Conservazione della biodiversità e specie minacciate
Dalle origini della nostra specie fino alla rivoluzione industriale del 18° sec. la popolazione umana non ha mai superato i 500 milioni di abitanti. L’incremento demografico esplosivo avvenuto negli ultimi tre secoli rappresenta perciò un evento senza precedenti nella storia dell’umanità. Soltanto negli ultimi cinquant’anni siamo cresciuti da 1,65 miliardi fino a oltre 6 miliardi di persone, raggiungendo una densità di popolazione 30 volte superiore a quella media di una specie animale onnivora della nostra stessa taglia. Da solo l’uomo consuma, direttamente o indirettamente tramite gli animali d’allevamento, circa il 40% della produzione primaria del pianeta (quella generata dall’accrescimento delle specie vegetali). Parallelamente è aumentato il nostro consumo di altre specie animali e delle risorse idriche.
Fin dalla preistoria l’uomo è stato capace di modificare in modo permanente il proprio ambiente: la massiccia deforestazione dell’allora boscosa Irlanda fu avviata dai nostri antenati nell’età del Bronzo (4500 anni fa) e, più recentemente, i romani si resero responsabili della deforestazione, tra l’altro, di vaste aree costiere del bacino mediterraneo per ricavare il legname destinato alla costruzione di navi. Il cambio di passo nella velocità di conversione degli ambienti naturali è però dovuto all’utilizzo di macchine a combustibili fossili, che ha portato a una riduzione delle foreste e delle aree umide stimata tra il 30 e il 50%, e alla conversione in aree agricole delle praterie, che ha causato una riduzione di queste ultime del 90%. Dati tali presupposti e considerando che le risorse del pianeta non sono inesauribili, non sorprende che le altre specie viventi, stimate in un numero compreso tra 10 e 50 milioni, siano sottoposte a una pressione intensa e crescente che ne pone numerose a serio rischio di estinzione.
Le specie stanno scomparendo a una velocità molto alta: almeno una specie di vertebrato all’anno negli ultimi 150 anni e, secondo alcune stime, una specie vegetale o animale al giorno. Questa velocità di estinzione delle specie potrebbe essere da 100 a 1000 volte superiore a quella basale riscontrata nel corso dell’evoluzione della vita sulla Terra. I valori qui riportati sono solamente stime, in quanto la maggior parte delle specie viventi non è ancora stata scoperta o classificata, ed è pertanto ignota alla scienza occidentale (sebbene in taluni casi ben nota, come alimento, alle popolazioni locali delle aree remote in cui queste specie vivono). È comunque opinione scientifica diffusa che ciò che il mondo sta attualmente sperimentando rappresenti un’estinzione di massa: l’ultima, avvenuta 65 milioni di anni fa nel periodo Cretaceo, colpì i dinosauri, quella attuale è l’estinzione di massa dei Vertebrati.
Etica e scienza della conservazione
Dalla metà dell’Ottocento, come reazione alle rilevanti trasformazioni operate dall’uomo su ambienti naturali fino a quel momento intatti, si sviluppò negli Stati Uniti un movimento, filosofico prima ancora che scientifico, il cui obiettivo era sensibilizzare la pubblica opinione sull’importanza della natura per scopi diversi dal guadagno economico. I principali fautori di questo movimento (Ralph W. Emerson, Henry D. Thoreau, John Muir) consideravano la natura un tempio dove ammirare l’opera di Dio. Nacque, così, l’esigenza di conservare intatti vasti paesaggi naturali di particolare bellezza e nel 1872 fu fondato il primo parco nazionale, lo Yellowstone National Park. Si trattava della prima area protetta nel senso odierno: pubblica e dedicata a preservare nel tempo un ambiente naturale, proteggendolo dalle attività di trasformazione messe in opera dall’uomo. Nel 20° sec., all’etica romantica della conservazione se ne contrappose una materialista e utilitaristica, l’etica dalla conservazione delle risorse. Spiccatamente antropocentrica, questa visione, propugnata da Gifford Pinchot, il primo direttore del servizio forestale statunitense, era ispirata dalla necessità di ottenere la maggior quantità di prodotti dalla natura per il più lungo tempo possibile. Tutti gli elementi naturali erano perciò classificati come utili, inutili o dannosi. L’influenza di queste contrapposte visioni della natura è ancora ben visibile nella nostra società.
La trasformazione della conservazione della natura da movimento filosofico a disciplina scientifica si deve a un altro statunitense, l’ecologo Aldo Leopold, che nella metà del 20° sec., grazie al contemporaneo progresso delle scienze dell’ecologia e dell’evoluzione, sviluppò un’etica ecologico-evolutiva della conservazione. Nella nuova visione di Leopold la natura non era un insieme di elementi scollegati e gestibili in modo separato, ma un sistema integrato ed equilibrato di componenti interdipendenti biotiche e abiotiche, legate tra loro da processi: gli ecosistemi. La teoria dell’equilibrio della natura non resistette al tempo e al susseguirsi delle prove scientifiche, sostituita infine dalla teoria del disequilibrio: con Leopold era nata, però, la scienza della conservazione che tuttora è o dovrebbe essere ben distinta da ogni etica della conservazione.
La moderna biologia della conservazione, la disciplina scientifica che si occupa della conservazione della biodiversità, ebbe origine negli anni Sessanta del 20° sec., quando per gli studiosi di ecologia divenne evidente che tutti i principali tipi di ecosistemi stavano rapidamente scomparendo, modificati in modo non reversibile dalle attività umane. La moderna biologia della conservazione si fonda su postulati, definiti da uno dei padri fondatori della disciplina, Michael E. Soulé (What is conservation biology?, «BioScience», 1985, 35, 11, pp. 727-34), e ampiamente accettati dalla comunità scientifica: la diversità degli organismi è positiva; l’evoluzione è positiva; la complessità ecologica è positiva; la diversità biologica ha un valore intrinseco indipendente dal suo valore utilitaristico. L’uomo, unica specie in grado di modificare irreversibilmente e su scala globale il proprio ambiente, è la causa ultima di tutte le alterazioni delle componenti e dei processi degli ecosistemi. La biologia della conservazione è dunque, a differenza di altre, una scienza con una precisa missione: ridurre (neutralizzare) gli effetti negativi delle azioni umane sull’ambiente. Per questo la biologia della conservazione è naturalmente interdisciplinare, ponendosi tra le scienze naturali (ecologia, evoluzione, genetica, botanica, zoologia) e le scienze sociali (sociologia, economia, politica). La biologia della conservazione è una disciplina di crisi. Infatti, da un lato l’ecologia è una scienza ancora molto giovane e imperfetta, ricca di incertezze e con pochi principi unificatori; dall’altro, la rapidissima crescita della popolazione umana è costantemente causa dell’estinzione di specie e dell’alterazione di ambienti. I biologi della conservazione sono dunque chiamati a suggerire decisioni tempestive sulla base di informazioni insufficienti.
