Conoscenza umana tra verità e scetticismo
Nuove idee su un vecchio problema
Che cosa si debba intendere per conoscenza, quali ne siano le fonti e quali i metodi per ottenerla sono questioni che non smettono di occupare la riflessione filosofica. Uno degli stimoli più potenti che continuano ad alimentare tale riflessione è lo scetticismo, ossia la tradizionale posizione filosofica che mette in dubbio la stessa possibilità umana di conoscere. Non di rado sono stati proprio i tentativi di replicare al dubbio scettico – qualsiasi forma abbia di volta in volta assunto – che hanno portato a più mature considerazioni sulla conoscenza e sui suoi requisiti. Un requisito su cui si è molto insistito è costituito dalla verità: che un qualsiasi esempio di conoscenza non possa non essere ‘vero’, e che dunque qualunque analisi della conoscenza non possa non coinvolgere la nozione di verità, è un’idea che ha fatto la sua comparsa sin dall’inizio della riflessione epistemologica. Prima di affrontare i più recenti risultati di quest’ultima, ripercorriamone brevemente le tappe essenziali.
Innanzitutto, occorre sottolineare che vi sono diversi tipi di conoscenza: è dunque bene chiarire su quale tipo verterà la nostra indagine. È diventata infatti consuetudine distinguere tra conoscenza oggettuale, competenziale e proposizionale. La prima si ha quando si conosce qualcosa o qualcuno in modo diretto (per es., «conosco Roma», «conosco Isa»); la seconda quando si sa fare qualcosa (per es., «so guidare»), manifestando una qualche competenza; e la terza quando si sa che una proposizione è vera (per es., «so che l’Italia è una repubblica»). Poiché sia il ‘conoscere x’ sia il ‘conoscere (o sapere) come’ – locuzioni che abbreviano i relativi tipi di conoscenza – possono essere attribuiti a moltissime specie animali, mentre il ‘conoscere che’ sembra essere caratteristica esclusiva del genere umano, ci soffermeremo su quest’ultimo tipo di conoscenza: non è un caso che soltanto in questo tipo si faccia esplicita menzione della verità, evidenziando implicitamente come ragionare sulla verità sia possibile solo a un certo livello di autoconsapevolezza. Quello tipicamente umano.
Che la verità sia coinvolta nella caratterizzazione della conoscenza proposizionale appare evidente sin dagli inizi della tradizione filosofica occidentale, così come evidente appare il fatto che, da sola, la verità non basta a qualificare che cosa tale conoscenza sia. Platone, per es., affermando nel Menone (98a) che «la scienza vale più della retta opinione», e distinguendo perciò opinione vera e conoscenza, mostra che, se per dire in cosa consiste un qualsiasi esempio di conoscenza occorre fare leva sui concetti di opinione e di verità, questi due concetti non sono sufficienti a caratterizzare in toto l’esempio in questione. Ciò che manca è il saper ‘motivare’ la verità di un’opinione, l’essere in grado di fornire una ragione o produrre un argomento che giustifichino quella verità, che mostrino in altre parole che si è autorizzati a sostenere l’opinione in quanto essa esprime una conoscenza autentica. «Conoscenza è l’opinione vera accompagnata da ragione»: così sempre Platone nel Teeteto (201c).
Sin dal tempo di Platone era dunque chiaro che un qualsiasi esempio di conoscenza è costituito da tre componenti: l’opinione (o la ‘credenza’), la verità e la giustificazione. Tre componenti necessarie: se ne scompare anche una sola, si perde la possibilità di qualificare come ‘conoscenza’ una certa particolare credenza. Se non c’è un’opinione, non si ha alcuna base per poter sostenere una conoscenza; se l’opinione che una persona sostiene non è vera, allora questa non può aspirare a esprimere conoscenza, dato che ciò che è falso non dice niente sulla realtà; se la persona possiede un’opinione vera ma non è in grado di giustificare la sua verità, allora difficilmente le si attribuirà conoscenza, perché potrebbe possedere quell’opinione vera per un caso fortuito e non in virtù di procedure conoscitive consapevolmente condotte. Tutte e tre le componenti sembrano dunque essere indispensabili a fini conoscitivi. Piuttosto, la questione – al centro del dibattito nella filosofia contemporanea di matrice analitica a partire fin dagli anni Sessanta del secolo scorso – è se tali componenti, oltre a essere necessarie, siano anche sufficienti per caratterizzare compiutamente ogni possibile esempio di conoscenza. In altri termini, la questione è stabilire se quella che abbiamo appena descritto e che può venir considerata la concezione ‘tradizionale’ di conoscenza (dato che la tendenza a considerare quest’ultima un’opinione vera e giustificata percorre, sia pur con diversi accenti, buona parte della storia della filosofia occidentale) sia valida oppure no. L’alimento più potente che continua a vivificare il dibattito si deve a un breve saggio di Edmund Gettier (Is justified true belief knowledge?, «Analysis», 1963, 23, pp. 121-23), nel quale viene elaborato un esperimento mentale tramite cui si presenta un ‘contro-esempio’ alla concezione tradizionale, ossia un caso di opinione vera e giustificata che, tuttavia, non è considerabile come conoscenza. Tra le innumerevoli reazioni suscitate dal saggio di Gettier, una – recente – sembrerebbe voler mettere fine a circa cinquant’anni di discussione: dato che la maggior parte delle risposte si è orientata verso il tentativo di produrre una ‘definizione’ del concetto di conoscenza proposizionale – ossia una determinazione precisa che circoscriva in modo esauriente e conclusivo il contenuto del concetto –, e dato che tali tentativi hanno a loro volta sollevato più problemi di quanti intendessero risolvere, occorre riconoscere il fatto che il concetto in questione è indefinibile. Questo non vuol dire che sia un concetto vuoto, come vorrebbe certa critica scettica, bensì che il suo contenuto non è prefissato, stabile e presente con le stesse caratteristiche in qualsiasi contesto conoscitivo, un contenuto enucleabile una volta per tutte tramite una definizione: al contrario, il concetto di conoscenza muta continuamente, ampliando o restringendo i propri confini, al mutare della conoscenza stessa.
