Conseguenze ambientali dei cambiamenti climatici
La conclusione della Conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen (COP15, 15th Conference Of the Parties), tenutasi nel dicembre del 2009, sancita da un documento che non obbliga i Paesi firmatari (parti) della United Nations framework convention on climate change (UNFCCC), entrata in vigore nel 1994, a limitazioni legalmente vincolanti delle emissioni in atmosfera di gas clima-alteranti (GHG, GreenHouse Gas), rappresenta emblematicamente l’esito di un percorso iniziato ben prima che fosse definita la stessa convenzione quadro. Il summit danese ha segnato una linea di demarcazione sostanziale, pur non avendo il valore simbolico dell’ultimo atto, ossia non costituendo l’ultima Conferenza delle parti nel periodo di operatività (2008-2012) del trattato che ha finora regolato l’applicazione dei principi UNFCCC e la misurazione dei conseguenti obiettivi di riduzione delle emissioni (Protocollo di Kyoto).
Avere stabilito, per il quadro degli accordi internazionali che regolerà la politica dei cambiamenti climatici dopo il Protocollo di Kyoto, una strategia di contenimento delle emissioni affidata a strumenti caratteristici dell’economia di mercato (avendo peraltro recepito la portata del rischio di cambiamenti climatici messo in evidenza dai dati scientifici) costituisce una scelta con ogni probabilità non reversibile che necessita di essere ricontestualizzata in un clima culturale riconducibile alla fine degli anni Sessanta del 20° secolo. La sua origine si può, infatti, far risalire al lavoro di ricerca del Club di Roma, osservatorio internazionale e multidisciplinare dello sviluppo economico mondiale; in particolare alla prima sintesi elaborata in questo contesto, ossia il rapporto The limits to growth (1972), dove si introduce per la prima volta in termini economici il concetto di limite della crescita imposto dalla finitezza delle risorse naturali, premessa fondamentale per la formalizzazione del principio di sviluppo sostenibile espresso nel rapporto Brundtland dell’ONU (Our common future, 1987). Il lavoro critico e teorico condotto in seguito su tali concetti e la circolazione delle relative elaborazioni nell’ambito della società civile hanno portato a racchiudere nella formula ‘sviluppo con limiti’ il modello economico di riferimento per la politica dei cambiamenti climatici. Tale formula, basata su una funzionale inversione di termini (da limiti dello sviluppo a sviluppo con limiti), implica una trasformazione di carattere culturale di notevole portata che si risolve in una rinnovata prospettiva economica attraversando dialetticamente molteplici aspetti di ambito diverso (sociale, politico, giuridico, etico e, ovviamente, scientifico) e istituendo una dimensione transdisciplinare, superiore a quella interdisciplinare, in cui si collocano concetti, definizioni e teorie.
Nel quadro delineato, il rischio associato agli effetti ambientali negativi dei cambiamenti climatici potrebbe assumere la valenza di volano dello sviluppo economico. La capacità di tradurre i limiti fisici della finitezza di risorse ed ecosistemi in valore di scambio, attraverso le attività volte a ridurre la vulnerabilità ambientale (aumento della resilienza) e le emissioni in atmosfera (mitigazioni degli effetti climatici secondo lo sviluppo di tecnologie a basso impatto di carbonio), rappresenta, infatti, la migliore opportunità per svincolare il tasso di crescita dell’economia mondiale dai problemi che ne determinano l’attuale sofferenza. Tra le criticità che troverebbero soluzione grazie all’affermazione di una economia a basso contenuto di carbonio (low carbon economy), sono da evidenziare la dipendenza eccessiva dalla disponibilità di risorse energetiche fossili non illimitate e il sempre maggior rilievo della finanza in economia come leve di sviluppo produttivo. L’incremento di tecnologie, servizi e lavoro nell’ambito low carbon consentirebbe di fondare il tasso di crescita dell’economia più su un patrimonio di conoscenze che su risorse fisiche, prospettando orizzonti di espansione anche in termini di vivacità di mercato associata all’apprezzamento di prodotti innovativi. Una parabola esemplare di tali implicazioni viene offerta dal caso della bolla del settore immobiliare statunitense da cui è scaturita la crisi economica mondiale verificatasi alla fine del primo decennio del 21° secolo. Avendo come riferimento la dimensione delle riserve in valuta estera cinesi (circa 1900 miliardi di dollari nel 2008, prevalentemente conferite agli Stati Uniti), l’ingente quantità di capitali veicolati nel mercato immobiliare statunitense attraverso nuovi strumenti finanziari ha provocato una cascata speculativa risultata infine non sostenibile, i cui effetti recessivi si sono progressivamente propagati su scala mondiale, prima al settore bancario poi a quello industriale (Spaventa 2008). Il surplus di risparmio cinese (savings glut) che ha contribuito a sostenere la crescita economica (e l’indebitamento) degli Stati Uniti ha trovato impiego prevalentemente in un settore ad alto rischio in quanto strutturato sul credito generalizzato non controllato. Una maggiore e migliore diversificazione delle stesse riserve finanziarie, per es. attraverso l’allocazione in settori più favorevoli per tasso di sviluppo di tecnologie, prodotti e servizi innovativi a basso impatto ambientale (green economy), avrebbe forse determinato una leva di sviluppo più consistente e meno incerta nel lungo periodo.