La biodiversità
La diversità biologica o biodiversità non è semplicemente la diversità delle specie animali e vegetali presenti sul nostro pianeta. La biodiversità è la ricchezza e variazione strutturale, composizionale e funzionale su diverse scale dei sistemi viventi. Include, dunque, la variabilità genetica tra individui, la diversità tra le popolazioni e tra le specie, la diversità dei paesaggi, degli ecosistemi, dei biomi. A ogni livello di scala si possono identificare le tre componenti della variazione; per es., a livello genetico la variazione composizionale è misurabile, tra l’altro, dalla presenza di diversi alleli nel genoma di individui differenti, la variazione strutturale dalla presenza di polimorfismi, quella funzionale dal tasso di scambio genetico tra popolazioni. A livello di paesaggio, la variazione composizionale è misurabile tra l’altro dalla rappresentazione di diversi tipi di habitat, quella strutturale da misure di frammentazione, quella funzionale dal flusso di energia e nutrienti.
La biodiversità non è distribuita in modo uniforme sulla Terra: essa varia con la latitudine, l’altitudine e altri fattori che agiscono su scala locale, come, per es., la presenza di barriere geografiche che ostacolano i movimenti individuali degli organismi, o di ambienti estremi come i deserti, ai quali pochi organismi sono adatti. Su scala globale la relazione più evidente è tra la biodiversità e la latitudine: la diversità biologica (numero di specie, diversità e complessità di ambienti) aumenta spostandosi dai poli verso l’equatore. Per questo fenomeno sono state proposte numerose spiegazioni; sebbene non esistano evidenze conclusive in favore dell’una o dell’altra, è molto probabile che diversi fattori concorrano nel determinarlo (Gaston 2000). Un ruolo fondamentale è giocato certamente dalla disponibilità di energia, che dipende dall’irraggiamento solare e aumenta quindi verso l’equatore. Una maggiore quantità di energia a disposizione degli organismi ne riduce la competizione, permettendo la coesistenza di un più alto numero di strategie evolutive diverse e quindi, nel lungo termine, un più ampio numero di specie. Allo stesso tempo, la maggiore stabilità climatica su scala evolutiva delle regioni equatoriali, che non sono state coperte dai ghiacci durante le glaciazioni, avrebbe lasciato più tempo alle specie di evolvere adattamenti finalizzati al loro ambiente, favorendo la speciazione sulla base anche di pochi caratteri distintivi.
Al di là dell’effetto generale della latitudine, la biodiversità si concentra in alcune aree più che in altre; in particolare, in alcune zone del pianeta si trovano organismi e ambienti peculiari la cui distribuzione è molto ristretta e che non sono quindi presenti altrove. Queste aree sono chiamate centri di endemismo e hanno un valore particolare perché sono uniche rispetto a tutte le altre aree del pianeta. La loro conservazione è quindi ancora più importante, perché la loro perdita comporterebbe la scomparsa definitiva delle specie e degli ambienti che le ospitano. I centri di endemismo sono distribuiti in diverse regioni tra cui la Cordigliera andina in America Meridionale, il Madagascar, la Rift Valley e la regione del lago Vittoria in Africa, l’Indonesia e la Nuova Guinea nel Sud-Est asiatico. La caratteristica comune dei centri di endemismo è l’isolamento fisico creato da rilievi inaccessibili (Cordigliera andina, Rift Valley) o dal mare (isole dell’Indonesia, Nuova Guinea, Madagascar). Le condizioni di isolamento, infatti, permettono alle popolazioni di evolvere rapidamente in specie per l’assenza di scambio genetico con le popolazioni vicine.
Minacce alla biodiversità e strategie di conservazione
Data l’altissima densità di popolazione raggiunta dalla nostra specie, molte attività umane, precedentemente compatibili con la persistenza delle altre specie, sono divenute minacce alla biodiversità. Agricoltura, pesca, industria, urbanizzazione, commercio sono la causa a livello globale dei processi che erodono il patrimonio mondiale di biodiversità. Questi processi agiscono direttamente sulle specie (uccisione a scopo alimentare o commerciale) o sugli habitat in cui esse vivono. I fenomeni più preoccupanti includono la degradazione, frammentazione e distruzione specialmente di alcuni tipi di habitat. Nonostante siano ben evidenti il loro rapido declino e la loro importanza nel fornire servizi essenziali per l’uomo, foreste e acque dolci sono tuttora rapidamente degradate e distrutte e, come già ricordato in precedenza, quasi tutte le praterie naturali esistenti sul pianeta sono ormai state convertite in aree agricole.
Alla diretta distruzione e conversione degli habitat si aggiungono l’effetto pervasivo dell’inquinamento e quello del cambiamento climatico. Quest’ultimo ha ricevuto in anni recenti grande attenzione da parte dei media, anche grazie all’assegnazione nel 2007 del premio Nobel per la pace al Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) per la sua attività scientifica e di informazione sul tema. Sebbene la velocità del cambiamento climatico sia inferiore rispetto a quella di altri processi che minacciano la biodiversità, esso è molto più difficile da arrestare e agisce aumentando la velocità degli altri processi: la riduzione delle precipitazioni in alcune aree aumenta il consumo di acqua, specialmente per l’agricoltura; il cambiamento del clima modifica gli habitat, rendendoli in alcuni casi meno ospitali per le specie native che li abitano e favorendo al contempo la diffusione di specie non native. Queste, introdotte deliberatamente o accidentalmente dall’uomo, per il tramite della competizione, della predazione o del parassitismo possono portare all’estinzione delle specie autoctone, come è accaduto soprattutto in Australia, Nuova Zelanda e molte piccole isole su tutto il pianeta.