Se questa è la corretta lezione da trarre da un dibattito che da decenni impegna le migliori energie filosofiche, e se il concetto al centro di tale dibattito coinvolge altri concetti, ne deriva che anche a questi la lezione deve essere estesa. In quel che segue si illustrerà il carattere di incessante apertura dei concetti di conoscenza, verità e giustificazione.
Verità
Anche il concetto di verità figura tra quelli su cui la riflessione filosofica si è concentrata sin dall’inizio, e diversi sono stati i tentativi di definirlo. I primi hanno cercato di fare leva su quella che era destinata a essere la più antica e la più diffusa idea riguardante la verità: che essa consista in una sorta di corrispondenza tra ciò che viene pensato, o detto, e la realtà su cui un pensiero o un enunciato vertono. La difficoltà principale in cui si è imbattuto ogni tentativo di definizione del genere è quella di fornire una caratterizzazione soddisfacente di ciò in cui la corrispondenza in questione consisterebbe. A volte si è fatto ricorso all’idea del ‘rispecchiamento’, sostenendo che veri sono i pensieri e gli enunciati che riescono a riflettere fedelmente l’aspetto della realtà a cui si riferiscono; oppure si è detto che essi sono veri quando riescono ad ‘adeguarsi’ a quell’aspetto, seguendo la scia di una nota tesi intesa a spiegare la verità come una adaequatio intellectus et rei. Tuttavia, è chiaro che rispecchiamento e adeguazione non sono altro che riformulazioni della stessa idea della corrispondenza, e che, come questa, rimangono a un livello puramente metaforico abdicando al compito esplicativo che si era attribuito loro: rispecchiamento e adeguazione hanno bisogno di essere delucidati tanto quanto la corrispondenza. Un’altra difficoltà incontrata dalle teorie corrispondentiste è che vi è una molteplicità di pensieri ed enunciati veri (o che tendiamo a considerare veri) per spiegare la cui verità è difficile, se non impossibile, fare appello alla corrispondenza (o al rispecchiamento o all’adeguazione): è il caso dei cosiddetti enunciati controfattuali (per es., «se possedessi tre milioni di euro sarei ricco»), di quelli di carattere normativo (per es., «ognuno dovrebbe tendere a non danneggiare il prossimo»), o degli enunciati che riguardano situazioni non empiriche (per es., «2+3=5»).
Difficoltà del genere fanno sorgere il sospetto che la definizione del concetto di verità in termini di corrispondenza sia destinata al fallimento. Ciò nonostante, l’idea che il riferimento alla realtà in senso lato sia essenziale alla verità, e che dunque questa coinvolga inevitabilmente una qualche corrispondenza, sembrerebbe essere frutto di un’intuizione da noi tutti condivisa a un livello prefilosofico. È questa intuizione che motiva l’idea antica e diffusa a cui sopra si è fatto cenno – l’idea di ‘fedeltà’, come potrebbe essere chiamata per evitare il più impegnativo ‘corrispondenza’ e per sottolineare il fatto che pensieri ed enunciati sono veri nella misura in cui sono fedeli a come le cose stanno nella realtà. Può essere utile a questo punto notare la differenza tra il tentativo di fornire una ‘definizione’ – che descriva in modo esauriente la natura della verità, fissando una volta per tutte che cosa essa sia –, e il limitarsi a sottoscrivere l’idea di fedeltà senza alcun intento definitorio. Chiariamo intanto perché è la più antica e diffusa.
Si tratta della più ‘antica’ idea sulla verità perché le sue testimonianze risalgono perlomeno a Platone e Aristotele. Nel Cratilo (385b) Platone afferma che il discorso vero è «quello che dice gli enti come sono», mentre il discorso falso è «quello che dice gli enti come non sono»; e così nel Sofista (263b). Aristotele, in un celebre passo della Metafisica (IV, Γ, 1011b), sostiene che «dire che ciò che è non è e ciò che non è è, è falso, mentre dire che ciò che è è e ciò che non è non è, è vero». Le due affermazioni sono sostanzialmente equivalenti: senza dir nulla di definito riguardo alla realtà – che, stando a Platone, è costituita da ‘enti’ o, stando ad Aristotele, rappresenta ‘ciò che è’ –, proprio nella realtà esse individuano il perno su cui deve ruotare il discorso intorno alla verità: un enunciato o un pensiero sono veri (quando lo sono) in virtù di qualcosa di extralinguistico ed extramentale, qualcosa a cui sono connessi e che è responsabile del loro essere veri. Questa non è che un’idea minimale riguardo al concetto di verità, dove il ‘minimalismo’ risiede nella mera indicazione dell’elemento minimo in comune a tutte le concezioni corrette della verità, indipendentemente dalle assunzioni metafisiche ed epistemologiche dalle quali muovono. Come suggerisce l’intuizione prefilosofica accennata sopra, a stabilire ciò che è vero è qualcosa di indipendente dalla mente umana, una sorta di arbitro che in modo imparziale assegna torti e ragioni ai risultati dei nostri ragionamenti: pensieri, enunciati e teorie sono veri per motivi indipendenti dal raggio d’azione della mente umana, slegati da quel che un soggetto (anche collettivo) può stabilire. Sono motivi a cui ciò che è vero deve rispondere, e che appartengono alla realtà nel senso più ampio: quella realtà a cui le due affermazioni di Platone e di Aristotele si riferiscono. Esse sono dunque affermazioni metafisicamente ed epistemologicamente neutrali, compatibili cioè con qualsiasi posizione si sia disposti a sottoscrivere riguardo alla natura ultima della realtà e alla sua relazione con la conoscenza umana.
Oltre a essere il più antico punto di vista sulla verità, l’idea di fedeltà è anche la più ‘diffusa’ perché la si può trovare a più riprese nella storia della filosofia occidentale, arrivando fino ai giorni nostri. Negli anni Trenta del secolo scorso il logico e filosofo polacco Alfred Tarski (1902-1983) l’ha formalmente sintetizzata da un punto di vista logico, più che metafisico o teologico, mediante il seguente schema enunciativo: «x è vero se e solo se p», dove p è una variabile sostituibile con enunciati, x è il nome metalinguistico dell’enunciato che sostituisce p (nome che può essere ottenuto semplicemente racchiudendo l’enunciato tra virgolette), e «se e solo se» è il connettivo bicondizionale che indica un’equivalenza tra ciò che lo precede e ciò che lo segue (per es., «‘la neve è bianca’ è vero se e solo se la neve è bianca»). Affermare un enunciato è pertanto logicamente equivalente ad affermare che è vero; e viceversa: affermare che un enunciato è vero equivale ad affermare che c’è qualcosa che rende conto della sua verità, qualcosa che può essere indicato solo usando quello stesso enunciato. Lo schema enunciativo tarskiano (da Tarski chiamato Convenzione V ed esprimibile, senza fare distinzione tra livelli di linguaggio, anche come «è vero che p se e solo se p», schema che è stato battezzato tesi di equivalenza) eredita il contenuto delle due affermazioni di Platone e Aristotele, e si qualifica anch’esso come metafisicamente ed epistemologicamente neutrale: per ripetere, uno schema condivisibile da qualsiasi concezione della verità indipendentemente dalle assunzioni sulla realtà e sulla conoscenza che si possano eventualmente sottoscrivere.
Alla luce delle vicende che hanno caratterizzato il dibattito secolare sulla verità, l’idea di fedeltà espressa dalla tesi di equivalenza sembrerebbe tutto quello che è lecito conservare delle varie posizioni che si sono confrontate all’interno del dibattito stesso, dato che nessuna definizione del concetto è riuscita a guadagnare un consenso vasto e duraturo – nemmeno quella che ha tentato di portare l’idea di fedeltà al livello di una definizione esplicita: la teoria corrispondentista. Verso tutti i tentativi di definire un concetto così centrale per l’esistenza umana in generale, infatti, sono state avanzate obiezioni di tale portata (Künne 2003; Volpe 2005) da indurre a concludere che la scarsa unanimità registrata da quei tentativi si deve al fatto che il concetto di verità sia – contrariamente a quanto per secoli ritenuto – indefinibile. Se questo è il corretto insegnamento ricavabile da oltre due millenni di storia della filosofia, almeno due sono gli atteggiamenti che si possono assumere nei suoi confronti: il primo consiste nel sostenere che il concetto di verità è indefinibile perché vuoto; il secondo perché primitivo.
A sostenere la tesi secondo cui il concetto di verità è vuoto vi è una schiera di filosofi riuniti sotto il nome di deflazionisti. Il deflazionismo va inteso qui in senso etimologico: quello che rimanda all’idea di ‘sgonfiamento’ (Horwich in The nature of truth, 2001). Stando a questa tesi, nel corso della storia della filosofia il concetto di verità è stato indebitamente ‘gonfiato’ da pensatori che al suo interno hanno creduto di scorgere tratti come la corrispondenza, la coerenza, l’utilità pragmatica (e via dicendo per ogni tratto su cui si è ritenuto di imperniare l’analisi della verità), quando invece non vi è nulla che costituisca il contenuto di un simile concetto. Ciò che dunque occorre fare è prendere atto del modo in cui l’analisi del concetto di verità si è svolta, e porvi riparo sgonfiando il concetto e riportandolo alle sue reali dimensioni: quelle di un concetto vuoto. Ecco perché il concetto è indefinibile: perché non vi sarebbe nulla da definire. Va da sé che se un concetto è vuoto, allora è inservibile: è un ‘non-concetto’ che non figura all’interno del nostro schema concettuale complessivo. Secondo il deflazionismo, pertanto, l’intera analisi della verità si riduce all’analisi dell’uso del suo rappresentante sul piano del linguaggio, ossia l’aggettivo vero (e, per converso, dell’aggettivo falso). Così facendo la tesi di equivalenza – principio fondamentale a guida dell’uso di vero – assume un’importanza centrale: anzi, Paul Horwich (n. 1947) afferma che l’unica plausibile teoria della verità non può consistere in nient’altro che in un elenco di esempi di questa tesi, un esempio per ciascun enunciato del linguaggio naturale considerato (si tratterebbe dunque di una lista infinita a causa della possibilità di esprimere un’infinità di enunciati in un linguaggio).
Tuttavia, la tesi secondo cui il concetto è vuoto non sembra trovare adeguato riscontro né nelle nostre intuizioni prefilosofiche sulla verità, né nelle relazioni tra i concetti appartenenti al nostro sistema concettuale complessivo. Oltre a ciò, non è questa l’unica posizione filosofica da assumere una volta arrivati alla conclusione che il concetto di verità è indefinibile. Molto più plausibile sembra l’idea secondo cui abbiamo qui a che fare con un elemento primitivo, ossia qualcosa di talmente fondamentale nel nostro sistema concettuale che nessun altro concetto può essere utilizzato per definirlo (è questo il convincimento di autori quali Donald Davidson, David Wiggins, Ernest Sosa). Se, infatti, esistessero uno o più concetti tramite cui definire quello di verità, questo non sarebbe un concetto base. Un segno indiretto di tale carattere fondamentale può essere desunto dalla situazione nettamente differente che si creerebbe qualora dal sistema espungessimo il concetto di scapolo, per es., e qualora espungessimo il concetto di verità: nel primo caso, previo aggiustamento di alcuni concetti limitrofi, il sistema riuscirebbe a conservare la sua funzionalità, mentre nel secondo, alla lunga, crollerebbe. Infatti, ogni singolo concetto nel sistema si forma, e viene riveduto, in virtù di processi cognitivi validi, dove tale validità è data dal fatto che le credenze, le teorie e gli enunciati coinvolti in quei processi sono veri. Il concetto di verità entra così nella determinazione del contenuto di qualsiasi altro concetto, ma non ha un contenuto che una definizione possa esplicitare basandosi su un qualche concetto ulteriore. Pure, ancorché indefinibile, la verità non è vuota, né ambigua, misteriosa, inaffidabile: la si può infatti chiarire illustrando le relazioni che stringe con gli altri concetti, fondamentali e meno fondamentali, del nostro sistema concettuale, concetti quali credenza, azione, buono, giusto, causa e simili.
Lungo queste coordinate la riflessione sulla verità ha registrato a cavallo del nuovo secolo un importante elemento di novità. Filosofi come Hilary Putnam (n. 1926), Crispin Wright (n. 1942) e Michael P. Lynch (n. 1966), sia pur con alcune differenze tra loro, hanno infatti motivato l’indefinibilità della verità segnalando una caratteristica del concetto non sottolineata in precedenza: il suo carattere ‘pluralistico’. Al contrario di quanto per lo più affermato nel corso della storia della filosofia, essi sostengono che il concetto di verità non ha un contenuto univoco, prefissato, stabilito una volta per tutte ancor prima che gli esseri umani comincino a dispiegare le loro capacità conoscitive, un contenuto suscettibile di rendere conto di qualsiasi enunciato in qualsiasi contesto in cui tali capacità vengano applicate. Molteplici sono infatti le occasioni in cui diciamo che qualcosa è vero e molteplici i motivi che ci spingono a dirlo, dove tale molteplicità appare non riconducibile – nemmeno in linea di principio – a un sostrato concettuale comune a tutte le occasioni. Nei termini dell’idea di fedeltà, il fatto è che la realtà a cui un enunciato vero corrisponde è variegata, e questo rende variegata la stessa relazione minimale di corrispondenza che un enunciato può instaurare con il mondo. La natura della verità è pertanto plurima e polivalente, in diretta connessione con la polivalenza dei ‘contesti’ in cui riusciamo a stabilire che qualcosa è vero, ed è proprio questo a rendere impossibile una definizione del concetto, dato che come si è detto prima una definizione di x stabilisce – in modo assoluto e indipendente da qualsiasi contesto – delle condizioni necessarie e sufficienti affinché qualcosa sia x. La verità è indefinibile perché ogni tentativo di definizione è destinato a essere manchevole e parziale: se in certi contesti per spiegare la verità di un enunciato occorre integrare la relazione di corrispondenza minimale presupposta dall’idea di fedeltà facendo appello, per es., al concetto di causa e mostrando come vi sia una sorta di corrispondenza causale tra alcuni aspetti del mondo fisico e l’enunciato asserito, in altri contesti l’elemento responsabile della verità di un enunciato può essere individuato nel suo essere coerente con una serie di altri enunciati già noti come veri, mentre in altri ancora l’elemento in questione potrebbe essere di tipo convenzionale, frutto dichiarato delle nostre decisioni. Così, a tipi differenti di enunciati sono abbinabili tipi differenti di spiegazione della verità, con la più ampia libertà di spaziare da una nozione di corrispondenza metafisicamente più ‘pesante’ rispetto alla nozione minimale di base, nel caso di enunciati sulla realtà fisica, alle nozioni di coerenza, utilità pragmatica, o qualche nozione epistemica tipo l’‘asseribilità garantita’, quando il discorso verte su questioni di ordine morale, religioso, matematico e via dicendo. Secondo Wright e Lynch, sostenitori di questo tipo di pluralismo aletico, se la funzione fondamentale di enunciati e pensieri veri è di rappresentare la realtà, il modo in cui tale funzione viene concretizzata in un contesto può differire dal modo in cui viene concretizzata in un altro: «la verità non assume sempre la stessa forma» (Lynch 2004; trad. it. 2007, p. 54).
Di cruciale importanza è, si noti, riuscire a mantenere l’idea che la verità è ‘unica’, nonostante la pluralità di modi in cui può venir declinata: affermare infatti che ciò che è vero può variare con il contesto sembrerebbe rendere la verità un concetto relativo. Tutti e tre gli autori citati cercano perciò di rendere conto del fatto che, comunque sia, è lo stesso concetto di verità a essere presente in tutti i contesti, individuando – ciascuno a modo proprio – nella tesi di equivalenza la caratteristica costante cui ogni uso dell’aggettivo vero si conforma (Wright vi aggiunge altri principi, considerabili come nostre intuizioni prefilosofiche). La verità appare così al contempo stabile e fluida: fluida perché la natura della verità è suscettibile di spiegazioni differenti, stabile perché alla base di ogni spiegazione vi è la tesi di equivalenza, stando alla quale pensieri ed enunciati sono veri non in virtù della loro appartenenza a contesti determinati, ma del loro riportare ciò che è.
Giustificazione
Un peculiare riferimento ai contesti contraddistingue anche parte del recente dibattito riguardante il concetto di giustificazione. In generale, la giustificazione può essere almeno di due tipi, a seconda delle pretese conoscitive in esame: percettiva e argomentativa. Il primo tipo si ha nel caso della conoscenza diretta, dato che questa presuppone un contatto sensorialmente mediato con qualcuno o qualcosa; il secondo tipo si ha invece nel caso della conoscenza proposizionale, poiché argomentazioni intese come catene di enunciati o pensieri possono avere come anello finale l’enunciato o il pensiero che esprimono la presunta conoscenza proposizionale sotto esame, o comunque costituirne evidenza a favore. Entrambi i tipi di giustificazione sono stati messi variamente in dubbio nella storia della filosofia, e da quanto detto all’inizio sappiamo che l’esercizio di un dubbio del genere caratterizza gli scettici (di qualunque epoca) in quanto tali. In quel che segue adotteremo uno stratagemma espositivo: a rappresentare coloro che hanno messo in dubbio la giustificazione percettiva prenderemo Arcesilao, uno dei principali esponenti della fase scettica dell’Accademia platonica, vissuto tra il 4° e 3° sec. avanti Cristo. Come riporta Cicerone (Lucullus 79-86), infatti, Arcesilao sostiene che nelle percezioni false non vi è nulla che possa mettere in grado di distinguerle da quelle vere, e corrobora questa tesi sulla scorta di esempi come il remo che immerso in acqua appare spezzato mentre è invece integro, la persona immobile sulla terraferma che appare in movimento quando la si guardi da una nave in crociera, il Sole che appare piccolo quando in realtà è enorme, la persona davanti a noi che crediamo di conoscere bene quando, al contrario, si tratta della sua gemella. In breve, indicando una serie di illusioni percettive piuttosto comuni, Arcesilao ritiene che nulla permetta di distinguere l’illusione dalla percezione verace: insieme a lui, dunque, quanti mettono in dubbio l’efficacia della giustificazione percettiva fanno leva su quello che è noto come argomento dell’illusione. Parimenti, a rappresentare coloro che mettono in dubbio la giustificazione argomentativa prenderemo Agrippa, filosofo neopirroniano vissuto, per quanto se ne sa, nel 1° sec. dopo Cristo. A lui Sesto Empirico (Lineamenti pirroniani 1, 164-69) attribuisce cinque modi, o tropi, ossia strategie argomentative volte a provocare la sospensione del giudizio. Tra questi tropi vi è l’argomento del regresso infinito, secondo cui le argomentazioni presentate a sostegno della verità di un enunciato, essendo composte a loro volta di enunciati, hanno bisogno di essere sostenute da ulteriori argomentazioni che mostrino la verità di tali enunciati, e così via retrocedendo all’infinito senza che si possa giustificare la verità degli enunciati nelle varie argomentazioni, tanto meno di quello da cui si era partiti. Pertanto, continua questo ragionamento scettico, non sarà mai possibile alcuna giustificazione argomentativa e, di conseguenza, alcuna conoscenza proposizionale.
Molteplici sono stati nella storia i tentativi di arginare la critica scettica, e non tutti di uguale efficacia. Nei primi anni del 21° sec., tuttavia, al centro della riflessione sullo scetticismo si sono imposte alcune posizioni che hanno vivacizzato tale riflessione collocandola su nuove coordinate. Prendiamo in esame innanzitutto il disgiuntivismo, che aiuta a fornire una risposta ad Arcesilao e a quanti si riconoscono nel suo argomento dell’illusione.
Prima di spiegare il perché di un nome così inconsueto, notiamo che quel che Arcesilao dice a proposito dell’illusione vale anche a proposito dell’allucinazione: i due fenomeni psicologici si differenziano soltanto per il fatto che c’è qualcosa che viene percepito in modo distorto nel caso dell’illusione, e non c’è invece nulla nel caso dell’allucinazione. Le risposte che si possono fornire ad Arcesilao riguarderanno perciò entrambi i fenomeni. Se poi cerchiamo di capire quali sono i presupposti di una posizione come quella di Arcesilao, e dunque su quale base egli ritenga di poter affermare che tutte le nostre percezioni potrebbero essere illusioni o allucinazioni, scopriamo che egli fa propria una concezione della percezione destinata a essere variamente sostenuta nella storia della filosofia, in particolare dagli empiristi inglesi del 17° e 18° sec., da Bertrand Russell e da George Edward Moore, fino ad arrivare ad alcuni autori contemporanei (Paternoster 2007, pp. 26 e sgg.): quella secondo cui si percepisce la realtà in virtù di ciò che, nell’atto percettivo, ci ‘appare’. Ciò significa che un atto del genere avverrebbe per il tramite di qualcosa che un oggetto o una configurazione di oggetti produrrebbero al nostro interno, nel momento stesso in cui stimolano le terminazioni nervose preposte al funzionamento del nostro apparato percettivo, qualcosa che è stato variamente chiamato dato sensoriale, percetto, rappresentazione mentale, apparenza, immagine mentale e simili. Questo qualcosa – chiamiamolo dato sensoriale – sarebbe quel che una percezione veridica e una percezione allucinatoria hanno in comune. Anzi, sarebbe proprio la presenza di questo elemento nella nostra psicologia interna a spiegare i casi di allucinazione e di illusione: quando esperiamo, per es., l’allucinazione di un albero, nella nostra mente si forma un gruppo di dati sensoriali che al nostro cervello dà l’informazione albero, esattamente quel gruppo che si forma nel caso dell’esperienza percettiva autentica (quando cioè vediamo o tocchiamo un albero effettivamente presente). Secondo tale concezione, percezione veridica e percezione allucinatoria sono lo stesso stato psicologico per il fatto che entrambe coinvolgono uno stesso gruppo di dati sensoriali, con la differenza che nel primo caso la causa del gruppo è un oggetto esterno a noi, nel secondo è un qualche meccanismo cerebrale da individuare. Non solo: se da un punto di vista psicologico nei due casi lo stato è identico, da un punto di vista epistemologico è identica anche l’esperienza. Infatti, in entrambi i casi l’evidenza rilevante a fini conoscitivi è la stessa, ossia un gruppo di dati sensoriali. Ed è appunto il fatto che, stando a questa concezione tradizionale, percezione veridica e percezione allucinatoria condividono la stessa evidenza ad aprire la porta all’argomento di Arcesilao: un’identica evidenza giustifica tanto l’ipotesi secondo cui percepiamo un mondo reale, quanto l’ipotesi scettica secondo cui siamo in uno stato di perenne allucinazione. Le due ipotesi si trovano sullo stesso piano, senza che sia mai possibile acquisire ulteriore evidenza a favore della verità dell’unica ipotesi che ci preme avvalorare, quella che percepiamo un mondo reale. Tra quest’ultimo e noi si crea pertanto un divario che non è possibile in alcun modo colmare, né aggiungendo nuove esperienze né elaborando un qualche ragionamento a sostegno dell’esistenza degli oggetti della nostra percezione. In conclusione, concepire la percezione come una relazione con il mondo mediata da dati sensoriali finisce – come preconizza lo scettico – con il farci perdere il mondo.
La risposta fornita dai disgiuntivisti (Disjunctivism. Perception, action, knowledge, 2008) è, nella sua apparente banalità, gravida di conseguenze filosofiche. Se a far nascere il problema è l’esistenza di intermediari nella percezione, intermediari che costituiscono una sorta di ‘interfaccia’ tra noi e il mondo, la soluzione sta nell’eliminare gli intermediari stessi, entità peraltro dubbie e non facilmente giustificabili da un punto di vista ontologico. Il rapporto percettivo che abbiamo con il mondo è dunque diretto e immediato, giacché non richiede alcun mezzo che renda tale rapporto possibile. Ne segue che non c’è alcun elemento in comune tra percezione veridica e percezione allucinatoria, alcun nucleo mentale condiviso: ciò che appare, quindi, o è mera apparenza oppure è un oggetto (o un fatto) vero e proprio, immediatamente presente. È questa disgiunzione ‘esclusiva’ che costituisce la caratterizzazione metafisicamente ed epistemologicamente più chiara tanto della percezione veridica quanto della percezione allucinatoria: una caratterizzazione disgiuntiva che le distingue nettamente come due esperienze differenti. Parimenti, sul piano psicologico non ci troviamo in uno stesso stato mentale quando ‘alluciniamo’ oppure quando percepiamo, bensì in due stati mentali differenti, perché è proprio la presenza o l’assenza dell’oggetto percepito a marcare la differenza. L’identità fenomenologica dei due stati – ossia la loro indistinguibilità da parte del soggetto conoscente – non implica come vuole lo scettico una perdita del mondo: la nostra condizione metafisica ed epistemologica ammette la possibilità di due situazioni distinte, una soltanto delle quali ha pieno diritto a essere considerata ‘percezio-ne’ – quella dove l’oggetto è effettivamente presente.
Se questa è la più recente risposta fornita ad Arcesilao, che risposta è stata data ad Agrippa e al suo argomento del regresso infinito delle giustificazioni? La posizione che sembra essere la più promettente è il contestualismo. Reazioni antiscettiche di tipo contestualista vi sono state anche in passato, ma è solo da qualche decennio che esse hanno assunto una peculiare fisionomia. Al principio del secolo scorso Charles Sanders Peirce (1839-1914) notava che, anche se non esistono enunciati autoevidenti e sempre veri, capaci di fermare il regresso con il loro costituire un fondamento perennemente stabile sopra cui innalzare l’intero edificio della conoscenza umana, e anche se, dunque, in linea di principio è sempre possibile regredire nella catena delle giustificazioni, in linea di fatto possiamo basare – ancorché temporaneamente – le nostre giustificazioni epistemiche sugli enunciati e sui giudizi forniti dal senso comune: di questi è lecito non dubitare, almeno fino a quando conserveranno la loro utilità cognitiva. E a metà dello stesso secolo Ludwig Wittgenstein (1889-1951) sembrava fargli eco nel momento in cui individuava nelle credenze del senso comune quel carattere di certezza in grado di garantire un fondamento sufficientemente solido alla nostra attività conoscitiva. Il senso comune fornirebbe dunque una sorta di ‘contesto di base’ all’interno dell’impalcatura delle conoscenze, in grado di permettere alla nostra attività giustificativa di dispiegarsi a vari livelli di complessità, evitando un problematico regresso infinito.
Spostandosi dal piano della struttura della conoscenza a quello della valutazione dei singoli proferimenti conoscitivi, il contestualismo contemporaneo si oppone in generale a una tesi tipica della tradizione filosofica più sopra incontrata: la tesi – l’invariantismo – che le condizioni a cui un enunciato è vero o falso siano stabili, fisse e indipendenti dai contesti in cui l’enunciato può occorrere. Considerando poi, tra i vari enunciati che si possono formulare, quelli tramite i quali si attribuisce o si nega conoscenza a qualcuno (per es., «Isa sa che ora è adesso»), stando all’invariantismo avremo parimenti che gli standard epistemici in base a cui si giudica la loro verità e falsità manifestano una uguale stabilità e indipendenza dal contesto. Ciò significa che i criteri grazie ai quali valutiamo se tali enunciati sono veri oppure falsi (e dunque se il soggetto considerato possiede o meno conoscenza rispetto a qualcosa o qualcuno) sono applicabili a prescindere dalla situazione in cui gli enunciati vengono proferiti: sono dunque validi in tutti i contesti. Di conseguenza, data una coppia di enunciati formata da quello appena citato e dalla sua negazione, un solo enunciato nella coppia può essere vero, e l’altro falso, e in nessun caso essi saranno entrambi veri o entrambi falsi. È a questa tesi che si oppone il contestualismo contemporaneo. Entrambi gli enunciati nella coppia del nostro esempio possono infatti essere veri; solo che – pena la contraddizione – lo possono essere in contesti differenti. In un contesto quotidiano «Isa sa che ora è adesso» può essere giudicato vero, perché gli standard epistemici che governano le condizioni di verità degli enunciati ammettono una ragionevole approssimazione nella determinazione dell’ora. Al contrario, lo stesso enunciato può essere giudicato falso (e dunque la sua negazione vera) in contesti in cui gli standard epistemici sono più elevati, come in un laboratorio di fisica dove la determinazione ‘esatta’ dell’ora da parte di Isa nel corso, per es., di un esperimento è della massima importanza.
Come affermato, in generale il contestualismo è una tesi sulle condizioni di verità degli enunciati che attribuiscono o negano conoscenza a qualcuno. In particolare, invece, esso rappresenta una delle più originali risposte allo scetticismo: non solo lo scetticismo riguardo alla giustificazione – di cui l’argomento del regresso infinito è espressione –, ma anche lo scetticismo che prende di mira la conoscenza stessa. Diversi sono gli argomenti che esprimono quest’ultimo; forse il più conciso e radicale è l’argomento dell’ignoranza, declinabile in prima persona e composto di soli tre passi. Il primo passo consiste nell’affermare «Io non so che non sono perennemente ingannato da un genio maligno». Il genio maligno a cui qui si fa riferimento è quello di cui parla René Descartes nella prima delle sue Méditations métaphysiques (1641) quando delinea una situazione di inganno totale riguardo alla conoscenza del mondo. Si tratterebbe di un ‘genio’ in quanto si immagina un essere dotato di poteri sovrannaturali, e ‘maligno’ proprio in quanto ingannatore, dove l’inganno riguarda ogni aspetto della realtà. Potremmo ritenere di stare leggendo delle righe stampate su un foglio, mentre invece questo non è che frutto del sortilegio ingannatore del genio: in realtà, foglio, righe stampate, mani, occhi e il resto del nostro corpo non esistono affatto. L’argomento trae la sua forza dal fatto che nulla sembrerebbe riuscire a escludere la presenza di un essere siffatto: tutto ciò che esperiamo (o che ci ‘sembra’ di esperire) è compatibile tanto con l’ipotesi che esista una realtà così come abbiamo da sempre ritenuto di conoscerla, quanto con l’ipotesi che siamo ingannati da un genio maligno (le due ipotesi sarebbero pertanto ‘sottodeterminate’ rispetto a ogni nostra possibile esperienza). Quella immaginata da Descartes è una delle forme più radicali di scetticismo proprio perché giunge a mettere in discussione l’esistenza stessa del mondo nella sua globalità; a partire dagli ultimi decenni del 20° sec. è stata discussa una versione per così dire ‘aggiornata’ dell’argomento cartesiano – il celebre esperimento mentale di Putnam dei cervelli in una vasca (H. Putnam, Brains in a vat, in H. Putnam, Reason, truth, and history, 1981, pp. 1-21) –, dove al genio maligno si sostituisce uno scienziato pazzo che tiene in vita in una vasca alcuni cervelli, producendo in essi una serie di stimolazioni neurali che fanno apparire la realtà esattamente come era prima. Noi potremmo dunque essere, ed essere sempre stati, preda dell’inganno del genio maligno (o dello scienziato pazzo) senza mai potercene accorgere. Da qui derivano una serie di conseguenze relativamente alla nostra mancanza di conoscenza di aspetti particolari del mondo: derivano, in breve, una serie di ‘ignoranze’. Il secondo passo dell’argomento recita infatti: «Se non so che non sono perennemente ingannato da un genio maligno, allora non so che mi trovo in Italia». Tramite la consueta regola di inferenza nota come modus ponens, dal primo e dal secondo passo si può infine concludere: «Io non so che mi trovo in Italia». Ripetendo poi lo stesso ragionamento per qualsiasi presunta conoscenza, si ha che la realtà risulta del tutto inconoscibile.
La risposta contestualista allo scettico si basa su una valutazione delle condizioni di verità degli enunciati mediante i quali lo scettico esprime il suo dubbio radicale. Esattamente come nel caso generale, il contestualista sottolinea il fatto che gli standard per la conoscenza non sono fissi ma possono variare a seconda del contesto. Lo scettico non farebbe altro che manipolare questi standard, creando un contesto nel quale può correttamente affermare che noi non abbiamo alcun tipo di conoscenza. I requisiti che lo scettico pone sulla conoscenza sono molto rigorosi: un enunciato o un pensiero costituiscono conoscenza soltanto se riescono a porsi al di là di ogni dubbio e ad acquisire la proprietà della certezza. Una volta elevati in tal modo gli standard epistemici, poiché è rispetto a tali standard che viene giudicata la verità o la falsità di pensieri ed enunciati, non si può non concludere che le affermazioni dello scettico sono vere: nessun nostro enunciato o pensiero riesce a porsi al di là di qualsiasi dubbio e a qualificarsi come certo in modo pienamente oggettivo. Tuttavia, in altri contesti – come quelli ordinari – basarsi su standard più rilassati è del tutto lecito. Nell’ambito del discorso quotidiano nulla sembrerebbe infatti richiedere oggettiva certezza: non occorre che le giustificazioni che possiamo fornire alle nostre pretese conoscitive siano ‘conclusive’, ossia non rivedibili alla luce di evidenza non disponibile al momento. L’importante è che tali giustificazioni siano sufficientemente buone da permetterci di usare pensieri ed enunciati per raggiungere qualsiasi scopo possiamo prefiggerci, ponendo tra parentesi ogni immotivata preoccupazione scettica. Le negazioni di conoscenza dello scettico risultano pertanto compatibili con le nostre affermazioni di conoscenza: sono entrambe corrette, ancorché relativamente a contesti e standard differenti.
L’apertura dei concetti di verità e conoscenza
Abbiamo visto cosa significa conoscenza proposizionale e come un qualsiasi suo esempio può essere analizzato. Tale analisi si è concentrata sulle nozioni di verità e di giustificazione, in quanto costituenti principali del concetto di conoscenza proposizionale. In entrambi i casi queste nozioni hanno mostrato una loro peculiare ‘apertura’ derivante dalla considerazione dei contesti ai fini della valutazione di pensieri o enunciati veri e della giustificazione delle nostre pretese conoscitive. Occorre ora vedere come tale apertura può essere teoreticamente sostenuta. Abbiamo anche visto quali risposte si possono dare a chi dubita che gli esseri umani abbiano una effettiva capacità di conoscere. Le risposte finora esaminate – che costituiscono le più recenti reazioni alla tradizionale sfida scettica – ci aiuteranno a combinare il discorso sopra sviluppato a proposito della verità con quello sviluppato a proposito della giustificazione.
Il pluralismo aletico
Ricordiamo innanzitutto che la risposta antiscettica fornita ad Arcesilao ha evidenziato la nocività di un’idea variamente diffusa nella storia della filosofia: quella secondo cui la nostra relazione percettiva e cognitiva con il mondo avviene per il tramite di intermediari ed è dunque una relazione ‘indiretta’. L’eliminazione di tale idea comporta l’eliminazione del divario che essa inevitabilmente pone tra mondo e facoltà conoscitive umane: poiché tali facoltà si applicherebbero direttamente solo a ciò che appare nel nostro campo percettivo e cognitivo, e non agli oggetti stessi del mondo responsabili di quelle apparenze, tra mente e mondo si crea uno iato che lo scettico non ha difficoltà a sfruttare per i suoi fini. Soprattutto, l’eliminazione di quell’idea ha una ricaduta sull’interpretazione del concetto di verità.
Conformemente all’intuizione prefilosofica sopra ricordata, la verità evidenzia il legame tra la mente e il linguaggio che ne è espressione, da un lato, e il mondo, dall’altro. Consideriamo il linguaggio e i suoi enunciati. Se tra linguaggio e mondo non vi è alcun divario che una qualche interfaccia debba colmare – se dunque vi è un contatto diretto –, allora il linguaggio verte già sul mondo, vi è connesso intrinsecamente, e gli enunciati possono immediatamente svolgere la loro funzione di base – quella, lo si è detto, di cogliere fedelmente ciò che accade. Gli enunciati che riescono ad assolvere correttamente la loro funzione di base si qualificano come veri proprio perché riportano le cose come stanno, date le caratteristiche dei contesti della loro enunciazione: essi rappresentano quelli che nei loro contesti (di tipo ordinario, fisico, etico, religioso ecc.) sono i fatti. Ma – e questo è il punto – il modo in cui un enunciato è responsabile nei confronti del mondo assolvendo la propria funzione rappresentativa non consiste nel tentativo di instaurare una ‘corrispondenza’ interpretata come un nesso volto a unire due entità separate, perché tale corrispondenza apparterrebbe proprio a quel tipo di intermediari che renderebbe indiretta la relazione tra linguaggio e mondo. Quando un enunciato è vero esso semplicemente ‘equivale’ al fatto che lo rende tale, un fatto che è peraltro descrivibile solo usando l’enunciato stesso: qualsiasi esempio dello schema «è un fatto che p se e solo se p» (per ogni enunciato p) è valido, esattamente come lo è ogni esempio della tesi di equivalenza da noi sopra citata, «è vero che p se e solo se p». L’equivalenza tra fatti ed enunciati veri risulta proprio combinando i due schemi grazie alla proprietà transitiva: «è vero che p se e solo se è un fatto che p». Nulla in tale equivalenza impone di intravedere una corrispondenza che medi tra mondo ed enunciati a prescindere dal loro contenuto e dall’occasione del loro uso, una corrispondenza univocamente presente tutte le volte che un enunciato è vero. Al contrario, c’è una pluralità di modi in cui l’equivalenza può essere declinata, una pluralità di modi in cui un enunciato può essere vero: tanti quanti sono i fatti e le situazioni che il mondo può offrire. Come avverte il pluralista aletico, la verità è variegata proprio perché il mondo è variegato.
