Conservazione e restauro dei materiali fotografici
L’evoluzione di un certo sguardo
La definizione di uno specifico campo scientificamente inteso per la conservazione e il restauro della fotografia è il prodotto di una riflessione piuttosto recente, legata al dibattito concernente il riconoscimento dell’autonomia del linguaggio fotografico e dello status della fotografia considerata come bene culturale ‘unico e insostituibile’.
Al confine tra arte e industria, la fotografia ha sempre avuto delle difficoltà a essere accettata come forma d’arte a pieno titolo. Senza voler entrare in questa annosa questione, pare opportuno ricordare le riflessioni di uno dei massimi teorici del restauro, Cesare Brandi, pubblicate in un suo scritto intitolato La fotografia, come sia da considerare (in Le due vie, 1966; poi in «I problemi di Ulisse», 1967, 61, pp. 25-32). Egli sostiene che la specificità dell’opera d’arte sta nell’essere originata da un processo creativo suddiviso in due fasi, la costituzione dell’oggetto e la formulazione dell’immagine. Nonostante un parallelismo della fase iniziale tra pittura e fotografia, a quest’ultima mancherebbe però la seconda ed essenziale fase del processo creativo. Alla luce di tale considerazione, non è forse un caso che in Italia, Paese di grandi tradizioni nel campo dell’arte e del restauro, si sia arrivati solo oggi, e non ancora pienamente, all’inserimento tra le altre discipline di conservazione e restauro anche di quella riguardante i materiali fotografici.
La recente, rapida affermazione delle nuove tecnologie digitali, con il progressivo abbandono delle tecniche tradizionali, ha determinato una maggiore presa di coscienza della fragilità delle immagini storiche che ha portato, a sua volta, alla necessità di salvaguardarle. Si tratta dell’ultima tappa di un processo storico svoltosi tra fasi alterne di giudizi valutativi, che ha ormai trasformato la fotografia da oggetto utilitario a bene culturale pienamente riconosciuto. Questo fenomeno, sostenuto dal cresciuto interesse del pubblico per il collezionismo fotografico, con il conseguente aumento dei valori di mercato, ha creato quindi le condizioni ottimali per lo sviluppo di una disciplina autonoma scientificamente definita sia nella teoria sia nella prassi.
Gli attuali fondamenti di tale disciplina, le cui basi deontologiche non si discostano molto da quelle degli altri settori tradizionali del restauro, come quello della carta oppure dei dipinti, sono stati tracciati soprattutto dalle istituzioni di quei Paesi che sono risultati all’avanguardia nella nascita e nella successiva evoluzione della fotografia. Una delle più importanti è oggi sicuramente l’Image permanence institute (IPI, www.imagepermanenceinstitute.org), creato nel 1985, con la collaborazione della Society for imaging science and technology (IS&T, www.imaging.org), presso il Rochester institute of technology (RIT, www.rit.edu) a Rochester (nello Stato di New York), città sede storica della Eastman Kodak company (EKC) nonché di uno dei primi musei consacrati esclusivamente alla fotografia e al cinema, George Eastman house international museum of photography and film (GEH, www.eastmanhouse.org).
L’IPI ha collaborato molto attivamente proprio con la GEH all’apertura, avvenuta nel settembre 2009, del Center for the legacy of photography (CLP, www.legacyofphotography.org), diretto da James M. Reilly e Grant B. Romer, che si prefigge di studiare la fotografia storica, la sua tecnologia e i suoi materiali, preservando conoscenze che altrimenti rischierebbero di cadere nell’oblio. Al progetto non può naturalmente essere estraneo il fatto che il GEH sia uno dei musei più importanti al mondo dedicati alla fotografia. Nato nel 1947 intorno a un nucleo originale costituito dalla famosa collezione fotografica di Gabriel Cromer, Eastman Kodak historical collection, il museo conta oggi complessivamente circa 400.000 opere fotografiche, tra stampe, negativi e dagherrotipie, oltre ad attrezzature, libri e manuali.
La presenza di questa preziosa collezione ha anche determinato la creazione, nel 1975, del primo laboratorio di restauro specializzato in interventi su materiali fotografici, sia storici sia moderni. Nato sul modello del laboratorio di ricerca industriale della Kodak, ma anche su quello di un tipico laboratorio di restauro della carta, esso, oltre a continuare constantemente l’attività di restauro, è oggi un centro d’insegnamento altamente specializzato.
