Conoscere il cancro
Il cancro può essere descritto come una malattia nella quale il controllo della crescita cellulare è gravemente compromesso, tanto che si ha invasione di uno o più organi del nostro corpo, fino a mettere a repentaglio la vita stessa. L’impressione che il corpo venga aggredito ha dominato per secoli le idee sul cancro: questo stesso nome (lat. cancer -cri «granchio, cancro») suggeriva un aggressore che proviene dall’esterno. Oggi abbiamo finalmente un’idea chiara sulla natura di questa malattia, diversa da tutte le altre: le cause sono svariate, gli organi e i tessuti che possono essere interessati sono tutti quelli del nostro corpo, le manifestazioni sono innumerevoli. Tuttavia, se guardiamo in fondo al problema, il modo in cui il cancro si sviluppa è sempre lo stesso: si tratta della trasformazione di una cellula normale in cellula cancerosa, o tumorale (con terminologia carica di emozione, si parla anche di cellula maligna).
Per capire il cancro occorre, perciò, considerare, da un lato, il meccanismo attraverso cui avviene la trasformazione cellulare (cioè l’oncogenesi); dall’altro, in che modo la cellula trasformata possa eludere i controlli, così che la sua crescita diventi talvolta travolgente.
Oncogenesi
La trasformazione di una cellula normale in cellula tumorale è la conseguenza di una serie ben precisa di eventi genetici, ovvero di mutazioni. Diversamente dalle mutazioni responsabili di malattie ereditarie che si verificano nelle cellule germinali (le cellule da cui derivano spermatozoi e ovociti), le mutazioni responsabili dei tumori hanno luogo nelle cellule di qualunque tessuto del nostro corpo (o soma) e sono dette, perciò, mutazioni somatiche. Mutazione è una modificazione ben precisa nella sequenza del DNA (DeoxyriboNucleic Acid), che ha luogo per lo più per un errore casuale nel corso della replicazione del DNA stesso: un processo cruciale che comporta, per una cellula umana, la copiatura di 3 miliardi di basi. Per la sua esecuzione la cellula dispone di un apparato estremamente raffinato che permette una copiatura assai fedele, ma che non può essere assolutamente perfetta: pertanto, qualche mutazione inevitabilmente si verifica a ogni ciclo di replicazione. La grande maggioranza delle mutazioni somatiche non avrà conseguenze, perché avviene in regioni del DNA al di fuori dei geni, o li modifica senza influire significativamente sulla loro funzione; ma può avvenire, di tanto in tanto, che una mutazione modifichi la cellula in modo tale da farla crescere un po’ più del normale, o da alterarne qualche altra caratteristica importante. Anche in tal caso non basta una singola mutazione perché una cellula normale diventi tumorale: occorre una successione di mutazioni somatiche. Non ne conosciamo il numero esatto, e probabilmente esso varia nei vari tipi di tumori, ma dal complesso di varie considerazioni e di dati sperimentali possiamo stimare che in genere esso sia compreso fra 3 e 6. A fronte di tale piccolo numero, i geni complessivamente implicati si valutano intorno ad alcune centinaia, e forse più: ciò significa che in un singolo tumore saranno mutati in genere da tre a sei geni, ma che questi sono diversi per ogni tipo di tumore; inoltre, geni diversi possono essere implicati anche in tumori che appaiono simili.
Alterazione dei meccanismi di controllo
Dal momento che la caratteristica che definisce un tumore è la crescita incontrollata, possiamo immaginare, in prima approssimazione, quali geni siano implicati in questo fenomeno.
a) In tutti gli organismi viventi un processo fondamentale è il ciclo della divisione cellulare, che ha raggiunto nel corso dell’evoluzione un grado elevato di complessità, soprattutto nel senso che è finemente regolato. La regolazione si realizza attraverso fattori di crescita che giungono alla cellula dall’esterno, recettori per tali fattori presenti sulla membrana esterna della cellula e che mandano segnali all’interno, una catena di molecole nel citoplasma della cellula che trasmettono (o trasducono) i segnali, molecole (fattori di trascrizione) che ricevono i segnali nel nucleo e lì, a loro volta, regolano la replicazione del DNA e l’espressione di specifici geni. In effetti, una prima categoria di geni le cui mutazioni somatiche possono dare origine a un tumore è costituita da tutti quelli che regolano il ciclo cellulare.
