Consenso informato
di Christian Hick
La dottrina del consenso informato rappresenta uno dei mutamenti più importanti introdotti nell'ambito dell'etica biomedica dalla seconda metà del Novecento e ne costituisce uno dei fondamenti. Il consenso informato è definito come 'una procedura autonoma in cui il paziente autorizza il medico ad avviare un programma diagnostico-terapeutico'. Quest'ultima definizione è il risultato di mutamenti storici che riguardano il rapporto tra medico e paziente, che dall'antichità a oggi hanno costituito una 'procedura autonoma' di grande importanza nella pratica clinica e nella ricerca medica. Quella del consenso informato è una dottrina moderna; l'espressione fu introdotta la prima volta nel 1957 e non vi fu una discussione più dettagliata fino al 1972 circa. Tuttavia, è possibile rintracciarne le origini nella medicina antica. Nel 1986 Ruth R. Faden e Tom L. Beauchamp hanno argomentato che, mentre spiegazione e ricerca di consenso sono sempre state parte della pratica medica, prima del 1957 questa pratica era impostata solo su un principio 'paternalistico' e non su un 'modello di autonomia' nel rapporto tra medico e paziente. Il principio dell'autonomia del paziente ha letteralmente sovvertito le modalità di spiegazione: mentre nel modello paternalistico il principale obbligo del medico era quello di pensare al benessere del paziente, nel modello di autonomia si sottolinea il rispetto delle decisioni libere, volontarie e di 'autoamministrazione' del paziente, quale agente autonomo.
Tale mutamento fu però dovuto soprattutto alle richieste legali che dagli anni Settanta in poi si contrapposero agli standard professionali guidati dal tradizionale concetto paternalistico. Da ciò si evince che la dottrina del consenso informato, come la conosciamo oggi, non emerse da riflessioni etiche nell'ambito della comunità medica, ma prevalse solo alla fine di una serie di decisioni legali che portarono a una successiva revisione del codice e del comportamento medico.
Più tardi, il concetto di consenso informato fu esposto dal Judicial council dell'AMA (American Medical Association) in una dichiarazione del 1984 che testimonia l'impatto della legge del consenso informato sull'etica medica. Vi si legge, infatti, che "il diritto di decidere per sé del paziente può essere esercitato effettivamente solo se costui possiede abbastanza informazioni da permettere una scelta intelligente. Il paziente dovrebbe applicare il diritto all'autodeterminazione sulla terapia. Il consenso informato è una politica sociale [...] che non accetta la visione paternalistica secondo la quale il medico può tacere perché l'informazione potrebbe spingere il paziente a rinunciare alla terapia necessaria. Non è detto che pazienti ragionevoli e informati si comportino allo stesso modo, anche in circostanze simili, sull'assenso o il rifiuto di una terapia" (American Medical Association 1984). Questa nuova concezione dell'autonomia del paziente, al centro di qualsiasi decisione sulla sua salute, era stata ufficializzata nel 1982 dalla President's commission for the study of ethical problems in medicine and biomedical and behavioral research, che sottolineava che il consenso all'atto medico deve essere dato in base agli obiettivi e ai valori della persona e che, nel caso di persone capaci, non ci può essere un'alternativa all'autodeterminazione. In caso di conflitto, l'autonomia deve prevalere sui possibili benefici dell'intervento medico, lasciando al paziente l'autorità finale nella decisione.
Il concetto di 'consenso informato' nella ricerca medica con soggetti umani si è sviluppato solo nella seconda metà del XX sec., parallelamente all'entrata sulla scena della ricerca scientifica su larga scala. Tuttavia, il punto di svolta fu il processo di Norimberga. Considerando le atrocità degli esperimenti medici nei campi di concentramento tedeschi, i giudici di Norimberga vollero andare oltre la pura e semplice condanna di questi atti come crimini contro l'umanità. La frase d'apertura di un elenco dei dieci principî che costituiscono il Codice di Norimberga sancì cosa dovrebbe essere permesso nella sperimentazione medica con soggetti umani: "La persona coinvolta dovrebbe avere la capacità legale di dare il consenso; dovrebbe essere in grado di esercitare un libero potere di scelta, senza l'intervento di qualsiasi elemento di forza, frode, inganno, costrizione, raggiro, o altre forme di costrizione o coercizione; dovrebbe dimostrare una sufficiente conoscenza e comprensione di tutti gli elementi che costituiscono l'argomento" (Trials of war criminals, 1949, p. 181). Tuttavia, ancora oggi questo ideale è considerato inattuabile.