Malgrado alcuni aspetti potenzialmente positivi, il quadro politico e istituzionale per la definizione del dopo Kyoto comporta, tuttavia, anche gravi incertezze. In questo contesto, il conseguimento degli obiettivi che i Paesi aderenti hanno confermato (la riduzione delle emissioni e la stabilizzazione del clima) è vincolato all’efficacia degli accordi internazionali fissati in merito. Si tratta, infatti, di un impianto di trattati e convenzioni che coinvolge sia Stati con iniziative bilaterali sia varie istituzioni sovranazionali operative a livelli diversi: oltre alla UNFCCC, l’UNEP (United Nations Environment Programme), la WMO (World Meteorological Organization), il MEF (Major Economies Forum on energy and climate), il G20, l’APP (Asia-Pacific Partnership on clean development and climate), la FAO (Food and Agriculture Organization), la WTO (World Trade Organization), l’IMF (International Monetary Fund). In analogia con il sistema fisico e quello economico che dovrebbe rispettivamente salvaguardare e governare, esso presenta le caratteristiche di un sistema complesso in cui è particolarmente difficoltoso prevedere l’esito delle spinte centripete rispetto alla governance concentrata e dirigista del Protocollo di Kyoto. La tentazione di assecondare logiche protezionistiche di posizioni economiche e industriali varie e consolidate (per es., il sistema non riformato dei sovvenzionamenti all’industria delle fonti fossili di energia che nel 2007 valeva circa 400 miliardi di dollari, prevalentemente in Paesi non OECD, Organisation for Economic Cooperation and Development; Gaining traction, 2010) potrebbe favorire un quadro in cui risolvere il conflitto degli interessi divergenti, stabilendo un equilibrio avverso al mantenimento di condizioni climatiche funzionali agli ecosistemi così come sono noti.
Un panorama simile, in cui si impongono scelte non marginali e selettivamente penalizzanti di politica industriale, contempla un elemento fortemente critico. Per la complessità dell’argomento, la mediazione tra la formulazione di risultati scientifici e la formazione di opinioni di merito informate, a livello sia dei decisori politici sia della società civile, si presta a strategie speculative. Il problema del rischio ambientale dei cambiamenti climatici indotti dall’attività antropica si deve necessariamente affrontare in termini di incertezza e probabilità, ragione per cui movimenti ispirati a correnti di pensiero negazioniste hanno avuto agio di promuovere campagne aggressive di contrasto alle politiche istituzionali ed economiche di lotta ai cambiamenti climatici.
Rischio e probabilità nella scienza dei cambiamenti climatici
Prima di entrare nel tema dei cambiamenti climatici e dei loro effetti, è opportuno definire l’oggetto di cui si esaminano l’equilibrio e la tendenza al cambiamento: il sistema climatico. Esso si manifesta come distribuzione sulla superficie terrestre dell’insieme di condizioni meteorologiche (pressione, temperatura, umidità, precipitazioni ecc.) che caratterizzano per lunghi periodi regioni in questo modo individuate. Tale sistema si considera complesso nei termini fisici della teoria della complessità e si trova in condizioni di equilibrio dinamico determinato dall’interazione di vari parametri (forzanti) che appartengono a differenti sottosistemi (atmosferico, idrologico, geologico, biologico, astronomico) caratterizzati da fenomeni a scale molto diverse (per es., da quella molecolare del cambiamento di fase dell’acqua durante il suo ciclo nel trasferimento mutuo atmosfera-idrosfera, a quella continentale delle circolazioni oceanica e atmosferica). Questi sottosistemi, che sono aperti dal punto di vista termodinamico (scambiano materia ed energia), interagiscono tra di loro e comportano meccanismi di retroazione (feedback) in grado di rinforzare o inibire i cambiamenti. Pertanto, una condizione di equilibrio può rispondere alla variazione dei forzanti in modo molto diverso, sia con una variazione continua sia raggiungendo una soglia critica oltre la quale si possono verificare bruschi cambiamenti. Fluttuazioni climatiche di tipologia differente sono state rilevate nelle passate ere geologiche e l’elaborazione di quei dati contribuisce al miglioramento dei modelli climatici di previsione.
La complessità del sistema climatico implica che la valutazione degli effetti dei suoi cambiamenti, in particolare di quelli associati alle emissioni antropogeniche di gas serra, sia ancorata a scenari probabilistici di sintesi rispetto a una serie di incertezze distribuite lungo una catena di cause-effetti. In termini di stima del rischio questa condizione si traduce nella difficoltà di esprimere analiticamente la pericolosità di un fenomeno. Tipicamente, per un generico fenomeno potenzialmente dannoso per gli uomini e i manufatti (per es., il terremoto), si stabilisce una relazione tra il rischio R, la pericolosità intrinseca del fenomeno fisico P (cioè la probabilità che esso si manifesti con una determinata intensità), la vulnerabilità allo stesso dell’ambiente sotto valutazione V (cioè l’attitudine a subire danni di cose, persone e attività) e l’esposizione H (ossia la stima in valore economico dell’importanza sociale e antropica del sistema eventualmente danneggiato). Nei limiti della natura generalmente non deterministica della variabile di pericolosità, il rischio è quantificato attraverso una relazione del tipo R=PVH. Tuttavia, nel caso, per es., delle ondate di calore, uno degli eventi estremi i cui aumenti di intensità e di frequenza di accadimento sono imputati al riscaldamento globale atmosferico, il calcolo di P dovrebbe includere stime probabilistiche di incertezze a cascata (quali, tra le altre e a scala diversa, quelle relative al ciclo del carbonio, ai forzanti radiativi, alla risposta climatica globale e regionale).