b) Una seconda categoria è costituita da geni implicati nel differenziamento cellulare. In molti dei nostri tessuti le cellule sono soggette a un continuo rinnovamento (o turnover) che viene assicurato da cellule staminali, definite dalla coesistenza di due proprietà: capacità di autoreplicarsi e capacità di differenziarsi. Esempi paradigmatici sono il midollo osseo, che produce le cellule del sangue rinnovate ogni giorno a trilioni, e gli epiteli della pelle e delle mucose, i quali devono continuamente sostituire le cellule che da esse desquamano; ma sappiamo oggi che cellule staminali esistono in realtà in tutti i tessuti. Nelle cellule staminali normali vige un fine equilibrio tra i geni che favoriscono la divisione e quelli che favoriscono il differenziamento cellulare, ma se uno di questi geni è mutato potrebbe prevalere la divisione sul differenziamento, talvolta fino al punto che la cellula staminale normale diventa una cellula staminale tumorale. Potrebbe anche succedere che una mutazione in una cellula già parzialmente differenziata possa farla ritornare allo stadio di cellula staminale (tumorale).
c) Una terza categoria riguarda i geni implicati nell’apoptosi (ossia la morte cellulare che consegue all’attivazione di un ben preciso programma di suicidio). L’esecuzione del programma è complessa e richiede l’intervento di molti geni: normalmente nell’adulto il programma viene attivato in condizioni specifiche, per es. quando la cellula è danneggiata in modo grave, tale da costituire un pericolo per l’organismo in toto (per questo l’apoptosi è stata considerata, in modo un po’ antropomorfico, come un sacrificio altruistico da parte della cellula). Mutazioni in geni implicati nell’apoptosi potrebbero renderli incapaci di attivare o di eseguire il programma apoptotico, permettendo la sopravvivenza di cellule pretumorali che, in assenza di quelle mutazioni, si sarebbero autodistrutte.
d) Infine, poiché abbiamo visto che le mutazioni somatiche giocano un ruolo cruciale nell’oncogenesi, esiste una possibilità assai particolare che vi siano mutazioni di geni in grado di facilitare le mutazioni. Nella cellula normale la frequenza di mutazione è tenuta a un livello minimo grazie alla presenza di meccanismi i quali continuamente sorvegliano che la copiatura del DNA sia fedele (fino al punto di fungere da correttori di bozze), e spesso addirittura riescono a riparare lesioni del DNA. Tali meccanismi richiedono la cooperazione delicata di molti geni: se uno di questi ha subito una mutazione somatica, da quel momento in poi aumenta molto la probabilità che possa mutare qualunque altro gene, e perciò aumenta il rischio della trasformazione della cellula interessata in cellula tumorale.
Mutazioni somatiche e oncogenesi
Occorre ribadire a questo punto che, sebbene siano molti i geni le cui mutazioni possono causare il cancro, tra tutte le mutazioni somatiche possibili quelle che in definitiva danno questo risultato sono una piccolissima minoranza. Noi andiamo incontro a numerosissime mutazioni somatiche, la maggior parte delle quali è neutra, o ininfluente, anche perché limitata a una singola cellula, o a poche cellule. Una mutazione somatica è pericolosa, in senso oncogenico, solo se presenta due caratteristiche: altera la crescita o il differenziamento e, al tempo spesso, non attiva l’apoptosi. Inoltre, perché una cellula diventi maligna occorre non una, ma una successione di diverse mutazioni che abbiano queste caratteristiche. Se così non fosse, l’insorgenza del cancro nella popolazione umana sarebbe assai più frequente, e soprattutto più precoce. In effetti, anche se il cancro può svilupparsi nei giovani e perfino nei bambini (il che accade in modo specifico per alcuni particolari tipi di tumori, dei quali il retinoblastoma è un esempio paradigmatico), nella maggioranza dei casi è una malattia che colpisce gli anziani. Statistiche accurate hanno mostrato che la frequenza del cancro aumenta con l’età con dipendenza ben più che lineare (dell’ordine della quarta potenza dell’età). La spiegazione più diretta di questo dato di fatto è proprio che, come si è visto, la trasformazione della cellula normale in cellula maligna è un processo a tappe, che richiede diverse mutazioni somatiche: nelle persone anziane queste mutazioni hanno avuto più tempo per accumularsi.