Negli Stati Uniti, negli anni successivi al processo di Norimberga, furono comunque denunciati diversi casi che riguardavano la ricerca medica effettuata senza un adeguato consenso. Fino ai primi anni Cinquanta, per esempio, furono testati senza alcun consenso i nuovi vaccini antipolio su bambini con ritardo mentale, ricoverati in istituti specializzati. Vi furono, nella ricerca, altre violazioni: le più discusse furono le iniezioni di cellule cancerose vive in pazienti del Jewish Chronic Disease Hospital a Brooklyn nel 1963 e lo studio sulla sifilide conosciuto come Tuskegee study (dal nome della città dell'Alabama in cui venne effettuato), iniziato negli anni Trenta. Uomini di razza nera affetti dalla malattia venivano tenuti in osservazione senza ricevere alcun trattamento (cosa che continuò fino al 1973), contro la loro volontà e senza alcuna informazione, per studiare l'evoluzione del 'corso naturale' della sifilide non curata. Tuttavia, il caso del Jewish Chronic Disease Hospital suscitò almeno la reazione dei membri del consiglio di amministrazione della State University di New York, che condannarono i medici coinvolti nello studio.
Con l'andare del tempo si diffuse una sempre maggiore consapevolezza che nella ricerca medica doveva essere ottenuto il consenso informato per rispettare il diritto del soggetto all'autodeterminazione. Nel 1964, la World Medical Association approvò, con la Dichiarazione di Helsinki, le Recommendations guiding medical doctors in biomedical research involving human subjects. Tre dei dodici principî basilari spiegavano come si dovesse ottenere il consenso informato nella ricerca: "in qualsiasi ricerca sull'essere umano, ogni potenziale soggetto deve essere adeguatamente informato degli scopi, dei metodi, deve conoscere in anticipo benefici e potenziali rischi della ricerca e il disagio che essa potrebbe provocare. Deve essere informato che ha la libertà di astenersi dalla partecipazione alla ricerca e che è libero di ritirare il consenso in qualsiasi momento. Il medico in seguito deve ottenere il consenso libero del soggetto, preferibilmente per iscritto. Quando ottiene un consenso informato per un progetto di ricerca, il medico dovrebbe prestare particolare attenzione alla dipendenza del paziente da lui o notare se il consenso è dato sotto costrizione. In tal caso il consenso informato dovrebbe essere ottenuto da un medico che non è coinvolto nella ricerca e che è completamente indipendente dalla relazione ricercatore/paziente. Nel caso di incompetenza legale, il consenso informato dovrebbe essere ottenuto da un rappresentante legale secondo la legislazione nazionale. Quando un'incapacità fisica o mentale rende impossibile l'ottenimento del consenso informato, o quando il soggetto è un minore, il permesso dato da un tutore legale sostituisce quello del soggetto secondo la legge. Qualora un minorenne sia di fatto nelle condizioni di dare il consenso, questo deve essere ottenuto insieme al consenso del rappresentante legale del minore". Queste esigenze enumerate nella Dichiarazione di Helsinki, il primo codice medico sul consenso informato per la ricerca medica, sono state in gran parte adottate e incorporate nelle norme nazionali. Tuttavia la Dichiarazione di Helsinki è stata anche criticata perché nella ricerca che potenzialmente ha benefici immediati per il paziente, il consenso informato non era richiesto se si riteneva che dare l'informazione non fosse 'in armonia con la psicologia del paziente'. Questa eccezione fu vista come una comoda scappatoia, tramite la quale veniva interamente affidato alla discrezione del medico il compito di ottenere il consenso.
La storia della nozione di consenso informato mostra il suo mutamento da concezione puramente legale a concezione etica e, per chiarirne il concetto e gli elementi costitutivi il suo significato etico deve essere separato da quello legale. Dal punto di vista etico, il consenso informato deve essere concepito come un'autorizzazione del paziente, in quanto agente autonomo, a che un intervento medico sia eseguito su di lui. Lo scopo del consenso informato, inteso dal punto di vista etico, dovrebbe essere quello di permettere ai pazienti o ai soggetti della ricerca di decidere autonomamente sull'autorizzazione o il rifiuto di interventi medici o di ricerca. Dal punto di vista legale il consenso informato si basa, d'altra parte, sull'adesione a certe norme sociali che qualsiasi istituzione deve seguire, norme che definiscono il modo di ottenere il consenso prima di intraprendere qualsiasi terapia o ricerca. Il lato etico e quello legale del consenso informato, che storicamente si sono sviluppati in stretta interazione, devono essere separati non solo a livello concettuale, ma anche nella pratica medica. La confusione tra significato etico del consenso informato e prospettiva legale può portare a enfatizzare troppo la concezione legale del consenso informato, trascurando il rispetto dovuto (eticamente) all'autodeterminazione del paziente.
Nella sua concezione canonica, il consenso informato si basa, in una situazione clinica data, su cinque condizioni da soddisfare: presentazione completa da parte del medico di tutte le informazioni rilevanti; capacità del paziente di valutare cosa significa l'informazione; comprensione dei fatti e delle problematiche del paziente; scelta volontaria del paziente; autorizzazione autonoma del paziente alla terapia o all'ingresso nella sperimentazione clinica.
Presentazione. - La presentazione dell'informazione non consiste in una semplice trasmissione di dati dal medico al paziente. Un'adeguata informazione deve contenere la diagnosi, la natura dell'intervento proposto, con i rischi e i benefici connessi, e le conseguenze di un intervento non effettuato. È importante notare come negli ultimi decenni l'atteggiamento riguardo all'informazione è radicalmente mutato. Mentre infatti negli anni Sessanta la maggior parte dei medici sosteneva che i malati di cancro non dovessero conoscere la diagnosi, già nel decennio successivo, almeno in teoria, tutti i medici erano d'accordo che la diagnosi dovesse essere rivelata. Inoltre, come è stato illustrato nella storia del consenso informato, lo standard di giudizio dell'adeguatezza delle informazioni, negli Stati Uniti, è passato da uno di tipo 'professionale' a uno da 'persone ragionevoli' ‒ basato sulla probabilità e la gravità dei possibili eventi avversi ‒ mentre nel Regno Unito la dottrina standard professionale rimane predominante. In Germania, e in alcuni casi più recenti anche negli Stati Uniti, il criterio per giudicare l'adeguatezza della spiegazione è stato affidato a quello che potrebbe essere chiamato 'modello soggettivo'. Esso prevede che la spiegazione vada modulata sulla base di ciò che si pensa che la persona potrebbe considerare rilevante ed essenziale per formulare una decisione specifica. Ciò richiede ovviamente una comprensione della biografia del paziente che va oltre ciò che normalmente si conosce nell'ambito clinico. Si ritiene, comunque, che la dottrina soggettiva della spiegazione sia particolarmente indicata per assicurarsi che i pazienti capiscano realmente le informazioni di cui necessitano, aiutando inoltre a stabilire un migliore rapporto di fiducia tra medico e paziente.
Capacità. - Si presume che qualunque paziente sia in grado di prendere decisioni ragionevoli per sé stesso, a meno che non sia formalmente dichiarato incapace di intendere e di volere. Un paziente capace ha il diritto di rifiutare qualsiasi terapia proposta, anche se ciò dovesse comportare un rischio serio per la sua salute. Dunque la capacità di intendere e di volere è una condizione necessaria per dare il consenso informato. Tuttavia, questa concezione della capacità come abilità di prendere decisioni ragionevoli ha i suoi limiti, dal momento in cui tale abilità viene correlata alle decisioni che sono ritenute 'razionali' da altre persone. Una concezione più ampia e profonda del concetto di capacità considera essenziale che la persona capace sia in grado di essere responsabile della decisione presa. Dunque una decisione capace è una decisione del tutto personale, indipendentemente dal fatto che a una persona esterna risulti razionale o irrazionale. Inoltre, va sottolineato che non solo i disturbi intellettivi ma anche quelli emotivi, come per esempio una forte depressione, possono ridurre la capacità del paziente a dare il suo consenso alla terapia medica. Non si parla semplicemente di capacità assente o presente, ma di un continuum di differenti livelli di capacità. Tom L. Beauchamp e James F. Childress (1994) hanno proposto una scala di incapacità che dovrebbe facilitare la valutazione dello stato di capacità del paziente, che ha tuttavia limitata utilità.
Comprensione. - Il consenso informato deve essere assimilato più a un processo educativo e di comprensione che a un semplice trasferimento di informazioni. Tuttavia, nella realtà clinica, è estremamente difficile ottenere una comprensione adeguata. Si è dovuto anche riconoscere che, data la complessità delle procedure mediche, potrebbero esserci difficoltà di comprensione anche se l'informazione è stata fornita in modo attento ed esaustivo. Sono stati identificati due livelli di comprensione nella procedura del consenso informato. Nel primo, il paziente deve capire che 'sta veramente autorizzando' una terapia medica, poiché per molto tempo il consenso informato è stato concepito come una semplice spiegazione della cura medica proposta. Nel secondo livello di comprensione, il paziente deve capire tutte le informazioni che sono 'essenziali per decidere'. Saranno la sua storia personale e il suo contesto sociale a determinare l'importanza delle informazioni da fornire. Ci sono inoltre molti fattori che possono compromettere nel paziente la comprensione delle informazioni mediche: difficoltà linguistiche; retroterra culturale diverso; errori deduttivi riguardanti la natura statistica dell'informazione sui rischi; sovraccarico di informazioni; effetti della condizione medica in atto.
Scelta volontaria. - Già all'inizio della pratica dei trapianti è emersa la preoccupazione di quando e se potesse essere del tutto possibile una scelta libera e volontaria, data la forte pressione presente in molte situazioni sociali, per esempio nelle famiglie di potenziali donatori viventi di organi. Ci sono tre modi, infatti, di indebolire la vera volontarietà: la coercizione, la manipolazione e la persuasione. Mentre la coercizione e la manipolazione sono evidentemente sempre in contraddizione con un autentico consenso informato, la persuasione, se le argomentazioni sono valide e motivate dal desiderio di agire per il benessere del paziente, potrebbe ancora permettere di ottenere un consenso informato eticamente valido.
Autorizzazione autonoma. - Valutando i rischi e i benefici così come li ha esposti il medico, i pazienti dovrebbero arrivare a una decisione autonoma razionale riguardo all'intervento medico specifico proposto. Tuttavia, nella realtà solo raramente si attua un tale procedimento di decisione razionale. Molto spesso le scelte dei pazienti sono basate su esperienze precedenti e su sensazioni personali. Tuttavia, nella realtà le raccomandazioni di un medico, e cioè il suo parere su un'opzione terapeutica specifica, contano molto più di una semplice presentazione di informazioni. È stata anche avanzata l'ipotesi di una riconcettualizzazione del consenso informato che concili il concetto giuridico di consenso informato con la realtà medica: una scala di approccio variabile al consenso informato, in cui la necessità di consenso informato minore o maggiore è determinata da una serie di variabili cliniche.
Ci sono comunque quattro eccezioni da riconoscere per il consenso informato. Tali eccezioni sono consentite o perché non è possibile ottenere il consenso informato, o perché si riscontra la necessità di un equilibrio tra il valore dell'autonomia individuale e ciò che dal punto di vista medico si ritiene migliore per il paziente.