Malgrado siano oggetto di intensa attività di ricerca, considerato anche il vivo interesse suscitato nelle multinazionali del credito e del mercato assicurativo coinvolte negli investimenti per la mitigazione e la copertura dei danni potenziali, i termini probabilistici in cui sono espresse le pericolosità degli effetti indotti dai cambiamenti climatici risentono dei limiti impliciti di un linguaggio strutturato in modo ibrido. Ne è riprova il rapporto del 2007 AR IV (Assessment Report IV), ultimo delle periodiche sintesi di valutazione sui cambiamenti climatici prodotte dall’organismo tecnico-scientifico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) di riferimento della UNFCCC e istituito dalle organizzazioni UNEP e WMO, in cui rischi climatici e vulnerabilità continuano a essere espressi in termini descrittivi attraverso cinque categorie d’impatto (reasons for concern) già identificate nel precedente rapporto del 2001 (TAR, Third Assessment Report): rischi per sistemi unici e minacciati (quali barriere coralline, ghiacciai tropicali, specie in pericolo di estinzione, ecosistemi unici, zone ad alta concentrazione di biodiversità, Stati residenti in piccole isole, comunità indigene); rischio di eventi atmosferici estremi (quali onde di calore, inondazioni, siccità, cicloni tropicali, incendi); distribuzione degli impatti (in cui rientra la valutazione della disparità degli impatti tra diversi Paesi, regioni e popolazioni); danni aggregati (in cui sono racchiusi in singola metrica impatti come danni materiali, perdite di vita e persone sottoposte a cure mediche); rischi di discontinuità di grande scala (quali, per es., lo scioglimento parziale o totale delle calotte glaciali antartica e della Groenlandia, la riduzione sostanziale o il collasso della circolazione oceanica nordatlantica).
In merito, è interessante evidenziare quanto peso abbiano le implicazioni delle strategie di comunicazione dei dati scientifici nell’attività politica di mediazione che presiede la stesura dei documenti tecnici condivisi di riferimento nelle convenzioni internazionali: per definire l’intensità del rischio nelle categorie d’impatto sopra menzionate, l’IPCC aveva scelto nel TAR una rappresentazione diagrammatica (burning embers), attraverso una scala cromatica correlata all’aumento di temperatura media globale atmosferica associato a scenari probabili di emissioni gassose antropogeniche a effetto serra (fig. 1); pur avvalorata da ulteriori evidenze sperimentali e sostenuta da vari esponenti scientifici già autori del TAR, tale opzione non è stata confermata nell’AR IV, a causa della pressione esercitata nelle commissioni competenti da alcuni governi (in particolare Stati Uniti, Cina, Russia, Arabia Saudita), ufficialmente per una sua presunta marcata soggettività, malgrado fossero stati accolti nel testo del documento i contenuti che ne avrebbero determinato lo sviluppo in termini di aggiornamento del diagramma con maggiore impatto comunicativo.
Si deve peraltro sottolineare che tali contenuti sono ancora proposti utilizzando un linguaggio misto in cui l’incertezza è probabilisticamente trattata sia qualitativamente (attraverso espressioni quali high agreement, much evidence, medium agreement, medium evidence ecc.) sia quantitativamente (con formule che esprimono intervalli di verosimiglianza per la probabilità di occorrenza, come, per es., very likely e likely, che equivalgono rispettivamente a probabilità superiori al 90% e al 66%). Tuttavia, i progressi nella scienza dei cambiamenti climatici consentono d’intravedere un futuro prossimo, probabilmente già identificabile nella data di pubblicazione dell’AR5 (Assessment Report 5) dell’IPCC, prevista nel 2013, nel quale le incertezze sulle fluttuazioni climatiche saranno elaborate in modo più omogeneo. Ciò non significa che tali incertezze diminuiranno; paradossalmente, infatti, la migliore conoscenza dei fattori climatici noti potrebbe comportare una maggiore comprensione di altri fattori in precedenza non opportunamente considerati, per es. nei modelli previsionali. Considerando la dimensione e l’impatto delle implicazioni economiche e industriali nella lotta ai cambiamenti climatici, alcuni elementi che contribuiscono a delineare i parametri fisici e matematici della stima delle incertezze di merito assumono valore generale, oltrepassando l’originario ambito scientifico.
Forzanti radiativi
Il rischio di cambiamenti climatici in precedenza definito è associato alle interferenze antropogeniche (DAI, Dangerous Anthropogenic Interference) nell’evoluzione naturale del sistema climatico. Dato per assunto questo concetto, il fattore inequivocabile da cui partire è l’aumento della concentrazione in atmosfera di gas e aerosol prodotti dalle attività umane in vari settori (industria, agricoltura, trasporti, residenziale ecc.), in particolare dalla rivoluzione industriale in poi, e in grado di operare come agenti di cambiamento climatico (drivers). La loro azione si determina nell’alterazione del bilancio energetico del sistema atmosfera-Terra attraverso la variazione del rapporto tra la radiazione solare in entrata e la radiazione infrarossa uscente (tale bilancio radiativo regola la temperatura superficiale terrestre). L’effetto dell’azione di ogni driver (o gruppi di drivers) sull’equilibrio radiativo si misura generalmente in termini di una grandezza definita forzante radiativo (radiative forcing, RF), espressa in W/m2 (tasso di cambiamento di energia a unità di superficie): se essa è positiva determina nel tempo l’aumento del contenuto energetico del sistema atmosfera-Terra, con conseguente aumento della temperatura; viceversa se è negativa. Questa grandezza consente di confrontare i vari drivers di cambiamento climatico, antropogenici e naturali, definendo una metrica valida per gli agenti di cambiamento sia radiativi diretti (GHG, aerosol ecc.) sia inizialmente non radiativi (per es., il cambiamento nel tasso di evaporazione sulla superficie terrestre).