Fattori ereditari
Strettamente parlando il cancro non è mai ereditario, ma in alcune famiglie vi può essere una tendenza ereditaria a sviluppare tumori, o un particolare tipo di tumore. In alcuni casi sono stati identificati i geni responsabili, ossia geni che, quando hanno subito mutazioni ereditarie (non somatiche), possono farci nascere con una predisposizione a tumori maggiore della media. Conosciamo ormai almeno una trentina di questi geni, e molte più mutazioni degli stessi, e abbiamo capito che queste possono agire in almeno due modi diversi. Alcune mutazioni ereditarie aumentano la probabilità che abbiano luogo mutazioni somatiche: è chiaro da quanto detto sopra che ciò fa crescere il rischio di cancro. In altri casi, una mutazione che avvicina una cellula alla condizione della malignità può essere direttamente trasmessa al figlio da uno dei genitori invece che essere acquisita. In tal caso, è come se tutte le cellule dell’organismo, anziché partire da zero sul percorso che porta al cancro, ne avessero già percorso la prima tappa. Oltre a quei geni mutanti ereditari per i quali è stato già dimostrato che aumentano molto il rischio di sviluppare un tumore (sono detti geni ad alta penetranza), ve ne sono altri dotati di un effetto meno evidente ma pur sempre significativo (geni a bassa penetranza). Nelle famiglie con un’alta percentuale di tumori maligni può essere giustificato offrire test genetici per stabilire la presenza, o meno, del gene mutante. Il test deve essere effettuato solo dopo consulenza appropriata, in un centro con personale specializzato nella genetica dei tumori. Infatti, rischio più elevato non è sinonimo di certezza di sviluppare il cancro (fig. 1).
Fattori ambientali
Capire quali fattori ambientali possano favorire lo sviluppo del cancro è importante per almeno due motivi. Dal punto di vista scientifico, perché significa comprendere le cause di certi tumori; dal punto di vista pratico, perché potremmo sperare di eliminare tali cause e prevenire così i tumori che ne conseguono. Avere il sospetto che un fattore ambientale sia oncogenico non equivale a dimostrarlo in modo incontrovertibile: basti pensare che il fattore quantitativamente più importante è il fumo delle sigarette, eppure c’è voluto più di mezzo secolo perché ciò fosse universalmente riconosciuto (fig. 2). Oggi però abbiamo un elenco accreditato di fattori ambientali oncogenici: questi includono agenti fisici come le radiazioni ionizzanti e i raggi ultravioletti; agenti chimici come gli idrocarburi aromatici e l’amianto; agenti infettivi come il virus del papilloma e il batterio Helicobacter pylori. Tutti questi fattori agiscono essenzialmente in due modi: o aumentano la frequenza di mutazioni somatiche, sono cioè mutageni; oppure, attraverso vari meccanismi, stimolano le cellule a dividersi a un ritmo maggiore del normale, aumentando così il rischio di mutazioni spontanee.
Tra i fattori ambientali possiamo anche annoverare quelli che oggi sono genericamente indicati con la locuzione stili di vita. In una recente analisi nove componenti sono emersi come associati in modo significativo allo sviluppo dei tumori in varie popolazioni: sovrappeso/obesità; scarsità di frutta e verdura nella dieta; mancanza di esercizio fisico; fumo di sigaretta; uso eccessivo di alcol; attività sessuale non protetta; inquinamento atmosferico urbano; fumo da combustibili solidi in ambienti confinati; uso di aghi da iniezione contaminati. È importante sottolineare però che il contributo di questi nove fattori non è paritetico: complessivamente, il fumo è il colpevole massimo. La prevenzione del cancro è ovviamente un obiettivo molto desiderabile. Poiché una percentuale significativa di molti tipi di tumore è evitabile, si tratta di un obiettivo che è anche in parte attuabile, e dobbiamo lamentare che, a fronte di molti progressi nella cura del cancro, le misure preventive sono ancora lungi dall’essere ottimali. Per es., se tutti cessassero improvvisamente di fumare, l’impatto sarebbe notevole: vedremmo entro pochi anni una drastica diminuzione dei tumori del polmone, e anche di molti altri tumori. Inoltre, prevenire certe infezioni potrebbe far diminuire i tumori dello stomaco, del fegato e del collo dell’utero (tab. 1).
Un modello unitario per l’oncogenesi
L’esistenza di fattori ereditari e di fattori ambientali nella patogenesi del cancro è stata vista spesso come una contrapposizione di cause diverse. Oggi finalmente vediamo che non è così. Il meccanismo centrale dell’oncogenesi è una successione di mutazioni somatiche: ciò che varia è quel che le produce. In molti casi fattori ambientali favoriscono le mutazioni somatiche: per es., quando le cellule dell’epitelio bronchiale sono soggette agli agenti mutageni presenti nel fumo delle sigarette. In altri casi (e potenzialmente anche nelle stesse persone) fattori ereditari rendono le cellule più vulnerabili all’effetto di tali agenti mutageni; oppure le cellule sono costituzionalmente più inclini alle mutazioni somatiche anche in assenza di mutageni. Infine, poiché le mutazioni somatiche avvengono in tutti noi da quando siamo concepiti, una successione di mutazioni oncogeniche può aver luogo spontaneamente. In altre parole, dobbiamo riconoscere che esistono tumori spontanei, e potremmo dire che sono dovuti al caso. Al tempo stesso, questo modello ci dà una chiave per interpretare il meccanismo d’azione di tutte quelle situazioni che aumentano il rischio di insorgenza di tumori.