Eccezione per emergenza. - Se il paziente è minacciato da un pericolo serio ma è necessario ottenere il consenso informato prima di un'operazione, ritardando in tal modo l'azione medica, l'intervento può essere effettuato senza consenso informato. In questo caso si 'presuppone' il consenso del paziente. Per considerare valida l'eccezione in casi di emergenza, ci deve essere un pericolo 'immediato', e non solo futuro, che mette a repentaglio la vita.
Eccezione per incapacità. - Per i pazienti incapaci ci sono tre casi da distinguere: (a) un medico può curare i pazienti incapaci senza il loro permesso; (b) un consenso del paziente incapace in ogni caso non autorizza automaticamente il medico alla cura; (c) non curare un paziente incapace che ha rifiutato la cura potrebbe ricadere nell'ambito delle responsabilità del medico. Inoltre, bisogna distinguere un'incapacità 'generale', in cui i pazienti sono incapaci di prendere qualsiasi decisione razionale, e un'incapacità 'specifica', in cui i pazienti possono essere in grado di prendere solo un certo tipo di decisione; infine, bisogna tenere conto del fatto che la capacità e l'incapacità possono cambiare con il tempo e spesso hanno bisogno di essere valutate periodicamente.
Eccezione per privilegio della terapia. - Se un medico ritiene che dare un'informazione completa al paziente su determinate condizioni mediche possa causargli danni seri, sia dal punto di vista fisiologico che psicologico, tale informazione può essere omessa. Questa eccezione è piuttosto difficile da definire con precisione, dal momento che esiste una controversia legale sulla scelta di applicazione tra lo standard professionale (opinione medica generale) e lo standard di circostanza (una persona 'ragionevole').
Eccezione per rinuncia. - Se il paziente preferisce non essere informato su un intervento specifico e si affida al parere del medico, l'intervento può essere svolto anche senza l'informazione. In questo caso il medico ha bisogno di una rinuncia scritta e firmata dal paziente. Nei casi di emergenza, incapacità o privilegio della terapia, dal punto di vista legale si può ottenere un consenso delegato dal coniuge, genitore, parente o dal rappresentante legale riconosciuto. I comitati etici ospedalieri o i tribunali possono anche agire da delegati per ottenere il consenso. Il criterio che il delegato deve seguire per acconsentire alla cura medica di un paziente dovrebbe essere basato sulla 'sostituzione di un giudizio', sul 'migliore interesse' e sullo 'standard delle persone ragionevoli'.
Esistono inoltre dei casi particolari che pongono problemi pratici ed etici all'uso del consenso informato. Il primo esempio è dato dalla pratica psichiatrica, nella quale a partire dagli anni Ottanta c'è stata una tendenza ad allargare il diritto al consenso del trattamento, abbandonando l'idea che una persona con diagnosi di infermità mentale fosse incapace di qualunque forma autonoma di consenso. Questa tendenza si riflette nei Principles for the protection of persons with mental illness and for the improvement of mental health care, adottati dalle Nazioni Unite nel 1991, che affrontano in maniera specifica il problema del consenso informato nella psichiatria. Il documento stabilisce chiaramente che "il paziente non sarà sottoposto a nessun trattamento senza il suo consenso informato", ma sono previste eccezioni: incapacità, rifiuto irragionevole, emergenze, necessità urgente, necessità di prevenire danni al paziente o ad altre persone, necessità di procedure mediche o chirurgiche importanti e di pratiche neurochirurgiche. Come via di uscita dal dilemma del consenso informato nei pazienti psichiatrici, che in determinati momenti non hanno la capacità di accettare o di rifiutare autonomamente un trattamento medico, è stato proposto il concetto di 'consenso in anticipo', secondo cui i pazienti psichiatrici con sintomi in remissione possono dare consenso previo alle opzioni del trattamento specifico (per es., ricovero o elettroshock) che potrebbe essere necessario in caso di ricadute.
