conoscenza [canoscenza; caunoscenza]
Vocabolo presente in tutte le opere dantesche, con particolare frequenza nel Convivio, dove si registrano venti occorrenze delle trentadue complessive.
La forma ‛ canoscenza ', propria della poesia e attestata in Rime LXXXIII 25, LXXXVII 16, oltre che in un notissimo verso del poema - per seguir virtute e canoscenza (If XXVI 120) - è meridionalismo per riduzione centrale di au (cfr. l'esempio di Vn XXIII 22 40 di caunoscenza e di verità fora, e la nota del Contini a Rime XLIV 1) sul quale forse ha agito la dissimilazione (cfr. Petrocchi, Introduzione 433, e nota a If XXVI 120; v. anche la voce CONOSCERE per l'alternanza con ‛ canoscere ', e scanoscenti di Rime LI 14; canoscenza' è in un sonetto di Dante da Maiano a D. [Rime XLI 7] dove è preceduto dall'evidente sicilianismo ‛ have ' per ‛ ha '; inoltre è reperibile anche in Cavalcanti: Chi è questa che vèn 14; Biltà di donna 12; Donna me prega 7).
È ancora da osservare che i codici documentano in altri luoghi della Commedia (If VII 54, Pg XXX 37, Pd XXVI 61) la forma ‛ canoscenza ', dal Petrocchi tuttavia non ritenuta accettabile (v. anche Barbi, Vita Nuova, p. CCLXXXV).
Infine la lezione ‛ coscienza ' in luogo di ‛ conoscenza ', anch'essa offerta da alcuni codici e non del tutto inammissibile per If VII 54 (ma vedi la corrispondenza con sconoscente del verso precedente che porta, come ha notato il Petrocchi, a preferire ‛ conoscenza ') si rivela priva di senso in Pg XXIII 47.
1. Per quanto riguarda il valore filosofico del termine, nel capitolo del Convivio dove si discorre sull'opportunità che il commento alle canzoni sia in volgare e non in latino, la c. è espressamente inclusa fra le ‛ disposizioni ' dell'animo: colui che è ordinato a l'altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza e obedienza (I V 5); e poco dopo viene ancora qualificata come uno degli ‛ abiti ' umani: in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de lo volgare (I VI 7). Questo senso generale è predominante negli esempi prossimi di Cv I VI 2, 6 e 11.
2. In relazione alla predetta definizione, comunemente c. vale " facoltà, potenza di conoscere " (v. CONOSCERE 2), come in If X 107 Però comprender puoi che tutta morta / fia nostra conoscenza da quel punto / che del futuro fia chiusa la porta, o in Vn XXIII 22 40 furon sì smagati / li spirti miei, che ciascun giva errando; / e poscia imaginando, / di caunoscenza e di verità fora... (cominciai a travagliare sì come farnetica persona, si legge nel corrispondente passo in prosa [XXII 4]); Cv IV XII 16, XXII 7, Pg XXX 37.
3. In un'occasione il vocabolo è adoperato a denotare l' " operazione conoscitiva ", il " processo gnoseologico " che, secondo la teoria aristotelica, s'inizia con la sensazione e si conclude con l'elaborazione del dato sensitivo da parte dell'intelletto (v. INTELLETTO POSSIBILE; INTENZIONE): Cv II IV 17 non avendo di loro [si allude a certe ragioni metafisiche circa le intelligenze angeliche] alcun senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende... alcuno lume de la... loro essenza (cfr. Pd IV 40-42 Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno, e Cv III II 13 questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva, cioè de la ragione).
Si riallaccia al processo conoscitivo anche l'occorrenza di Cv II I 13 ove si afferma, sul solco di un suggerimento aristotelico, che la nostra conoscenza deve procedere naturalmente da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene (cfr. CONOSCERE 2).
4. Altre volte il vocabolo designa l'effetto del processo conoscitivo pervenuto al suo compimento, il conoscere in atto, ossia la " cognizione " di qualche cosa, sia che essa si riferisca con limitazioni e in maniera imperfetta a Dio: [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza (Cv III XV 6); o, insieme, a Dio, alle sostanze separate e alla prima materia, tutte cose che lo 'ntelletto nostro vincono e di cui potemo avere alcuna conoscenza solo trattandole per li loro effetti (Cv III VIII 15, e v. anche II 8); sia che riguardi altri argomenti e punti particolari: l'infinita bontà e perfezione di Dio, in Pd XXVI 61 (la predetta conoscenza viva, con riferimento ai vv. 28-36); la umana bontade, in Cv IV XXI 1; l'operazione buona, l'intendimento della quale è soggetto della vera amistade, in III XI 13; la verace nobilitade, in IV I 9; le presenti [cose], in IV XXVII 5; le api, in IV XVII 12. V. anche Fiore LXXXVII 13.
5. In Cv IV I 9 la conoscenza del... testo è l'esatta " interpretazione letterale " della canzone Le dolci rime (cfr. il successivo § 11 Non sarà dunque mestiere ne la esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare); valore simile ha il termine nel passo di Cv II I 11 impossibile è prima venire a la conoscenza de l'altre che a la sua, dove si afferma la necessità di far precedere la dimostrazione della sentenza letterale a quella delle sentenze allegoriche, morali e anagogiche.
6. Alcuni luoghi registrano un uso assoluto del termine: così le parole di Beatrice a D. non perché nostra conoscenza cresca / per tuo parlare (Pd XVII 10) alludono contestualmente alla onnisapienza delle anime beate rispetto alle cose contingenti, che esse vedono anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti (vv. 16-18); e nel passo di Cv IV XIII 15 l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle [le ricchezze] mai non ama, il sostantivo riceve la sua qualifica semantica, all'interno dell'intera proposizione, dall'aggettivo vera, come del resto risulta dalla precisazione del § 16 E però seguita che l'animo che è diritto, cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza, per loro [delle ricchezze] perdita non si disface: per vera conoscenza si deve intendere c. secondo verità, esatta valutazione delle cose, virtù che permette agli uomini di respingere le ricchezze e aspirare alla scienza. In modo analogo, in Rime LXXXIII 25 quei cotanti c'hanno canoscenza sono coloro che posseggono " scienza " vera delle cose, i saggi.
7. Più complesso è il caso dell'espressione di Ulisse, fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI 120). Essa è certamente influenzata da un ricordo oraziano, " rursus quid virtus et quid sapientia possit, / utile proposuit nobis exemplar Ulixen " (Epist. I II 17-18), considerando il quale il Friedrich crede di poter dedurre che D. abbia introdotto, al posto della sapientia " assunta tanto nella concezione romana che in quella cristiana a rappresentare un valore supremo ", il termine corrispondente alla cognitio disordinata ed erronea dei testi romani e cristiani, ‛ canoscenza ', e che Ulisse rimanga quindi " ad un livello inferiore " essendo la sua vigilia solo una vigilia dei sensi (con riferimento a Tomm. Comm. I Anal. 42 " Scientia non est eorum quae cognoscentur per sensum "). Tesi poco attendibile, come del resto l'ipotesi avanzata da altri studiosi secondo cui la c. promessa da Ulisse ai suoi compagni si risolve in una forma di ‛ noxia curiositas ', peccato condannato dai dottori della Chiesa e dai teologi medievali (Bernardo di Chiaravalle, Agostino, Alessandro di Canterbury, Guglielmo d'Alvernia, Pietro Lombardo), e nel cui ambito veniva incluso anche lo studio della matematica, della geometria, dell'astronomia. Nella questione (un aspetto, in fondo, dell'antagonismo filosofia-teologia, scienza-fede, punto centrale della crisi del secolo XIII)
D. segue piuttosto s. Tommaso: " scire, quantum in se est, numquam malum est... sed per accidens contingit esse peccatum in sciendo vel addiscendo sive considerando... Ex parte cognoscentis... quando propter occupationem in studio alicuius scientiae impeditur ab executione quod tenetur... quando propter delectationem in aliqua scientia venerit in contemptum alicuius quod revereri oportet... Ex parte cognoscibilis quando cognoscibile de facili ad malum inclinat et praeterea in se parvae utilitatis est, quando cognoscibile est supra potentiam cognoscentis, quando in se nullius utilitatis est, sicut facta contingentia hominum " (commento In 4 libros sententiarum Petri Lombardi III 35 2 3).
