Conservare e restaurare
Conservazione e restauro tra 20° e 21° secolo
I due termini conservazione e restauro almeno in Italia sono ormai usati in coppia, anzi si preferisce spesso optare per la sola conservazione, dal momento che il restauro è stato vittima, come si vedrà in seguito, di una serie di equivoci culturali che l’hanno identificato con la falsificazione.
All’inizio del 21° sec. appare inoltre ormai inderogabile la necessità di definire meglio le pratiche miranti rispettivamente al restauro degli oggetti d’architettura (i quali sono per antonomasia immobili, non sono esposti al collezionismo e all’esportazione, e stanno all’aperto subendone tutti i rischi) e al restauro degli oggetti d’arte (i quali invece sono mobili, generalmente protetti dai musei, collezionabili ed esportabili, e per questi motivi sono oggetto di un grande mercato internazionale e delle sue conseguenze culturali, economiche e psicologiche). L’essere beni immobili oppure beni mobili, infatti, dagli anni Trenta del 20° sec. ha comportato in Italia notevoli differenze tra le rispettive tradizioni di tutela e restauro. Gli oggetti d’architettura sono fortemente deperibili a causa della loro esposizione all’aperto e del loro uso da parte dell’uomo, e, avendo bisogno di una frequente manutenzione, perdono così il loro aspetto originario; inoltre possono essere pericolosi, in caso di crollo, per i loro abitanti e per la popolazione circostante. I beni mobili, al contrario, essendo per lo più musealizzati, consentono tempi lunghissimi tra una manutenzione e l’altra, e non possono essere dannosi, salvo i casi di dimensioni e pesantezza eccezionali. Ciò comporta che le due categorie di oggetti hanno bisogno per la loro riabilitazione di tempi, strategie, tecniche e operatori diversi. L’architettura, inoltre, ha una tendenza millenaria alla tipizzazione, cioè alla ripetizione quasi rituale dei ‘tipi’, delle forme, delle funzioni e delle strutture (dal tipo del tempio a quello dell’abitazione, dal tipo del trilite a quello dell’arco, delle volte, degli ordini architettonici ecc.), essendo ogni edificio un oggetto d’uso collettivo, costruito allo scopo di essere apprezzato, abitato, utilizzato da più generazioni appartenenti alla stessa civilizzazione: «La funzione costante dell’architettura come istituzione e configurazione di luoghi consacrati a riti e funzioni ha condotto al fissarsi di tipologie […] come deduzione di certe costanti distributive e strutturali della serie storica delle opere fatte per adempiere a una determinata funzione. […] Può darsi che la tipologia rappresenti per la storia dell’architettura ciò che, per la storia delle arti figurative, rappresenta l’iconologia» (G.C. Argan, Architettura, in Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica, a cura di P. Portoghesi, 1° vol., 1968, ad vocem). Le modalità costruttive e tipologiche dell’architettura andrebbero dunque ben conosciute ai fini del suo restauro, dal momento che appare sempre più necessario – a scopi di ecosostenibilità e di risparmio energetico, ma anche di abitabilità – seguire una strategia di riuso sistematico, e dunque di recupero funzionale, degli immobili esistenti (come avviene, per es., in Inghilterra), onde permettere il loro riutilizzo da parte di successive generazioni, lasciando intatto l’ambiente circostante. Questo permetterebbe inoltre la conservazione e il recupero dei piccoli abitati abbandonati a seguito dello sviluppo dell’urbanesimo; la preservazione del paesaggio circostante e quindi un miglior assorbimento dell’acqua piovana (con tutto ciò che ne consegue sul piano agricolo e paesistico); la produzione di un’edilizia nuova, anch’essa ispirata a concetti di ecosostenibilità e di risparmio energetico, ricorrendo a materiali e tecniche tradizionali e raccordandosi in modo evolutivo alla prassi e ai tipi dell’edilizia tradizionale, così come avviene per il linguaggio parlato o scritto o per la musica. Cosa che invece non è più avvenuta in Italia dal secondo dopoguerra, quando si è assistito alla produzione di un’edilizia forzosamente diversa dai tipi tradizionali (e tendente a ridursi impropriamente a mera arte visiva), nonché all’esaltazione dell’architetto/archistar da parte di committenti che vedono nell’architettura il mezzo per esaltare il proprio individualismo grazie a forme e tipi edilizi rivaleggianti tra loro, diversamente da quanto avviene, per es., nel mondo anglosassone (e non solo). Si è formato insomma un architetto ‘artista’ (anzi ‘artistoide’) piuttosto che un architetto ‘tecnico’, laddove, per es. in Spagna, l’arquitecto técnico è formato in specifiche facoltà, e a lui spettano le operazioni di restauro, come all’architecte en chef in Francia. Quella dell’architetto restauratore, dunque, è una professione che imporrebbe nozioni, mentalità e formazione tecnica assai diverse rispetto a quelle attualmente richieste in Italia dalla metodologia e dalla didattica della composizione architettonica o della conservazione e restauro degli oggetti d’arte mobili (Marconi 2008). Tale tipo di mentalità e di formazione, tuttavia, in Italia è stato disprezzato, con l’argomentazione che gli architetti apparivano ‘troppo tecnici’, a differenza dei fondatori e docenti dell’Istituto centrale del restauro (si veda a tale proposito G.C. Argan, La creazione dell’Istituto centrale del restauro, intervista a cura di M. Serio, 1989). Questi docenti erano storici dell’arte o collezionisti, critici militanti d’arte contemporanea o conoscitori ed ermeneuti di testi pittorici: tutti, quindi, di formazione umanistica e idealistica. Da ciò, la demonizzazione di qualsiasi tentativo di ripristino filologico, in quanto assimilato tout-court alla falsificazione; una demonizzazione fatta propria anche da alcune scuole di architettura, che non programmavano lo studio di tipi e tecniche dei ‘testi’ architettonici, limitandosi invece a ‘mummificarli’ nell’aspetto romantico di ‘rovine’. Tali scuole erano dunque ben disposte a cancellare il termine restauro sostituendolo con quello di conservazione, optando in questa maniera per un’architettura ogni volta ‘originale’.