Anche nella ricerca psichiatrica si devono prendere provvedimenti particolari per salvaguardare le procedure del consenso informato. Va comunque fatta una distinzione tra la 'ricerca terapeutica', che ha la potenzialità di generare benefici a breve o medio termine per il singolo paziente, e la 'ricerca non terapeutica' che non ha questa potenzialità o che mira sostanzialmente a migliorare la conoscenza medica del processo della malattia. Molte convenzioni bioetiche, tra cui la Dichiarazione di Helsinki, permettono anche la ricerca non terapeutica se autorizzata da rappresentanti legali di un paziente incapace di dare il consenso, ammesso che la ricerca sia a basso rischio. È stato proposto anche un analogo del consenso in anticipo per la ricerca non terapeutica, per esempio per i pazienti affetti da demenza. Nel caso di pazienti con capacità decisionali indebolite, come gli anziani, sono invece state proposte delle procedure di comunicazione più efficaci mirate a veicolare le informazioni fondamentali.
Anche i bambini e gli adolescenti necessitano di approcci particolari. Il progresso nelle terapie mediche lascia famiglie e bambini alle prese con decisioni di trattamenti sempre più complessi, rispetto ai quali non è facile fare la scelta giusta. Il coinvolgimento del minore è necessario, proporzionalmente all'età, in particolare per decisioni che riguardano i valori personali e la qualità della vita. Sono diversi i vantaggi che derivano dall'integrare bambini e adolescenti in una procedura simile a quella del consenso informato: rispetto del principio etico dell'autodeterminazione; incoraggiamento alla comunicazione aperta, rafforzando in tal modo la soddisfazione nella terapia medica; migliore cooperazione nella terapia; rafforzamento del senso di controllo; rispetto per le capacità del bambino che fornisce l'opportunità per un'ulteriore crescita e maturazione. Tuttavia, si deve fare attenzione a non far decidere bambini e adolescenti in base alla loro capacità o, peggio, affidare loro un ruolo decisionale definitivo in caso di disaccordo tra le altre parti coinvolte sulla scelta della terapia medica.
Inoltre, per la ricerca su bambini e adolescenti, a causa della loro più elevata vulnerabilità, in molti Paesi sono state stabilite norme particolari di tutela, che per esempio richiedono sia il consenso del bambino sia il permesso del genitore o del tutore e un ragionevole rapporto rischio/beneficio. Un equilibrio simile va cercato nel campo della ricerca nella medicina di emergenza. In questo campo, nei pazienti che sono temporaneamente incapaci è stata comunemente accettata la pratica di ottenere il consenso da un parente, prima di iniziare uno studio clinico. Tuttavia, il rappresentante del paziente spesso non è disponibile tanto velocemente quanto servirebbe nelle situazioni di emergenza. In questo contesto si è sviluppato il concetto di consenso differito: i pazienti sarebbero immediatamente annessi allo studio e il consenso verrebbe ottenuto quanto prima da un parente o dal paziente stesso. Tale pratica è stata poi opportunamente limitata in modo da ottenere una maggiore tutela del paziente.
Il consenso informato si basa comunque sul concetto di 'autonomia del paziente', un concetto ambiguo e sfumato. Più che sull'autonomia della persona, l'attenzione va puntata piuttosto sull'autonomia delle azioni specifiche di rifiuto o di consenso. Infatti, persino quella che si definisce una persona non autonoma, per esempio un bambino, può prendere decisioni autonome in determinate circostanze, così come un soggetto autonomo può non essere nelle condizioni di farlo perché, per esempio, travisa il senso di informazioni importanti. Un'azione può essere definita autonoma se il soggetto agisce intenzionalmente, se comprende ciò che fa, se non è controllato dall'influenza altrui. Postulando l'esistenza di diversi gradi di autonomia, si risolve anche il problema della piena comprensione delle procedure cliniche da parte del paziente. Tale comprensione totale, che risulterebbe da una decisione pienamente autonoma, è un ideale troppo elevato da raggiungere. Ciò che è richiesto da un consenso informato non è altro che un grado sufficiente di autonomia, un consenso 'sostanzialmente' autonomo. Naturalmente è difficile definire un consenso sostanzialmente autonomo, ma è solo così che il concetto di autonomia può essere applicato alla realtà clinica. Inoltre, il livello di comprensione e di libertà dal controllo altrui non è stabilito in assoluto, ma può avere gradi diversi in ogni contesto medico e sociale. Basandosi su questo modello di autonomia si può dare una definizione concisa del concetto di consenso informato come una 'specifica richiesta di azione autonoma', cioè l'autorizzazione intenzionale a eseguire una procedura medica.