Per quanto riguarda i drivers radiativi diretti, RF registra complessivamente gli effetti delle caratteristiche ottiche della materia in gioco (spettro di assorbimento molecolare dei gas, albedo di singolo scattering e coefficienti di estinzione degli aerosol) e della concentrazione con cui la stessa si manifesta in atmosfera. Quindi è possibile stimare in modo omogeneo il contributo al bilancio radiativo portato dai vari gas introdotti in atmosfera dalle attività antropogeniche, siano essi a lungo tempo di residenza, i cosiddetti LLGHG (Long Lived GHG), che costituiscono i drivers portanti dei cambiamenti climatici (diossido di carbonio, CO2; metano, CH4; monossido di diazoto, N2O; idroclorofluorocarburi, HCFC; idrofluorocarburi, HCF; perfluorocarburi, PCF; esafluoruro di zolfo, SF6), o a breve tempo di residenza (per es., ozono troposferico e stratosferico, vapore acqueo stratosferico indotto da metano). In questo modo, considerando, per es., le azioni del diossido di carbonio e del metano, le più rilevanti tra quelle dei LLGHG, si possono stimare forzanti radiativi specifici, pari rispettivamente a 1,66±0,17 Wm−2 e 0,48±0,05 Wm−2, poiché se la concentrazione del CO2 è di due ordini di grandezza superiore a quella del CH4 (379.000 ppb rispetto a 1774 ppb nel 2005) di contro la sua efficienza radiativa è di un ordine di grandezza inferiore (1,4·10−5 rispetto a 3,7·10−4 Wm−2ppb−1). Si noti che il forzante radiativo è per un GHG una funzione dell’aumento in atmosfera della sua concentrazione nell’intervallo di tempo considerato: prese come riferimento (Ramaswamy, Boucher, Haigh et al. 2001) le concentrazioni di CO2 (circa 278 ppm) e CH4 (circa 742 ppb) nel periodo preindustriale (1750), dedotte attraverso metodi indiretti (proxy, per es. lo studio delle carote dei ghiacci), esso segue l’andamento logaritmico FRCO2=f(ln([CO2]/[CO2]1750)) per il CO2, che tende ad autoschermarsi in quanto relativamente abbondante in atmosfera, e per il CH4 l’incremento secondo radice quadrata FRCH4=f([CH4]1/2−[CH4]1/21750), ciò sta a significare che uno stesso aumento di concentrazione ha un’efficacia diversa in termini di RF a seconda della concentrazione in cui interviene (maggiore se avviene a basse concentrazioni). Si deve evidenziare, tuttavia, che, ai fini dell’ottimizzazione delle strategie di minimizzazione dei drivers climatici non naturali, rispetto agli obiettivi di stabilizzazione della concentrazione in atmosfera dei LLGHG, sembra essere più efficace un’impostazione basata sulla relazione tra picco di riscaldamento atmosferico ed emissioni cumulative nell’intervallo temporale in cui sono prodotte (Allen, Frame, Huntingford et al. 2009). Oltre a declassificare l’importanza dell’andamento temporale delle emissioni, svincolando i concetti di picco di temperatura e picco di concentrazione, questa impostazione dovrebbe consentire anche di ridurre le incertezze sulle risposte climatiche associate al ciclo del carbonio. Tenendo presente che il CO2 comporta un RF più elevato, va considerato che questo gas, introdotto in atmosfera, dopo aver eventualmente interagito chimicamente con componenti a vita breve (sia della biosfera terrestre sia della superficie oceanica), è coinvolto in dinamiche di ridistribuzione tra i vari reservoires attivi di carbonio (per es., biosfera terrestre a vita lunga, oceano profondo), secondo una scala dei tempi secolare e processi di feedback per il sistema climatico. Modelli di calcolo specifici (per es., C4MIP, Coupled Carbon Cycle Climate Model Intercomparison Project) si occupano di analizzare tali aspetti per prevederne e simularne gli impatti.
La necessità di valutare i drivers di cambiamento climatico inizialmente non radiativi in termini di RF comporta interventi metodologici che suggeriscono alcune considerazioni sul calcolo di questa grandezza, sulla sua misurazione e sulla relativa incertezza del risultato. In primo luogo, la metodologia di calcolo richiede un’impostazione diversa rispetto a quella relativa ai drivers radiativi, per i quali è sufficiente considerare la quantità RF come variazione della densità del flusso radiante (irradianza) alla troposfera, imponendo eventualmente per l’equilibrio radiativo l’adattamento delle temperature stratosferiche. Viceversa, è necessario, per es., prevedere cambiamenti dello stato troposferico (temperatura e/o contenuto in vapore acqueo) nella metodologia del calcolo di RF per agenti quali: variazioni antropogeniche di albedo della superficie terrestre (causate da cambiamenti di utilizzazione del territorio o presenza nella neve e nel ghiaccio di particelle fuligginose derivate da combustione incompleta di combustibili fossili o biomassa, black carbon, considerati, nel complesso, termini rispettivamente antiriscaldamento e di riscaldamento con valori di −0,2±0,2 Wm−2 e 0,1±0,1 Wm−2); cambiamenti dei flussi di calore latente e sensibile all’interfaccia suolo-atmosfera (per es., a causa dell’inibizione nelle piante del trasferimento di umidità dalla superficie attraverso la traspirazione, indotta dall’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera e considerata termine di riscaldamento non ancora ben quantificato anche se comunque controbilanciato dalle conseguenze dell’associata diminuzione di vapore acqueo in atmosfera); effetti indiretti degli aerosol (termine antiriscaldamento con RFan=−0,7 [−1,1; +0,4] Wm−2, riferito all’effetto indiretto primario, leggermente più intenso di quello degli effetti radiativi diretti degli aerosol, RFda=−0,5±0,4 Wm−2).
