conoscenza
Qualsiasi indagine sulla c. deve preliminarmente accertare (1) come conosciamo e (2) cosa possiamo conoscere. Rispetto al primo punto, le risposte tradizionalmente offerte dalla filosofia sono che conosciamo o con i sensi o con l’intelletto o con entrambi o con una forma di intuizione mistica che non è assimilabile a nulla di quanto sopra. Riguardo al secondo punto, la storia della filosofia ci dice che possiamo conoscere o tutto, o qualcosa, o niente.
Che i sensi siano un organo privilegiato di c. sembra un’opinione diffusa tra i filosofi naturalisti presocratici. Se esaminiamo infatti le testimoniamze sul loro pensiero, ci accorgiamo che i principi delle cose sono sempre aspetti del mondo fisico, come l’acqua, l’aria, il fuoco ecc., cioè elementi che cadono sotto i sensi. Questa opinione verrà corretta da Anassagora, che introdurrà l’intelletto o νοῦς come principio di tutte le cose, e dirà che non bisogna riferire ogni cosa ai sensi, perché i principi sono intuibili solo con la ragione. Muovendosi sulla stessa linea di pensiero, la scuola pitagorica indicherà non in ciò che appare ai sensi, ma nei numeri e nei loro rapporti la chiave di tutto il cosmo. Questo punto di vista verrà ripreso dal Socrate dei dialoghi platonici e quindi dallo stesso Platone, che collocherà nella parte razionale dell’anima, l’intelletto, la vera fonte della conoscenza, che per lui è soprattutto reminiscenza (➔), ossia ricordo delle idee – unica vera realtà immutabile – che l’anima ha conosciuto prima di incarnarsi e dimenticare. L’eredità delle dottrine pitagoriche è avvertibile soprattutto nel Timeo (➔), l’opera che la tradizione platonica, sia antica e medievale che rinascimentale, considererà la summa del suo pensiero. Opponendosi a Platone, Aristotele, e dopo di lui anche gli stoici e gli epicurei, rivaluteranno l’apporto della c. sensibile, pur elaborando parallelamente (con l’eccezione degli epicurei) complesse teorie logiche (logica sillogistica, logica proposizionale) dedicate all’analisi sistematica del materiale offerto dai sensi. I sensi sono la fonte privilegiata della nostra conoscenza, che procede essenzialmente per via induttiva. I dati raccolti per via induttiva forniscono in Aristotele la base di partenza del sillogismo, il cui scopo principale è quello di chiarire i rapporti di implicazione fra termini universali e termini singolari. Lo scetticismo antico invece contesta sia l’affidabilità dei sensi che quella dell’intelletto. Questa tesi radicale, presente già nello scetticismo accademico e in Cicerone, verrà ripresa estensivamente dallo scetticismo ‘pirroniano’ di Sesto Empirico, che negli Schizzi pirroniani e nell’Adversus mathematicos farà terra bruciata dei tre settori tradizionali della c. filosofica, logica, fisica ed etica. L’inaffidabilità dei sensi e dell’intelletto è dimostrata grazie ai cosiddetti «tropi» o modi del dubbio, dall’esame dei quali emerge il principio della relatività di ogni asserzione sul mondo esterno e sulle procedure dell’intelletto umano. Che né i sensi né l’intelletto siano strumenti adeguati alla c. dell’assoluto è convinzione presente anche nelle correnti mistiche che prenderanno piede in età imperiale, soprattutto neoplatonismo (➔) e gnosi (➔). L’Uno, il vertice degli enti divini e la meta ultima del percorso iniziatico, è infatti assolutamente trascendente e «al di là dell’intelletto», ed è raggiungibile esclusivamente tramite una ascesi mistica sovrarazionale. Queste posizioni riemergeranno sostanzialmente invariate lungo tutto l’arco temporale dello svolgimento del pensiero medievale e rinascimentale. Platone e Aristotele restano infatti i punti di riferimento di entrambe le culture, anche se nella forma ereditata dal neoplatonismo, per cui accanto a un Platone «aristotelico» compare un Aristotele «platonico». In Agostino, che ha conosciuto il neoplatonismo tramite Mario Vittorino, la c. non può esaurirsi nel conoscere sensibile, perché ciò che è legato ai sensi è mutevole e provvisorio. È