Le condizioni che hanno favorito una grande diversificazione della vita sono sfortunatamente le stesse che permettono all’uomo di moltiplicarsi raggiungendo altissime densità. Proprio per questa ragione esiste una forte correlazione tra ricchezza di specie e densità di popolazione umana (A. Balmford, J.L. Moore, T. Brooks et al., Conservation conflicts across Africa, «Science», 2001, 291, 5513, pp. 2616-19): in molti casi quindi le aree in cui si concentra la biodiversità coincidono con quelle in cui si concentrano le minacce alla sua persistenza. La maggior parte delle aree tropicali ricche di biodiversità, a eccezione della Nuova Guinea, ospita una popolazione umana assai numerosa, esacerbando così il conflitto tra attività umane e conservazione della diversità biologica.
Non tutte le specie sono egualmente sensibili ai processi che potenzialmente minacciano la biodiversità: esistono, infatti, tratti caratteristici intrinseci che rendono le specie più o meno suscettibili all’estinzione (A. Purvis, J.L. Gittleman, G.M. Cowlishaw, G.M. Mace, Predicting extinction risk in declining species, «Proceedings of the Royal Society of London B. Biological sciences», 2000, 267, 1456, pp. 1947-52). Le specie che presentano una elevata specializzazione per un habitat, come accade, per es., per molti tipi di foresta tropicale, o che dipendono da poche altre specie per la loro sopravvivenza, come accade per alcuni predatori, sono particolarmente suscettibili ai cambiamenti del loro ambiente. Le specie che si riproducono lentamente possono non essere in grado di sostenere un aumentato tasso di mortalità. Per es., la megafauna del Pleistocene che si è estinta aveva un tasso di riproduzione inferiore alla media, e per questo probabilmente le nascite non erano abbastanza numerose e frequenti da sostituire gli individui uccisi dai cacciatori preistorici. Un’aumentata probabilità di estinzione è anche associata alla rarità delle specie; ciò vale in particolare per quelle circoscritte a un’area ristretta, per le quali un solo evento negativo può essere causa di estinzione per l’intera popolazione. È paradigmatico il caso delle 90 specie di piante endemiche di Centinela, una cima montuosa delle Ande ecuadoriane, scoperte negli anni Ottanta del 20° sec. ed estinte pochi anni dopo per la conversione dell’area all’agricoltura (E.O. Wilson, The diversity of life, 1992; trad. it. 1993).
Poiché la biodiversità e le minacce nei suoi confronti non sono distribuite in modo uniforme sulla Terra, e alcune specie sono più sensibili di altre alle stesse minacce, esistono due possibili strategie di conservazione. La prima è la conservazione a livello di specie, individuando quelle minacciate e mettendo in atto azioni mirate per esse; la seconda è la conservazione a livello di area geografica, individuando i siti con molta biodiversità e che sono al contempo minacciati. I due approcci sono spesso integrati nell’individuazione di siti minacciati che contengono molte specie a rischio di estinzione.
Le categorie e i criteri delle Liste rosse IUCN delle specie minacciate
Fortemente voluta dal primo direttore generale dell’UNESCO (United Nations Educational Scientifical and Cultural Organization), Sir Julian Huxley, l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN, International Union for Conservation of Nature) fu fondata nel corso di una conferenza internazionale nel 1948 a Fontainebleau, in Francia. La missione dell’organizzazione è di «influenzare, incoraggiare e assistere le società in tutto il mondo a conservare l’integrità e diversità della natura e di assicurare che ogni utilizzo delle risorse naturali sia equo ed ecologicamente sostenibile» (www.iucn.org/about/; 22 marzo 2010). La IUCN conta oggi oltre 1000 membri tra Stati, agenzie governative, agenzie non governative e organizzazioni internazionali: in Italia ne fanno parte, tra gli altri, il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), la Direzione per la protezione della natura del Ministero dell’Ambiente, le principali organizzazioni non governative per la protezione dell’ambiente e alcune aree protette. Oltre alle organizzazioni governative e non, alla IUCN è affiliata una rete di circa 10.000 ricercatori che contribuiscono come volontari alle sue attività scientifiche e di conservazione.
Tra le attività più influenti condotte dalla rete di volontari della IUCN si annoverano il mantenimento e l’aggiornamento periodico della IUCN Red list of threatened species (www.iucnredlist.org). Creata nel 1963, la Lista rossa IUCN costituisce il più completo inventario dello stato di conservazione a livello globale per specie di piante e animali, identificando quelle a rischio di estinzione e promuovendo le azioni in favore della loro conservazione. Inizialmente la Lista rossa IUCN raccoglieva le valutazioni soggettive del livello di rischio di estinzione secondo i principali esperti delle diverse specie. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, a circa trent’anni dalla sua nascita, divenne evidente la necessità di ridurre la soggettività delle valutazioni degli esperti richiedendo loro l’applicazione di criteri formali: dopo un ampio processo di consultazione, furono adottati nel 1994 le prime categorie e criteri quantitativi e scientificamente rigorosi per la produzione delle Liste rosse, poi raffinati in modo sostanziale nel 2001 (IUCN 2001). Tali categorie e criteri, applicabili a tutte le specie viventi con l’eccezione dei microrganismi, rappresentano a oggi uno standard de facto a livello mondiale per la valutazione dello stato di conservazione delle specie anche al di fuori della IUCN. Per diventare ufficialmente parte della Lista rossa, la valutazione dello stato di conservazione di una specie, preparata da uno specialista, è sottoposta a un lungo processo di esame da parte di altri specialisti (peer review). Questa pratica, di uso comune nella pubblicazione dei risultati scientifici, è una delle ragioni dell’autorevolezza della Lista rossa IUCN.
Le categorie di stato di conservazione delle specie adottate nel 2001 sono nove (tab. 1), dalla categoria Extinct, applicata alle specie per le quali si ha la definitiva certezza che anche l’ultimo individuo sia deceduto, ed Extinct in the wild, assegnata alle specie per le quali non esistono più popolazioni naturali ma solo individui in cattività, fino alla categoria Least concern, adottata per le specie che non rischiano l’estinzione nel breve o medio termine. Sebbene le categorie di estinzione (ossia EX ed EW) possano apparire di semplice assegnazione, anche tra le specie meglio conosciute quali i Vertebrati esistono numerosi casi dubbi, dovuti alla minima quantità di informazioni disponibili, soprattutto per le specie a distribuzione tropicale. Accade, infatti, con grande frequenza che si cerchi di valutare lo stato di conservazione di specie, descritte anche più di un secolo fa, note solo per l’olotipo (l’esemplare raccolto come campione rappresentativo della nuova specie e conservato in un museo come riferimento). Di frequente, questi olotipi provengono da aree remote (isole, foreste o picchi montani difficilmente raggiungibili da spedizioni scientifiche), che quindi non sono più state visitate anche da molti decenni. In questi casi è assai difficile fare ipotesi caratterizzate da rigore scientifico sul possibile stato di conservazione; tra l’altro, per questa ragione talvolta accade che specie considerate da lungo tempo estinte siano ‘riscoperte’ dai ricercatori.
Tra le categorie di estinzione e quella di minor preoccupazione si trovano le categorie di minaccia, che identificano specie che corrono un crescente rischio di estinzione nel breve o medio termine: Vulnerable, Endangered e Critically endangered. Queste specie rappresentano delle priorità di conservazione, perché senza interventi specifici, mirati a neutralizzare le minacce nei loro confronti e in alcuni casi anche a incrementare le loro esigue popolazioni, la loro estinzione è una prospettiva concreta.
Sebbene le categorie di minaccia siano graduate secondo un rischio di estinzione crescente, la loro definizione non è quantitativamente espressa in termini di probabilità di estinzione in un intervallo di tempo, bensì affidata a espressioni lessicalmente vaghe quali rischio elevato, molto elevato o estremamente elevato. La vaghezza semantica adottata è però necessaria quantomeno per una ragione. Qualsiasi stima quantitativa del rischio di estinzione di una specie si basa, infatti, su molteplici criteri: tra questi l’assunto che le condizioni dell’ambiente in cui la specie si trova (densità di popolazione umana, interazione tra l’uomo e la specie, tasso di conversione degli habitat naturali, tendenza del clima e molto altro) permangano costanti nel futuro. Ciò è estremamente improbabile, anche perché l’inclusione di una specie in una delle categorie di minaccia della Lista rossa IUCN può avere come effetto interventi mirati alla sua conservazione che ne riducono il rischio di estinzione.
Oltre alle categorie citate, a seguito della valutazione del loro stato di conservazione le specie possono essere classificate come Near threatened se sono molto prossime a rientrare in una delle categorie di minaccia, o Data deficient se non si hanno sufficienti informazioni per valutarne lo stato. Le specie appartenenti a quest’ultima categoria rivestono un ruolo di rilevanza sempre crescente nel mondo della conservazione. Infatti, se le specie che rientrano in una categoria di minaccia sono una priorità di conservazione, quelle per le quali non è possibile valutarne lo stato sono una priorità per la ricerca di base, e le aree dove queste si concentrano sono quelle dove più necessarie sono le spedizioni scientifiche per la raccolta di nuovi dati.
L’introduzione nel 1994 di criteri rigorosi ha reso molto più oggettivo il processo di classificazione delle specie nelle categorie di Lista rossa. Nella versione attuale, approvata nel 2001, i criteri sono suddivisi in cinque tipologie riportate nella tab. 2. Ciascuno dei criteri è rigidamente codificato in sottocriteri descritti dettagliatamente (IUCN 2001). Per ciascun criterio esistono soglie crescenti per l’inclusione delle specie nelle tre categorie di minaccia: vulnerabile, in pericolo o in pericolo critico.
Il criterio A si basa sulla stima della velocità di declino numerico della popolazione della specie considerata, indipendentemente dalla sua consistenza numerica. Perché una specie sia inclusa nella categoria di minaccia inferiore (vulnerabile) il suo declino deve essere superiore al 30% in un periodo di 10 anni o di 3 generazioni (a seconda di quale dei due sia il più lungo), mentre per essere inclusa nella categoria di minaccia più alta (in pericolo critico) il declino deve essere superiore all’80% nello stesso periodo. Queste velocità di riduzione della popolazione sono estremamente elevate e, sebbene la maggior parte delle specie nel mondo sia più o meno in declino, è relativamente basso il numero delle specie che si trovano in una situazione tanto grave. Simili considerazioni valgono anche per le soglie utilizzate per gli altri criteri, che rispecchiano una precisa filosofia della Lista rossa: mettere in luce solo i problemi di conservazione delle specie più fortemente minacciate, il cui rischio di estinzione nel breve o medio termine sia concreto e sostanziale. La diretta conseguenza di questa scelta è che molte specie, il cui stato di conservazione è in deterioramento e che hanno necessità di interventi di conservazione, possono rientrare nella categoria di minor preoccupazione. Sebbene il criterio A sia semplice e diretto, sono sorprendentemente poche le specie per le quali il declino della popolazione sia stato stimato in modo attendibile. Produrre queste stime richiede infatti una notevolissima quantità di dati, particolarmente per le specie ancora abbondanti e diffuse su regioni ampie. Per questo motivo spesso l’applicazione del criterio A si basa su informazioni indirette. Un esempio piuttosto frequente riguarda le specie strettamente legate ad ambienti di foresta primaria che vivono su isole soggette a intensa deforestazione, nel qual caso la velocità di declino della popolazione è stimata pari al tasso di deforestazione. Sebbene in misura inferiore, anche per i criteri successivi la disponibilità di informazioni quantitative affidabili è estremamente limitata e rende necessario l’utilizzo di inferenze esplicite.