Crescita tumorale
Quando una cellula è diventata tumorale, essa può dimostrarsi più o meno invasiva: ciò dipende sia dalla natura della cellula, sia dalla sede in cui si trova. Tra i molti aspetti dei rapporti tra il tumore e il microambiente in cui si sviluppa, due sono di particolare importanza. In primo luogo, quando il tumore ha raggiunto una certa dimensione, per crescere ulteriormente ha bisogno di nutrirsi. L’apporto di sangue, che normalmente serve a nutrire i tessuti normali, non è più sufficiente per il tumore e questo, in molti casi, perirebbe a tutto vantaggio dell’organismo che lo ospita, se non avesse esso stesso la capacità di indurre la formazione di nuovi vasi sanguigni (neoangiogenesi) a suo uso e consumo. In secondo luogo, la cellula tumorale talvolta possiede, oppure acquisisce successivamente, la straordinaria capacità di migrare altrove o attraverso i vasi linfatici normalmente presenti nei dintorni, o addirittura attraversando la sottile parete di un capillare. Una volta passata nel circolo sanguigno, la cellula tumorale può anche uscirne, attraversando nuovamente un capillare, e formando poi una vera e propria colonia, anche in sede molto distante da quella di origine. È così che una cellula di un tumore del colon può formare una colonia nel fegato, o una cellula di un tumore polmonare nel cervello. È questo il fenomeno della metastasi, comprensibilmente l’evoluzione più temuta dello sviluppo di un tumore.
Tipi di tumore
Considerando che ogni tumore proviene da una cellula normale, e che negli organi e tessuti del nostro corpo vi sono molti tipi di cellule normali, potremmo attenderci che esistano altrettanti tipi di tumori: in realtà, sono anche di più, poiché una stessa cellula normale può trasformarsi in cellula tumorale in modi diversi. Una classificazione naturale dei tumori è proprio in base alla cellula di origine: per es., epitelioma da cellule epiteliali (nel linguaggio corrente gli epiteliomi vengono però di solito chiamati carcinomi), linfomi da cellule linfoidi, mioblastoma da cellule muscolari. È anche possibile classificare i tumori in base all’organo in cui si sviluppano (per es., tumore del seno, del polmone, del fegato). Infine, dobbiamo distinguere tumori benigni e maligni, dove gli aggettivi parlano da soli: ma anche tra i tumori maligni (che corrispondono al termine cancro) abbiamo imparato a distinguere vari gradi di malignità. In complesso, in base ai criteri oggi accettati nella diagnostica clinica, sono stati identificati almeno duecento tipi di tumori; e dobbiamo attenderci che, quando conosceremo di ciascuno l’identità molecolare, cioè le singole mutazioni che sono presenti, il numero sarà assai maggiore.
La cura
Il cancro può essere curato con la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia.
L’intervento chirurgico mira, ogni qualvolta è possibile, all’asportazione completa del tumore: quando si ottiene ciò, spesso si raggiunge anche la guarigione. Vi sono tre limiti alla chirurgia: a) l’asportazione completa talvolta non è possibile, perché il tumore è in rapporto troppo stretto con strutture anatomiche vitali (per es., una grossa arteria o una parte del cervello); b) il tumore è per sua natura multicentrico, cioè presente dall’inizio in varie sedi (come nel caso delle leucemie e dei linfomi); c) il tumore si è già diffuso in altre parti del corpo, ha cioè già dato luogo a metastasi.
La radioterapia e la chemioterapia, senza asportarle fisicamente, mirano a distruggere le cellule tumorali: diversamente dalla chirurgia possono perseguitarle, almeno in teoria, ovunque esse siano, cercando naturalmente di provocare il minore danno possibile al resto dell’organismo. La radioterapia ha l’attrattiva di dirigere direttamente sul bersaglio fasci di radiazioni ionizzanti, che non solo possono uccidere, ma anche attivare nelle cellule tumorali il fenomeno dell’apoptosi. Per questo e altri motivi le cellule tumorali sono in molti casi più sensibili alle radiazioni delle cellule normali: ed è per questo che la radioterapia funziona. Inoltre, le tecnologie per focalizzare le radiazioni in modo preciso sono diventate sempre più raffinate. Ciononostante, è impossibile che qualche danno non si estenda anche alle cellule dei tessuti normali circostanti, e questo è spesso il fattore limitante per la radioterapia.