Spesso il consenso informato è considerato come un obiettivo irraggiungibile, divenuto progressivamente una richiesta legale. La maggior parte dei critici del consenso informato sottolineano una profonda incompatibilità tra il principio di autonomia, che è al centro dell'interesse del paziente, e il principio paternalistico, che è al centro dell'interesse del medico per i suoi pazienti. Una delle principali obiezioni dei medici rispetto al fornire tutte le informazioni necessarie al paziente è che, su queste basi, la maggior parte di loro rifiuterebbe qualsiasi intervento temendone i rischi. Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato che questa convinzione è erronea. Un'altra obiezione mossa contro il consenso informato sottolinea come il paziente non abbia strumenti sufficienti per capire in maniera adeguata l'informazione medica che gli viene fornita. In ogni caso, questo ostacolo può almeno in parte essere superato, adattando l'esposizione dell'informazione alle capacità di comprensione del paziente.
È stato anche sostenuto che il consenso informato distrugge il carattere fiduciario del rapporto tra medico e paziente. Se un medico è costretto a discutere diverse alternative terapeutiche, il paziente potrebbe pensare che il medico non abbia la capacità professionale indispensabile per scegliere tra le diverse terapie. In questo senso l'integrità del medico è vista come la migliore garanzia per i diritti del paziente.
In conclusione possiamo affermare che la procedura di consenso informato non deve essere vista come l'applicazione rigida di un modulo di consenso legalmente valido e completo, ma come la capacità di comprendere e analizzare ciò che vuole il paziente. Se esso è visto, infatti, come una procedura di condivisione delle decisioni tra medico e paziente, l'autonomia del paziente e la preoccupazione del medico per il benessere del paziente possono essere alla fine riconciliate.
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Tavola I - Il consenso informato in Italia di Gilberto Corbellini
In Italia manca una legislazione specifica sul consenso informato, che è stato accolto nell’ordinamento giuridico italiano con riferimento all’art. 13 della Costituzione, che afferma l’inviolabilità della libertà personale (intesa anche come libertà fisica e morale), nonché all’art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, fissando il principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà, se tale trattamento non è previsto come obbligatorio ‘per disposizione di legge’. La volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari (non obbligatori) è ribadita dall’art. 1 della legge 13 maggio 1978, n. 180 e dall’art. 33 della l. 23 dicembre 1978, n. 833. Il primo riconoscimento del principio secondo il quale il medico nulla può fare senza il consenso del paziente, che per essere valido deve essere preceduto dalla presentazione delle informazioni circa la potenziale inefficacia dell’operazione chirurgica, è contenuto in una sentenza dei giudici di legittimità, i quali nel 1967 stabilirono che «fuori dei casi di intervento necessario il medico nell’esercizio della professione non può, senza valido consenso del paziente, sottoporre costui ad alcun trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e l’incolumità fisica» (Cassazione, sez. III, 25 luglio 1967, n. 1945).
Nel 1985 l’acquisizione di un valido consenso veniva estesa dalla Cassazione civile agli interventi chirurgici di natura estetica (Cassazione c., 8 agosto 1985, n. 4394). Nel 1994 la Cassazione stabiliva che l’informazione del paziente è «condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32, comma 2, della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall’art. 33 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)» (Cassazione c., sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014). Gli stessi concetti sono stati espressi dalla Cassazione penale nel 2001, che ne trae come diretta conseguenza che il medico non ha «un generale “diritto di curare”, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di “soggezione” su cui il medico potrebbe “ad libitum” intervenire, con il solo limite della propria coscienza» (Cassazione p., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572).