Il criterio B si basa sulle dimensioni dell’areale geografico di distribuzione della specie. Affinché una specie sia classificata come minacciata secondo il criterio B il suo areale deve essere di piccole dimensioni (meno di 20.000 km2, circa la superficie della Sardegna, per l’inclusione di una specie nella categoria vulnerabile), ma ciò non è di per sé sufficiente: è infatti necessario che l’areale sia in contrazione, che la popolazione al suo interno sia ristretta a frammenti reciprocamente isolati, che la qualità dell’habitat per la specie si stia deteriorando. Il criterio C è concettualmente simile a quello B, con la differenza che si applica a popolazioni numericamente ristrette (meno di 10.000 individui per l’inclusione di una specie nella categoria vulnerabile), disperse in frammenti tra loro isolati e con un evidente declino o drammatica fluttuazione numerica della popolazione. Il criterio D si applica esclusivamente alle specie con popolazione o areale di distribuzione estremamente esiguo (meno di 1000 individui o area occupata inferiore a 20 km2 per l’inclusione di una specie nella categoria vulnerabile). Il criterio E, invece, è qualitativamente differente da tutti i precedenti in quanto si basa su probabilità di estinzione quantitative stimate per un intervallo temporale preciso. Queste probabilità aiutano a dare un’interpretazione delle categorie di minaccia: secondo il criterio E una specie è vulnerabile se la sua probabilità di estinzione è stimata superiore al 10% in 100 anni, in pericolo se superiore al 20% in 20 anni o cinque generazioni, in pericolo critico se superiore al 50% in 10 anni o tre generazioni. Queste stime di probabilità possono essere ottenute tramite un’analisi della vitalità della popolazione, basata su simulazioni dell’andamento demografico della stessa in funzione di parametri (tassi di natalità, mortalità, accrescimento) stimati per diversi scenari alternativi.
Le categorie e i criteri IUCN furono originariamente sviluppati per la valutazione a livello globale delle specie e pertanto non sono direttamente applicabili a popolazioni locali, che costituiscono solo una frazione della popolazione globale di una specie. Data la popolarità di categorie e criteri, e considerata l’esigenza di applicarli anche per Liste rosse nazionali e regionali, sia pure non ufficiali né realizzate dalla IUCN, nel 2004 è stato definito un protocollo ufficiale per la correzione delle valutazioni quando queste riguardano frazioni della popolazione globale. Queste correzioni tengono in considerazione il fatto che una popolazione locale può non essere una popolazione chiusa: se essa ha scambi di individui con altre popolazioni limitrofe non oggetto di valutazione, il suo rischio di estinzione può essere diverso da quello valutato con l’applicazione dei criteri globali.
Le Liste rosse e le valutazioni globali dello stato di conservazione
Pur essendo l’inventario più completo sullo stato di conservazione delle specie animali e vegetali, dal marzo 2010 la Lista rossa IUCN contiene informazioni solo per circa 48.000 specie, ossia una minima percentuale del totale delle specie viventi. Basti pensare che delle circa 320.000 piante esistenti, solo 12.000 circa sono state valutate nella Lista rossa e solo 1000 di queste valutazioni sono ben documentate. Lo stesso vale per molti altri gruppi di specie, soprattutto tra gli Invertebrati, che a tutt’oggi sono in larghissima maggioranza non valutati. Neppure per i Vertebrati, il gruppo tassonomico di gran lunga più studiato e noto, esistono informazioni complete: meno della metà delle quasi 60.000 specie è stata valutata e, in particolare, solo il 14% delle specie di Pesci (termine con il quale si indicano genericamente gli appartenenti alle due classi dei Pesci cartilaginei e dei Pesci ossei), il gruppo più numeroso tra i Vertebrati con circa 30.000 specie. Delle circa 48.000 specie valutate, il 36% risulta minacciato (vulnerabile, in pericolo o in pericolo critico). Questa percentuale potrebbe però rappresentare una sovrastima della cifra reale, in quanto per alcuni gruppi valutati in modo altamente incompleto sono state esaminate preferenzialmente specie con evidenti problemi di conservazione: il 70% delle specie di piante e il 34% delle specie di Invertebrati valutati risulta minacciato.
Le strategie adottate dalla IUCN per cercare di rendere più ampia e omogenea la copertura tassonomica delle specie valutate sono due: dalla metà degli anni Novanta erano state istituite, infatti, autorità formalmente riconosciute (Red list authorities) responsabili della raccolta delle valutazioni di gruppi di specie predefiniti; tuttavia, anche questo non è risultato sufficiente a garantire una valutazione uniforme delle specie, sia per la disparità di giudizio tra le diverse autorità sia perché per ampi gruppi tassonomici non è stato possibile designarle. Pertanto, a partire dal 2000 la IUCN ha adottato la strategia delle valutazioni globali (global assessments), iniziative centralizzate per la valutazione completa di grandi gruppi tassonomici.
La prima valutazione globale realizzata è stata quella del Global Amphibian assessment (S.N. Stuart, J.S. Chanson, N.A. Cox et al., Status and trends of Amphibian declines and extinctions worldwide, «Science», 2004, 306, 5702, pp. 1783-86), uno sforzo quadriennale congiunto di oltre 600 esperti per la valutazione dello stato di conservazione delle oltre 5100 specie di Anfibi esistenti. Dal successo di questo sistema è nata la spinta per numerose altre iniziative di valutazione globale: nell’agosto 2008 è terminata la valutazione globale dei Mammiferi, mentre sono in corso, tra le altre, le valutazioni globali dei pesci di acqua dolce, dei Rettili, di numerosi gruppi di specie marine, delle libellule.
