quando questa non sia resa in pubblica udienza, cfr. C. eur. dir. uomo, 24.11.1997, Szucs c. Austria, Id., 24.11.1997, Werner c. Austria, § 45: secondo le quali il fatto che la decisione sia rinvenibile tramite i registri di cancelleria non garantisce il requisito della pubblicità della decisione di cui all’art. 6 CEDU se «the full texts of the judgements are not made available to everyone».
4 In right2info.org:«The Council of Europe Recommendation of the Committee of Ministers to member states on the delivery of court and other legal services to the citizen through the use of new technologies R (2001) 3 (28 February 2001) is indicative of the general practice of members of the Council of Europe to make court decisions public and the desirability of making accessibility to court decisions as easy as possible to the general public».
5 Riferimento che può anche riguardare sentenze di merito, non comprese dunque nell’archivio informatizzato pubblico della Corte di cassazione, cfr. Cass., 6.9.2016, n. 17640: «La sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai precedenti conformi contenuto nell’art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile».
6 Norma richiamata anche dall’art. 56, co. 2-bis, c.a.d. (codice dell’amministrazione digitale: d.lgs. 7.3.2005, n. 82), che ripete la medesima disciplina.
7 Principi identici sono stati condivisi nella assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile di Reggio Emilia del 2018, il cui documento conclusivo è consultabile in reggiosservatorio.it.
8 Pubblicato in G.U. n. 2 del 4.1.2011.
9 Cass., 20.5.2016, n. 10510, per altro con parere difforme del p.m.
10 Si trattava di sentenze della Corte dei conti pubblicate sul sito istituzionale di questa, in materia di pensioni, ove figuravano dati sanitari delle parti.
11 Si tratta del decreto di adeguamento al GDPR. L’art. 22 c. privacy recitava «I dati sensibili e giudiziari contenuti in elenchi, registri o banche di dati, tenuti con l’ausilio di strumenti elettronici, sono trattati con tecniche di cifratura o mediante l’utilizzazione di codici identificativi o di altre soluzioni che, considerato il numero e la natura dei dati trattati, li rendono temporaneamente inintelligibili anche a chi è autorizzato ad accedervi e permettono di identificare gli interessati solo in caso di necessità». Proprio il fatto che il dato personale fosse interdetto anche a chi, come i tecnici, avrebbe normalmente autorizzazione ad accedervi indica che si tratta di norma destinata ad operare sui dati bruti, cioè sui database, piuttosto che sui documenti.
12 Acronimo di General Data Protection Regulation, reg. (UE) 679/2016.
13 Art. 52, co. 5, c. privacy.
14 Trib. Milano, sez. spec. in materia impresa, ord. 17.3.2016, rg 54522/2015, stabilisce che la anonimizzazione non può essere disposta se richiesta dopo la conclusione della fase cautelare del giudizio, non essendo possibile in via retroattiva; dello stesso tenore Cass. pen., sez. III, 4.7.17, n. 55500.
15 V. supra, nt. 11.
16 D.lgs. n. 101/2018, cit., in vigore dunque dal 19 settembre 2018.
17 Le linee guida del Garante della privacy 2 dicembre 2010, parlavano invece di una limitazione per le sole finalità di informazione giuridica, escludendone per esempio le finalità giornalistiche, che dunque oggi sono coperte dall’obbligo di anonimizzazione.
18 D.m. 1.10.2015.
19 In csm.it.
20 In csm.it.
21 In csm.it.
22 La sentenza sul diritto all’oblio (C. giust., 13.5.2014, C-131/12) è normalmente nota con il nome del ricorrente, Costeja, così quanto si voleva dimenticato, cioè antiche procedure esecutive subite dal ricorrente, ne ha ricevuto nuova notorietà. Quel che realmente offendeva non era la menzione, quanto la ricercabilità.
23 L’art. 50, co. 1, c.a.d. infatti dispone che i dati delle pubbliche amministrazioni siano formati, raccolti, conservati, «resi disponibili e accessibili» con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e «riutilizzazione da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati».