Consenso
Il tema del consenso ricorre nelle riflessioni condotte su una pluralità di ambiti della vita sociale. Senza pretesa di completezza se ne possono indicare i principali: dalla sfera del diritto privato, con particolare riferimento alle fattispecie contrattuali oppure a figure negoziali come quella del matrimonio, alla sfera dei rapporti internazionali nelle loro manifestazioni pattizie o a quella dei grandi aggregati sociali (sistemi sociali), con i loro problemi di integrazione e coerenza interna, e infine all'organizzazione del potere politico e in particolare, ma non solo, di quello democratico. Il tema dell'incontro e della composizione di (relativamente) libere determinazioni di volontà, evocato dal concetto di consenso, emerge abbastanza naturalmente come cruciale in tutte le situazioni nelle quali le interazioni tra soggetti, siano essi individuali o collettivi, hanno un ruolo eminente.
Rilevata l'ubiquità del fenomeno e del concetto, occorre osservare che le elaborazioni più articolate ed esplicite di questo tema si danno nell'ambito del diritto privato da un lato, e nel quadro delle riflessioni sulla politica democratica dall'altro. Con qualche semplificazione si potrebbe notare che la sfera del contratto (sin dal diritto romano; cfr. Digesto, II, 14, 1, 3; v. Grosso, 1963) e la sfera della democrazia sono i due ambiti sociali nei quali, rispettivamente a livello interindividuale e a livello di aggregati collettivi, l'incontro tra volontà autodeterminantisi ha storicamente avuto una maggiore rilevanza e il più esplicito riconoscimento (nonché tutela). Anche per questa corrispondenza non è del tutto da stupirsi che immagini e metafore estratte da una sfera (quella privatistica) siano state spesso adattate e utilizzate nell'altra. Detto questo, e salvo ritornare all'occorrenza su queste corrispondenze, qui ci si limiterà alla problematica politica del consenso, rinviando ad altri articoli per quelle giusprivatistiche.
Come si è detto, il tema del consenso applicato ai grandi aggregati umani non ricorre solo in teorie esplicitamente riferite alla dimensione propriamente politica di questi, ma anche in teorie che affrontano più genericamente il problema dell'ordine e dell'integrazione della società. Autori classici della sociologia come Comte, Durkheim e Parsons hanno utilizzato questo concetto nell'analisi della società e dei suoi requisiti funzionali (v. Partridge, 1971, pp. 73 ss.; v. Shils, 1968). In queste prospettive, però, il significato del concetto di consenso sfuma verso quello di concetti come integrazione, omogeneità, diffusione dei valori; se si vuole mantenere al concetto una più precisa connotatività, la sua applicazione all'ambito di una società nel suo complesso non può fare a meno di riferirsi alla forma politica di questa.
Se dunque concentriamo l'attenzione sull'ambito politico, dobbiamo partire dalla centralità del tema del consenso nella prassi e nella teoria del governo democratico. Non è difficile rilevare questa posizione, per esempio attraverso un'analisi del linguaggio della politica democratica: la frequenza stessa della parola, tanto nei discorsi degli attori che degli osservatori, indica che i processi centrali di questo regime politico (dalle elezioni ai rapporti governo-parlamento, alla realtà interna dei partiti) sono suscettibili di essere letti utilizzando la cifra del consenso. Il consenso sarà volta a volta presentato come valore di primo piano dell'ethos democratico, come condizione critica di esistenza e di funzionalità del regime democratico e delle sue istituzioni, come risorsa da conquistare da parte dei partiti, o addirittura come elemento definitorio di questo regime stesso (la democrazia come government by consent secondo una formula assai diffusa). Sottolineato questo legame particolarmente stretto tra consenso e una determinata forma di regime politico - quella democratica - conviene tuttavia non dimenticare che il problema del consenso non è esclusivo di tale regime, come la ricerca storica e politologica sulle forme non democratiche ha potuto mettere in rilievo. Così come non si può sottacere il fatto che l'articolazione di questo tema e la riflessione su di esso precedono ampiamente i regimi politici democratici dell'età contemporanea.
Ma, prima di toccare questi punti, occorre un approfondimento del significato di consenso. Sin da una rapida ricognizione risulta chiaro che il discorso sul consenso si svolge su una pluralità di piani diversi. Questa varietà emerge con evidenza appena ci si soffermi su una certa paradossalità del nesso, come si è già detto cruciale, tra democrazia e consenso. Si pensi da un lato alla maniera corrente di presentare la democrazia come regime basato sul consenso (in contrapposizione ad altri regimi che tali non si possono definire in quanto basati sulla coercizione e sull'accettazione passiva; v. Plamenatz, 1968, p. 170; v. Sartori, 1987, pp. 86 ss.), dall'altro alla forse altrettanto frequente caratterizzazione del regime democratico come regime fondato sul riconoscimento del dissenso e dell'opposizione in contrapposizione ai regimi che pretendono l'unanimità (v. Friedrich, 1963, pp. 237 ss.; v. Dahl, 1966). A un più attento esame il paradosso in larga parte si scioglie: nella prima espressione con il termine consenso ci si riferisce infatti a un'azione (esplicita o implicita) di adesione volontaria dei governati agli orientamenti, decisioni e azioni dei governanti, mentre nella seconda i concetti di consenso e di dissenso si riferiscono piuttosto a una situazione collettiva di concordanza o discordanza di opinioni e orientamenti che taglia orizzontalmente il corpo politico (a livello di masse e di élites). Nella prima accezione il concetto di consenso si contrappone a quello di coercizione (v. Friedrich, 1963, p. 165), nella seconda a quello di dissenso.Si deve anche osservare che nel primo senso il concetto di consenso si avvicina molto a quello di sostegno (support) (v. Easton, 1967; v. Morlino, 1980, pp. 146 ss.), nel secondo a quello di accordo (agreement). Nella lingua inglese esistono addirittura due termini diversi, anche se derivati da una comune radice, per esprimere queste dimensioni del concetto. Con il termine consent ci si riferisce, prevalentemente, all'azione, con il termine consensus alla situazione (v. Partridge, 1971; v. Graham, 1984, p. 90). Nelle lingue, come l'italiana, che non consentono questa differenziazione terminologica occorrerà rendere esplicito in altro modo a quale delle dimensioni del concetto ci si riferisce. Per esempio utilizzando il termine consenso, senza qualificazioni, per esprimere la prima dimensione, e parlando di 'stato di consenso' per la seconda.
Anticipando temi e problemi che verranno esaminati più avanti, si deve osservare che le due dimensioni del concetto comportano problematiche relativamente specifiche e differenziate. La dimensione del consenso-azione solleva in particolare interrogativi relativi all'identità dei soggetti che esprimono il consenso e alle modalità di tale azione (il grado di consapevolezza, di libertà, di esplicitazione dell'atto del consentire, le sue motivazioni, le forme in cui si manifesta, ecc.). La dimensione del consenso come stato pone semmai il problema dell'ambito al quale si estende questa situazione, cioè dell'estensione del segmento di società politica che si trova in tale condizione e dell'area tematica rispetto alla quale vige il consenso, nonché dei processi che l'hanno prodotto.Tra i due aspetti, pur distinguibili con chiarezza in sede analitica, non mancano poi certo i rapporti. Nel momento in cui il governo viene a basare la sua legittimità su manifestazioni istituzionalizzate di consenso da parte dei governati, sempre più delicata e rilevante diventa la questione dell'esistenza, nel corpo politico, di un certo livello minimo di consenso, inteso come accordo su alcuni valori e regole di comportamento comuni.
Una ricognizione preliminare della problematica evocata dal tema del consenso, condotta partendo dalle connessioni particolarmente forti di questo (inteso qui come consenso-azione) con il fenomeno democratico, non può fare a meno di mettere in evidenza la doppia faccia, di diritto e di fatto, della sua rilevanza. La rilevanza di diritto del consenso per l'esercizio del potere politico (rilevanza che si traduce in un insieme di regole finalizzate a vincolare il secondo al primo) ha le sue basi nella dimensione normativa della teoria democratica e più in generale di tutte le dottrine popolari e civiche della politica, imperniate sulla concezione della comunità politica come comunità di cittadini e non di sudditi. In questa prospettiva, quando si dice potere basato sul consenso, si intende che il potere deve essere basato sul consenso. Il consenso assume dunque il significato di 'vincolo'. Il fatto che queste concezioni normative si traducano in certi meccanismi istituzionali che strutturano e vincolano la vita politica, comporta poi un passaggio dalla rilevanza di diritto alla rilevanza di fatto del consenso. Disporre del consenso diventa per il potere un'esigenza pratica oltre che di principio. Il consenso, accanto al significato di vincolo, assume quello di risorsa per il potere politico. Una risorsa alternativa ad altre, in particolare a risorse coercitive.
A questo proposito occorre notare che, se la rilevanza di diritto del consenso è indissolubilmente legata all'esperienza democratica, la rilevanza di fatto trascende certamente la sfera della democrazia. In termini un poco generici si può affermare che in ogni organizzazione politica il consenso assumerà di fatto una rilevanza tanto maggiore, come risorsa alla quale fare appello da parte dell'autorità, quanto più questa non potrà contare esclusivamente sulla coercizione o sull'accettazione passiva (v. Hume, 1742). E questo avviene, in misura maggiore o minore, anche in tutti i regimi autoritari.
Va ancora osservato che tra rilevanza di diritto e di fatto del consenso esistono interazioni importanti, pur se complesse e paradossali, anche fuori dalla sfera dei regimi democratici in senso proprio. Quanto più le concezioni civiche e popolari della politica entrano a far parte di una koinè culturale mondiale, tanto più il consenso diventa una risorsa cruciale per ogni regime politico, sia che esso ne affermi sia che ne neghi in via di diritto il valore. O, perlomeno, diventa necessario mettere in atto processi di simulazione del consenso. D'altra parte è probabile che, paradossalmente, in un'epoca nella quale è diffusa in maniera generalizzata l'opinione che il consenso sia la base della 'buona politica', regimi che non possono contare su questa risorsa (come i regimi autoritari del nostro secolo) debbano fare ricorso a misure di coercizione molto più intense ed estese che non, per esempio, i regimi politici predemocratici, operanti in epoche meno sensibili a questo valore politico (v. Linz, 1975). Visto come risorsa, il consenso deve quindi essere valutato in una prospettiva complessiva delle diverse risorse a disposizione delle autorità politiche.
La peculiare importanza del tema del consenso nella realtà e nelle riflessioni politiche contemporanee (democratiche e non) non deve far dimenticare che non ci troviamo di fronte a una realtà priva di antecedenti fattuali e di ascendenze culturali. Di particolare rilievo per la vicenda politica del mondo eurooccidentale moderno è l'introduzione del tema del consenso nella dimensione politica (rispetto a una prima utilizzazione in sede giusprivatistica) che avviene nell'Europa medievale in due contesti principali: 1) quello della prassi e della teoria della politica feudale; 2) quello della prassi del governo cittadino e della teoria del governo popolare che a quest'esperienza politica è particolarmente legata. L'antagonista storico del principio del consenso è quello della voluntas, proprio della monarchia teocratica prima e assolutista poi.
Nel contesto feudale è il carattere sinallagmatico, contrattuale, del vincolo tra signore e vassallo ad assegnare al consenso il ruolo di principio guida del sistema politico. L'espressione tipica di quest'idea si ritrova nelle formulazioni di stampo feudale del corretto processo legislativo, cioè relative al più alto atto di governo della comunità politica, là dove si prescrive che questo debba avvenire - come dice Pietro da Bellapertica - "cum proceribus" (v. Costa, 1969, pp. 190-192), o "per consilium regni" (v. Ullmann, 1966; tr. it., p. 209) o ancor più esplicitamente che "la ley de la terre est fait en parlement par le roy et les seigneurs espirituelx et temporell et tout la communalte du roiaume" e dunque attraverso un "commun asent de tout le roiaume" - come riconosce Edoardo I d'Inghilterra - (ibid., pp. 220-221). Il principio del consenso tra i soggetti rilevanti del sistema politico (il che naturalmente significa solo una frazione ristretta della popolazione) trova la sua attuazione pratica nelle istituzioni parlamentari medievali che si configurano proprio come le istituzioni del consenso (v. D'Agostino, 1980). Questa caratterizzazione vale in un duplice senso. La struttura assembleare dei parlamenti, rispetto a quella monocratica di altre istituzioni politiche, è una prima espressione di quel principio; inoltre, il carattere plurisinodale di tali parlamenti (composti da più rami, corpi o bracci) significa che l'accordo dev'essere raggiunto non solo all'interno di un consesso assembleare, ma anche tra più consessi. Il consenso si presenta dunque come il risultato di un processo istituzionale a più stadi, come già rilevava nel 1583 T. Smith nel De republica anglorum (v. Matteucci, 1962, p. 43).
Quanto alle città medievali, non si può fare a meno di cogliere la centralità degli elementi di associazione tra soggetti nelle loro istituzioni; i concetti di coniuratio, di congregatio, di fraternitas, che in qualche modo si riferiscono tutti a una convergenza di volontà e quindi a un consenso tra i soggetti rilevanti, sono notoriamente di grande importanza nel linguaggio politico 'cittadino' (v. Bertelli, 1978, pp. 17 ss. e 45 ss.). La costante presenza nelle pur assai variegate istituzioni cittadine di larghi organismi assembleari accanto a quelli monocratici, o comunque numericamente ristretti, indica l'esigenza pratica di dar vita a una convergenza di volontà, dunque al principio del consenso nel governo della città. Il tema del consenso ricorre poi esplicitamente in quelle dottrine - come quella di Bartolo da Sassoferrato - che mirano a fondare la validità della legge consuetudinaria o scritta, vigente in ambito cittadino e non di origine regia, appunto sulla voluntas tacita o espressa del populus (v. Ullmann, 1966; tr. it., p. 377).
Naturalmente, anche nel caso del governo cittadino medievale, il consenso è sempre quello di una parte ristretta della popolazione - i meliores - che soli godono della cittadinanza politica piena (v. Bertelli, 1978, p. 7). Si può ricordare qui un altro tema - quello della concordia - che anticipa altri aspetti della riflessione contemporanea sul consenso. La concordia ricorre continuamente nel pensiero medievale, specie in quello di marca cittadina, come una delle virtù del 'buon governo' e come una condizione della pace interna. In questo caso la corrispondenza si può stabilire con l'accezione moderna del consenso come stato di accordo su valori, credenze, principî.
In Europa il tramonto diffuso delle istituzioni tanto del governo feudale che di quello cittadino (o delle integrazioni tra i due, quali i parlamenti per ceti) a favore dell'assolutismo monarchico indebolisce molto, sia sul piano della realtà politica che su quello della riflessione dottrinaria, il tema del consenso. Naturalmente si sottraggono in misura maggiore a questa eclissi i paesi nei quali si conserva la tradizione parlamentare medievale. Il caso principale è certamente quello inglese: qui il tema del consenso, tanto sul piano istituzionale che su quello dottrinario, conosce, pur con alti e bassi, una continuità singolare tra epoca premoderna e moderna.Il tema del consenso ritorna in grande stile nella riflessione che si sviluppa tra Seicento e Settecento all'interno della concezione contrattualistica della politica. La dottrina del contratto come fondamento della comunità e del potere politico (pactum unionis e pactum subjectionis) attribuisce al consenso degli uomini la formazione della società politica a superamento dello stato di natura e l'attribuzione di poteri di governo alle istituzioni politiche (v. Gough, 1957). Ma come è noto, le teorie contrattualistiche non hanno esiti univoci in fatto di modelli di organizzazione politica: si va infatti dall'assolutismo hobbesiano (per il quale il contratto comporta un'alienazione definitiva del potere nelle mani del sovrano) al liberalismo lockiano (che prolunga il ruolo del consenso nell'esercizio del potere). Man mano che la dottrina contrattualistica si esplicita nella dottrina della volontà popolare come fondamento del potere politico (v. Rousseau, 1762; tr. it., pp. 729 ss.), il tema del consenso emerge come tema centrale della politica moderna.
Come si è già notato, il tema del consenso diventa tema chiave nel contesto della democrazia liberale, e come tale è soggetto a molteplici declinazioni. Si può dire, a ragione, che entrambe le componenti fondamentali del regime liberaldemocratico (v. Dahl, 1971; tr. it., pp. 30 ss.; v. Sartori, 1987, pp. 283 ss.) pongono il problema del consenso. Lo pone, ovviamente, la componente 'democratica' in senso proprio là dove afferma la sovranità del popolo. Nella misura in cui il popolo non può governare direttamente e sussiste una separazione di ruoli tra governanti e governati, questa componente presuppone, perlomeno, che chi governa lo faccia con il consenso del popolo. Questa esigenza trova la sua manifestazione istituzionale nel fatto che le principali cariche di governo sono tutte raccordate (pur nella variabilità dei circuiti istituzionali specifici) a elezioni popolari (v. Dahl, 1971; v. Linz, From great..., 1978; v. Sartori, 1987). Il consenso dei governati, trasmesso attraverso i meccanismi della rappresentanza, si propone in questa prospettiva come alternativa realistica all'irrealizzabilità della democrazia come autogoverno.Quanto alla componente 'liberale', l'aspetto che più significativamente chiama in causa la questione del consenso è quello del riconoscimento del pluralismo politico. Se è vero che uno degli apporti fondamentali del liberalismo politico è il riconoscimento del diritto al dissenso e all'opposizione, proprio questo riconoscimento pone, paradossalmente ma cogentemente, l'esigenza di elementi controbilancianti di consenso che intercorrano tra i soggetti del dissenso. Come dire che se la democrazia liberale si fonda sul riconoscimento del diritto al dissenso, essa non può fondarsi esclusivamente su di esso, ma esige che certe aree siano sottratte al dissenso o che comunque si giunga a costruire una qualche misura di consenso (v. Sartori, 1987, pp. 89 ss.; v. Fisichella, 1983, pp. 13 ss.). Quantomeno deve esistere consenso sul diritto al dissenso; ma più in generale deve esistere consenso su una serie di regole che permettano la convivenza (e anche di raggiungere decisioni) in una situazione pluralistica. Se il (limitato) pluralismo di fatto dei regimi autoritari (v. Linz, 1975) non esige di per sé un consenso procedurale, la soluzione dei conflitti potendo essere lasciata ai rapporti di forza, il pluralismo di diritto della liberaldemocrazia non può farne a meno, in quanto, senza il riconoscimento di una logica di regole giuridiche diversa da quella della forza, non potrebbe essere salvaguardato il 'valore' della pluralità di posizioni sul quale si regge la deontologia liberaldemocratica. In ciò si rivela con chiarezza la differenza di fondo tra i due tipi di pluralismo. Dire questo non significa peraltro escludere che un qualche consenso procedurale possa avere un ruolo anche nel pluralismo non democratico, come vedremo più avanti. Ma, in quel contesto, la sua presenza appare come una possibilità di fatto più che una necessità di diritto.Il rapporto tra regime liberaldemocratico e consenso è dunque complesso e sfaccettato. Una messa a fuoco più precisa richiede che se ne evidenzino dettagliatamente le diverse dimensioni e componenti. Un primo aspetto sul quale soffermarsi è la doppia faccia 'di diritto' e 'di fatto' del problema. Ci sono questioni cioè che toccano la teoria normativa della democrazia e, per questa via, l'articolazione istituzionale della stessa (che da quella è fortemente dipendente), e questioni che ne toccano la realtà di fatto (e la teoria empirica; v. Sartori, 1987, pp. 5 ss.). Per quel che riguarda il primo aspetto si può affermare che la democrazia è un regime politico che erige il principio del consenso a principio di governo, traducendolo in una serie di 'meccanismi istituzionali' corrispondenti; si dovranno quindi illustrare questi meccanismi. Ma non si deve confondere questa dimensione con il verificarsi di fatto di situazioni di consenso; il verificarsi di tali situazioni e l'individuazione delle condizioni che le favoriscono sono quindi materia di rilevazione empirica distinta.
Un secondo aspetto da precisare è quello dei soggetti del consenso. Accertare tra chi si stabilisce una situazione di consenso è ovviamente un punto critico. In particolare devono essere distinti i problemi del consenso a livello di massa da quelli del consenso a livello di élite.Il terzo aspetto è quello dei contenuti del consenso: quali sono gli oggetti sui quali si manifesta l'accordo, e dunque qual è l'estensione del consenso.Cominciamo dal primo tema, il consenso come principio ispiratore delle istituzioni della democrazia. In proposito sembra che si debba dire che se c'è, per così dire, una soglia minima di traduzione istituzionale della regola del consenso, comune a tutti i regimi liberaldemocratici, al di là di questa si aprono poi possibilità di variazioni non trascurabili, tant'è vero che un recente studio ha potuto parlare di "democrazie consensuali" per designare una categoria di liberaldemocrazie da contrapporre a un'altra, quella delle "democrazie maggioritarie" (v. Lijphart, 1984). Ma prima di affrontare questo punto conviene partire dal livello minimo, quello cioè che entra nella definizione stessa di liberaldemocrazia.Come abbiamo visto, il primo e fondamentale elemento istituzionale che esprime il principio del consenso nelle democrazie è quello dell'elezione dei governanti. Chi vuole governare deve conquistarsi il (un determinato livello di) consenso dei governati. Quale sia il significato reale del votare, soprattutto nelle democrazie di massa, è questione intorno alla quale gli studi elettorali si sono affaticati per lungo tempo. Essi hanno concordemente messo in dubbio la possibilità che le elezioni di massa funzionino come meccanismi di trasmissione, a delegati presenti nelle istituzioni del governo, di una ipotetica 'volontà popolare' autonomamente articolata ed elaborata dai cittadini (quindi secondo una modalità di funzionamento interamente 'dal basso verso l'alto'). L'immagine delle elezioni che ne emerge è invece assai più vicina proprio al significato di uso comune della parola consenso. Si riconosce infatti che nel processo elettorale il dato iniziale non è un fatto 'dal basso', ma 'dall'alto', cioè la proposta politico-programmatica delle élites, dei partiti. Il ruolo dell'elettorato si configura dunque come espressione di approvazione o di disapprovazione, di consenso o di dissenso nei confronti delle proposte politico-programmatiche dei partiti e delle persone che rappresentano queste proposte. Il consenso o il dissenso dell'elettorato si manifestano in primo luogo nei confronti del partito o dei partiti che hanno avuto ruoli nel governo. Il segmento della classe politica che è in posizioni di governo gode infatti di particolare visibilità e se ne possono valutare più concretamente le performances (v. Downs, 1957; v. Key, 1961; v. Fiorina, 1981).
In questa prospettiva, quando parliamo di 'consenso elettorale' ci vogliamo riferire a un 'assentire' che può oscillare tra un più attivo 'sostenere' e un più passivo 'consentire'.
Stabilire in che misura il consenso (o viceversa il dissenso) dell'elettorato nei confronti dei governanti sia un consenso libero, informato e cosciente, fino a che punto sia in grado di scendere nei dettagli delle proposte politico-programmatiche o si fermi a immagini fortemente semplificate degli attori politici in gioco è questione intorno alla quale si è a lungo discusso. Pur ponendo il problema a livello individuale, la risposta non può in ogni caso essere univoca. Accanto ad ampi settori dell'elettorato con livelli di informazione e di comprensione delle questioni politiche piuttosto bassi, esistono segmenti assai più attenti. Ma i livelli di attenzione, informazione e comprensione non variano solo da persona a persona, da strato sociale a strato sociale, ma anche in relazione agli argomenti in questione. Una stessa persona è in grado di esprimere un consenso più ragionato e consapevole su temi più vicini alla propria esperienza che su argomenti da questa lontani. Tutti questi aspetti, che attengono alla sfera 'interiore' e psicologica, sono certo rilevanti per valutare meglio il significato del consenso elettorale, ma si pongono solo dopo che ne sono stati precisati gli aspetti 'esteriori'.
Perché le elezioni possano essere interpretate come canali di espressione del consenso è necessario che sia garantita la libertà del voto: che esista cioè in primo luogo la possibilità di votare o di non votare. Questa libertà si può considerare salvaguardata anche in presenza di 'piccole' sanzioni che mirano a incentivare il voto, purché sussista comunque la possibilità di votare scheda bianca o nulla. In secondo luogo è necessario che esistano possibilità significative di scelta nel voto, ossia che all'elettore si offrano alternative tra cui optare (e questo rinvia al già citato tema del rapporto tra consenso e pluralismo). In teoria, anche elezioni che non comportassero scelta tra alternative (per la presenza di una lista unica), ma consentissero almeno la facoltà di rifiutare il voto (in una delle varie forme possibili: astensione, voto bianco, voto nullo), si configurerebbero come strumenti sia pur rozzi di espressione di dissenso e consenso (v. Hermet e altri, 1978). Salvo che in esse mancherebbe un elemento cruciale nelle elezioni competitive, cioè che dissenso o consenso non sono solamente espressi ma 'pesano' anche sulla composizione della classe politica e sull'attribuzione all'interno di questa dei ruoli di governo e di opposizione.
Se i soggetti in gioco qui sono i governati e i governanti, quali sono i contenuti del consenso o del dissenso manifestati attraverso il canale elettorale? Poiché il consenso o il dissenso si manifestano rispetto alle proposte presenti sul 'mercato' elettorale, è a queste che bisogna guardare per accertarne i contenuti. A seconda che esse investano i contenuti sostanziali dei programmi di governo, e le persone destinate ad attuarli, oppure i valori e le regole fondamentali che definiscono il regime politico, oppure addirittura la configurazione stessa della comunità politica (è il caso per esempio di forze politiche che contestano uno Stato nazionale in nome dell'appartenenza a una diversa comunità etnica; v. Easton, 1967, capp. 10-13), i consensi elettorali attribuiti a ciascun tipo di proposta acquisteranno la coloritura corrispondente in termini di contenuto. Quindi, se i partiti antiregime otterranno x% dei voti, diremo che il dissenso nei confronti del regime è di x%; se invece i partiti che contestano l'unità nazionale raggiungono y% dei voti, diremo che il dissenso nei confronti della comunità politica a base nazionale si eleva a y%. E viceversa diremo per il consenso. Certo si potrà discutere se le motivazioni del sostegno a quel determinato partito stiano proprio nella sua opposizione al regime, o alla forma della comunità politica, o non derivino invece da altri aspetti dell'immagine del partito: per esempio, in Italia il voto fascista del 1921 o del 1924 può essere interpretato integralmente come voto di dissenso rispetto alla democrazia parlamentare? O il voto per il Partito Comunista Italiano, nel corso della sua lunga storia di opposizione, fino a che punto ha significato una piena condivisione da parte degli elettori delle diverse posizioni che il PCI ha assunto nel tempo nei confronti del regime politico liberaldemocratico? C'è più di un motivo per ritenere che i consensi a un partito si basino su una pluralità di motivazioni, alcune delle quali nulla hanno a che fare con gli aspetti sopra menzionati. Tuttavia, nella misura in cui i voti vanno al partito nel suo complesso, e quanto più quel partito non nasconde quegli aspetti della sua identità politico-programmatica, ma ripetutamente li utilizza come parte rilevante e pubblica del proprio appello all'elettorato, il consenso degli elettori, se non può essere integralmente interpretato come sostegno attivo di quella componente del messaggio, costituisce quantomeno un consenso 'permissivo' (v. Key, 1961, pp. 28 ss.). Pertanto il voto a un partito antiregime potrà essere interpretato quantomeno come segno di indifferenza, o di ambivalenza e di 'semilealtà' (v. Linz, From great hopes..., 1978; tr. it., pp. 56 ss.) nei confronti del regime politico esistente.
Ricapitolando: il regime democratico si basa su meccanismi istituzionalizzati di espressione del consenso (e del dissenso) dei governati nei confronti dei governanti. Questa è una delle condizioni fondamentali perché esso sussista. Da questa centralità dell'espressione di consenso e dissenso deriva immediatamente la rilevanza cruciale dei contenuti del consenso e del dissenso ai fini della funzionalità del regime. La discussione sui contenuti del consenso, che nasce in questa prospettiva, verte principalmente intorno alla questione del rapporto tra consenso sui contenuti sostanziali (cioè sui valori, i fini e le policies, e sulle persone dei governanti) e consenso sui temi procedurali (cioè sulle regole) della vita politica.Ma non è solo il canale elettorale a tradurre in forme istituzionali il principio del consenso nell'ambito democratico. Accanto e in stretta relazione con la dimensione, per così dire, 'verticale' del consenso (tra governati e governanti), il regime democratico liberale ne presuppone anche una 'orizzontale': tra i soggetti del pluralismo (a livello di élite in primo luogo e poi, più indirettamente, a livello di base). Quali ne sono le manifestazioni principali? E in che rapporto stanno con il principio maggioritario considerato spesso come il principio base del regime democratico stesso?
L'importanza del principio del consenso nella 'macchina istituzionale' centrale del regime democratico emerge da almeno due aspetti: la presenza di una pluralità di organi tra loro in relazione non gerarchica e il carattere collegiale delle istituzioni centrali. In particolare questi due aspetti si manifestano nelle relazioni tra parlamento ed esecutivo e nella struttura stessa del parlamento.
La grande innovazione istituzionale del regime liberaldemocratico consiste nell'aver reso il governo dipendente dall'organo parlamentare per l'esercizio delle sue funzioni. Il governo, per governare, deve disporre del consenso (di una maggioranza) del parlamento. Questo principio, pur con qualche variazione, si applica tanto alle forme di democrazia parlamentare che a quelle di democrazia presidenziale. Nella forma parlamentare il principio del consenso si applica sin dalla costituzione del governo, e il meccanismo della 'fiducia parlamentare' ne è lo strumento tecnico. Come è noto, il governo presidenziale non ha bisogno della fiducia parlamentare per costituirsi e restare in carica, in quanto si appoggia direttamente sul consenso dell'elettorato. Tuttavia la sua differenza rispetto al governo parlamentare si riduce nettamente, ai fini che qui interessano, se passiamo dal problema della costituzione (e della fine) dei governi al campo dell'azione governativa corrente. L'esigenza del consenso parlamentare si ripropone nel momento in cui l'esecutivo di nomina popolare vuole dare attuazione pratica al suo programma politico: il potere legislativo e il potere di approvazione del bilancio, detenuti dal parlamento, significano che, per dare autorità legislativa e mezzi finanziari alle proprie policies, il governo deve ottenere il voto parlamentare favorevole, deve cioè trovare una maggioranza, allo stesso modo che un governo parlamentare. La differenza tra contesto presidenziale e parlamentare è che, nel primo, il consenso parlamentare, non essendo richiesto per garantire la sopravvivenza del governo, ma solo per consentire il passaggio delle politiche di questo, ha meno bisogno di assumere la forma di un accordo formalizzato e stabilizzato in una formula politica durevole (la 'maggioranza' di governo), ma può essere negoziato e ritagliato (su misura) di volta in volta, in rapporto alle diverse policies. Il principio istituzionale che prescrive per lo svolgimento delle funzioni di governo la necessità di un accordo tra le due istituzioni fondamentali del regime significa poi, nella vita politica pratica, la necessità di raggiungere determinati livelli di consenso tra gli attori politici (individuali o collettivi) che operano all'interno di quelle istituzioni.
L'istituzione parlamentare esprime il principio del consenso, non solo per il fatto che tra governo e parlamento deve stabilirsi una relazione consensuale, ma anche in un secondo senso. È la sua struttura istituzionale stessa a farlo, in misura maggiore o minore a seconda delle varianti organizzative, ma comunque sempre a livelli significativi. Caratteristica precipua del parlamento è di essere normalmente un'istituzione collegiale e non gerarchica, di dimensioni numeriche consistenti (v. Cotta, 1986, pp. 281 ss.; v. Interparliamentary Union, 1986, pp. 16 ss.). Inoltre nei regimi liberaldemocratici il parlamento è costituito come il luogo centrale (anche se non unico) dove si esprime legittimamente il pluralismo di soggetti e di orientamenti politici.
L'insieme di queste caratteristiche fa sì che il perfezionamento dei processi decisionali fondamentali che richiedono la sanzione del parlamento presupponga la messa in atto di processi di aggregazione del consenso. Che la regola decisionale sia quella della maggioranza semplice o, a maggior ragione, quella di una maggioranza qualificata, il raggiungimento di decisioni esige che sia trovato il consenso almeno di una maggioranza dei membri del parlamento. In questo contesto istituzionale i partiti sono venuti ad assumere un duplice ruolo: da un lato si presentano come le espressioni, o meglio ancora come i promotori, della diversità di posizioni politiche (cioè del dissenso), dall'altro come gli agenti aggregatori e gestori del consenso.
Con la progressiva 'partitizzazione' della vita politica, che ha caratterizzato lo sviluppo dei regimi democratici nell'ultimo secolo, si può dire che i processi di aggregazione del consenso all'interno delle istituzioni rappresentative sono diventati sempre più processi 'partitici'. In prima battuta il problema del consenso parlamentare, della sua formazione e del suo mantenimento è un problema interno alla maggioranza. E questo vuol dire che, in tutti i casi in cui la maggioranza necessaria è alla portata di un solo partito (come si verifica nei casi di bipartitismo, o più raramente in sistemi pluripartitici), il problema del consenso di 'maggioranza' si pone come un problema di natura infrapartitica, che concerne l'accordo e la coesione all'interno della larga base parlamentare del partito di governo. Là dove la maggioranza può essere raggiunta solo grazie a una coalizione di partiti, il problema del consenso diventa innanzitutto un problema di coalition building e di coalition maintenance.
Come è noto, però, la funzionalità dei processi politici parlamentari non è integralmente determinata dal principio maggioritario. Per le sue caratteristiche strutturali e procedurali, difficilmente l'istituzione parlamentare può essere gestita sulla base esclusiva del principio maggioritario. L'ostruzionismo delle minoranze è una possibilità che incombe su ogni parlamento. Il fatto che a esso si ricorra solo eccezionalmente rivela che intorno al consenso di maggioranza si forma generalmente un'area di consenso più estesa, che ingloba in qualche misura anche le opposizioni (v. Friedrich, 1950² pp. 317-318). Questo consenso più ampio assume forme e contenuti diversi in rapporto alle prospettive su cui si basa. Una di queste prospettive può essere la partecipazione 'differita' al governo: l'opposizione ha una ragionevole aspettativa di diventare a suo tempo forza di governo e perciò trova conveniente consentire al governo quello che si aspetta le venga a sua volta concesso, cioè di governare senza intralci eccessivi. In altri contesti la prospettiva è invece di partecipazione 'sincronica' al governo: le opposizioni sono coinvolte nella messa a punto e deliberazione delle politiche di governo in forme più o meno intense, fino al caso estremo in cui la distinzione tra maggioranza e opposizione sparisce con il ricorso a formule di 'grande coalizione'. Alle due prospettive corrispondono in linea di massima declinazioni diverse dei contenuti del consenso extramaggioritario. Nel primo caso il consenso tra maggioranza e minoranza verte principalmente sul riconoscimento reciproco della legittimità dei rispettivi ruoli (previsti come temporanei) e si traduce quindi in una rinuncia alle azioni che ne potrebbero impedire lo svolgimento. Il consenso ha dunque valenze prevalentemente procedurali. Nel secondo caso invece si presenta con connotazioni di natura più sostanziale. È sulle policies del governo e sui loro contenuti che si realizza una convergenza con l'opposizione che incorpora in qualche misura le domande di quest'ultima. Naturalmente anche questa prospettiva ha implicazioni di natura procedurale: una svalutazione della legittimità del principio di maggioranza, un'accentuata sensibilità al problema della tutela delle minoranze e degli interessi di cui sono portatrici, una certa preminenza assegnata al parlamento come sede decisionale rispetto al governo, ecc.; ma è sui contenuti che poi si mettono alla prova la formazione e la gestione del consenso. Nell'altro caso il banco cruciale di prova è invece il rispetto di certi ruoli e di certe regole parlamentari.
Se è vero, dunque, che tutti i regimi liberaldemocratici hanno iscritto nel sistema istituzionale il principio del consenso a limitazione del principio di maggioranza, bisogna anche aggiungere che l'estensione istituzionale di questo principio non è sempre uguale. Tant'è vero che la letteratura parla di democrazie basate sul principio maggioritario e di democrazie basate sul principio del consenso, proprio in riferimento a queste variabilità (v. Lijphart, 1984). Su questi due concetti e in particolar modo sul secondo - di democrazia consensuale - occorre qualche precisazione per evitare che nella loro applicazione pratica si producano slittamenti semantici. Il punto è questo: quando si parla di democrazia consensuale ci si riferisce a una configurazione del sistema istituzionale e delle forze politiche tale da far dipendere il perfezionamento delle decisioni politiche da trattative e accordi tra una pluralità di soggetti politico-istituzionali, cioè dal raggiungimento di un consenso che vada al di là dei confini della maggioranza semplice, oppure a uno stato di consenso effettivamente esistente tra i soggetti rilevanti del sistema politico? I due aspetti non coincidono: è possibile ipotizzare un sistema istituzionale che prescriva un consenso più esteso della maggioranza semplice 'dentro' e 'tra' le istituzioni - dunque un sistema ispirato al principio del consenso - ma nel quale, alla prova dei fatti, questo consenso non possa essere raggiunto e quindi si profili uno stallo istituzionale. Viceversa, non è detto che in una democrazia ispirata al principio maggioritario non esista di fatto una certa base di consenso sostanziale (oltre che procedurale) tra le forze di governo e quelle di opposizione.
Ma vediamo meglio in che cosa consistono le differenze tra i due modelli di democrazia, maggioritario e consensuale, quali sono stati elaborati da Lijphart sulla scorta di una lunga discussione, sviluppatasi negli anni settanta, che ridimensionava il carattere paradigmatico della democrazia di stampo anglosassone e valorizzava modalità istituzionali e funzionali diverse (v. Pappalardo, 1979). Rispetto al Westminster model, basato su un'applicazione sistematica del principio maggioritario semplice (dalle elezioni alla formazione dei governi) e su una forte concentrazione del potere nelle mani del governo centrale, si possono individuare regimi democratici che in misura maggiore o minore se ne allontanano su entrambi i piani. Gli aspetti che, secondo Lijphart, concorrono a definire il modello consensuale sono i seguenti: la condivisione del potere tra maggioranza e minoranza, la dispersione del potere tra una pluralità di arene e di soggetti al centro del sistema politico, il decentramento del potere stesso a favore delle autorità di governo locale, la presenza di poteri di veto da parte delle minoranze (v. Lijphart, 1984; tr. it., p. 30). Alcuni di questi caratteri nascono dalle soluzioni istituzionali adottate: bicameralismo contro monocameralismo, federalismo contro accentramento, sistema elettorale proporzionale invece che maggioritario, presenza di una costituzione rigida e scritta invece che flessibile e non scritta, separazione tra esecutivo e legislativo, sul modello presidenziale, invece che fusione dei due poteri secondo il modello parlamentare.
Altri, invece, derivano da modalità di fatto secondo le quali si organizza la vita politica: presenza di un sistema multipartitico invece che bipartitico, presenza di una pluralità di dimensioni conflittuali invece di una sola, formazione di coalizioni di governo più che maggioritarie invece che ricorso a coalizioni minime. A parte le perplessità che possono nascere circa l'opportunità di mettere sullo stesso piano condizioni di fatto e di diritto, o, ancor più, dati che potremmo definire strutturali - o comunque dotati di una stabilità di lungo periodo (ad esempio la natura del sistema partitico) - e dati funzionali o perlomeno più variabili (come il tipo di coalizioni adottate), occorre osservare che gli elementi citati, di per sé, non dicono ancora nulla sull'esistenza nei fatti di un livello di consenso maggiore che in altre forme di democrazia. Questi tratti caratteristici definiscono soltanto una situazione di accentuata dispersione del potere in una pluralità di luoghi e soggetti. In sostanza una situazione nella quale, per raggiungere i medesimi esiti decisionali che si avrebbero in presenza di una maggiore concentrazione potestativa, è necessario mettere d'accordo - cioè ottenere il consenso di - una pluralità di soggetti politici. Dire però che il consenso è una condizione necessaria perché i processi decisionali abbiano esiti positivi, non vuole ancora dire che esso si verificherà. Pertanto, la cosiddetta consensus democracy può non essere affatto consensuale in termini di fatto.
C'è poi un elemento di paradossalità da rilevare in questa discussione. In base a quanto detto, gli elementi di diritto e di fatto che compongono il modello della democrazia consensuale costituiscono sostanzialmente delle prescrizioni o dei vincoli che impongono il ricorso a procedure consensuali per il raggiungimento delle decisioni. D'altra parte, vi sono fondati motivi per ritenere che la prescrizione di procedure massimizzanti i requisiti di consenso tra gli attori del sistema politico sia il risultato, il prezzo da pagare di una situazione (originaria almeno) di scarso consenso sostanziale tra gli attori stessi. Sono l'assenza di un'ampia piattaforma comune di accordo e l'esistenza di una certa sfiducia reciproca tra gli attori a esigere che le procedure decisionali siano tali che nessuno si senta escluso, e quindi minacciato potenzialmente in interessi vitali. Viceversa, l'accettabilità di un ricorso più sistematico alla regola maggioritaria e di una concentrazione maggiore di poteri nelle mani di un unico soggetto ha come condizione una base di consenso sostanziale, tale da permettere al soggetto perdente nella competizione per il potere di non sentirsi minacciato troppo gravemente per effetto della sua esclusione dal processo decisionale. Dunque, là dove c'è in partenza più consenso, il meccanismo democratico potrebbe essere poi meno esigente in fatto di requisiti procedurali di consensualità; mentre là dove il consenso di partenza è più debole, si tenterebbe di sopperirvi incentivando per vie procedurali la costruzione del consenso stesso. Se poi questi incentivi procedurali siano di per sé sufficienti a produrre il consenso è questione diversa, la cui soluzione deve essere lasciata alla verifica empirica. Da essa dipende il fatto che la consensus democracy si traduca in una democrazia consensuale non solo in termini prescrittivi, ma anche di fatto, oppure in una democrazia decisionalmente bloccata (o quantomeno a basso rendimento).
L'analisi delle performances delle democrazie che, sulla base delle caratteristiche evidenziate da Lijphart, potrebbero essere definite consensuali dimostra che la presenza di meccanismi istituzionali e di fatto che prescrivono di raggiungere un ampio consenso per decidere non garantisce necessariamente che questa condizione si realizzi. Nei casi in cui questa condizione sostanziale non si produca, assisteremo allora al sistematico rinvio delle questioni più spinose e all'intensificarsi del ricorso a decisioni di tipo microsezionale e distributivo (v. Di Palma, 1977; tr. it., pp. 98 ss.). Quanto alla formazione e alla vita dei governi, l'esigenza di mettere insieme un numero di soggetti partitici elevato, e per di più caratterizzato da uno spettro ideologico-programmatico molto esteso, darà luogo a processi particolarmente laboriosi e lunghi di composizione delle differenze, con elevata probabilità di instabilità.Possiamo dunque avere democrazie consensuali sotto il profilo procedurale, nelle quali però il consenso sostanziale è basso, e democrazie proceduralmente consensuali nelle quali invece il consenso è più elevato.
Fin qui si è considerato il problema del consenso in una prospettiva, per così dire, di 'statica democratica', cioè in rapporto alla struttura istituzionale e alla funzionalità corrente del regime, considerato come un dato consolidato della situazione politica. La domanda era, in sostanza, quale fosse il posto del consenso nell'architettura del regime democratico. Ma il tema del consenso presenta una rilevanza particolare anche in rapporto ai processi dinamici nei quali è in gioco l'esistenza stessa del regime: cioè da un lato i processi di instaurazione e consolidamento, dall'altro quelli di crisi e di crollo della democrazia.Il ruolo critico del tema del consenso nelle vicende fondamentali del regime democratico è stato rilevato prima e con maggiore chiarezza in negativo - cioè in riferimento ai fenomeni di crollo dei regimi democratici - che non in positivo, in riferimento ai processi di instaurazione dei regimi democratici. È dai primi dunque che conviene cominciare.
Nei casi in cui il regime democratico è entrato in crisi ed è poi crollato non è stato infatti difficile rilevare carenze significative di consenso tra gli attori del processo politico. In tutti i casi di crollo del regime democratico si possono individuare conflitti di estrema intensità, cioè situazioni di non consenso a livello di élite e di massa, tanto su temi politici sostanziali, cioè sulle risposte da dare ai problemi della comunità, quanto su temi procedurali, cioè sulle regole, sulle modalità di comportamento da seguire nel dare risposta ai primi (v. Linz, From great..., 1978; tr. it., p. 24). Per essere esatti, se si interpreta la democrazia come un sistema di regole che controllano l'accesso al potere politico e la sua gestione (sottoponendoli al duplice vincolo del pluralismo e dell'elezione popolare), il crollo della democrazia corrisponde al sottrarsi di alcuni (o tutti) i soggetti rilevanti all'accettazione di quelle regole fondamentali. Corrisponde cioè sempre a una crisi del consenso procedurale. Fin qui il discorso è abbastanza ovvio e può prestare il fianco all'accusa di cadere nella tautologia. Gli aspetti problematici, e quindi interessanti, sono semmai due: perché e come venga meno un preesistente consenso su quelle regole (e cioè perché, in un dato momento, appaiano soggetti politici che a quelle regole non aderiscono, o perché soggetti che le avevano accettate mutino di opinione); e poi quanto estesa debba diventare l'erosione del consenso per costituire una minaccia al regime democratico.
Questi quesiti inducono ad avviare una ricognizione dei soggetti che, di per sé o in rapporto alle particolari condizioni di un dato regime democratico, sono in grado di bloccare e rovesciare il meccanismo democratico. È rispetto a questi soggetti che diventa rilevante accertare se essi si mantengano all'interno dell'area del consenso sulle procedure democratiche oppure ne fuoriescano. Per la possibilità che essi hanno, di realizzare la presa del potere, militari e partiti con seguito di massa sono i più importanti candidati per questo accertamento. Il crollo di alcune democrazie europee nel periodo tra le due guerre mondiali (Germania, Italia e Austria) e il rapido fallimento delle rinate democrazie dell'Europa centrale e orientale dopo la seconda hanno orientato l'attenzione verso il ruolo dei partiti antisistema, cioè di quei partiti che svolgono un'azione delegittimante nei confronti del regime democratico, del quale non condividono (se non strumentalmente) le regole fondamentali (v. Sartori, 1976, p. 133; v. Linz, From great..., 1978; tr. it., pp. 52 ss.). Le vicende delle democrazie latinoamericane (ma anche della Spagna negli anni trenta) hanno invece sollecitato l'indagine sul fenomeno (e sulle motivazioni) dell'entrata dei militari nell'arena civile, cioè sulla loro disponibilità a rompere il consenso su una regola fondamentale implicita del regime democratico: la subordinazione del potere militare a quello civile (v. Linz, From great..., 1978; tr. it., pp. 123 ss.; v. Finer, 1980). Se questi sono i soggetti la cui 'uscita' dall'area del consenso sulle regole della democrazia ha conseguenze dirette e immediate per il crollo del regime democratico, altri soggetti possono avere una rilevanza di non minore importanza, anche se meno diretta, mediata. La capacità e la disponibilità dei primi a mettere fine alla democrazia è in genere legata al consenso espresso o implicito di altri soggetti sociali e politici (siano essi gruppi capitalistici, apparati burocratici, movimenti sociali, Chiese, ecc.) alla loro azione.
È stato messo in luce come in queste vicende giochi un ruolo spesso critico la presenza di atteggiamenti di 'semilealtà' nei confronti del regime democratico da parte di forze politiche che pure, di per sé, non appartengono allo schieramento di contestazione del regime (v. Linz, From great..., 1978; tr. it., pp. 55 ss.). Queste forze sono disposte a transigere sulle violazioni delle regole democratiche da parte dei gruppi antiregime, piuttosto che far fronte comune contro di essi insieme alle altre forze democratiche. I motivi di questo atteggiamento sono per lo più legati a gravi divergenze su temi di politica sostanziale. Una simile situazione segnala che in quel contesto il consenso sulle procedure democratiche è debole, o comunque non in grado di contenere le divaricazioni provocate dai dissensi sulle scelte politiche sostanziali.
Nel momento in cui si passa dall'interrogativo su quali siano i soggetti che provocano il crollo con il loro 'venir meno' al consenso sui valori e sulle regole democratiche (il che significa indirettamente interrogarsi su quali siano i soggetti la cui adesione al consenso democratico-procedurale è indispensabile per tenere in piedi il regime) all'interrogativo sul perché del verificarsi di questo fenomeno, la dimensione sostanziale del consenso acquista rilievo accanto a quella procedurale. La rottura del consenso procedurale si alimenta tipicamente delle difficoltà incontrate nel raggiungere un consenso sulle risposte da dare ai problemi che toccano da vicino gli interessi vitali dei grandi soggetti politici. In particolare, quanto più scelte politiche particolari possono essere percepite come una minaccia all'identità e allo status di un gruppo sociale o politico, tanto più sarà difficile che questo accetti regole del gioco che consentano simili esiti. In proposito non è difficile rilevare la possibilità dell'instaurarsi di un vero e proprio circolo vizioso. L'assenza di un consenso sulle scelte politiche sostanziali cruciali, che toccano gli interessi vitali dei principali soggetti sociopolitici, rende fragile, condizionato, il consenso procedurale. D'altra parte la debolezza o la mancanza di un adeguato grado di consenso sulle regole decisionali rende difficile trovare la strada di un accordo sulle risposte da dare ai problemi. Proprio perché, in genere, la realtà politica nelle fasi che precedono le crisi del regime democratico si presenta con i caratteri di questo circolo vizioso, nel quale dissenso procedurale e sostanziale si alimentano vicendevolmente, è difficile dire quale dei due abbia avuto temporalmente la precedenza.
Il fatto che il crollo democratico si sia per lo più prodotto in paesi nei quali questo regime aveva stentato sin dall'inizio a raggiungere una larga base di legittimità, cioè un consenso esteso sui suoi principî fondanti e sulle sue regole (v. Linz, From great..., 1978; tr. it., pp. 79 ss.), induce a considerare il tema della crisi dei regimi democratici come tutt'altro che privo di relazioni con quello della formazione e del consolidamento degli stessi, e questo proprio in rapporto alla dimensione del consenso. Sia rispetto a quella che si suole definire la prima democratizzazione (v. Morlino, 1986, pp. 103 ss.), che a eventuali instaurazioni successive della democrazia dopo più o meno lunghe parentesi autoritarie, il problema del formarsi di un certo livello di consenso tra una pluralità di attori è, per definizione, cruciale per l'affermazione del regime democratico. Occorre osservare, senza soffermarci qui su tutte le differenze tra le situazioni di prima democratizzazione e quelle che vedono il ristabilimento del regime democratico là dove esso aveva fallito una prima volta, che la transizione al regime democratico da un regime non democratico pone sempre il problema del passaggio da una situazione di non pluralismo degli attori politici, o comunque di pluralismo limitato e non competitivo (v. Linz, 1975), a una situazione di pluralismo in linea di principio illimitato (o meglio, limitato solo dal criterio dell'osservanza di regole democratiche) e competitivo (cioè subordinato nei suoi esiti all'acquisizione dei consensi elettorali). L'entrata graduale (questa possibilità è molto più rilevante nei casi di prima democratizzazione che in quelli di reinstaurazione), ovvero immediata, nel contesto pluralistico esige da parte dei soggetti in gioco non solo il riconoscimento in astratto delle regole del pluralismo competitivo, ma anche il loro riconoscimento in concreto, cioè in sostanza l'accettazione del fatto che gli altri concreti soggetti politici presenti sulla scena in quel momento partecipino a pieno titolo al 'gioco democratico'. L'esperienza dei processi di democratizzazione insegna che questo reciproco riconoscimento degli attori del pluralismo è uno dei passaggi più delicati, ma allo stesso tempo cruciali per la buona riuscita dei processi stessi. Nei casi di 'seconda' democratizzazione questo processo di accettazione reciproca dei soggetti politici (siano essi i partiti o i militari, un soggetto questo ovviamente critico per via del suo controllo sulle risorse coercitive) può risultare complesso perché proprio i conflitti tra alcuni di questi erano stati all'origine del crollo del precedente regime democratico, o perché alcuni di questi soggetti (tipicamente i militari) avevano avuto una parte dominante nella fase autoritaria. Per superare queste difficoltà e preparare il terreno per il raggiungimento e il consolidamento del necessario consenso sulle regole democratiche, un ruolo importante ha la stipulazione di 'patti', cioè di compromessi più o meno espliciti tra alcuni o tutti i soggetti in questione. Questi accordi tendono a sgombrare il campo da alcune questioni politiche sostanziali, che toccano interessi vitali degli attori politici, o rinviandole o risolvendole in maniera relativamente soddisfacente per tutti, e a fornire garanzie ai diversi attori sul loro futuro ruolo nel regime che si sta costituendo. In molti casi questi patti implicano da parte degli attori politici una rinuncia ad avvalersi pienamente di tutti i poteri che, teoricamente, le regole democratiche concederebbero loro (per esempio i politici democratici rinunciano a promuovere azioni troppo severe di rivalsa penale nei confronti dei militari che hanno partecipato all'azione repressiva del precedente regime autoritario; v. Schmitter, 1984). Si può dire che procedimenti di questo genere realizzano una sorta di cintura protettiva intorno al consenso procedurale, creando un'area di consenso sostanziale su una serie di problemi particolarmente critici che, in assenza di una soluzione consensuale, proietterebbero un'ombra negativa sulle possibilità di raggiungere e consolidare il consenso sulle regole democratiche.
A conferma della connessione particolarmente delicata, nella fase dell'instaurazione democratica, tra consenso procedurale e consenso sulle policies si possono portare quelle esperienze politiche nelle quali l'adozione da parte dei partiti di governo, nei primi anni del nuovo regime democratico, di indirizzi politico-sostanziali fortemente antagonistici nei confronti di attori politici significativi si è rivelata un fattore fortemente sfavorevole all'incorporazione delle forze di opposizione nel consenso sul neonato regime democratico. Un esempio classico è la situazione creatasi in Spagna per effetto della politica fortemente antireligiosa adottata dai partiti al governo nei primi anni della seconda repubblica (v. Linz, From great..., 1978; tr. it., pp. 334 ss.).
Ci si può chiedere in che misura il consenso procedurale, condizione imprescindibile dell'instaurazione democratica, si fondi su una convinta adesione ai principî e ai valori sui quali si basano le procedure della democrazia, o invece su un calcolo utilitaristico dei costi rispettivi dell'adesione o non adesione a quelle regole. Dire che l'adesione di certi attori alla democrazia è dettata più da una valutazione realistica delle condizioni politiche entro le quali essi operano, e dalla difficoltà di imporre un altro tipo di 'gioco' politico (di natura egemonico-autoritaria), coglie senza dubbio la prospettiva iniziale di alcuni degli attori. Sembra più difficile, invece, ipotizzare che abbia successo l'instaurazione democratica in una situazione in cui tutti gli attori si collochino in una prospettiva del genere. Il regime democratico si troverebbe infatti in una situazione di esposizione diretta ai mutamenti dei calcoli di convenienza degli attori. Sembra necessario, perlomeno, che gli attori che riescono a conquistare il controllo sul governo (e sugli strumenti di coercizione da questo dipendenti) diano un'adesione meno strettamente utilitaristica al regime e alle sue regole. In una prospettiva temporale più lunga la stabilizzazione del regime dovrebbe poi corrispondere a una progressiva trasformazione delle adesioni utilitaristiche in adesioni di principio. In parte questo dovrebbe essere facilitato proprio dal perpetuarsi del processo democratico: per molti attori la partecipazione di lungo periodo alla vita democratica dovrebbe finire per significare che lo stesso calcolo dei loro interessi particolaristici risulterà possibile solo all"interno' della logica democratica. Perderà cioè di realismo la prospettiva di un interesse da raggiungere fuori dell'ambiente politico della democrazia.
Se il tema del consenso occupa un posto cruciale nella teoria e nella pratica del regime democratico, non si può certo dire che sia privo di rilevanza nei regimi non democratici dell'epoca contemporanea. Tutt'al contrario: in alcuni di questi regimi la ricerca del consenso diventa addirittura un elemento centrale della vita politica.Il punto da cui partire è la caratteristica che distingue i regimi democratici da quelli non democratici, cioè la negazione dei principî e delle istituzioni del pluralismo responsabile, o, per dirla in altri termini, il rifiuto del riconoscimento della legittimità di un'opposizione politica che si proponga come alternativa alle forze politiche al governo, e di elezioni competitive che sanzionino questa possibilità. Cosa significa tutto ciò sotto il profilo del consenso? Lo status di non cittadinanza (o di cittadinanza di seconda classe) attribuito al dissenso nei confronti di chi governa significa, da un lato, che questi regimi risultano basati sul principio del consenso, inteso come stato di conformità delle opinioni politiche, dall'altro che essi escludono che il consenso, inteso come azione di adesione (libera e pluralistica) alle posizioni dei governanti o dei loro oppositori, sia la risorsa istituzionalmente risolutiva nei conflitti per il potere.
La contrapposizione tra privilegiamento del consenso come stato di non dissenso, come uniformità di posizioni, e rifiuto del consenso come espressione libera serve a chiarire meglio la natura del consenso non democratico. La conformità delle opinioni non è il risultato di una libera convergenza di orientamenti espressi da una pluralità di soggetti politici e sociali, ma è un prodotto perseguito programmaticamente dal potere politico, con la finalità di rafforzare la legittimazione del potere stesso e di delegittimare le voci di opposizione. Come è stato detto, è un "consenso organizzato" (v. Zaslavsky, 1981).A un più attento esame si scopre però che l'atteggiamento dei regimi non democratici nei confronti del consenso non è affatto omogeneo, e che diversi sono gli strumenti per 'organizzarlo'. Nella gamma molto variegata dei regimi non democratici si va dai regimi nei quali si cerca di ottenere il consenso, inteso in senso positivo e attivo, specialmente da parte dell'élite della comunità politica, e ci si accontenta di un consenso di contenuto negativo (cioè di un non dissenso) da parte della popolazione restante, ai regimi che esigono un consenso positivo e attivo che coinvolga l'intera cittadinanza.
Il tema del consenso è strettamente collegato a quello della mobilitazione. I due aspetti sono tra loro in una relazione di fine e mezzo. La mobilitazione è lo strumento principale al quale i regimi non democratici ricorrono per realizzare un consenso attivo a livello di massa. Il parallelismo tra importanza del ricorso alla mobilitazione e natura del consenso promosso dal regime corrisponde a una delle dimensioni fondamentali di differenziazione dei regimi non democratici, evidenziata negli ultimi anni dalla letteratura politologica. In rapporto a questa dimensione possiamo collocare a un polo i regimi totalitari caratterizzati dalla massima estensione e intensità della mobilitazione, che assolve appunto il compito di realizzare un'adesione 'totalitaria' della comunità politico-sociale alle finalità del regime. Politicizzazione integrale della vita, consenso totalitario e mobilitazione continua sono elementi strettamente connessi della sindrome totalitaria (v. Friedrich e Brzezinski, 1986; v. Fisichella, 1987; v. Linz, 1975). All'altro polo troviamo i regimi autoritari caratterizzati da una politicizzazione molto meno intensa, o addirittura da una programmata depoliticizzazione della cittadinanza. Per questi ultimi regimi il problema del consenso in senso attivo è soprattutto il problema del consenso di alcune forze di élite del sistema politico-sociale (i militari, l'alta burocrazia, i gruppi economici, le Chiese, ecc.), cioè il problema della costituzione e del mantenimento di una coalizione più o meno formalizzata tra i soggetti del limitato pluralismo che distingue questa forma politica (v. Morlino, 1986, pp. 168 ss.). Rispetto alla cittadinanza at large, invece, il regime si accontenta di un consenso assai meno attivo che sconfina nell'apatia e nella sopportazione, salvo naturalmente attivare gli strumenti della repressione nei confronti di chi si ponga in posizioni aperte di dissenso.
Il ricorso a elezioni e plebisciti, tutt'altro che infrequente anche nei regimi non democratici, si inquadra nella prospettiva dell'organizzazione delle basi di consenso del regime. Le differenze nelle modalità di svolgimento delle elezioni non competitive (v. Hermet e altri, 1978) rispecchiano abbastanza quanto si è detto sulla diversa natura del consenso nelle varie forme di regime non democratico. Quanto più il regime si avvicina al modello totalitario, tanto più l'elezione assume il significato di momento di certificazione, di dimostrazione del consenso totale realizzato dal regime all'interno della società. Tanto più essenziale diventa quindi raggiungere a tutti i costi percentuali del '99,9%' nel tasso di partecipazione e di voto positivo. Per ottenere simili risultati si potrà ricorrere anche a una più o meno ampia falsificazione dei risultati medesimi ma soprattutto a un intensissimo e capillare sforzo di mobilitazione della gente, tale da fare realmente del risultato elettorale una conferma dell'adesione (sia pure manipolata e coartata, ma pur sempre adesione) delle masse al nuovo ordine politico. Nei regimi più lontani da questo modello le elezioni, più che per dimostrare un consenso unanime e totale, verranno utilizzate per mostrare che una larga maggioranza della popolazione preferisce il regime autoritario ad altre alternative, e per rendere più agevole l'adesione al regime di segmenti incerti dell'opinione pubblica attraverso una simulazione di procedure democratiche, che diano al regime una facciata più difendibile. (V. anche Dissenso; Integrazione sociale; Propaganda).
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