Per richiamare l’estrema variabilità della scala spaziale dei fenomeni che condizionano la stabilità e la variazione del sistema climatico, in merito a questo ultimo driver (effetti indiretti degli aerosol) è opportuno segnalare quanto esso sia associato a meccanismi di scala ridotta nello spazio: gli aerosol, in funzione delle proprie dimensioni, composizione chimica, stato di mescolanza e condizioni al contorno, agiscono a livello microfisico come nuclei di condensazione delle gocce d’acqua (e di ghiaccio) nelle nubi, alterando proprietà radiative, quantità e vita media della copertura nuvolosa. Tale dinamica microfisica, rispetto cui si può individuare un effetto albedo delle nubi (con l’assunzione di mantenere fisso il contenuto di acqua liquida, LWC, Liquid Water Content), altrimenti detto effetto indiretto primario, per distinguerlo dal secondario in cui sono considerati altri parametri (quali variazioni di LWC, altezza e tempo di residenza delle nubi), consente di riprendere in esame gli aspetti che riguardano il calcolo delle quantità RF e, in particolare, le incertezze associate. Come per gli altri drivers climatici, la valutazione dell’effetto indiretto primario si avvale di misurazioni strumentali, da terra, in situ e da satellite per stabilire nello specifico relazioni tra proprietà delle nubi e concentrazione degli aerosol, da utilizzare come vincolo nei modelli di circolazione atmosferica generale (GCM, General Circulation Model). Tuttavia, uno dei problemi più rilevanti, nel generare incertezza sul risultato del calcolo di RFan è la risoluzione spaziale dei GCM, non sufficiente per considerare senza approssimazioni le interazioni aerosol-nuvole che avvengono a piccola scala spaziale (nell’ordine di centinaia di metri). Questa e altre limitazioni sono incluse nell’intervallo di precisione con cui è fornita la migliore stima di RFan. Tale intervallo, detto di confidenza, esprime nel caso specifico il campo in cui ricade il 90% dei valori ricavati da lavori scientifici accreditati in letteratura (IPCC-WGI 2007), ovvero gli estremi (−0,3 Wm−2 e −1,8 Wm−2) che limitano il campo di variabilità di una distribuzione non simmetrica, la cui mediana è −0,7 Wm−2, nei quantili 5% e 95% (i termini entro cui sono compresi rispettivamente il 5% e il 95% dei valori acquisiti).
Più in generale, l’intervallo di confidenza del 90% esprime la misura omogenea dell’incertezza che, attribuita ai termini RF dei vari drivers climatici, consente la loro addizione per il calcolo del forzante radiativo antropogenico complessivo. Si deve peraltro evidenziare che, per essere quantificato, un RF deve risultare ben stabilito (well-established) in seguito a una procedura che ne quoti qualitativamente il livello di comprensione scientifica (LOSU, Level Of Scientific Understanding): una volta stabiliti, relativamente agli studi scientifici pubblicati, sia il livello di evidenza scientifica (secondo una scala di tre gradi che da A a C demarca in ordine decrescente la capacità delle osservazioni sperimentali di verificare gli aspetti di un RF e l’esistenza di modelli fisici di riferimento in grado di spiegarlo), sia il livello di consenso (secondo l’attribuzione di un coefficiente da 1 a 3 in valore decrescente), si quantifica il LOSU relativo assegnando una classe di merito derivata dal prodotto tra evidenza e consenso; si ottengono in questo modo le categorie high, medium, medium-low, low, very-low. Per quanto riguarda l’effetto albedo delle nubi, pur essendosi registrati progressi che ne hanno elevato la conoscenza come driver climatico, il suo FRan è contrassegnato da LOSU low. Diversamente, l’effetto diretto degli aerosol totali, per il quale si registra un riscontro migliore tra parametri chiave elaborati dai modelli di calcolo e dati sperimentali rilevati sia da satellite sia da reti strumentali di superficie (fotometri solari e lidar), è stimato nell’incertezza del RFda con LOSU medium-low.
Il processo di addizione dei termini RF dei singoli drivers antropogenici è scientificamente accettabile nei limiti delle precedenti considerazioni. È opportuno evidenziare che l’elaborazione statistica dei diversi RF, trattati mediante la combinazione di stime e incertezze al 90% di confidenza impiegando simulazioni con il metodo Monte Carlo, consente di ricavare funzioni di densità di probabilità (PDF, Probability Density Functions) sia per categorie convenienti di forzanti radiativi (per es., LLGHG più ozono, effetto albedo più effetto diretto degli aerosol) sia per il driver antropogenico totale. Le PDF sono uno strumento analitico di grande utilità per i raffronti delle incertezze dei fenomeni in mutua relazione che contribuiscono a dimensionare il rischio dei cambiamenti climatici. Le ultime stime pubblicate dall’IPCC nell’AR IV valutano il valore di RF antropogenico complessivo +1,6 [−1, +0,8] Wm−2, rispetto, per es., a una variazione naturale dell’irradianza solare relativa al 1750 di +0,12 [−0,06, +0,18] Wm−2 con LOSU low. Con l’intento di riaffermare il concetto di multiscalarità dei cambiamenti climatici, si può osservare che tali valori sono in ordine di grandezza 10−3 e 10−4 volte più piccoli dell’irradianza solare (il flusso di energia che alimenta il sistema climatico terrestre, pari a 1367 Wm−2 fuori dell’atmosfera terrestre, considerato su superficie perpendicolare e con variazioni di circa ±3% relativamente al cambiamento della posizione orbitale della Terra). Variazioni minime nel bilancio energetico del sistema Terra-atmosfera possono causare consistenti cambiamenti climatici, essendo indotte da drivers alimentati da agenti causali (per es., sorgenti di emissione di CO2) caratterizzati come segue: diffusione capillare sulla superficie terrestre di un elevato numero di unità elementari; relazione non lineare tra numero di sorgenti di emissione e intensità di emissione; capacità di incidere significativamente su un parametro di scala globale come la concentrazione nella miscela atmosferica di un componente chimico (variazione della concentrazione della CO2 da 278 a 379 ppm in 250 anni).