invece tramite la plotiniana «illuminazione» che l’uomo scopre o riscopre la presenza in sé stesso delle idee eterne e immutabili. Questa tradizione platonica (o platonico-aristotelica) conoscerà momenti particolarmente significativi in Boezio, nella disputa fra dialettici e antidialettici – che vede i primi recuperare e valorizzare il concetto platonico di dialettica (➔) –, nel dibattito sugli universali (fra i sostenitori del realismo (➔), ossia della realtà delle idee platoniche), e quindi nei platonici di Chartres e successivamente di Cambridge. In questo quadro merita particolare attenzione la famosa prova ontologica di Anselmo (➔ prove dell’esistenza di Dio), la cui novità sta nel far assumere forma logica a una consolidata tesi medio- e neoplatonica (cfr. per es. La E di Delfi di Plutarco), secondo la quale solo Dio è il ‘vero’ essere, l’essere a pieno titolo, e quindi negargli tale attributo sarebbe contraddittorio. A questa visione si affianca o addirittura si sovrappone quella mistica, prima fra tutte la filosofia dello pseudo-Dionigi, secondo la quale Dio è «al di là dell’essere», e quindi non può essere conosciuto né con argomenti a posteriori né con argomenti a priori. Un sostanziale ritorno alla originaria visione aristotelica, e quindi a una rivalutazione della c. sensibile, si avrà invece con Tommaso d’Aquino e col tomismo. La c. inizia dai cinque sensi. Le rispettive sensazioni sono poi unificate dal senso interno (sentire di sentire, coscienza sensitiva) e in tal modo si formano, nella immaginativa o fantasia, le immagini degli oggetti che sono conservati nella memoria. Successivamente l’intelletto, partendo da queste immagini, forma per via di astrazione i concetti universali, ossia leessenze o forme delle cose materiali consideratesenza la materia. Il programma di Tommaso èdichiaratamente antiplatonico (e conseguentemente antiagostiniano), e trova il suo maggior punto di forza nella tesi caratteristica che l’essere delle cose materiali, sebbene sia un prodotto e un dono di Dio, è un essere a pieno titolo, e non una sorta di ‘surrogato’ dell’essere. Lo scetticismo, noto alla cultura medievale attraverso l’opera di Cicerone, ma presente in modo sostanzialmente episodico (nominalismo nella disputa sugli univerali, il rasoio di Occam), riemergerà prepotentemente agli inizi dell’era moderna generando la cosiddetta crisi pirroniana, che affiancandosi alla riscoperta dell’atomismo sarà la causa principale della crisi e del tramonto del sistema del mondo aristotelico-scolastico. La tesi centrale dello scetticismo moderno, come di quello antico, è che non sappiamo nulla (quod nihil scitur), perché né i sensi né la ragione sono veicoli di conoscenza. In queste condizioni la nostra vita sarà un navigare a vista, sempre pronti a effettuare improvvisi cambimenti di rotta. Superata la ‘crisi pirroniana’, la filosofia moderna fino a Kant si dividerà fra razionalismo (➔) ed empirismo (➔), privilegiando l’intelletto nel primo caso, i sensi nel secondo. Kant tenterà, con la teoria delle due fonti della conoscenza, una sintesi delle due posizioni, che tuttavia nelle sue conclusioni ultime – che vedono nei dati sensibili un apporto indispensabile e insieme un limite invalicabile da parte dell’intelletto – appare più vicina all’empirismo che al razionalismo. Il punto di vista razionalistico è riproposto invece dall’idealismo classico tedesco, in particolare da Hegel, che però sostituisce all’intelletto come organo principe della c. la ragione, liberata dai vincoli che le aveva posto Kant e arricchita dalla nuova logica dialettica. Nella Sinistra hegeliana emergerà un nuovo tema, quello della c. come prassi. Un’idea, questa, che, scorporata dal contesto socio-politico rivoluzionario, verrà elaborata concettualmente dal pragmatismo (➔). Nella filosofia moderna, infine, verranno ripensate e rielaborate soprattutto le tesi di Hume e Kant. La prima dall’empirismo logico, la seconda dalla teoria evoluzionistica della conoscenza.
In linea generale chi affida ai sensi la nostra c. ritiene che attraverso gli organi sensoriali si possa conoscere con certezza qualcosa, ma non tutto. I sensi, ancorché affidabili, hanno nondimeno un raggio d’azione limitato, quasi sempre inferiore a quello delle altre razze animali, e anche il raffinamento degli strumenti di indagine non muta in modo radicale questo dato di fatto. È probabilmente questo il motivo per cui – come osserva Kant nell’Introduzione alla Critica della ragion pura (➔) (1781) – molti pensatori, Platone in testa, hanno pensato che senza i sensi si potesse conoscere meglio e di più, anzi, che si potesse conoscere tutto, arrivando alle soglie della creazione. E anche chi si affida non alla ragione, ma a una forma di intuizione mistica, pensa la stessa cosa. Tuttavia a partire da Kant si è osservato che questa presunta conoscenza della totalità delle cose è tale solo in apparenza, perché i tradizionali oggetti di questo sapere assoluto (in particolare Anima, Mondo e Dio) non sono altro che le funzioni o categorie dell’intelletto ipostatizzate, cioè trasformate in sostanze autonome. Procedendo sulla stessa strada il positivismo logico (➔) del Circolo di Vienna (per es., Carnap) ha potuto dimostrare agevolmente la mancanza di significato dei concetti fondamentali della metafisica. Antitetica alla tesi secondo la quale possiamo conoscere tutto, è quella che non si possa conoscere nulla. Come si è detto è la tesi principale dello scetticismo, sia antico che moderno, che riflette sui testi di Cicerone e Sesto Empirico. Tuttavia dal momento che questo principio – come hanno rico-nosciuto gli stessi scettici – è sostanzialmenteimpraticabile, perché bisogna comunque prendere qualche decisione, la moderna filosofia della ricerca scientifica si è orientata verso una forma moderata di scetticismo, che tiene conto nello stesso tempo del modello di empirismo elaborato da Kant. L’intelletto costruisce teorie sulla struttura del mondo circostante – includendo in esso anche il nostro corpo come oggetto di indagine – ma tali teorie devono essere sottoposte al vaglio dell’esperienza, la sola che abbia un valore discriminante nei loro confronti. In questo modo la nostra c., seppur lentamente e procedendo attraverso prove ed errori, si accresce di continuo, senza tuttavia poter arrivare mai a una c. completa della realtà.
Una delle svolte più rilevanti nell’ambito della teoria della c. si è avuta, nella seconda parte del Novecento, con il riorientamento in senso naturalistico-biologico della ricerca epistemologica. Va innanzi tutto ricordato il programma dell’epistemologia evoluzionistica, dove il ricorso alle categorie biologiche evoluzionistiche introdotte da Darwin non si riduce, come spesso in passato (per es., nel darwinismo sociale), a una loro estensione metaforica, quando non metafisica, ad ambiti estranei alla biologia. L’idea fondamentale che informa l’approccio evoluzionistico alla c. è che i processi cognitivi, al pari delle altre capacità animali e umane, non siano altro che funzioni estremamente complesse sviluppatesi nel corso della filogenesi per assicurare la conservazione della specie. In tale prospettiva la vita stessa può essere considerata come un processo conoscitivo. Secondo K. Lorenz, che insieme con Popper e D.T. Campbell è stato uno dei maggiori rappresentanti di tale orientamento, l’attività fondamentale degli organismi viventi è quella di immagazzinare «informazioni» sull’ambiente, per meglio adattarsi a esso. In altri termini, le informazioni vengono poste a confronto con l’ambiente e questo può decretarne il successo o l’insuccesso. L’ipotesi della continuità delle forme viventi dal punto di vista cognitivo è alla base dell’evoluzionismo di Popper, che aveva cominciato a riformulare il suo falsificazionismo in termini darwiniani sin dalla metà degli anni Sessanta, scorgendo nel meccanismo di tentativo ed errore l’attività di ogni organismo e la fonte di ogni c.; le stesse ipotesi e teorie scientifiche che determinano il progresso della c. non sono, per Popper, che tentativi di adattamento a un ambiente, con una differenza di rilievo tra l’uomo e gli altri organismi naturali: laddove la selezione elimina l’organismo che propone una soluzione sbagliata, l’uomo è in grado di ‘far morire’ i propri prodotti (ipotesi e teorie) al suo posto; l’attività scientifica si caratterizza, quindi, come eliminazione selettiva delle ipotesi errate (soluzioni