In ambito europeo si può segnalare il dipartimento di ricerca sui materiali fotografici attivo presso il Centre de recherche sur la conservation des collections (CRCC, www.crcc.cnrs.fr) di Parigi, inaugurato nel 1974 e facente parte del Muséum national d’histoire naturelle. Esso segue fondamentalmente due tematiche di ricerca, incentrate rispettivamente sui procedimenti e sui materiali costitutivi delle fotografie storiche e di quelli prodotti dalla moderna tecnologia digitale. Un aspetto particolarmente studiato è quello dei processi di degrado provocati dai fattori ambientali, in funzione della conservazione preventiva delle opere fotografiche.
Per quanto riguarda la messa in pratica dei trattamenti di restauro e l’applicazione delle norme di conservazione preventiva nella tutela dei fondi fotografici pubblici, uno dei punti di riferimento in Europa è l’Atelier de restauration et de conservation des photographies (ARCP, www.arcp.paris.fr), creato nel 1983 e diretto da Anne Cartier-Bresson. Situato nell’edificio sede della Maison européenne de la photographie (MEP, www.mep-fr.org), il centro si occupa della valorizzazione delle collezioni fotografiche municipali, mettendo in opera, tra l’altro, sistematiche campagne di restauro e programmando importanti interventi di prevenzione.
La specificità e l’importanza di questa nuova disciplina sono state ormai riconosciute anche dai vari organismi internazionali, che si preoccupano dell’aggiornamento dei restauratori promuovendo ricerche, pubblicazioni e corsi di formazione specialistici. L’International institute for conservation of historic and artistic works (IIC), l’International council of museums – Committee for conservation (ICOM-CC) e l’associazione statunitense American institute for conservation of historic and artistic works (AIC) accolgono, infatti, all’interno delle loro strutture gruppi di lavoro autonomi, consacrati esclusivamente alla fotografia, come, per es., il Photographic materials group (PMG, cool.conservation-us.org/coolaic/sg/pmg/ index.html), nato in seno all’AIC. L’associazione propone incontri biennali (AIC/PMG Winter meeting), durante i quali vengono presentati argomenti inerenti al restauro, alla storia e alla tecnologia della fotografia, con aggiornamenti circa le ultime ricerche scientifiche e i metodi per la gestione del rischio nella conservazione preventiva delle collezioni. Da segnalare, inoltre, la pubblicazione da parte del PMG dei «Topics in photographic conservation», che costituiscono uno dei riferimenti bibliografici più importanti per l’aggiornamento scientifico professionale.
All’AIC si deve anche la pubblicazione di un codice deontologico (AIC Code of ethics and guidelines for practice), ai cui principi etici di carattere generale e pratico fanno naturalmente riferimento anche i restauratori dei materiali fotografici.
L’offerta di formazione per tale tipo di professionisti, nonostante sia diffusa a livello internazionale, è concentrata in special modo negli Stati Uniti, presso diverse università, tra le quali sono da segnalare quelle del Delaware (con sede a Newark), di Buffalo e di New York. La GEH offriva invece un corso biennale, altamente specializzato, l’Advance residency programme (ARP), che nell’estate del 2009, dopo dieci anni di esistenza, si è concluso con la nascita del Center for the legacy of photography. Questa istituzione collabora anche con un’università canadese, la Ryerson university di Toronto, che propone anch’essa un corso biennale, incentrato soprattutto sulla conservazione preventiva e sulla gestione delle collezioni fotografiche (Master of arts in photographic preservation and collections management).
Altri centri didattici sono in funzione sempre in Canada, presso la Queen’s university di Kingston, e recentemente anche a Città di Messico, presso la Escuela nacional de conservación, restauración y museografía-INAH. In ambito europeo tale formazione specialistica può essere conseguita in Danimarca, Gran Bretagna, Germania, Svizzera. In Francia, il corso di studi ha la durata di cinque anni ed è tenuto nel dipartimento di fotografia dell’Insitut national du patrimoine – Institut de formation des restaurateurs des œuvres d’art (INP-IFROA).
Il definitivo riconoscimento della fotografia come bene culturale è avvenuto anche grazie alla sua musealizzazione. Oltre alle varie sezioni di fotografia aperte presso alcune grandi istituzioni museali, come la nuova galleria Joyce and Robert Menschel hall for modern photography dedicata alla fotografia moderna e contemporanea e inaugurata nel 2007 presso il Metropolitan museum of art (MET) di New York, in Europa sono stati creati diversi musei specifici. Alcuni di questi sono attivi da molti anni, come il Centre national de la photographie e il Patrimoine photographique, confluiti nel 2004 nella Galerie nationale du Jeu de paume, a Parigi, o il Musée de l’Elysée di Losanna, che esiste dal 1985, e, sempre in Svizzera, il Fotomuseum di Winterthur, creato nel 1994.
In Italia, oltre al Museo nazionale Alinari della fotografia (MNAF), dedicato in modo particolare alla storia e alla tecnica della fotografia, e al Fotomuseo Giuseppe Panini a Modena, nato con l’intento specifico di salvaguardare e valorizzare le collezioni dell’editore modenese Giuseppe Panini, dal 2004 esiste anche il Museo di fotografia contemporanea (MFC) a Cinisello Balsamo, a pochi chilometri da Milano, con importanti collezioni di autori italiani e stranieri, dal secondo dopoguerra a oggi, costituite grazie a donazioni e acquisizioni, ma soprattutto in seguito a committenze pubbliche promosse dagli anni Ottanta del Novecento come l’Archivio dello spazio.
La materia della fotografia
La fotografia non deve essere considerata soltanto come immagine, essendo essa in realtà un oggetto complesso, dal punto di vista sia fisico sia chimico, la cui storia, dalla sua invenzione a oggi, è anche la storia dei materiali di fabbricazione e delle molteplici tecniche di ripresa e stampa che si sono evolute nel corso del tempo. Con l’inizio del nuovo secolo, la neonata tecnologia digitale sta soppiantando ormai completamente la fotografia analogica, la fotografia intesa cioè come risposta chimica di un certo materiale all’energia luminosa, la cui invenzione si fa risalire a Joseph-Nicéphore Niépce, Louis M. Daguerre, William H.F. Talbot e William F. Herschel nella prima metà del 19° secolo.
Le grandi industrie fotografiche stanno progressivamente abbandonando il settore delle pellicole e delle carte fotografiche tradizionali. L’Ilford, per es., fondata nel lontano 1879, dal 2004 non produce più materiali a base di sali d’argento e si è specializzata nel settore della produzione di carte per le stampanti a getto d’inchiostro.
La stessa professione del conservatore-restauratore è destinata ad assumere in futuro nuovi orientamenti, molto più vicini a quelli dello specialista in opere d’arte contemporanea, che ha a che fare con materiali compositi. Saranno inoltre necessarie ulteriori specializzazioni, indispensabili per poter affrontare le problematiche conservative relative ai nuovi supporti elettronici e magnetici, o alle stampe digitali, la cui varietà si evolve a un ritmo quasi giornaliero, con la continua creazione di nuovi modelli di stampanti o di tipi di carte. In questo contesto, è interessante rilevare che alcuni artisti contemporanei, come Chuck Close, Martin Becka e molti altri, tendono invece ad andare controcorrente, facendo ricorso a tecniche di stampa artigianali risalenti agli albori della fotografia, adattati alle loro esigenze creative.
Dalle origini a oggi, il vasto repertorio dei procedimenti fotografici è caratterizzato dalla grandissima varietà dei materiali impiegati, cui fa purtroppo riscontro un’altrettanto grande varietà di loro alterazioni nel tempo. Ciò richiede da parte dello specialista una profonda conoscenza della natura chimica e fisica, non solo dei materiali e dei procedimenti che sono alla base della formazione dell’immagine, ma anche del suo supporto e degli eventuali materiali aggiuntivi, come i montaggi, gli album o gli astucci.
Nonostante il comune supporto cartaceo generalmente usato, i problemi conservativi delle fotografie sono molto differenti da quelli delle altre opere su carta. La maggior parte dei materiali fotografici ha, infatti, una struttura composita formata da vari strati in cui, oltre al supporto, sono presenti le sostanze sensibili che rendono possibile la formazione dell’immagine. A tal fine i composti dell’argento sono stati quelli maggiormente utilizzati, risultando però anche i più instabili. Si è fatto perciò ricorso a prodotti alternativi, sia a base di composti metallici, come il ferro o il platino, sia non metallici, come i pigmenti o i coloranti.
Queste sostanze, a loro volta, sono state frequentemente incorporate in leganti, quali l’albumina, la gelatina, o il collodio. Alcune stampe fotografiche, come le carte baritate, possono presentare inoltre uno strato isolante a base di gelatina e solfato di bario, la cui funzione è quella di separare lo strato immagine dal supporto cartaceo, conferendo all’immagine una nitidezza maggiore e accentuandone il contrasto. La struttura della fotografia può ulteriormente complicarsi per l’eventuale presenza di trattamenti di finitura realizzati sulla superficie della stampa, oppure di verniciature applicate sul lato emulsionato dei negativi su lastra di vetro, al fine di proteggerli da graffi oppure da abrasioni.
Nonostante gli indubbi progressi compiuti in questo campo, che individua nella guida di J.M. Reilly, Care and identification of 19th-century photographic prints (1986), un insostituibile punto di riferimento per un corretto esame visivo condotto a occhio nudo o attraverso elementari strumenti ottici, non risulta tuttavia sempre facile riconoscere i procedimenti fotografici, soprattutto se si tratta dei processi di stampa prodotti in maniera artigianale, appartenenti quindi a un’epoca preindustriale. La difficoltà deriva anche dall’esistenza di tutti quei sistemi di stampa, noti come fotomeccanici, utilizzati per riprodurre la fotografia nelle pubblicazioni, alcuni dei quali imitavano l’aspetto delle ‘vere fotografie’.
Oggi, nell’ambito di una cultura visiva che presenta una sua continuità, la fine della tradizionale industria fotografica e l’avvento della tecnologia elettronica hanno tracciato una linea di spartizione molto netta tra quella che è stata la fotografia ottocentesca e novecentesca, che viene definita ormai storica, e quella che è ancora chiamata fotografia, ma che, in realtà, se ci si attiene alla sua definizione originaria, in molti casi non lo è più.
I materiali fotografici sono, infatti, sensibilmente cambiati e i fotografi contemporanei utilizzano sempre di più le tecniche digitali, soprattutto in fase di stampa. Le tradizionali stampe ai sali d’argento sono state sostituite da stampe a getto d’inchiostro, utilizzando spesso carte tipo acquarello dette fine art. Risorse economiche considerevoli sono state investite dall’industria per commercializzare procedimenti di stampa digitale di facile esecuzione che, al tempo stesso, soddisfacessero la richiesta di specifiche qualità estetiche e garantissero una certa stabilità nel tempo.
Tutti i procedimenti fotografici sono caratterizzati, nel momento storico della loro invenzione e utilizzazione, da precisi aspetti tecnici e formali. Nel dagherrotipo, uno dei più antichi, un’immagine specchiante appare sulla superficie di una lastra di rame argentata racchiusa in un astuccio; nelle contemporanee stampe digitali, l’immagine si ritrova su una grande varietà di supporti che comprendono, oltre a tutti i tipi di carta, alcuni dei quali imitano le caratteristiche delle vere carte fotografiche baritate, pellicole trasparenti, tele plastificate e così via.
La corretta identificazione delle materie è indispensabile per l’applicazione della specifica metodologia d’intervento, mentre l’individuazione delle procedure tecniche di esecuzione e delle funzioni originarie è essenziale anche per essere in grado, attraverso l’atto conservativo, di restituire all’immagine fotografica originale i valori storici ed estetici peculiari del mo-mento della sua produzione.
La complessità dei materiali fotografici, documentata da un’ampia e diversificata letteratura tecnica e storica, ha reso necessaria la definizione di una nomenclatura standardizzata che servisse a descrivere e inventariare con esattezza la fotografia in fase di ricognizione e catalogazione. In questi ultimi anni, infatti, le esposizioni fotografiche sono sempre più numerose e l’informatizzazione dei fondi è divenuta una pratica comune, poiché permette di valorizzare e rendere facilmente accessibile tale patrimonio.
Le vocabulaire technique de la photographie, pubblicato in Francia nel 2008 a cura di A. Cartier-Bresson e frutto di un lavoro collettivo portato avanti nel corso di quest’ultimo decennio da diversi specialisti internazionali, sta diventando un importantissimo strumento per fare il punto circa l’attuale stato dell’arte fotografica. L’opera include anche i procedimenti fotomeccanici e quelli digitali, in quanto partecipi comunque alle funzioni e ai modi di produzione propri delle immagini fotografiche, anche se non sono da considerarsi propriamente fotografici nel senso originario del termine.