La chemioterapia si basa, da quando è stata introdotta, sulla caratteristica principale dei tumori, cioè la loro crescita abnorme. Gli agenti antitumorali usati in chemioterapia o inibiscono la crescita delle cellule maligne, o ne favoriscono la morte, o fanno entrambe le cose, e sono detti perciò citotossici. La maggior parte degli agenti antitumorali oggi in uso prende di mira processi cellulari che sono direttamente o indirettamente legati alla divisione cellulare o al suo controllo, e funzionano perché le cellule tumorali proliferano a un ritmo più alto di quelle normali. Inevitabilmente questi agenti citotossici influiscono però anche sulle cellule normali, e perciò causano effetti collaterali più o meno seri. Per individuare sostanze utili alla terapia è necessario effettuare molte ricerche, prima nelle colture cellulari e poi sugli animali da esperimento. Con il progredire delle nostre conoscenze circa i cambiamenti a livello molecolare causati, nelle varie neoplasie, dalle mutazioni somatiche, si stanno progettando sostanze che prendano di mira le differenze qualitative invece che quantitative. Simili farmaci, essendo più specifici, dovrebbero dimostrarsi molto meno tossici.
I tre approcci principali alla cura dei tumori non sono necessariamente alternativi uno all’altro, anzi, in molti casi si è imparato a combinarli per ottimizzare i risultati. Frequente è l’utilizzo della radioterapia e/o della chemioterapia dopo la rimozione chirurgica, per es., di un carcinoma del seno: in tal caso questo tipo di terapia viene chiamata adiuvante, perché mira ad aiutare l’effetto della chirurgia, eliminando residui microscopici del tumore che potrebbero essere sfuggiti all’opera del bisturi. In altri casi la chemioterapia viene usata prima dell’intervento (viene chiamata neoadiuvante), allo scopo di diminuire le dimensioni della massa tumorale e facilitare la successiva rimozione chirurgica del tumore, che altrimenti sarebbe stata più difficile o impossibile. In altri casi la chemioterapia e la radioterapia vengono usate in stadi successivi del trattamento di un tumore.
Terapie mirate
Le nuove conoscenze sulle anomalie presenti nelle cellule tumorali, che derivano da specifiche mutazioni somatiche, permettono di cercare nuovi punti di attacco per la terapia dei tumori. Se tradizionalmente queste terapie erano basate prevalentemente sul ritmo di crescita più elevato delle cellule tumorali, ora conosciamo i recettori, le proteine citoplasmatiche, le proteine regolatrici dell’espressione genica implicati in tale crescita. Sembra logico pertanto focalizzare la ricerca farmacologica su sostanze capaci di legarsi a tali proteine, interferendo con la loro funzione. Diversamente dai farmaci antitumorali più tradizionali, che sono stati sviluppati essenzialmente su base empirica, questi farmaci vengono studiati ad hoc in modo mirato, e sono perciò chiamati, in modo pittoresco, farmaci intelligenti. L’esempio più spettacolare, perché già collaudato dall’esperienza clinica degli ultimi cinque anni, è quello dell’imatinib, una molecola sintetizzata per inibire la funzione di una proteina, chiamata Bcr-Abl, prodotta dal gene mutato responsabile della leucemia mieloide cronica (fig. 3). Come illustrato nella figura 3A, la proteina Bcr-Abl presenta una ‘tasca’ per legare l’ATP, il quale trasferisce un suo gruppo fosforico al substrato (in giallo). Il substrato, che probabilmente è parte di Bcr-Abl, una volta fosforilato si deforma, diventando così capace di legarsi alla proteina Grb-2 (in viola) e dando in questo modo inizio a una catena di eventi che porterà alla proliferazione cellulare. La parte B della figura mostra l’effetto dell’imatinib: legandosi all’ATP impedisce la fosforilazione del substrato e quindi l’aumento di cellule tumorali. L’imatinib è talmente efficace che ha letteralmente rivoluzionato il trattamento della leucemia mieloide cronica, e il suo uso ci ha già impartito altre lezioni importanti. In primo luogo, poiché il suo meccanismo d’azione è ben preciso, la tossicità è bassa; tuttavia, non è nulla: l’imatinib evidentemente si lega in qualche misura anche a molecole, simili a Bcr-Abl, presenti nelle cellule normali non leucemiche. Inoltre, l’uso prolungato dell’imatinib può portare alla selezione di cellule leucemiche che presentano un’ulteriore mutazione, proprio nel gene Bcr-Abl, tale da renderle resistenti al farmaco, tanto che si stanno studiando nuove sostanze capaci di inibire anche questa nuova proteina lievemente diversa. Infine, dobbiamo tenere presente che i farmaci intelligenti sono tali in quanto specifici: pertanto, ne occorreranno molti differenti per affrontare singoli tipi di tumori che hanno mutazioni diverse.