Il desiderio di conoscere che anima Ulisse non ha in sé nulla di riprovevole, ché anzi costituisce un connotato dell'umana dignità, come già D. trovava riconosciuto in un passo del De Finibus ciceroniano, dove il canto omerico delle sirene si trasfigura in richiamo alla scienza, l'unico che possa agire sul navigante: " scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum, duci vero maiorum rerum contemplatione ad cupiditatem scientiae summorum virorum est putandum " (V XVIII 49).
L'Ulisse della Commedia fa parte di quella schiera di magnanimi, di ‛ megalopsicoi ' in cui D. riversa e oggettiva i suoi ideali più cari: in questo caso l'ideale della c., che distingue l'uomo dal bruto (cfr. Cv I I 1, e si legga in IV XII 13-20 e XIII 1-2 il serrato ragionamento con cui viene illustrato il procedere della c. attraverso successivi gradi, dai minori desiderabili all'ultimo desiderabile " che è Dio ": per una più ampia e documentata analisi del problema e per le relazioni tra c. umana e verità metafisiche, v. la voce SCIENZA). Il naufragio finale di Ulisse non può quindi significare altro se non che l'eroe ha superato i limiti posti alla sua stessa magnanimità: si ricordi l'osservazione di s. Tommaso prima citata, che considera peccaminoso il conoscere, tra l'altro, " quando cognoscibile est supra potentiam cognoscentis ". Ulisse in definitiva prefigura e precorre il viaggio dantesco, tenta d'intraprendere quell'itinerario conoscitivo teso dal contingente all'assoluto che poi D., con non minore ardore di conoscenza, ma soccorso a differenza del Greco dalla Grazia divina, avrebbe condotto a compimento (per una completa discussione sulla natura e sul valore ideologico e poetico del personaggio, v. ULISSE).
8. In Rime LXXXVII 16 le guai [le bellezze della pargoletta bella e nova] non posson esser conosciute / se non da conoscenza d'omo in cui / Amor si metta per piacer altrui, il vocabolo, inserito in un discorso, per temi e tecniche espressive, di tipo stilnovistico, ha il senso di " intelletto " (Contini), o di " conoscimento e senno " (Pernicone).
9. Infine c. può significare " riconoscimento " dell'identità di una persona: la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni, impedisce che i peccatori vengano riconosciuti (If VII 54; si noti l'antitesi paronomastica e si ricordino, a suffragio dell'interpretazione, i vv. 49-52 " Maestro, tra questi cotali / dovre' io ben riconoscere alcuni... ". / Ed elli a me: " Vano pensiero aduni... "); sì che 'l viso abbrusciato non difese / la conoscenza süa al mio 'ntelletto (XV 28); Questa favilla [il suono della voce] tutta mi raccese / mia conoscenza a la cangiata labbia, / e ravvisai la faccia di Forese (Pg XXIII 47).
Bibl. - H. Friedrich, Odysseus in der Hölle Geistige Ueberliferung, in " Das zweite Jahrbuch ", Berlino 1942 (il saggio del Friedrich è sunteggiato e in parte tradotto in T. Spoerri, Introduzione alla D.C., Milano 1966 [ediz. originale: Einfurung in die Göttliche Komödie, Zurigo 1946] 277-284); M. Fubini, Il peccato di Ulisse, in " Belfagor " II (1947) 461-475 (rist. in Due studi danteschi, Firenze 1951, 5-53, quindi ripreso in Il canto XXVI dell'Inferno, Roma 1952, ora in Letture dantesche 491-513); C. Marchesi, Orazio e l'Ulisse dantesco, in " Annuario del Liceo-Ginnasio G. Galilei ", Pisa 1953, 27-40; U. Bosco, La " follia " di D., in " Lettere italiane " X (1958) 417-430 (ora in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 55-76); G. Padoan, Ulisse fandi fictor e le vie della sapienza, in " Studi d. " XXXVII (1960) 21-61; F. Forti, Il limbo dantesco e i megalopsichoi dell'etica nicomachea, in " Giorn. stor. " LXXVIII (1961) 329-364 (ora in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965, 10-40); ID., " Curiositas " o " fol hardement "?, in Fra le carte dei poeti, cit., 41-77; T. Gregory, Filosofia e teologia nella crisi del sec. XIII, in " Belfagor " XIX (1964) 1-16; Pagliaro, Ulisse 409. Si veda inoltre la bibl. in calce alla voce ULISSE.