Questo pluralismo aletico che consegue dalla tesi secondo cui vi è un rapporto diretto tra il linguaggio e il mondo viene sottoscritto da Putnam, ed è diverso dal pluralismo aletico di Wright e Lynch. Entrambi sono frutto dell’attenzione rivolta ai contesti, ma mentre quello di Wright e Lynch ammette la possibilità di fare appello alla spiegazione della verità che risulti più confacente in un contesto dato, e dunque anche alla corrispondenza intesa come un intermediario tra linguaggio e mondo, il pluralismo putnamiano risiede unicamente nella tesi secondo cui l’aggettivo vero è piegabile a una pluralità virtualmente infinita di usi diversi e direttamente proporzionale tanto alla pluralità di occasioni in cui si può dire che un enunciato è vero, quanto alla pluralità di generi di enunciati asseribili. È una tesi contenuta anche nell’altro tipo di pluralismo, ma Putnam vi abbina un rifiuto della tesi secondo cui la verità sia spiegabile al di là di una spiegazione dell’uso di vero: quell’uso che – qualora appropriato – sancisce che un enunciato veicola una genuina conoscenza. Il concetto di verità manifesta così una caratteristica perenne apertura e, sulla sua scia, anche quello di conoscenza. Vediamo infine come quest’ultima apertura consegua dalla riflessione putnamiana.
Un’evoluzione permanente
È stata la risposta antiscettica rivolta ad Agrippa a mettere in risalto l’importanza dei contesti per la giustificazione di pensieri, enunciati, teorie e simili – in breve, di qualsiasi frutto della mente umana che si candidi a rappresentare una conoscenza su un qualche aspetto della realtà. Questo, di per sé, impone la massima elasticità e la massima apertura alla valutazione epistemica stessa, essendo i contesti virtualmente infiniti e dotati di caratteristiche non prevedibili sin dall’inizio. Ciò a sua volta rende impossibile imbrigliare definitivamente quel che conta come conoscenza, cristallizzando in modo assoluto il contenuto del relativo concetto. Quest’ultimo eredita dunque l’apertura e l’elasticità delle procedure di valutazione epistemica caratterizzandosi come un concetto aperto – un concetto il cui contenuto è suscettibile di continui cambiamenti e integrazioni.
Putnam ha mostrato come un pieno apprezzamento dell’apertura del concetto di conoscenza derivi dal rifiuto di una forma tradizionale di realismo: quella secondo cui il mondo è costituito da una totalità fissa di oggetti e di loro proprietà – totalità che, conformemente a ogni posizione metafisica realista, è considerata indipendente dalla mente umana e dalle sue capacità cognitive. È esattamente un realismo del genere che conduce a considerare la relazione che mente e linguaggio hanno con il mondo come un qualcosa di fisso e univoco, una relazione di corrispondenza che verrebbe instaurata dai pensieri e dagli enunciati che avanzano pretese conoscitive a prescindere dalla loro forma e dal loro contenuto, e che consisterebbe in una sorta di ‘copia’ della porzione di mondo su cui un pensiero, o un enunciato, verte. Secondo Putnam questa forma tradizionale di realismo sarebbe il frutto di una visione riduttiva sia delle effettive procedure conoscitive da noi utilizzate a qualsiasi livello – da quelle quotidiane a quelle adottate dagli scienziati –, sia della nozione di oggetto – di nuovo, tanto nella sua interpretazione quotidiana, quanto di quella scientifica. Innumerevoli cose di cui possiamo parlare non rientrano nella categoria tradizionale di oggetto e nella tradizionale concezione dell’attività conoscitiva come copia: la Seconda guerra mondiale, il cielo, le immagini speculari, gli ‘oggetti del desiderio’, i numeri, i personaggi di un romanzo e così via. Ritenere che ciò che conta come ‘oggetto’ sia precostituito dal mondo ancor prima che la nostra attività conoscitiva abbia inizio cozza contro il buon senso. E se passiamo al piano degli oggetti studiati dalla scienza, la scarsa plausibilità del realismo tradizionale risalta ancora di più: «all’interno della fisica stessa si è affermata un’ulteriore estensione della nozione di ‘oggetto’ – di fatto l’estensione più radicale finora registrata. [Infatti] nell’odierna meccanica quantistica le particelle non hanno affatto (nella maggior parte degli ‘stati’) un numero definito. Ma gli oggetti tradizionali hanno sempre numeri definiti. […] La meccanica quantistica costituisce pertanto un magnifico esempio di come con lo sviluppo della conoscenza persino la nostra idea di che cosa conta come una possibile proposizione che avanza una pretesa conoscitiva, o come un possibile oggetto o una possibile proprietà è soggetta a cambiamento» (Putnam 1999; trad. it. 2003, p. 20). Ciò che Putnam sottolinea è che la nostra attività cognitiva è talmente variegata da non essere descrivibile in modo esaustivo e univoco: essa apre di continuo ulteriori contesti conoscitivi e adotta all’occorrenza nuove modalità epistemiche, tanto da rendere obsoleta qualsiasi nozione prefissata di oggetto o di procedura conoscitiva. Così, con il continuo mutamento del concetto di realtà si diversifica la relazione che abbiamo col mondo: lungi dal limitarci a copiarlo, «costantemente estendiamo i modi in cui il linguaggio può essere tenuto a rispondere alla realtà» (p. 21), raffinando al contempo il nostro concetto di conoscenza.
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