Un altro nuovo approccio riguarda l’ambiente in cui il tumore si sviluppa. Anche in questo settore abbiamo un esempio già entrato nella pratica clinica, il bevacizumab. Esso blocca un fattore che stimola la formazione di nuovi vasi sanguigni i quali, come si è visto, servono al tumore stesso per crescere. Il bevacizumab non riesce a distruggere un tumore, ma può limitare la sua crescita, come è stato dimostrato dapprima per il cancro del colon, e poi per altri tumori. Altri esempi sono il trastuzumab, che si è dimostrato efficace per controllare il cancro del seno, e il rituximab, efficace in molti tipi di linfoma. Ciascuno di questi farmaci ha effetti collaterali, che sono in genere diversi tra loro e piuttosto differenti da quelli dei farmaci antitumorali più tradizionali.
Per questo e per altri motivi sarà necessario, come in passato, imparare attraverso studi clinici accurati come usare ogni nuovo farmaco in modo ottimale. Alcuni di noi pensano che il futuro dei farmaci intelligenti non sia alternativo a quelli, meno intelligenti, che abbiamo usato sinora; e anche in passato i risultati migliori si sono spesso ottenuti usando nel trattamento più di un farmaco, o simultaneamente o in successione (politerapia, anziché monoterapia). È probabile che anche in futuro dovremo imparare a usare in modo intelligente combinazioni di farmaci più vecchi e più nuovi (tab. 2).
Obiettivi terapeutici e comunicazione con il paziente
Come parlare del cancro a un paziente è un problema delicato fin dal primo momento in cui la diagnosi è formulata. La comunicazione non è facile, e ci sono ancora luoghi o situazioni in cui essa è rinviata o evitata, spesso orientandola verso i parenti invece che verso il paziente, a volte al prezzo di violare la sua privacy. Gli schemi di comunicazione cambiano molto da una cultura all’altra e, in alcune di esse, c’è ancora la tendenza a nascondere la verità, del tutto o in parte. In genere, questo è dannoso, sia perché compromette il rapporto di fiducia tra il paziente e il medico, sia perché, per forza di cose, tacere la verità interferisce con il diritto del paziente a partecipare consapevolmente alle decisioni sulla gestione del suo caso. La notizia dovrebbe essere comunicata in modo umano, con sensibilità e nella misura voluta dal paziente, e accompagnata da un sostegno psicologico professionale. Ne consegue che nella cura dei malati l’aspetto del sostegno sia considerato secondario: in una certa misura ciò è appropriato, purché la terapia di sostegno non venga posta in secondo piano. Per fortuna oggi esistono professionisti in questo campo. La terapia di sostegno ha componenti fisiche e psicologiche, ambedue necessarie in modi e momenti diversi. In generale, al momento della diagnosi la cosa più urgente è aiutare il paziente ad affrontare e metabolizzare una scossa psicologica imprevista, a volte così violenta da mettere a repentaglio la sua vita. Durante la fase attiva della terapia, che può essere molto impegnativa per l’organismo, il sostegno fisico è spesso quello di cui il paziente ha più bisogno. Nei malati in fase avanzata le necessità sono sia fisiche sia psicologiche, ed è prioritario il problema dell’attenuazione del dolore. Per molto tempo, gli operatori che si sono occupati della gestione dei tumori sono stati i medici e gli infermieri; è quindi naturale che essi siano ancora fondamentali nell’assistenza al malato di cancro. Nello stesso tempo, è decisamente auspicabile assicurare ai pazienti i vantaggi legati alle particolari capacità di altri professionisti, tra i quali gli psicologi, gli esperti in riabilitazione, gli esperti di cure palliative, gli psicoterapeuti, gli specialisti di arte-terapia e via dicendo. Infine, quando il termine della vita appare drammaticamente vicino, occorre dare il giusto peso anche alle necessità spirituali dei pazienti e dei loro congiunti.
Cure ottimali
Se ogni tipo di tumore è diverso dagli altri, a maggior ragione ogni paziente ha una sua storia personale. In medicina l’obiettivo è la cura del malato, non la malattia, e l’oncologia non rappresenta un’eccezione. Si è già visto che esistono molti tipi diversi di tumore; il paziente può poi presentarsi con un tumore più o meno avanzato, ed è essenziale per una cura ottimale definire tale aspetto: questa valutazione si chiama stadiazione. Inoltre, occorre naturalmente tenere conto delle condizioni generali del paziente, della sua età e via dicendo.
Per ogni tipo di tumore e per ogni stadio esiste ormai un trattamento che possiamo considerare ottimale, il cosiddetto gold standard, che da studi documentati a livello internazionale risulta offrire il miglior rapporto tra efficacia e possibili effetti collaterali. È questo che, con tutte le spiegazioni dovute, possiamo offrire al paziente. Vi sono situazioni (per es., per alcuni casi di cancro della prostata soprattutto nei pazienti in età avanzata) nelle quali esistono opzioni alternative essenzialmente equivalenti: in questi casi, a maggior ragione, occorre dare spiegazioni per riuscire a decidere, con il paziente, quale scelta è preferibile nel singolo caso.