Nuovi strumenti d’indagine scientifica per l’analisi dei materiali fotografici
La rapida evoluzione tecnologica, avviata inevitabilmente verso il digitale, sta comportando il rischio della perdita di più di centosettant’anni di conoscenze relative ai processi fotografici e ai materiali usati nel campo commerciale, artistico o sperimentale, nonché alle modalità d’uso specifiche a ogni fotografo. Per questo motivo, a partire dal 2000, il Getty conservation institute (GCI, www.getty.edu/conservation) di Los Angeles si è dedicato alla ricerca e allo sviluppo di metodologie e strumenti d’indagine per l’identificazione dei procedimenti fotografici maggiori e minori e delle loro varianti.
L’intento è di costituire, partendo dalle caratteristiche analitiche specifiche (analytical signatures) di ognuno dei circa 150 procedimenti fotografici finora conosciuti, un esaustivo repertorio esemplificativo, denominato Atlas of analytical signatures of photographic processes, arricchito da informazioni storiche e indicazioni precise per il riconoscimento visivo. Il suo autore, Dusan Stulik, si serve di due tecniche analitiche comunemente applicate in pittura e in scultura: la spettrometria XRF (X-Ray Fluorescence) e la spettroscopia in trasformata di Fourier, FTIR (Fourier Transform Infra Red). Tali metodologie permettono di fornire un’analisi quantitativa e qualitativa degli elementi chimici principali che hanno concorso alla formazione dell’immagine, laddove il semplice esame visivo, a occhio nudo o con l’ausilio di un contafili o di un microscopio, non è più sufficiente. La miniaturizzazione degli apparecchi ha permesso al GCI di mettere a punto un laboratorio portatile, grazie al quale le misurazioni possono essere effettuate anche nelle sedi delle collezioni.
La spettrometria XRF è una tecnica basata sull’emissione di fluorescenza da un determinato materiale esposto ai raggi X, che permette di identificare i composti inorganici presenti nell’oggetto fotografico, come quelli metallici utilizzati per la sensibilizzazione o il viraggio, ossia l’argento, il platino, l’oro e diversi altri. Il suo vantaggio è quello di non essere invasiva, non necessitando di prelievo e nemmeno di contatto diretto tra superficie dell’opera e strumentazione. Questo metodo è servito, per es., a determinare se alcune famose stampe del fotografo statunitense Edward Weston (1886-1958) fossero state realizzate con il platino o con il palladio, caratteristica questa altrimenti impossibile da riconoscere con un semplice esame visivo.
La spettroscopia a raggi infrarossi FTIR completa le informazioni ottenute con la spettrometria XRF identificando i composti organici, che in fotografia sono essenzialmente i leganti, come l’albumina o la gelatina, in cui sono contenuti i sali metallici o i pigmenti. Il tipo di spettroscopia più adatto ai materiali fotografici è la spettroscopia IR a trasformata di Fourier a riflessione totale attenuata (FTIR-ATR, Atten-uated Total Reflectance), che consente la misurazione per riflessione. Questa tecnica non invasiva può servire anche a individuare un certo tipo di vernice o di ceratura usato per un trattamento di protezione o di finitura. Grazie a essa è stato, possibile identificare la vernice di protezione usata sui negativi al collodio secco del fotografo e pittore francese Gustave Le Gray (1820-1884), esposti in occasione della mostra a lui dedicata, organizzata nel 2002 a Parigi.
La tendenza attuale degli studi di identificazione e caratterizzazione dei materiali fotografici si manifesta anche in uno dei recenti programmi di ricerca elaborato dall’IPI di Rochester. Il progetto, iniziato nel 2006, consiste nella diffusione, attraverso il sito www.graphicsatlas.org, della varietà degli elementi visivi e fisici che caratterizzano tutte le stampe in generale. Queste sono state suddivise in gruppi che comprendono i procedimenti propri dell’incisione, quelli fotografici e fotomeccanici, nonché le tecniche digitali. Il sito si rivolge agli educatori, ai conservatori, ai collezionisti ma anche al grande pubblico, che può così esaminare riproduzioni di grande qualità di diversi esempi per ogni processo di stampa, confrontandone i formati, le caratteristiche di superficie, di colore e altro. Tramite l’uso dell’object explorer due opzioni permettono di selezionare il rapporto di ingrandimento a cui si desidera esaminare la stampa e il tipo di illuminazione più adatto: zenitale, a 45° e radente.