inadatte) e conservazione selettiva di quelle corrette o vere (soluzioni adatte). L’obiettivo di fornire un’articolata teoria evoluzionistica della c. è stato perseguito su basi strettamente psicobiologiche da Campbell, al quale si devono contributi di rilievo sull’articolazione del modello evoluzionistico sia nell’analisi della percezione e dei processi induttivi sia nella teoria delle «aspettative innate» che, prodotte dalla filogenesi, caratterizzano gli organismi in quanto soggetti conoscitivi. Le prospettive evoluzionistiche in campo epistemologico vanno collocate, senza peraltro esaurirlo, nel quadro di quella che Quine, in un celebre articolo del 1969 (Epistemology naturalized), definiva «epistemologia naturalizzata», con ciò intendendo un progetto di ricer-ca sull’attività conoscitiva rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive e come tale ra-dicalmente innovativo rispetto alla gnoseologiatradizionale. L’obiettivo di questo approccio naturalistico sarebbe il conseguimento di plausibili teorie scientifiche riguardanti il modo in cui, a partire dalle stimolazioni delle terminazioni nervose, un soggetto fisico qual è l’uomo arriva a elaborare le teorie scientifiche sulla realtà. Per quanto influenti, le teorie naturalistiche della c. sono state spesso criticate. Putnam, per es. (Why reason can’t benaturalized, in Philosophical papers, 3, 1983), hasottolineato come l’epistemologia evoluzionistica poggi in ultima analisi su una inaccettabile concezione realista-metafisica della verità, trascurando la dipendenza della c. dall’inevitabile pluralità delle descrizioni che è tipica dell’attività cognitiva umana. Gli approcci ‘biologistici’ e causali non riuscirebbero inoltre a rendere conto in modo adeguato delle considerazioni di accettabilità razionale delle credenze e, quindi, degli aspetti normativi e argomentativi che sovrintendono all’attività epistemica. D’altra parte, secondo S. Stich (The fragmentation of reason, 1990; trad. it. La frammentazione della ragione) la tesi che i processi inferenziali e le capacità di pervenire a credenze vere siano un prodotto dell’evoluzione naturale (tesi difesa, tra gli altri, da Dennett) si basa su un’idea eccessivamente ottimistica della razionalità umana, giacché strategie che conducono a inferenze sbagliate o a credenze false si rivelano non di rado più adattive rispetto a strategie perfettamente razionali. Il dibattito ha visto in qualche modo schierati tre orientamenti: uno di tipo naturalistico (per lo più biologico-evoluzionistico); un altro di tipo culturalistico o postmodernista (derivante in sostanza dalla filosofia del secondo Wittgenstein, dalle concezioni di Kuhn e dal pragmatismo), secondo cui la c. è fondamentalmente un’attività mediata dalle regole, dalle convenzioni e dalle presupposizioni culturali vigenti in unadata comunità o gruppo sociale; un terzo di tipocognitivo, volto a individuare (di solito tramitesimulazione al computer) gli specifici processi psicologici che sovrintendono all’acquisizione e all’utilizzazione della conoscenza. Tra gli approcci di tipo tradizionale alla teoria della c. va infine menzionata la cosiddetta teoria affidabilista della c., che ha goduto di una certa diffusione negli anni Ottanta del sec. 20°. Tale teoria intende fondamentalmente porre dei vincoli alla concezione tradizionale secondo cui l’autentica c. consiste nella credenza vera giustificata, una concezione che, in base ad alcuni noti contro esempi di E.L. Gettier, fornirebbe condizioni necessarie ma non sufficienti per la c. vera, dato che potrebbero darsi credenze vere ma giustificate solo in modo accidentale, quindi prive di valore conoscitivo. Più di un autore, nel tentativo di superare le difficoltà segnalate da Gettier, ha individuato nell’affidabilità dei processi cognitivi coinvolti la garanzia per la c. autentica. Si possono ricordare, tra questi, D.M. Armstrong, Nozick e A. Goldman. Quest’ultimo ha inoltre sottolineato come l’individuazione dei processi cognitivi che permettono di generare credenze vere non possa essere di esclusiva pertinenza della filosofia, ma coinvolga necessariamente anche le indagini nel campo della scienza cognitiva (Philosophical applications of cognitive science, 1993; trad. it. Applicazioni filosofiche della scienza cognitiva), dal quale la filosofia può trarre utili indicazioni per un’autentica comprensione della razionalità umana. (➔ anche epistemologia; metodologia).