Sensitività climatica
Attraverso il forzante radiativo vi è la possibilità di definire un altro parametro chiave del sistema climatico, la sensitività climatica λ che è definita dalla relazione ΔTs= λRF, in cui ΔTs rappresenta la variazione di temperatura media globale di superficie tra due stati di equilibrio. Nella sua semplicità e costituendo un’approssimazione lineare, tale relazione importa gli effetti retroattivi (feedback) delle risposte climatiche caratteristici del sistema atmosfera-Terra nei margini di incertezza attribuibili a λ. Tra questi si può citare, per es., la relazione di mutuo incremento tra temperatura atmosferica e rilascio di metano dalle zone paludose: l’aumento di temperatura atmosferica favorisce l’emissione di metano dalle zone paludose, che induce la crescita di concentrazione in atmosfera di questo gas a effetto serra, a sua volta capace di rinforzare l’aumento di temperatura atmosferica. Tali processi possono peraltro interagire con fenomeni naturali discontinui e ricorrenti come, per es., le eruzioni vulcaniche: conseguentemente all’eruzione del vulcano Pinatubo del 1991 furono immesse nella bassa stratosfera notevoli quantità di ceneri e diossido di zolfo (SO2) in grado di favorire la soppressione di metano in due modi sinergici (alterazione fotochimica con azione sulla rimozione attraverso OH atmosferico, riduzione del rilascio da zone paludose per diminuzione della temperatura e delle precipitazioni). Il ciclo eruttivo del vulcano islandese Eyjafjallajökull, attivatosi nell’aprile del 2010, consentirà di sviluppare questa tipologia di ricerche.
La sensitività climatica è di importanza capitale, anche nello sviluppo e nell’applicazione, con finalità previsionali, dei modelli di circolazione atmosferica generale, perché costituisce matematicamente un fattore di proporzionalità tra RF e la risposta in variazione della temperatura atmosferica, che è associabile alla probabilità di occorrenza delle manifestazioni dei cambiamenti climatici. Generalmente, per ragioni di opportunità, negli studi di settore la sensitività è calcolata attraverso una grandezza derivata, la variazione di temperatura corrispondente al raddoppio della concentrazione di CO2 in atmosfera: ΔTCO2(2×)=λRFCO2(2×). La determinazione di λ può seguire modalità sia sperimentali sia di calcolo attraverso modelli, entrambe comunque implicanti fattori di incertezza riconducibili in ultima analisi ai forzanti radiativi, in particolare a quello complessivo degli aerosol. Le metodologie sperimentali si basano sulla misura della variazione della temperatura media globale di superficie relativa a un periodo di tempo noto e del forzante radiativo causalmente corrispondente. Sono stati effettuati studi a scala temporale molto diversa, considerando sia tempi geologici (per es., il riscaldamento dall’ultimo minimo glaciale al presente o il raffreddamento dal Cretacico al presente) con l’ausilio di tecniche proxy (per es., lo studio della distribuzione degli isotopi stabili nei ghiacci fossili e nei sedimenti per calcolare le variazioni di temperatura) sia tempi storici (per es., dalla rivoluzione industriale a oggi utilizzando serie di misurazioni strumentali). Tuttavia, nel primo caso le incertezze introdotte dalla deduzione sperimentale sia delle temperature sia dei forzanti tendono a comporsi in un intervallo troppo ampio per poter effettuare un confronto con le azioni indotte dai fattori antropogenici; nel secondo il termine di incertezza è dominato da quello relativo alla quantità RF totale degli aerosol. Un metodo sperimentale alternativo si avvale delle misure da satellite per determinare il tasso di riscaldamento globale attraverso il calcolo del flusso netto di energia al limite superiore dell’atmosfera (TOA, Top of the Atmosphere). Tale metodo, pur caratterizzato dal vantaggio di non dover considerare l’inerzia termica delle masse oceaniche, attraverso il termine altrimenti necessario che in questo tipo di calcoli esprime il flusso di energia corrispondente al riscaldamento degli oceani, comporta, tuttavia, aspetti problematici che incidono sull’accuratezza della sensitività climatica calcolata: i forzanti radiativi, e più di altri il termine FR da aerosol, dovrebbero essere considerati non invarianti durante il periodo coperto dai dati satellitari e, in particolare, dovrebbero esser note con sufficiente approssimazione le loro variazioni stagionali quando si utilizzano medie mensili di temperatura e di flussi radiativi, in luogo dei cambiamenti in media annuale di queste grandezze (modesti nella durata dell’intervallo sperimentale proprio di tale serie), per ridurre l’impatto sia di variazioni naturali non forzate sia di forzanti non previsti; i dati satellitari sono parzialmente idonei a fornire la misura di un flusso radiativo globale medio (per es., le piattaforme satellitari ERBE, Earth Radiation Budget Experiment, non coprono le regioni polari, mentre quelle CERES, Clouds and the Earth’s Radiant Energy System, che rilevano il pianeta complessivamente, non campionano sul ciclo diurno poiché sono in orbita polare). Lo sviluppo della capacità di rilevamento da satellite con il potenziamento della rete strumentale, a cominciare dal lancio della missione NPOESS (National Polar-orbiting Operational Environmental Satellite System), previsto per il 2011, contribuirà a migliorare l’efficacia del metodo.
La stima della sensitività climatica secondo l’approccio modellistico è condizionata dalla capacità dei modelli di rappresentare con sufficiente accuratezza i processi chiave del sistema climatico. Da questo punto di vista, sono rilevanti gli effetti amplificanti dei meccanismi di feedback, che possono condurre a risultati di modello significativamente diversi in funzione del tipo di approssimazione necessariamente applicata alla descrizione dei processi fisici individuali, per limiti nella capacità di calcolo e nella conoscenza dei fenomeni. L’incertezza attribuita ai singoli forzanti radiativi, in particolare nei casi in cui è ampia come per gli aerosol, limita l’accuratezza della misura modellistica della sensitività climatica.
Proiezioni di temperatura
Parte sostanziale del processo previsionale sui cambiamenti climatici antropogenicamente indotti è costituita dalle proiezioni delle variazioni di temperatura media atmosferica in funzione dell’andamento nel tempo delle emissioni di GHG e aerosol. Ciò implica l’utilizzazione di modelli di calcolo di complessità varia che possono simulare prioritariamente differenti aspetti del sistema climatico quali: circolazione generale atmosferica e oceanica in accoppiamento (modelli AOGCM, Atmosphere-Ocean General Circulation Model); feedback tra ciclo del carbonio e clima in presenza di forzanti radiativi esterni (per es., C4MIP); valutazione degli impatti climatici dei GHG (per es., MAGICC, Model for the Assessment of GHG Induced Climate Change). Generalmente tali modelli contengono molti parametri, caratterizzati da incertezza propria, che si possono vincolare a serie storiche di misure sperimentali per quantificare le incertezze delle proiezioni di interesse. Nel caso delle proiezioni di temperatura atmosferica, si è affermata la tendenza verso l’applicazione integrata dei modelli, per esigenze di calibrazione dei parametri e di confronto dei risultati; si è inoltre confermata la necessità di conseguire analisi onnicomprensive in grado di prevedere stimatori di probabilità non semplificati e di vincolare il più alto numero possibile dei parametri di modello.
Una sintesi pionieristica in questi termini è stata prodotta dal gruppo di ricerca di Malte Meinshausen (M. Meinshausen, N. Meinshausen, Hare et al. 2009) che ha sviluppato un metodo per calcolare la probabilità di riscaldamento atmosferico eccedente 2 °C in funzione della quantità cumulata di GHG emessi nella prima metà del 21° sec. (fig. 2). Applicando un modello MAGICC, le proiezioni di temperatura sono state probabilisticamente vincolate al seguente corposo complesso di dati sperimentali: serie storiche di temperature atmosferiche dal 1850 al 2006, di cui sono state trattate separatamente le incertezze multiple (valutazione spaziotemporale degli errori di misura sia indipendenti, incertezza di misurazione, sia sistematici, riflettenti effetti di urbanizzazione e cambiamenti di esposizione dei termometri, controllo della variabilità interna attraverso modelli AOGCM); stime di assorbimento di calore oceanico; stime con relative incertezze di forzanti radiativi di 17 drivers (GHG, aerosol ecc.); variazioni di sensitività climatica effettiva. Tali vincoli consentono di ricavare stime di probabilità (in termini di PDF) per uno spazio climatico parametrico a 82 dimensioni (parametri climatici, parametri di cicli di gas, parametri RF) attraverso un approccio bayesiano (la distribuzione statistica risultante è modulata da una distribuzione a priori informata secondo un giudizio esperto). Le distribuzioni in evoluzione temporale dei termini RF con le implicazioni associate di temperatura atmosferica sono state calcolate per molteplici scenari futuri di emissioni che rispondono a differenti criteri e modalità di riduzione: 26 IPCC SRES (IPCC Special Report on Emissions Scenarios), 20 EMF-21 (Energy Modeling Forum working group 21), 948 EQW (multi-gas Equal Quantile Walk). Rispetto a un arco temporale limitato superiormente al 2100, per ogni scenario la percentuale di esiti di modello (runs) con riscaldamento massimo a 2 °C definisce il posizionamento nel grafico della figura 2. Riguardo le caratteristiche e la struttura della curva che compendia il lavoro di proiezione climatica sono da evidenziare due aspetti: in primo luogo, il campo di variazione della probabilità di eccedenza T=2 °C per ogni valore di emissioni cumulate riflette la sensibilità del metodo alla varietà di stime di sensitività climatica presenti in letteratura; in secondo, è possibile leggere i risultati nei termini del linguaggio probabilistico dell’AR IV IPCC (ordinate a destra nella figura 2).
Tipping points
A causa della complessità delle interazioni tra i vari componenti del sistema climatico, quest’ultimo può raggiungere condizioni limite in cui piccoli cambiamenti nei meccanismi forzanti possono determinare brusche variazioni. I fenomeni che rispondono a questo criterio, per i quali si possono determinare grandi discontinuità di scala e divergenze irreversibili da preesistenti condizioni di equilibrio, sono denominati tipping points. Ne sono stati elencati precedentemente alcuni (scioglimento parziale o totale delle calotte glaciali antartica e della Groenlandia, riduzione sostanziale o collasso della circolazione oceanica nordatlantica). Per evidenziare l’effetto amplificativo che essi comportano sul rischio dei cambiamenti climatici, si può, per es., citare un ulteriore fenomeno di questo tipo, ossia il rilascio di grandi quantità di metano attualmente contenute nel permafrost siberiano o nei clatrati dei fondali oceanici.