Il restauro architettonico
La Carta del restauro del 1964
La suddetta demonizzazione fu incoraggiata, in occasione del Secondo congresso internazionale degli architetti e dei tecnici dei monumenti (Venezia 1964), dall’approvazione della Carta del restauro, la quale subiva l’influsso della ‘rivoluzione culturale’ allora in gestazione nel mondo (ossia quella temperie che avrebbe prodotto negli anni seguenti la ‘rivoluzione culturale’ cinese e le rivolte delle università americane ed europee), fino a indurre il presidente di quel congresso, Piero Gazzola, a fare implicitamente autocritica delle proprie ricostruzioni filologiche dei due ponti storici di Verona (ponte della Pietra e ponte Castelvecchio), in ossequio alla Teoria del restauro di Cesare Brandi, pubblicata nel 1963.
Ciononostante, nel campo del restauro dell’architettura è andato maturando nel tempo un atteggiamento che si è trovato in perfetta sintonia con la scienza umanistica della filologia, favorendo il ritorno del concetto di restauro architettonico al significato cui si è accennato all’inizio di questo saggio.
Le citate incompatibilità tra i diversi addetti al restauro saranno rese più evidenti dal fatto che in questo saggio si tratterà prima il campo del restauro dell’architettura e poi quello degli oggetti artistici, onde mettere in rilievo – anziché nasconderli – l’irrinunciabile componente tecnica dell’architettura e i pericoli che presentano gli edifici in caso di crollo, nonché la necessità di valutare l’architettura per la sua funzione di contributo (anche per chi non avesse una specifica istruzione) al riconoscimento a prima vista delle identità nazionali e locali, e dunque al rafforzamento di esse nelle popolazioni vittime della globalizzazione culturale in corso nel mondo.
L’INTBAU Venice declaration
Le opinioni sopra espresse sono emerse nel corso del dibattito promosso dall’INTBAU (International Network for Traditional Building, Architecture & Urbanism, organizzazione nata in Gran Bretagna nel 2001) in occasione della sua prima conferenza internazionale (Venezia, 2-5 nov. 2006) e dedicato alla discussione e alla stesura dell’INTBAU Venice declaration on the conservation of monuments and sites in the 21st century, approvata l’8 gennaio 2007 (http://www. intbau.org/venicedeclaration.htm; 19 genn. 2010). Tale dichiarazione è il frutto di una revisione radicale della citata Carta di Venezia, ritenuta il prodotto di un ambiente culturale in cui il restauro (ma anche la falsificazione) delle opere d’arte è stato ed è una vera e propria industria, favorita dal traffico commerciale di antichità e opere d’arte. In questo ambiente culturale, il problema di garantire la conservazione dell’autenticità dell’opera, evitando il suo rifacimento in quanto «falsificazione storica e artistica e cancellazione del passaggio dell’opera attraverso il tempo» (C. Brandi, Teoria del restauro, 1963, ed. 1977, p. 8), nasceva dal fatto che la valutazione del valore dell’autenticità consentiva di realizzare un prezzo di vendita maggiore di quello della copia e, viceversa, il copiare appariva un vero e proprio crimine, comparato alla falsificazione di moneta. L’autenticità, dunque, era il prodotto ideologico di una società mercantile, come ha sostenuto Umberto Eco in La struttura assente (1968); ma la considerazione del suo valore ha inquinato la mentalità degli storici dell’arte, dei conoscitori e degli addetti alla tutela, tanto preoccupati della conservazione dell’autenticità da essere indifferenti al fatto che essa esporrebbe gli oggetti architettonici a una più accelerata rovina, cui i prodotti conservativi di ultima generazione possono porre riparo per pochi decenni, ma non per secoli. Non solo: criminalizzare la replica dell’esistente ha indotto all’innovazione coatta del linguaggio del nuovo in caso di completamento («Serbare io devo ai vecchi monumenti/l’aspetto venerando e pittoresco;/e se a scansare aggiunte o compimenti/con tutto il buon volere non riesco/fare devo così che ognun discerna/esser l’opera mia tutta moderna», affermava l’architetto Camillo Boito in Questioni pratiche di belle arti, 1893). Tale proibizione ha vietato e vieta agli operatori italiani dell’architettura e dei suoi restauri di attenersi ai ‘tipi’ tradizionali, con ciò spingendoli a ‘creare’ il nuovo anche se è privo di proprie qualità artistiche. Resta il problema se le duplicazioni tanto deprecate fossero e siano davvero criminali. Si può affermare che l’intenzione da cui sono nate era ed è psicologicamente comprensibile e approvabile; è anzi necessaria, se si vogliono mantenere in piedi opere che testimoniano della cultura umana in modo più tangibile e universale – percepibile, cioè, anche dalle persone prive di specializzazione o da immigrati giunti impreparati nel nostro mondo – di quanto non facciano i testi scritti o le manifestazioni elitarie di cultura e arte esposte nei musei. Oggi, in un mondo che assiste alla migrazione di popoli interi, le opere di architettura e i centri urbani vanno considerati alla stregua di icone permanenti, tangibili, utilizzate e utilizzabili, delle culture locali. La loro funzione comunicativa, dimostrativa e dunque didattica è altissima, e il loro restauro, inteso nella maniera più completa e corretta del termine – ovvero la loro duplicazione o parafrasi a fini di recupero abitativo (eseguita beninteso nel modo più colto e raffinato possibile, in una parola in modo ‘artistico’) –, è divenuto, per tutti i Paesi che si ritengono civili, un autentico obbligo di civiltà.
L’INTACH charter e la preservazione dell’edilizia vernacolare
Di conseguenza, si dovrebbe preservare, insieme ai monumenti, anche l’edilizia vernacolare, favorendo la sua permanenza nel tempo. È questo che si prefigge, per es., l’INTACH (Indian National Trust for Art and Cultural Heritage), ente non governativo fondato nel 1984; in un suo documento del 2004 (Charter for the conservation of unprotected architectural heritage and sites in India) si legge tra l’altro: «La conservazione dell’eredità architettonica e dei suoi siti non protetti assicura la sopravvivenza del senso del luogo di un Paese e il suo stesso carattere all’interno di un ambiente globalizzato. Essa offre non solo l’opportunità di conservare il passato, ma anche di definire il futuro. Indica strade diverse all’occupazione e al parallelo mercato dei materiali e delle tecnologie edilizie locali, che occorre mettere in conto quando le risorse per lo sviluppo sono fortemente ridotte. [...] Questa eredità ‘viva’ ha anche relazioni simbiotiche con gli ambienti naturali al cui interno originariamente si è sviluppata. Comprendere questa rete ecologica interdipendente e conservarla può dare un contributo significativo al miglioramento della qualità dell’ambiente» (http://www.intach.org/pdf/charter.pdf, p. 2; 19 genn. 2010). Tuttavia, per consentire una buona duplicazione o una buona parafrasi dell’architettura storica occorre che gli architetti si comportino come i filologi, i quali interpolano ‘parole’ o ‘frasi’ appropriate nei contesti letterari antichi; ma per giungere a tale livello di cultura occorrerebbe loro una formazione che li preparasse adeguatamente ad apprendere anche i linguaggi storici locali, piuttosto che incitarli a ‘creare’ forme rivoluzionarie. Tutto ciò con una didattica che metta in condizione gli allievi di fare proprio il motto dell’INTBAU, «one world, many traditions»: l’unico che possa indurci a rispettare le culture locali con il fine di conservare (ecco dove il termine conservazione è davvero opportuno) le caratteristiche edilizie proprie di Paesi che hanno alle spalle millenni di civilizzazione.
Le cause naturali della rovina dell’edilizia
L’invecchiamento naturale dei materiali edilizi
A proposito di restauro architettonico, si rammenti che il fenomeno dell’invecchiamento naturale dei materiali edilizi minaccia l’incolumità degli abitanti dei singoli edifici e di tutta la popolazione. Sono esposte a un maggior rischio d’invecchiamento e di crollo le strutture composite, come le murature fabbricate con elementi di pietra o cotto, e le strutture in legno, poiché, quest’ultimo è putrescibile e incendiabile, sebbene assai duraturo. Tuttavia, l’invecchiamento cui va incontro il moderno cemento armato risulta ancora più preoccupante: si pensi che i manuali assegnano alla vita di servizio di tale materiale soltanto trent’anni per gli edifici industriali e cinquanta per gli edifici residenziali (cfr. E. Siviero, R. Cantoni, M. Forin, Durabilità delle opere in calcestruzzo, 1995), contro la durabilità secolare (se non addirittura millenaria) e l’ecocompatibilità delle costruzioni tradizionali.
I terremoti
È inutile ricordare che il territorio italiano, assieme a quello di buona parte dei Paesi mediterranei, è particolarmente colpito dai sismi: si possono ricordare, per es., le catastrofi del 365, 1202, 1348, 1439, 1465, 1783, fino ai terremoti di Messina nel 1908, del Belice nel 1968, di Ancona nel 1972, del Friuli nel 1976, dell’Irpinia nel 1980, di Parma nel 2008 e dell’Aquila nel 2009. L’Italia, infatti, è percorsa da una faglia che, partendo dalla dorsale atlantica, passa per l’Africa del Nord, costeggia la Sicilia, risale la penisola lungo gli Appennini, volge a est in Veneto e in Friuli, ridiscende lungo le coste croate e la Grecia, e prosegue fino alla Turchia e alla Siria. Si pensi, per es., alle ricostruzioni postsismiche presenti nella sola Sicilia: la cattedrale di Messina dopo il 1908, i palazzi palermitani della Cuba negli anni Trenta e della Zisa negli anni Settanta-Ottanta del 20° sec. (su quest’ultimo v. G. Caronia, La Zisa di Palermo. Storia e restauro, 1982), la cattedrale di Cefalù (1990-1995), il castello dei Conti di Modica (1990-1997) ad Alcamo, il palazzo Riccio di Sangioacchino (1998-2007) a Trapani e così via. Sono stati ricostruiti ‘com’erano e dov’erano’ anche il borgo e la cattedrale di Venzone in Friuli, distrutti dal terremoto del 1976 e inaugurati nel 1986, e la cattedrale di Sant’Angelo dei Lombardi in Irpinia, semidistrutta dal terremoto nel 1980 e ripristinata nel 1987. È stata inoltre più recentemente restaurata (1996-2000) la duecentesca Fontana maggiore di Perugia (città esposta a gravi terremoti), già vittima nel 1948 di un consolidamento effettuato mediante l’uso del cemento armato, ma ricomposta oggi con quello di semplici tiranti metallici replicanti l’originario schema statico, nonché eliminando – oltre al cemento armato degradato che la ‘consolidava’ – la cupola di vetroresina che l’aveva coperta onde meglio ‘conservarla’. È stata inaugurata inoltre, nel maggio del 2007, la ricostruzione con opere murarie tradizionali della cattedrale di Noto, in provincia di Siracusa, crollata in buona parte nel 1996 a seguito di un terremoto. Tale ripristino ha impiegato materiali tradizionali come la pietra locale e le cannucce vegetali su armature lignee costituenti le volte, allo scopo di riprodurre con materiali leggeri ed efficienti come gli originali le grandi navate coperte a botte, nonché la cupola.
Gli incendi
Gli incendi sono causati da eventi naturali (per es., fulmini), accidentali (per es., malfunzionamento di impianti di illuminazione o riscaldamento) o provocati dall’uomo (per negligenza, disattenzione o dolo). È stata ricostruita com’era e dov’era nel 2001 la cupola della seicentesca Katarina kyrka (chiesa di Caterina) a Stoccolma, distrutta in un incendio nel 1990 (già riedificata nel 18° sec., sempre a seguito di un incendio). È stato ricostruito allo stesso modo anche il teatro La fenice di Venezia, distrutto da un incendio doloso nel 1996 e inaugurato nel 2003, su progetto di Aldo Rossi, il quale non ha disdegnato il ripristino testuale della storica sala (così come si farebbe per un violino di Antonio Stradivari), aggiungendo un nuovo vestibolo ligneo in stile palladiano al piano terreno.
Gli abusi degli utenti
Non solo andrebbero impedite con provvedimenti esemplari le intemperanze dei writers sulle facciate, ma andrebbero anche evitate le intemperanze degli operatori (progettisti e imprese edili) quando manomettono gli edifici turbandone troppo l’assetto tipologico, oppure eliminano il legname originario sostituendolo con strutture cementizie (pesanti, rigide e poco durevoli), o rinnovano scriteriatamente gli intonaci, la cui durata peraltro non supera i trent’anni.
L’inquinamento atmosferico e il surriscaldamento climatico
Dell’inquinamento atmosferico e dei danni legati al clima sarebbe quasi inutile parlare oggi, dopo il Protocollo di Kyoto (1997). Il primo, aggravato dalle intemperie (pioggia, gelo, vento), aggredisce e disintegra infatti in pochi decenni la pietra, se porosa, costringendo gli abitanti a un assiduo lavoro di sostituzione degli elementi più esposti (capitelli, fregi decorativi, cornici ecc.). Si vedano per es., a Parigi, i lavori di ricostruzione à l’identique delle colonne e del fregio della cupola di Saint-Louis des Invalides (1995), o l’interminabile cantiere di Notre-Dame, per rendersi conto del paziente lavoro di rifacimento sistematico – ogni venti/trent’anni – degli elementi delle facciate in pietra locale, periodicamente sostituiti con lavori non solo di decorazione, ma anche strutturali. In Spagna, la chiesa di San Esteban (1999) ad Ábalos, nella regione della Rioja, il monastero di Santa María de la Huerta (2001-02) nei pressi di Soria, nella Vecchia Castiglia, e la cattedrale di Girona (2001-02), in Catalogna, sono stati ripristinati in parte con pietra locale; essendo stati corrosi dall’inquinamento e da fattori dovuti al clima, si sono sostituiti gli elementi lapidei e gli ordini architettonici delle facciate principali con una tecnica derivata da quella dei locali maestros de cantería, pari in eccellenza ai tailleurs de pierre francesi. In Spagna, inoltre, vige l’usanza di ripristinare le complesse coperture in legno di origine moresca degradate da stucchi barocchi – si vedano il monastero reale di Santa Clara a Tordesillas (nei pressi di Valladolid) e il convento omonimo a Salamanca (1995-2002) – grazie anche a riedizioni critiche dei trattati seicenteschi spagnoli di carpintería, curate da restauratori che non esitano a definirsi carpinteros y arquitectos (Nuere 2001). Su questa linea, il Banco de España ha inaugurato nel 2006 l’ampliamento del suo edificio principale (tra il paseo del Prado e la calle de Alcalá) a Madrid, riprendendo i lineamenti dell’edificio ottocentesco grazie a Rafael Moneo.
La ricostruzione come atto simbolico
Le guerre e il terrorismo
Le guerre e il terrorismo hanno provocato e stanno provocando grandi rovine nel mondo. Sono temi purtroppo d’attualità, e il terrorismo si accanisce spesso su edifici simbolici dei Paesi attaccati (dalle Twin Towers a New York, 2001, al Chhatrapati Shivaji Terminus e al Taj Mahal Palace a Mumbai, 2008), suscitando reazioni eguali e contrarie. La psicoanalisi ha già dimostrato che tra le popolazioni nasce una rimozione collettiva di tali eventi rovinosi; prevale dunque l’intenzione inconscia di vincere la paura della morte, così come affermava Sigmund Freud nel 1915 in Zeitgemässe über Krieg und Tod (trad. it. Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1991), seguito da Melanie Klein, la quale aggiungeva che la ricostruzione dei monumenti dopo la rovina intenzionale era la riparazione di un’aggressione sadica subita. Per es., la già citata cattedrale di Messina fu distrutta nuovamente dalla guerra nel 1943 – dopo la ricostruzione dovuta alla precedente catastrofe sismica – e fu ricostruita una seconda volta nel 1947, quando fu anche eretta a basilica da Pio XII. Fu lo stesso pontefice a incoraggiare negli anni 1948-1956 la ricostruzione dell’abbazia e della cattedrale di Montecassino, anch’esse sbriciolate dalla guerra nel 1943-44. Anche il portico della chiesa di San Giorgio in Velabro a Roma, distrutto nel 1993 da un attentato attribuito alla mafia, è stato ricostruito ‘com’era e dov’era’, tra il 1993 e il 1995 (Marconi 2002). Altra ricostruzione fedele – salvo che nelle strutture cementizie, che sostituirono le strutture lignee della volta rivestendole in legno per emulare la struttura precedente – fu quella della Basilica palladiana a Vicenza, effettuata negli anni 1955-56 dopo l’incendio provocato dalla guerra nel 1945. Ma nello stesso edificio ha avuto inizio nel 2007 un altro restauro, frutto di un concorso internazionale del 2004, con un progetto (di Paolo Marconi, insieme con Maurizio Milan ed Eugenio Vassallo) che ha consentito la demolizione delle strutture cementizie suddette – giunte al termine della loro capacità strutturale dopo appena mezzo secolo di vita – e la loro sostituzione con legno lamellare, allo scopo di tornare a una struttura analoga a quella originaria per leggerezza ed elasticità. Dopo la caduta del muro di Berlino, è stata inoltre ricostruita con tecniche tradizionali ottimizzate dai moderni mezzi d’opera la settecentesca Frauenkirche di Dresda, distrutta nel corso del bombardamento del 13-15 febbraio 1945, e il cui restauro (1994-2005) è stato ‘gemellato’ con quello della cattedrale di Noto, già citato. La cupola è stata ricostruita in pietra à l’identique grazie a centine metalliche e lignee tecnologicamente avanzate, e le mura in pietra sono state rivestite di stucco decorato, citando le decorazioni precedenti. Sempre in Europa, altra ricostruzione integrale di un edificio andato distrutto a causa della guerra è stata, in Erzegovina, quella del cinquecentesco Stari Most (ponte vecchio) di Mostar, cannoneggiato nel novembre 1993 dalle milizie croate in odio alla sua fattura ottomana, e restituito in perfetta forma nel 2004 ricorrendo al tipo originario di struttura lapidea grazie al lavoro di maestranze locali. Ricostruendo così una struttura in elementi di pietra recuperati dal fiume sottostante, congiunti da grappe d’acciaio in modo da formare elementi parallelepipedi lunghi quanto la larghezza del ponte (come quelli originari), montati in opera con l’impiego di centine metalliche e di attrezzature cantieristiche avanzate.
Le ricostruzioni di monumenti nazionali
Organizzazioni statunitensi finanziarono la ricostruzione fedele della Stoà di Attalo ad Atene nel 1953-1955, per ringraziare la Grecia di aver aderito alla NATO (1951), con ciò incitandola a usare metodi analoghi per i monumenti dell’Acropoli (eletti a simbolo dell’identità nazionale). Si iniziò dal Partenone, la cui ricostruzione, intrapresa nel 1986, è ancor oggi in corso; si sostituirono con elementi in marmo pentelico i restauri in cemento armato degli anni Trenta del 20° sec., già deteriorati. A questi restauri si è aggiunto quello, metodologicamente analogo, dei Propilei (2005-2008), che segue quelli dell’Eretteo (1979-1987: le cariatidi della loggia furono sostituite da calchi eccellenti e musealizzate, così com’era avvenuto nel 1973-1977 nella chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma, dove le due statue d’ignudi di Nicolas D’Arras erano state sostituite con calchi eseguiti da Michel Bourbon, lo stesso restauratore delle cariatidi di Atene) e del tempietto di Athena Nike (2002-03). La città di Vilnius, in Lituania, vede da poco realizzate o ancora in corso le ricostruzioni testuali di edifici antichi, a cominciare da quella del Zemutinés Pilis (castello inferiore), abbandonato alla fine del Settecento e in seguito caduto completamente in rovina; un concorso bandito dal governo lituano nel 1998 ne ha proposto il ripristino integrale, sulla base documentale dell’iconografia pittorica del 18° secolo. I lavori sono stati ultimati nel 2009, lo stesso anno in cui Vilnius è stata proclamata capitale della cultura europea.
Le ricostruzioni di monumenti regionali
Presso Torino, grazie ai fondi europei sono stati eseguiti nella sei-settecentesca reggia della Venaria reale i lavori di ripristino e integrazione (1998-2000) della reggia di Diana e della cappella di Sant’Uberto e, in seguito (2002-2009), quelli della Citroniera e della Scuderia grande. I lavori sono stati effettuati con tecniche e materiali tradizionali (laterizi e legname), il cui fine è di rimettere in efficienza la reggia e i suoi enormi annessi edilizi (abbandonati agli usi militari tra Settecento e Ottocento), per funzioni museali e di rappresentanza culturale internazionale. A questi si accompagnano a Torino i lavori, svoltisi tra il 2007 e il 2009, per il settecentesco teatro Carignano, dove sono stati da poco ripristinati le decorazioni interne, l’atrio d’ingresso (dimezzato a suo tempo in altezza ma riportato alle dimensioni originali) e la birreria abbandonata (che è stata adibita a foyer), e sono state sostituite le due scale di sicurezza esterne in ferro con due scale cilindriche in laterizio, marmo trasparente e acciaio, ‘citando’ sui fianchi il tema simbolico a stelle ottagonali del palazzo Carignano, il ‘protagonista’ dell’omonima piazza antistante al teatro. Ricorrendo dunque a parafrasi del linguaggio architettonico locale analoghe a quelle effettuate negli anni Quaranta e Cinquanta del 20° sec. dall’architetto sloveno Jože Pleč-nik a Praga e Lubiana. Nel 2007, inoltre, si è svolto il concorso per i lavori di ammodernamento del Museo egizio (nel palazzo dell’Accademia delle scienze prospiciente piazza Carignano), che hanno tra l’altro lo scopo di prolungare à l’identique verso il piano interrato lo scalone ottocentesco, per meglio canalizzare i grandi flussi del pubblico.
L’edilizia vernacolare
Finora abbiamo parlato solo del restauro dei monumenti, opere insigni paragonabili per la loro pregnanza a oggetti di museo. Ma occorre dire qualcosa anche del recupero dei borghi rurali e dei quartieri delle città d’arte nei loro elementi residenziali minori (l’edilizia diffusa), per il loro valore di testimonianza dell’identità culturale dei luoghi, risultante dal loro linguaggio architettonico e dai loro tipi edilizi, connessi intimamente al modus abitandi, alla cultura abitativa dei residenti. La sensibilità per tale tema si consolidò in Italia grazie all’opera svolta in Piemonte dal portoghese Alfredo d’Andrade (Marconi 2004) e nel Lazio dall’Associazione artistica fra i cultori di architettura (1890-1938), al cui interno una commissione (composta da G. Astorri presidente, M. Pasolini, L. Ciarrocchi, M. De Renzi, M. Marchi, Plinio Marconi) curò la pubblicazione, a partire dal 1926, della serie Architettura minore in Italia, il cui 2° vol. (Roma, 1927) conteneva tra l’altro i progetti per il quartiere della Garbatella di Plinio Marconi (Stabile 2001). Su quella stessa linea di tendenza si assiste oggi a numerose realizzazioni che rispondono a una diffusa richiesta di abitare in borghi di piccola dimensione, abbandonati all’epoca dell’industrializzazione (v. I borghi più belli d’Italia, 20086), per usi tra cui quello della ‘villeggiatura’ appare ormai minoritario, sostituito com’è da un uso residenziale stanziale. Tale richiesta nasce dagli abitanti stessi delle città metropolitane, divenute insopportabili a causa delle trasformazioni dell’ultimo mezzo secolo. Si crea dunque una nuova tipologia di cittadini, desiderosi di abitare ambienti urbani a misura d’uomo, per tornare nella metropoli solo a scopi lavorativi, anche grazie al telelavoro. Nonché di pensionati stranieri, iscritti a enti di previdenza inglesi, tedeschi, scandinavi, statunitensi ecc. (ma nel terzo decennio del 21° sec. arriveranno anche quelli italiani, stimati per allora al 30% della popolazione complessiva), che vogliono soggiornare in borghi di bellezza ancora mitica senza molto perdere in tale allontanamento, anche grazie a opportuni cablaggi e collegamenti viari e aerei. Insomma, come afferma Jacques Attali: «Gli abitanti della città vivranno sempre più lontano dal centro. Una famiglia che nel 2007 abita intra muros, dieci anni dopo abiterà più lontano di 8 km, e nel 2025 di 40 km. Faranno la loro comparsa mestieri per organizzare la logistica di questo nomadismo […]. La residenza secondaria, eredità della generazione precedente, diventerà l’habitat principale, l’unico punto fisso degli abitanti urbani. Il turismo diventerà ricerca del silenzio e della solitudine, e i luoghi, religiosi e laici, di meditazione, di isolamento, di ritiro, di non azione si moltiplicheranno» (2006; trad. it. 2007, p. 103). Basti osservare d’altronde ciò che è avvenuto in Italia nell’ultimo quindicennio, da Colletta di Castelbianco in Liguria (riabilitata a partire dal 1994 da Giancarlo De Carlo) a Santo Stefano di Sessanio in Abruzzo (riabilitato negli anni 2000-2005 da Lelio Oriano Di Zio), ai numerosi casi di acquisti globali di centri collinari, toscani e non solo (sono state infatti coinvolte anche Matera e la Sicilia con Salemi), da parte di privati stranieri a scopi residenziali, sia in fitto sia in multiproprietà sia in forma di albergo diffuso. Anche i cittadini agiati di Paesi orientali si stanno facendo avanti, in Italia, incoraggiati da una mentalità tra loro diffusa che preferisce i piccoli centri alle metropoli. L’attenzione alla riabilitazione dei borghi non è solo italiana, bensì è presente anche in Austria, in Grecia, in Provenza, ove il fenomeno si fa sentire, richiamando il ‘viaggio verso il Sole’ delle genti nordiche.
Restauro architettonico e filologia
Come si vede dagli accenni fatti, le citate cause di degrado provocano traumi cui l’umanità ha risposto e risponde tuttora con il ripristino degli edifici, eseguito nel modo più somigliante possibile alla costruzione precedente anche sotto l’aspetto strutturale e materiale, onde conservare il significato (anche tecnico) di quei testi architettonici il più a lungo possibile, a scopi simbolici ma anche storici, equiparandoli a oggetti di museo. Emendandoli e interpolandoli dunque, se necessario, sotto il profilo statico e linguistico, con operazioni riferibili a quella scienza dell’Illuminismo che tra Settecento e Ottocento venne istituzionalizzata come filologia, la disciplina tesa alla ricostruzione e alla corretta interpretazione dei documenti letterari di un ambiente culturale definito. Una scienza – elogiata non a caso da Charles Darwin e da Friedrich Schlegel – che procede alla migliore interpretazione dei testi (si vedano le varie edizioni del Manuale di filologia italiana di Armando Balduino, uscito nel 1979). È ovvio che l’emendazione è suscetti-bile di errori d’interpretazione (correctores immo corruptores, si diceva già nel 12° sec.); la filologia è un’arte, più che una scienza, affermava Sebastiano Timpanaro, preceduto da Giorgio Pasquali in Filologia e storia (1920). Ma si fa assegnamento sulla maturazione progressiva della disciplina filologica per rimediare a tali errori nel tempo, grazie all’acume di successivi emendatori. E grazie al fatto che quei testi si sono conservati fino a oggi per merito delle precedenti emendazioni, e solo di quelle. Il restauro architettonico è cresciuto come disciplina assieme alla nuova scienza filologica e si è nutrito dei suoi principi: esso si è sviluppato anche grazie al nuovo studio sistematico da parte degli architetti dei linguaggi architettonici pregressi e delle loro tecniche; si vedano i diversi manuali del recupero pubblicati in Italia negli ultimi vent’anni (Manuale del recupero del Comune di Roma, 1989, 19972; Manuale del recupero del centro storico di Palermo, 1989). L’impiego filologico di linguaggi e tecniche pregressi si è verificato peraltro a partire dall’Ottocento, come dimostrato dal già menzionato d’Andrade oppure, fra i tanti altri, dal bavarese Karl F. Schinkel (1781-1841) e dal danese Teophil Hansen (1813-1889) fino allo sloveno Plečnik, nello spaziare dallo stile neoclassico d’ispirazione greca allo stile gotico, a quello bizantino, a quello barocco. E come dimostrato anche dai restauri ottocenteschi delle architetture seicentesche effettuate da Guarino Guarini e da Michelangelo Garove nell’ambito del Palazzo Carignano e del Palazzo dell’Accademia delle scienze a Torino; quest’ultimo completato mediante un corpo di fabbrica che sembrerebbe integralmente seicentesco se non sapessimo che ha sostituito una schiera di casette a due piani.
Il restauro degli oggetti d’arte mobili tra 20° e 21° secolo
Falsificazione, conservazione e restauro
Assieme alla pratica – già menzionata da Vitruvio – del ripristino degli oggetti d’arte immobili per eccellenza quali gli oggetti edilizi, è cresciuta e si è diffusa in Italia, come si è detto, la pratica del restauro degli oggetti d’arte mobili, commerciabili ed esportabili, al servizio di un mercato internazionale alimentato dagli acquisti dei musei. Era inevitabile che tale pratica suscitasse lo sdegno per la falsificazione, in un Paese che ospitava e ospita ancora schiere di abilissimi falsari di oggetti d’arte; a Siena, fino agli anni Trenta del 20° sec. questi erano formati addirittura dalla locale scuola d’arte, diretta da uno di essi (Falsi d’autore, 2004) e dal restauratore di architetture senesi Egisto Bellini (Bianchini 2006). Gli storici dell’arte italiani non potevano non scagliarsi contro tali ‘contraffazioni’, seguendo Alois Riegl, il quale nel 1904-05 insisteva sulla priorità del valore di autenticità come garanzia del valore assoluto degli oggetti artistici (A. Riegl, Scritti sulla tutela e il restauro, a cura di G. La Monica, 1982), tendente inevitabilmente, tuttavia, a elevare il loro valore economico. E si giungerà fino alla sopravvalutazione del valore di autenticità fatta da Walter Benjamin come unico valore capace di garantire l’aura degli oggetti artistici nell’epoca della loro riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; trad. it. 1966). Ciò con parole indiscutibili nei tempi in cui le repliche degli oggetti d’arte mobili non potevano essere esatte come lo sono oggi grazie all’informatica (si veda oltre), ma che appaiono avventate nel caso dell’architettura.
Autenticità, autografia e interpretazione
Ma in quale misura può definirsi autentico, ovvero autografo, un monumento edilizio il cui destino ineluttabile, come si è visto sopra, è di essere ri-usato o restaurato nei decenni, condizione essenziale per la sua sopravvivenza? Cosa dire allora dell’arte della musica, la cui tradizione è affidata a molteplici versioni della partitura originaria – se vi fu – e in ogni caso alla tradizione di esecutori dediti a interpretare il testo come meglio potevano? E si vada di nuovo a Eco: «L’esecuzione di un partitura musicale [...] la messa in scena di un’opera teatrale rappresentano uno dei casi più consueti di interpretazione, a tal punto che si parla correntemente di interpretazione musicale, e ‘interprete’ viene chiamato un buon esecutore [...]. Si dovrebbe dire che in un’esecuzione si passa dalla notazione di una partitura scritta [...] alla sua realizzazione in suoni, gesti, o parole pronunciate o cantate ad alta voce. Però una partitura è sempre un insieme di istruzioni per la realizzazione di opere d’arte allografiche [...], e quindi prevede e prescrive la materia in cui deve essere realizzata, nel senso che la pagina musicale non prescrive solo melodia, ritmo, armonia, ma anche il timbro, e un testo teatrale prescrive che le parole scritte debbono essere realizzate in quanto suoni vocali» (2003, p. 252). Anche l’architettura è un’arte allografica, dunque, in cui gli elaborati progettuali contengono un insieme di prescrizioni circa le forme e i materiali: quale può essere inoltre il valore di autenticità di un’opera siffatta – dopo pochi decenni dalla sua realizzazione, come si è visto – la quale è delegata oltre tutto per l’esecuzione e il restauro a operatori ben diversi dall’architetto? Essa appare semmai – ai suoi abitanti – un dato essenziale dell’ambiente nel quale vivono, e viene percepita come una lingua materna nella misura in cui l’architettura è comunicazione: «Gli oggetti dell’architettura apparentemente non comunicano ma funzionano [...] ma tutti i fenomeni di cultura sono sistemi di segni, dunque la cultura è essenzialmente comunicazione; l’architettura è cultura, dunque è comunicazione», ha scritto ancora Eco (La struttura assente, 1968, p. 15). In un clima storico-artistico e di tutela come quello descritto, emersero dunque prescrizioni metodologiche che escludevano del tutto l’emulazione/imitazione dei testi artistici, imponendo i metodi e le tecniche grazie ai quali i restauratori di oggetti d’arte tuttora gareggiano tra loro, eleggendosi eredi della tecnica pittorica divisionista anziché della tecnica figurativa tradizionale, onde lasciare segni percettibili e inequivocabili del proprio passaggio sugli antichi dipinti, trattando le zone lacunose con la tecnica dell’abbassamento ottico e con quella del tratteggio policromo. Metodi ispirati dunque dal sacro terrore di coincidere con le tecniche originali (per non parlare dell’eventuale re-invenzione ex novo delle figurazioni), onde esorcizzare il rischio della falsificazione.
La diversificazione dall’originale
Tecniche tanto più apprezzate quanto più capaci di costituire un’unità nuova sulla vecchia: «Il rifacimento tanto più sarà consentito quanto più si allontanerà dall’aggiunta e mirerà a costituire un’unità nuova sulla vecchia», affermava Brandi nella citata Teoria del restauro (1963, ed. 1977, p. 37). Prescrizione risalente tuttavia a un lapsus interpretativo circa le procedure tecniche della filologia letteraria: Brandi nel 1954 sosteneva infatti che, come il filologo davanti a un problema di interpretazione di un testo mutilo deve riempire le lacune con parole suggerite o improntate ad altri testi, così noi restituiamo al testo pittorico una continuità, come se intercalassimo in corsivo le parole, le congiunzioni, gli avverbi, gli aggettivi mancanti. Ecco il lapsus: l’intercalare in corsivo le parole in un testo mutilo è riferito all’atto di emendare graficamente o tipograficamente un testo letterario scritto o a stampa, non all’atto di emendare la lettura vocale o mentale di esso, ovvero il tessuto sonoro della lettura, il quale non potrà recare alcuna traccia degli espedienti grafici o tipografici del filologo. Si torni in proposito a Eco, al suo citato libro del 2003: qui l’emendazione non corrisponde al momento in cui si interpola un testo figurato dentro la sua realtà materiale (pittura a fresco su muro o a olio su tela, o scultura in bronzo o marmo ecc.), ma semmai al momento in cui si costituisce il cartone dell’interpolazione pittorica o scultorea, ovvero il progetto grafico di essa. Con un perfetto parallelismo con la partitura musicale scritta e con il progetto architettonico disegnato. Di conseguenza anche il ‘riempimento delle lacune’ di un dipinto si dovrebbe distinguere in due fasi (come la scrittura di una partitura musicale o il disegno di un’architettura): una prima fase in cui si progetta il restauro delle figurazioni con l’uso di un ‘cartone’ (ossia di un ‘disegno preparatorio’, di una ‘partitura’) e una seconda fase in cui avrà luogo la realizzazione delle figure con i colori e i pennelli o con gli strumenti musicali o con i mattoni (l’esecuzione pittorica, musicale o edilizia del progetto), onde ‘riempire le lacune’, intuendo inoltre le immagini degradate da restaurare come meglio possibile. Ciò piuttosto che ‘intercalare in corsivo’ sul testo originale tratteggi pseudodivisionisti, i quali, a questo punto, servirebbero solo a distinguere il lavoro del restauratore da quello dell’autore, attribuendo oltretutto al primo una supremazia ‘scientifica’. Di tale tecnica si può chiedere quale sia il motivo della distanza dall’immagine primitiva, se non appunto la pulsione moralistica ad astenersi dalla falsificazione, mescolata tuttavia all’esibizionismo di chi desideri l’apprezzamento del fruitore assieme a quello dell’autore del dipinto da restaurare, con ciò stesso elevandosi a suo collega. Pulsioni ben diverse, come si vede, sul piano etico, sulle quali si dovrebbe meditare, nel momento di distinguere se debba essere un artigiano o piuttosto un vero artista a occuparsi di un restauro.
Artisti del restauro, non artigiani
Un artista del restauro, si è detto: ecco un termine – artista – con il quale non si può non definire Carlo Maratti (1625-1713), il restauratore – ma anche grande pittore – delle logge di Raffaello alla Farnesina Chigi in Roma nei primi anni del Settecento. Maratti impiegò un tratteggio simile a quello applicato dallo stesso Raffaello ai suoi disegni e dipinti, a sua volta ispirato a tratteggi antichi e dunque discendente da una millenaria tecnica pittorica a fresco (Zanardi 2007). Ma se è vero, com’è vero, che l’arte è una forma di comunicazione, come affermava Eco, dovrebbe essere altrettanto vero – nel caso del restauro di un testo artistico – che esso deve dipendere da pratiche filologiche (ma anche artistiche) il più possibile affini a quelle dell’artista che produsse l’oggetto da restaurare, quanto lo possono essere le parole interpolate da un buon filologo (purché sia anche poeta) in un testo letterario destinato a essere letto – sia mentalmente sia in pubblico – distinguendo il progetto dalla sua realizzazione, ovvero le parole scritte dai suoni vocali. Ovvero distinguendo il cartone dalla pittura vera e propria. Pratiche che potrebbero essere ulteriormente migliorate dalla scienza e dalla tecnica attuali (un esempio: la replica in scala 1:1 del grande dipinto cinquecentesco Le nozze di Cana di Paolo Veronese a San Giorgio Maggiore a Venezia, ottenuta da Adam Lowe nel 2007 grazie all’informatica), piuttosto che dalla tecnica ottocentesca del divisionismo, aiutandole beninteso con un’abilità propriamente artistica e con l’uso di materiali opportuni. Ma anche dichiarando, ovviamente, con la dovuta esplicitezza, che non si tratta dell’originale, bensì del prodotto dell’adeguamento della prassi dei restauratori di oggetti d’arte ai risultati davvero attuali delle scienze e delle tecniche. E lasciando dunque a veri restauratori/artisti il compito della re-invenzione della figurazione originaria sulle sue tracce: questo sì un compito glorioso quanto difficile, in quanto richiede anche una conoscenza della storia della cultura artistica e dell’iconologia (di tradizione panofskiana) ben superiore alla storia delle arti visive (di tradizione purovisibilista) dei nostrani conoscitori/attribuzionisti.
La formazione dei restauratori architetti
Nel campo dell’architettura resta da discutere se essa possa tornare allo ‘stato originale’, e si vada a quanto detto sopra per rendersi conto che ciò non è possibile, per il suo stato di esposizione all’aperto e per la conseguente necessità di frequenti ritocchi e di veri e propri restauri. E dunque dovremmo accontentarci, nel suo restauro (come è avvenuto fino alla Carta di Venezia del 1964 e come avviene tuttora in tutto il mondo), di duplicazioni delle parti corrotte dagli eventi rovinosi, come quelle usate nei ponti di Verona, di Firenze, di Mostar, nelle ricostruzioni di Dresda, di Noto, di Parigi, austriache, greche, lituane, polacche, ungheresi ecc., già menzionate, realizzate con materiali e tecniche tradizionali e quindi compatibili sotto il profilo ecologico ed energetico, seppure aiutate dalla cantieristica moderna. Le quali ricostruzioni, tuttavia, deperiranno ulteriormente, fino alla loro inesorabile rovina. In ogni caso l’unica guida metodologica al progetto di restauro sarà – fino a quando quell’architettura non sarà una completa rovina – il parallelo con la filologia letteraria. Sempre a condizione che il restauratore sia, oltre che filologo, anche artista/poeta (come ricordava Pasquali); che cioè sappia infondere nel testo sottoposto alla sua emendazione quell’aura (ora sì che il termine è appropriato) che distingue davvero l’opera d’arte. Ciò in un momento di crisi ormai evidente della metodologia del restauro, in cui i migliori restauratori italiani constatano il grave ritardo culturale del loro settore dopo la scomparsa di Giovanni Urbani (1925-1994), direttore dell’Istituto centrale del restauro tra il 1973 e il 1983 (si vedano i suoi scritti ripubblicati nel 2000). E dunque pongono come cruciale il problema della qualità dell’interpretazione del testo da parte del restauratore, così come lo pone l’ascoltatore di un’interpretazione musicale nel momento stesso in cui giudica (e dunque applaude, ovvero fischia) l’interprete di turno.
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