Uno dei risultati più preoccupanti ottenuti dal Global Amphibian assessment è che dei tre gruppi valutati in modo più esaustivo (Mammiferi, Uccelli e Anfibi), gli Anfibi sono quelli in maggior pericolo: una specie su tre è a rischio di estinzione elevato o molto elevato nel breve termine (tab. 3). Nell’ultimo secolo si sono estinte con certezza decine di specie di Anfibi e molte altre non sono state più viste in anni recenti: è dunque probabile che le specie estinte eccedano le 150 negli ultimi 500 anni. Nel complesso la popolazione del 43% delle specie di Anfibi è in declino numerico, mentre solo l’1% è in aumento. Le cause di questa preoccupante ondata di estinzioni sono certamente molteplici. Molte specie di Anfibi sono legate ad ambienti fragili, come pozze temporanee e più in generale zone umide, che stanno scomparendo a una velocità molto elevata sia a causa dell’azione diretta di bonifica da parte dell’uomo, sia per l’aumento della temperatura del pianeta dovuta al riscaldamento globale. Negli ultimi anni è però divenuto sempre più evidente l’effetto sulle popolazioni di Anfibi della chitridiomicosi, un’infezione fungina mortale e ubiquitaria, riscontrata in popolazioni lontanissime tra loro su tutti i continenti. È ancora oggetto di dibattito se la micosi si sia diffusa in tempi relativamente recenti a causa del massiccio aumento degli spostamenti da parte dell’uomo, oppure se la pelle degli Anfibi, estremamente delicata perché permeabile all’acqua, sia oggi più vulnerabile a causa dell’aumento delle radiazioni ultraviolette dovuto alla riduzione dell’ozono stratosferico. Si tratta comunque del primo caso documentato di minaccia globale per un così ampio gruppo di specie, causata dall’uomo ma capace di agire anche in zone dove l’influenza delle attività umane è ancora minima.
Oltre a identificare le specie a rischio di estinzione, la Lista rossa è utilizzata per indicare il progresso (o regresso) verso il raggiungimento dell’obiettivo di ridurre la perdita di biodiversità, perché la replica periodica delle valutazioni globali permette di seguire la variazione del rischio di estinzione di ciascuna specie nel tempo. Obiettivo futuro della IUCN è quindi quello di ripetere le valutazioni globali ogni cinque anni, allo scopo di calcolare per diversi biomi, regioni biogeografiche, gruppi di specie un indice che misuri la variazione dello stato di conservazione delle specie, chiamato Red list index. Fino a oggi l’unico gruppo di specie per il quale è stato possibile calcolare tale indice è quello degli Uccelli: negli ultimi sedici anni il loro stato di conservazione si è deteriorato in tutte le regioni biogeografiche e in tutti i tipi di habitat (su questo cfr. S.H. Butchart, A.J. Stattersfield, L.A. Bennun et al., Measuring global trends in the status of biodiversity. Red list indices for birds, «PLoS biology», 2004, 2, 12, pp. 2294-2304).
L’identificazione dei siti prioritari per la conservazione
La concentrazione delle specie minacciate in aree ristrette del pianeta e la sproporzione tra le emergenze di conservazione della biodiversità e le risorse economiche disponibili per contrastarle hanno dato un considerevole impulso, nella prima decade del 21° sec., al progresso nel campo dell’individuazione delle aree prioritarie da proteggere. Due delle più influenti ricerche nel settore, che hanno segnato una svolta nel modo di concepire le strategie di conservazione, sono apparse sulla rivista scientifica «Nature» nel 2000. Tali ricerche, che sintetizzano l’evoluzione del pensiero scientifico in questo campo nei vent’anni precedenti, adottano principi e metodi radicalmente diversi tra loro, ma hanno in comune l’obiettivo, più o meno esplicito, di ottenere il massimo risultato possibile in relazione all’investimento economico profuso nelle azioni di conservazione. I due metodi fondamentali per individuare le aree prioritarie per la conservazione sono l’identificazione di hotspots (letteralmente «punti caldi») di biodiversità (Myers, R.A. Mittermeier, C.G. Mittermeier et al. 2000) e la pianificazione sistematica della conservazione (systematic conservation planning) per identificare l’insieme minimo di aree che è necessario proteggere per raggiungere un livello prestabilito di protezione di un dato gruppo di specie (Margules, Pressey 2000).
Il metodo degli hotspots si basa sul fatto che una grande percentuale della biodiversità conosciuta è concentrata in una piccola porzione del pianeta. Sulla base di questo principio, Norman Myers e i suoi collaboratori hanno identificato un insieme di siti che nel complesso occupano lo 0,5% delle terre emerse, contengono il 20% delle specie di piante vascolari finora descritte e sono fortemente minacciati a causa delle attività umane, che hanno convertito nel passato oltre il 70% della vegetazione naturale presente in aree di produzione. Proteggere questi siti (gli hotspots) significa proteggere molta biodiversità in poche aree, dunque con costi relativamente contenuti. I 20 siti individuati includono tra l’altro la porzione tropicale delle Ande, i frammenti di foresta dell’Africa occidentale, la Rift Valley, il Madagascar, la catena dei Monti Ghati in India, l’Indonesia, la Malesia. Poiché l’analisi degli hotspots si incentrava sulla distribuzione delle piante, oltre a queste e altre regioni tropicali sono state individuate, come punti caldi per la conservazione, le regioni floristiche del Mediterraneo e del Capo di Buona Speranza in Sudafrica, entrambe ricchissime di piante a fiore non presenti altrove sulla Terra.
Il lavoro di Myers sugli hotspots ha avuto molti meriti: è stato il primo a formalizzare la necessità di individuare aree prioritarie di intervento a livello mondiale; ha identificato come prioritarie le aree in cui coincidono alto rischio di estinzione e concentrazione di specie endemiche, che in quanto tali è impossibile conservare altrove. Tutti i metodi sviluppati in seguito individuano le aree prioritarie sulla base della coincidenza di contenuto di biodiversità insostituibile e forti minacce. Una notevole quantità di risorse economiche, rese disponibili dalle fondazioni e organizzazioni internazionali non governative che si occupano di conservazione, è stata diretta verso la conservazione degli hotspots: dunque questo lavoro è riuscito come pochi altri a influenzare le azioni di conservazione. Il processo di identificazione degli hotspots è però fortemente soggettivo, di scala grossolana, e le sue basi teoriche non garantiscono una vera ottimizzazione delle risorse. Queste limitazioni sono state superate dalla pianificazione sistematica della conservazione.