L’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria conferisce al medico la facoltà o la potestà di curare, ma per aderire ai principî dell’ordinamento è necessario il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario. Uniche eccezioni riguardano i casi di pazienti con malattia mentale le situazioni di emergenza in pronto soccorso e i casi in cui il paziente è minore d’età. L’informazione necessaria per il consenso «non può provenire che dal sanitario che deve prestare la sua attività professionale» (Cassazione c., sentenza n. 7027 del 23 maggio 2001). Inoltre, la responsabilità e i doveri del medico non riguardano solo l’attività propria e dell’eventuale equipe che a lui risponda, ma si estendono allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, e si traducono in un ulteriore dovere di informazione del paziente (Cassazione c., sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318).
Un numero sempre crescente di persone fa valere giudizialmente la (presunta) colpa professionale del medico, accusandolo in molti casi di imprudenza e negligenza nel formulare la diagnosi, oltre che di mancata informazione e acquisizione del consenso. Con la sentenza n. 18853 del 20 settembre 2004 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di una paziente che aveva riportato danni, dopo essersi rivolta a una clinica per un’operazione di chirurgia estetica. Accogliendo la richiesta di risarcimento, la Cassazione ha stabilito che la paziente ha diritto non solo alla ‘restituzione’ della somma pagata per sottoporsi all’intervento non riuscito, ma anche al risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in tutte le loro componenti. Con la sentenza 13 dicembre 2004 il tribunale di Venezia ha condannato un ospedale in solido con i medici al risarcimento del danno biologico, danno patrimoniale e danno esistenziale, definendo quest’ultimo come la «sofferenza ricollegabile al dover essere a fianco del proprio congiunto in attesa che la malattia compisse il suo lento e inesorabile cammino».
Il Codice italiano di deontologia medica ha riconosciuto nel 1989 come doveri del medico quello di informare il paziente e quello di ottenere il consenso all’atto medico. L’art. 32 recita che «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente». Lo stesso articolo ricorda che il consenso deve essere «espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona». La mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità per il medico anche quando l’intervento abbia esito positivo. Infatti il paziente potrebbe sempre obiettare di non essere stato messo in condizione di effettuare le proprie scelte, per cui «il medico risponde dei danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente sui possibili esiti dell’intervento chirurgico, al quale egli è tenuto in ogni caso» (Cassazione, sez. III, sentenza n. 6464 dell’8 luglio 1994). Affinché possa svolgere pienamente la sua funzione, il documento in discorso deve presentarsi sotto un duplice aspetto: come una dichiarazione dell’informazione (anche verbale) ricevuta e come consenso alla specifica prestazione sanitaria prevista.
Il consenso informato è uno dei requisiti etici fondamentali previsti dalla Good clinica practice (GCP) per l’approvazione dei risultati degli studi clinici controllati necessari alla registrazione dei prodotti farmaceutici, nonché, ormai, uno dei requisiti per l’accettazione di uno studio epidemiologico da parte delle riviste scientifiche. Le linee della GCP, definite da una direttiva CEE del 1991 e recepite dal governo italiano con il d.m. n. 86 del 27 aprile 1992, derivano dalle normative americane della Food and Drug Administration e hanno lo scopo di stabilire dei criteri metodologici generali per la conduzione degli studi clinici. Per la GCP l’oggetto dell’informazione da fornire ai soggetti deve riguardare gli scopi del trial, i benefici previsti per il soggetto o per altri, le modalità del controllo (placebo o farmaco standard), i rischi e i possibili effetti collaterali, la libertà per il soggetto di ritirarsi in qualsiasi momento dallo studio e le alternative al trattamento proposto. La GCP prevede anche il parere del Comitato etico per la sperimentazione dei farmaci.