Per il trattamento dei tumori la globalizzazione è un fatto positivo. Ormai i protocolli per qualunque tipo e sottotipo di tumore sono in rete; il gold standard è uguale in tutto il mondo. Occorre però riconoscere che non dappertutto tali protocolli sono applicati in modo fedele e rigoroso, soprattutto perché per farlo è necessario un lavoro di squadra, in cui tutti i professionisti della chirurgia oncologica, dell’oncologia medica, della radioterapia, dell’anatomia patologica e degli altri laboratori, della terapia del dolore, della terapia di supporto lavorino come un tutto unico. È per questo che sempre più si è affermato il concetto che il trattamento ottimale del cancro si realizza di solito in centri specializzati, chiamati Comprehensive cancer centers, che corrispondono in Italia agli istituti per lo studio dei tumori. Vi sono ormai dati statistici che dimostrano come i risultati del trattamento, misurati in termini di guarigione, di sopravvivenza e di qualità della vita, siano superiori nei migliori di questi centri specializzati.
La sperimentazione clinica
I trials clinici sono la spina dorsale dei progressi nella terapia; in particolare, nel campo dell’oncologia sono necessari a far progredire i metodi di cura di tutti i tipi di tumore umano. I trials clinici vanno effettuati solo con sostanze precedentemente saggiate in vitro e su animali. Alla fine, però, la prova decisiva della loro efficacia può venire solo da test su pazienti malati di tumore; perciò, un trial clinico rappresenta una vera e propria sperimentazione sull’uomo. Per questo motivo esso può essere eseguito solo a certe condizioni. Prima di tutto, al paziente deve essere offerta la migliore terapia disponibile e collaudata, e gli si deve proporre di partecipare a un trial solo se preferisce farlo, dopo averlo informato dei possibili altri rischi. Inoltre, il trial deve essere impostato in modo tale che il suo protocollo sia almeno non inferiore al metodo di cura collaudato. Perciò, in genere la maggior parte dei trials include la terapia collaudata e la nuova terapia, che si spera sia superiore. Ogni trial clinico è vagliato e approvato dal comitato etico dell’ospedale in cui deve avere luogo, e soprattutto occorre evitare rigorosamente qualunque conflitto di interessi da parte di coloro che sono coinvolti nella progettazione e realizzazione del trial. La cura di una neoplasia è molto complessa, spesso è ad alta tecnologia, e in generale il suo obiettivo primo è raggiungere la guarigione, o almeno una lunga remissione.
Cure alternative e cure integrate
La medicina alternativa può essere definita come l’ampia gamma di approcci che mirano ad aiutare i pazienti con modalità che, nel valutare la propria efficacia, prescindono dal metodo scientifico. Esiste un ampio ventaglio di pratiche terapeutiche, molte delle quali affondano le radici in culture diverse da quella occidentale. Spesso la medicina alternativa si rivolge al lato irrazionale che è in ciascuno di noi, e molte forme di medicina alternativa rispondono a una naturale richiesta di sostegno mentale in situazioni in cui siamo di fronte alla malattia e alla possibilità della morte. Bisogna ammettere che il confine tra l’offerta di sostegno e le aspettative del paziente è spesso incerto. Molti di coloro che praticano la medicina alternativa sono premurosi e umani, e si dimostrano capaci di offrire il sostegno indispensabile; tuttavia, c’è il rischio che possano causare nocumento quando promettono guarigioni improbabili.
D’altro canto, alcune forme di medicina oggi considerata alternativa, sottoposte a vagli appropriati, potrebbero rivelarsi efficaci e utili, per es. nell’ambito delle terapie di supporto per malati di cancro. In tal caso non dovrebbero più essere considerate alternative, ma piuttosto essere incorporate nel nostro armamentario terapeutico: è in questo senso che si dovrebbe oggi intendere la medicina integrata.
Diagnosi precoce
Sia la prevenzione sia la cura dei tumori hanno sortito notevoli successi, ma per ora il numero di malati continua ad aumentare, e non tutti sono guaribili. Molti fattori entrano in gioco nel determinare i risultati delle cure, ma uno dei più importanti è lo stadio in cui si effettua la diagnosi. È quasi intuitivo che la rimozione chirurgica di un piccolo nodulo tumorale porterà quasi sempre alla guarigione definitiva, mentre affrontare un tumore voluminoso e che forse ha già dato metastasi è ben più problematico. La diagnosi precoce può essere facilitata dall’autopercezione di un paziente più attento ai sintomi, dall’acume del medico di medicina generale e, talvolta, dalla scoperta accidentale di un tumore nel corso di un’indagine eseguita per altri motivi. Queste semplici considerazioni hanno portato all’idea che, con opportune indagini eseguite deliberatamente anche prima che qualsiasi sintomo si manifesti, si potrebbe fare più regolarmente una diagnosi precoce.