Tale pianificazione mira a identificare un insieme di siti la cui protezione consente di raggiungere degli obiettivi quantitativi prefissati (in termini di quantità di biodiversità da conservare) con il minimo investimento economico possibile. In questo modo, la pianificazione sistematica della conservazione permette un’effettiva ottimizzazione delle limitate risorse economiche disponibili per conservare la biodiversità.
Il principio in base al quale un sito è incluso nel sistema di aree da proteggere o ne è escluso si basa sul concetto di complementarità. L’aggiunta di un sito al sistema di aree selezionate è utile solo se questo, complementando il contenuto di biodiversità degli altri siti già selezionati, contribuisce al raggiungimento dell’obiettivo di conservazione. Conoscendo il costo della conservazione di ciascun sito (acquisizione, gestione) è possibile selezionare a parità di contributo i siti più economici, massimizzando così il ritorno (in termini di biodiversità preservata) dell’investimento di conservazione. Poiché la soluzione analitica di questo problema è estremamente complessa quando si vogliono conservare molte specie in numerose unità di pianificazione, sono stati sviluppati diversi algoritmi per trovare soluzioni al problema, ottenibili in tempi rapidi e comunque molto prossime a quella ottimale. Oltre a identificare i sistemi di aree protette più efficienti per raggiungere gli obiettivi di conservazione, i metodi di pianificazione sistematica della conservazione consentono la valutazione del contributo di ciascuna unità di pianificazione al raggiungimento dell’obiettivo. Questo contributo è definito irreplaceability (letteralmente «insostituibilità») dell’unità di pianificazione, ed equivale alla probabilità che l’unità sia necessaria per raggiungere l’obiettivo (R.L. Pressey, I.R. Johnson, P.D. Wilson, Shades of irreplaceability. Towards a measure of the contribution of sites to a reservation goal, «Biodiversity and conservation», 1994, 3, 3, pp. 242-62). Un’unità di pianificazione può essere completamente insostituibile se contiene specie o habitat non presenti altrove, o se ne contiene una quantità così grande che non può essere sostituita nemmeno dalla somma di tutte le altre.
Di norma le risorse economiche a disposizione non permettono di mettere in pratica gli interventi di conservazione contemporaneamente in tutte le unità di pianificazione selezionate. In questo caso, l’ordine di priorità (l’urgenza degli interventi) è dettato dalla vulnerabilità di ciascuna unità di pianificazione. Le unità di pianificazione, che sono al contempo insostituibili e soggette a minacce imminenti, devono ricevere la massima priorità di intervento, perché se non sono conservate tempestivamente possono perdere, almeno parzialmente, il loro contenuto in termini di biodiversità. Quindi, dato che queste aree sono insostituibili, il loro degrado implicherebbe che gli obiettivi di conservazione non possono più essere raggiunti.
Anche se la pianificazione sistematica della conservazione è stata utilizzata con successo in tutto il mondo, e in particolare in Australia (dove è stata sviluppata) e Sudafrica, fino a oggi l’unica applicazione del metodo a livello globale si deve a Rodrigues e ai suoi collaboratori (Rodrigues, Andelman, Bakarr et al. 2004). Sebbene l’analisi si concentri sulle specie di Vertebrati e non di piante, molte delle aree prioritarie identificate (quasi tutte nelle regioni tropicali) corrispondono grossolanamente agli hotspots di Myers. Questa apparente concordanza delle aree prioritarie per la conservazione su scala globale nasconde una divergenza profonda e ineliminabile che appare evidente osservando il risultato in maggiore dettaglio. Infatti, indipendentemente dal metodo di analisi, le aree prioritarie per gruppi di specie differenti non coincidono e questo pone un grande e irrisolto problema. Misurare in modo esaustivo la variazione della biodiversità complessiva sulla Terra è impossibile ed è quindi necessario basarsi su alcuni gruppi di specie meglio conosciuti. Tuttavia la scelta del gruppo di specie rappresentative della biodiversità influenza il risultato. Come è possibile dunque identificare le aree prioritarie per conservare la biodiversità nella sua interezza? Questa, insieme ai problemi delineati nel paragrafo successivo, è una delle grandi sfide della conservazione nel 21° secolo.
Sfide all’alba del nuovo secolo
Durante la conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile tenutasi a Johannesburg nel 2002, la maggioranza dei Paesi del mondo si è accordata sull’obiettivo di ridurre significativamente il tasso di perdita della biodiversità entro il 2010. Anche se questo obiettivo può ormai dirsi fallito, molto è stato fatto per individuare le debolezze nell’attuale teoria e pratica della conservazione della biodiversità. La raccolta delle informazioni sullo stato di conservazione delle specie per stilare Liste rosse IUCN sempre più complete e basate su dati esaurienti è ancora in una fase iniziale. Poco o nulla si sa, infatti, sulla maggior parte delle specie: un ampliamento delle conoscenze di base è quindi necessario. Tuttavia, la conservazione è una corsa contro il tempo: qual è il momento in cui si hanno conoscenze sufficienti per iniziare ad agire? In altre parole, quando ridurre gli investimenti nella ricerca di base su una specie e aumentare quelli per la sua conservazione? Una risposta scientificamente rigorosa a questo quesito non è ancora possibile, ma diviene sempre più urgente.
A complicare la scelta della ripartizione degli sforzi tra ricerca e conservazione contribuisce la consapevolezza che la distribuzione delle moltissime specie non ancora descritte è e resterà a lungo sconosciuta. È dunque fondamentale sviluppare strumenti per conservare anche queste specie, che potrebbero altrimenti estinguersi prima ancora di essere note alla scienza. Questo obiettivo ambizioso è stato messo a fuoco solo da pochi anni, ma già sono state messe a punto tecniche per cercare, con approssimazione crescente, di raggiungerlo (C.J. Raxworthy, E. Martinez-Meyer, N. Horning et al., Predicting distributions of known and unknown reptile species in Madagascar, «Nature», 2003, 426, 6968, pp. 837-41; J.A.F. Diniz, L.M. Bini, Modelling geographical patterns in species richness using eigenvector-based spatial filters, «Global ecology and biogeography», 2005, 14, 2, pp. 177-85). Queste tecniche si basano sulla diversa velocità con cui le specie sono descritte in diverse aree geografiche e sul numero di specie per le quali sono potenzialmente idonei i diversi tipi di habitat. Sulla base di questi elementi si possono simulare le distribuzioni di ipotetiche specie non ancora scoperte, per cercare di capire dove saranno localizzati i siti prioritari per la conservazione quando le nuove specie saranno note.