La possibilità che le interferenze antropogeniche nel sistema climatico assumano tali dimensioni suggerisce qualche considerazione riguardo al principio di precauzione. È opportuno richiamare la posizione dell’economista Nicholas Stern, autore del rapporto omonimo sui costi dei cambiamenti climatici (Stern 2007), nel dibattito circa la necessità e l’urgenza degli investimenti finalizzati a minimizzare gli effetti dei cambiamenti climatici. Egli intravede due possibili vie d’errore: la prima è considerare corrette e quindi seguire le indicazioni fornite pressoché unanimemente dal mondo scientifico (riassunte nei rapporti dell’IPCC), per verificarne poi eventualmente l’infondatezza; la seconda consiste, invece, nel non agire, o meglio agire come se le previsioni ricavate in base ai dati scientifici fossero inesatte, per scoprirle infine corrette. Questi due errori sono talmente asimmetrici, dal punto di vista delle ricadute, da ricavarne un termine di giudizio secondo il principio di precauzione. Infatti, nel caso in cui si dovesse incorrere nel primo errore, i massicci investimenti effettuati per l’aumento dell’efficienza e della sostenibilità ambientale dei settori energetico, dei trasporti, industriale e residenziale avrebbero comunque prodotto un risultato rilevante: la diminuzione dell’impatto antropico sulla biosfera e, nello stesso tempo, la riduzione della dipendenza dei cicli economici da risorse esauribili e geograficamente non distribuite in modo omogeneo (per es., gli idrocarburi). Al contrario, commettere il secondo errore sarebbe esiziale in termini sia sociali e ambientali sia economici.
Prospettive nell’integrazione dei linguaggi
I termini economici delle strategie di abbattimento dei GHG, finalizzate alla riduzione dell’impatto antropogenico dei cambiamenti climatici, sono espressamente vincolati a parametri scientifici. È possibile ricavare una visione di questa fondamentale relazione prendendo spunto dal ruolo attribuito negli Assessment report IPCC ai forzanti radiativi per stabilire una metrica comune necessaria a confrontare gli effetti delle differenti emissioni nelle strategie multicomponente di abbattimento dei GHG. Per ogni driver antropogenico i, si definisce un potenziale di riscaldamento globale (GWP, Global Warming Potential) calcolato dal suo RF globale medio (per 1 kg di gas emesso istantaneamente) integrato su un orizzonte temporale t rispetto a quello di una massa equivalente di CO2:
t∫0RFi(t)dt t∫0aiCi(t)dt
GWP = ----- = ----- [1]
t∫0RFr(t)dt t∫0arCr(t)dt
dove ai è l’efficienza radiativa del componente i (RF a unità di massa) per una sua data abbondanza atmosferica, Ci(t) è l’andamento nel tempo dell’abbondanza atmosferica del componente medesimo, mentre ar e Cr(t) sono gli analoghi per la CO2.
Tralasciando alcuni aspetti delle semplificazioni che la [1] implica, si evidenzia come tale formulazione riduca in termini fisici un confronto che dovrebbe prevederne anche altri di carattere economico. In forma più generale essa dovrebbe assumere un’espressione del tipo:
∞∫0[I(ΔCr+i(t) − I(ΔCr(t))] g(t)dt [2]
dove I(ΔCr+i(t)) è una funzione che descrive l’impatto (danno o eventuale beneficio) di un cambiamento climatico ΔC al tempo t, per una perturbazione di emissione i rispetto a uno scenario di riferimento r, e g(t) stabilisce una modulazione nel tempo (per es., e−kt costituisce un tasso di sconto che attribuisce maggior peso agli impatti di breve termine). L’individuazione di termini adatti allo sviluppo di una metrica secondo la [2] definisce un campo di ricerca da cui sono attesi impulsi rilevanti per la crescita economica sostenibile. Per es., la valutazione delle esternalità comporta analisi in cui l’equilibrio tra costi sociali dell’incremento di GHG in atmosfera e costi delle tecnologie di abbattimento delle emissioni (Stern 2007), nei limiti delle incertezze che caratterizzano l’evoluzione del sistema climatico, deve rispondere anche a parametri di modulazione nel tempo, quali curve g(t) che siano in grado di descrivere il ritardo tra emissione e relativo effetto dannoso. Gli studi per l’implementazione in termini di sostenibilità ambientale e progresso sociale degli indicatori di crescita economica (come il PIL) contemplano questi aspetti (Stiglitz, Sen, Fitoussi 2009) e consentono di prefigurare la stessa crescita economica attraverso una filiera di valore che risulta di conseguenza arricchita. In questo modo, sarebbe inoltre possibile fronteggiare un altro rischio di cui si temono gli effetti nel prossimo futuro: la depressione economica associata al paventato esaurimento delle fonti energetiche fossili. Bisogna ricordare che, nelle attuali condizioni strutturali industriali e finanziarie basate sull’economia del petrolio, la capitalizzazione globale del mercato vale circa 300.000 miliardi di dollari, a fronte dei 1000 miliardi di quella relativa alla filiera delle cosiddette tecnologie pulite. Se ne deduce che una crisi economica indotta da scarsità di idrocarburi, ipotesi peraltro non remota in base a valutazioni statistiche delle più autorevoli stime della collocazione temporale del picco massimo di produzione mondiale di petrolio (ASPO 2008), potrebbe assumere le dimensioni di un collasso senza precedenti se non tamponata da elementi di crescita analoghi a quelli appena menzionati.
L’affermazione di una economia capace di sostenere tali sfide (low carbon economy) comporta comunque trasformazioni di notevole portata, sia negli aspetti politici di gestione e pianificazione del bene comune sia nei modelli culturali che orientano il costume individuale. Anche in questi ambiti fervono gli sforzi della ricerca: per es., gli studi del premio Nobel per l’economia nel 2009 Elinor Ostrom sull’efficacia di politiche multiscala e multilivello (locale, regionale, nazionale) nella lotta ai cambiamenti climatici (Ostrom 2009) e le prospettive dell’economia evolutiva finalizzate alla comprensione dei feedback inibenti, indotti dai comportamenti individuali consolidati, che ostacolano l’azione degli apparati tecnico-decisionali (Marechal, Lazaric 2010).
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Gaining traction. The importance of transparency in accelerating the reform of fossil-fuel subsidies, GSI (Global Subsidies Initiative), 2010, http://www.globalsubsidies.org/files/assets/transparency_ffs.pdf.
Tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta il 6 luglio 2010.