Naturalmente eseguire indagini a tappeto, o screening, sull’intera popolazione non è impresa da prendere alla leggera, dal punto di vista sia logistico sia economico. Per ora esistono tre screening di provata efficacia: la mammografia per il tumore del seno, l’esame citologico del tampone vaginale (pap test) per il tumore del collo dell’utero, l’esame del sangue occulto nelle feci per il tumore del colon-retto. In Italia questi tre test sono offerti gratuitamente per determinate fasce di età, ma la percentuale di persone che effettivamente eseguono i test con la periodicità consigliata varia molto da regione a regione. Se tutta la popolazione facesse gli screening, avremmo una diminuzione sostanziosa della mortalità causata da questi tre tipi di tumore.
Lo stesso non si può dire per altri test che vengono effettuati non secondo un programma di protezione pubblica della salute, ma per iniziativa degli interessati o di singoli medici. Il caso più vistoso è quello del PSA (Prostate Specific Antigen). Questo test è attraente perché viene effettuato su un semplice campione di sangue, ma ha vari inconvenienti. Da un lato, un livello moderatamente elevato di PSA, che non è prova decisiva di cancro della prostata, genera ansia e comporta spesso indagini invasive che potrebbero rivelarsi negative. Dall’altro lato, un livello di PSA nei limiti della norma non esclude la presenza di un cancro della prostata. Infine, poiché il cancro della prostata è estremamente variabile nel grado di aggressività, potrebbe succedere che si affrontino cure non prive di rischi per tumori che non avrebbero causato problemi seri. Insomma, il PSA è molto utile per il monitoraggio di pazienti che hanno il cancro della prostata, ma per valutarne l’applicabilità come test di screening a livello dell’intera popolazione occorrono ancora ricerche epidemiologiche ben programmate. Ricerche su altri possibili approcci allo screening, per es. per il cancro del polmone, sono attualmente in corso.
Terapie nuove
La ricerca sul cancro è in continuo sviluppo, ma non è facile prevedere con precisione quali dei risultati nelle migliaia di pubblicazioni che vedono la luce ogni anno porteranno ad applicazioni utili all’oncologia clinica. Una previsione quasi sicura è che l’analisi dei tumori a livello molecolare continuerà a rivelare mutazioni somatiche specificamente responsabili di singoli tipi di tumori: e ognuna di queste costituisce potenzialmente un bersaglio per un nuovo ‘farmaco intelligente’. Le stesse mutazioni, specialmente se consistono in geni di fusione che producono proteine tumore-specifiche, possono essere bersagli ideali anche per nuovi approcci immunologici. La radioterapia continuerà a sfruttare tecnologie sempre più avanzate nel focalizzare e modulare l’intensità delle radiazioni. Lo spettro di applicazioni degli agenti antiangiogenici è attualmente allo studio e suggerisce che vi possano essere anche altri modi di inibire la crescita dei tumori influendo sul loro ambiente organismico. Il trasferimento genico, che ha portato alla terapia genica di malattie ereditarie, deve ancora dimostrare la sua applicabilità al settore oncologico: è prevedibile che lo farà probabilmente proprio in associazione a uno degli approcci appena menzionati. Infine, un punto cruciale nel guardare al futuro delle cure del cancro è che sia sostenuta la ricerca in merito, e che il consenso sociale decida di rendere sempre disponibile a tutti il beneficio dei progressi conseguiti.
Bibliografia
J. Cairns, Mutation selection and the natural history of cancer, «Nature», 1975, 255, 5505, pp. 197-200.
R. Zanetti, S. Rosso, Fatti e cifre dei tumori in Italia, Roma 20032.
R.A. Weinberg, The biology of cancer, New York 2007.
Abeloff’s clinical oncology, ed. M.D. Abeloff, J.O. Armitage, J.E. Niederhuber et al., Philadelphia 20084.
World cancer report 2008, ed. P. Boyle, B. Levin, Lyon 2008.
L. Luzzatto, Capire il cancro. Conoscerlo, curarlo, guarire, Milano 2009.
M.R. Stratton, P.J. Campbell, P.A. Futreal, The cancer genome, «Nature», 2009, 458, 7239, pp. 719-24.
Textbook of medical oncology, ed. F. Cavalli, S.B. Kaye, H.H. Hansen et al., London 20094.