Le sfide per la conservazione non si limitano tuttavia alle specie. In un mondo dove crescono costantemente la comprensione dei processi ecosistemici di larga scala e dei benefici che da essi derivano (sequestro del carbonio, depurazione dell’aria e delle acque, fertilizzazione dei terreni, contenimento delle oscillazioni climatiche e molti altri), l’attenzione si sposta sempre più rapidamente dalle specie ai processi e alle interazioni che ne consentono la persistenza nel tempo e che al contempo forniscono all’uomo preziosi (e sempre più misurabili in termini economici) servizi ecosistemici (Luck, Daily, Ehrlich 2003). Proprio questa attenzione ha spinto nel 2000 l’allora segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ad avviare un processo quinquennale denominato Millennium ecosystem assessment, con l’obiettivo di analizzare le conseguenze sul benessere umano dei cambiamenti negli ecosistemi e di identificare le basi scientifiche per le azioni necessarie alla conservazione e all’uso sostenibile di questi sistemi. I risultati dell’indagine, per nulla rosei per il futuro, sono che l’azione dell’uomo sta depauperando il patrimonio naturale della Terra, al punto che la capacità degli ecosistemi di sostentare le generazioni future non può essere data per scontata. Sarebbe possibile invertire la tendenza nei prossimi 50 anni, ma i sostanziali cambiamenti politici e gestionali necessari non sono a oggi in atto (Ecosystems and human well-being: current state and trends, ed. R. Hassan, R. Scholes, N. Ash, 2005).
La più grande sfida per la conservazione della biodiversità non riguarda però il lato scientifico, pur appassionante e che ancora presenta vistose lacune da colmare, ma quello umano. La migliore scienza della conservazione non può infatti nulla se non è capace di determinare le azioni dell’uomo. Sotto questo aspetto esistono due ordini di problemi. Innanzi tutto, ai progressi scientifici nelle tecniche di individuazione delle priorità di conservazione non fanno riscontro altrettanti progressi nell’attuazione dei piani di conservazione, fenomeno noto come crisi dell’implementazione (Knight, Cowling, Rouget et al. 2008). Se negli ultimi anni molta letteratura scientifica è stata pubblicata sull’argomento, gran parte di questa è infatti rimasta lettera morta. Gli interventi di conservazione effettuati sono stati pianificati con scarso utilizzo delle conoscenze acquisite, soprattutto per l’incapacità del mondo scientifico di comunicare con gli attori sociali. Oltre a questa incapacità restano comunque degli ostacoli che appaiono tuttora insormontabili sulla via dell’inversione della tendenza alla perdita di biodiversità.
Per quanto riguarda il secondo ordine di problemi, esiste un conflitto apparentemente insanabile tra la conservazione della biodiversità e altri interessi sociali ed economici dell’uomo. Questi non sono solo dovuti alla coincidenza, nelle fasce tropicali, tra ricchezza di biodiversità e popolazione umana, ma anche all’apparente inconciliabilità tra la necessità di aree agricole per l’alimentazione dell’uomo e di aree naturali per la conservazione della biodiversità. La stima (grossolana) dell’area che sarebbe necessario proteggere per fermare il declino della biodiversità si aggira, secondo alcuni autori, intorno al 50% della superficie terrestre, mentre nella maggioranza dei Paesi tropicali oltre l’80% del territorio è già soggetto a un forte utilizzo da parte dell’uomo (Soulé, Sanjayan 1998). Sebbene le aree protette siano unanimemente considerate il più efficace strumento per la conservazione della biodiversità, è dunque chiaro che non potranno mai coprire una superficie sufficiente a raggiungere, da sole, l’obiettivo. Da alcuni anni questo è evidente alla comunità scientifica e al mondo che studia la conservazione e, tuttavia, fino a ora in nessun luogo è stato possibile superare la dicotomia tra aree protette, che separano la biodiversità dai processi che la minacciano, e adiacenti aree di produzione, dove la conservazione della biodiversità è obiettivo trascurabile.
Per riuscire a preservare nel tempo la biodiversità rimasta sulla Terra sarà dunque necessario vincere molte sfide, alle quali è in ultima analisi legato anche il destino della nostra specie. Sarà di certo necessario accrescere le nostre conoscenze sulla distribuzione e lo stato di conservazione della biodiversità, ma anche imparare a conciliare obiettivi molteplici e diversificati, come il perseguimento del benessere umano e della salute degli ecosistemi. Dato che la crescita della popolazione umana è la causa ultima delle minacce alla persistenza della biodiversità, solo l’arresto di questa crescita potrà realmente porre fine al declino del patrimonio naturale. Ne sono un confortante esempio alcune regioni dell’Europa, tra cui l’Italia, dove all’arresto della crescita della popolazione e alla sua concentrazione nelle aree urbane, con conseguente abbandono di quelle rurali, sta seguendo una lenta, ma misurabile, riforestazione. Tuttavia, caratteristiche intrinseche della nostra stessa storia sono l’incertezza e l’imprevedibilità del cambiamento. Quale sarà la reale portata dei cambiamenti climatici? Quali saranno le fonti di energia che verranno utilizzate nei prossimi anni? A che cosa condurranno la permanente instabilità politica ed economica del nostro pianeta? Come insegna anche la teoria dell’evoluzione biologica, qualsiasi strategia di conservazione che non sia in grado di prevedere e rispondere adattativamente ai cambiamenti potrebbe essere efficace oggi, ma già perdente nel prossimo futuro.
Bibliografia
M.E. Soulé, M.A. Sanjayan, Ecology-conservation targets. Do they help?, «Science», 1998, 279, 5359, pp. 2060-61.
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C.R. Margules, R.L. Pressey, Systematic conservation planning, «Nature», 2000, 405, 6783, pp. 243-53.
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