Fragilità della fotografia
I lavori di ricerca menzionati fin qui offrono oggi la possibilità di conoscere sempre meglio le cause all’origine del degrado dei materiali fotografici. Oltre a fattori interni, come quelli causati da difetti di fabbricazione e di realizzazione, propri ad alcuni processi, i materiali fotografici sono estremamente sensibili alle condizioni ambientali. Anche l’uomo può essere responsabile di danneggiamenti, con scorrette manipolazioni, scelte espositive inadeguate e interventi conservativi errati. Custodite in locali inadatti, le fotografie sono soggette a un deperimento lento ma continuo, spesso ancora sottovalutato poiché percepibile solo dopo diversi anni.
Essendo le possibili alterazioni e i meccanismi alla base del deterioramento dei materiali numerosi e piuttosto complessi, la loro individuazione è indispensabile prima di procedere a un qualsiasi tipo di intervento conservativo. L’umidità, la temperatura, la luce, oltre ai diversi agenti inquinanti contenuti nell’atmosfera, sono tra i fattori ambientali più importanti e più comuni all’origine di fenomeni di degrado di ordine fisico, chimico e biologico, cui tutti i procedimenti argentici sono particolarmente vulnerabili.
Tali fattori esterni interagiscono differentemente con ciascun elemento costitutivo dell’oggetto fotografico, causando tra l’altro degradi di tipo fotochimico o provocando fenomeni di ossidazione oppure di idrolisi. I danni che vengono provocati da queste reazioni chimiche si possono manifestare con un cambiamento di colore dell’immagine e una generale fragilità strutturale, fino ad arrivare alla perdita completa dell’informazione visiva.
Le variazioni climatiche, in particolare dell’umidità, causano gravi danni, soprattutto sui leganti di origine animale o vegetale ad alto contenuto d’acqua, in cui sono contenute le particelle che formano l’immagine. Condizioni termoigrometriche estremamente instabili possono produrre diversi tipi di alterazioni: di tipo fisico, quali sollevamenti, deformazioni e distacchi dell’emulsione; di tipo chimico, con l’apparizione, per es., di macchie d’argento, chiamate dicroiche, e di decolorazioni generalizzate; di tipo biologico, con il proliferare di microrganismi che trovano nelle emulsioni alla gelatina un ambiente particolarmente favorevole al loro sviluppo.
Oggi i materiali fotografici con i maggiori problemi conservativi sono quelli prodotti a seguito delle più importanti innovazioni commerciali della fine del 19° e della prima metà del 20° secolo. Insieme con alcuni degli attuali tipi di stampe digitali, i negativi su pellicola in nitrato di cellulosa, quelli su supporti in acetato di cellulosa e tutti i prodotti risultanti dai processi a colori cromogeni moderni – costituiti da pellicole negative, invertibili (diapositive) e dalle relative stampe – devono essere considerati, infatti, tra i materiali maggiormente soggetti a un deperimento precoce, a causa dell’intrinseca instabilità dei loro elementi costitutivi.
Le pellicole in nitrato di cellulosa, fabbricate con procedimenti industriali tra il 1889 e il 1951, subiscono nel tempo una decomposizione lenta e inesorabile che, in determinate condizioni, può portare all’autocombustione. A causa di questo rischio, esse sono attualmente soggette ovunque a precise norme di sicurezza per la loro archiviazione. Non potendo agire sui fattori interni della loro instabilità, si interviene in priorità individuando gli esemplari e isolandoli dal resto della collezione. Per favorirne la conservazione a lungo termine, gli originali, dopo un’eventuale fase di riproduzione su supporti stabili in pellicola a base di poliestere, vengono archiviati in speciali aree a bassa temperatura e ridotto tasso d’umidità relativa.
Anche le pellicole in acetato di cellulosa, apparse nel 1934 per sostituire il nitrato e diffuse con il nome di safety film, in quanto non soggette all’autocombustione, offrono scarsa stabilità. In particolare, i supporti in di-acetato di cellulosa sono caratterizzati da fenomeni di decomposizione autocatalitici con produzione di gas dal caratteristico odore di acido acetico (‘sindrome dell’aceto’). Anche per gli acetati, come viene sottolineato nella guida pubblicata dall’IPI a cura di J.M. Reilly, IPI Storage guide for acetate film, l’unica soluzione per rallentarne la decomposizione è l’archiviazione a bassa temperatura e ridotto tasso di umidità relativa.
Nei materiali cromogeni, i ‘copulanti’ sono sostanze formatrici di colorante, incorporate in ciascuno dei tre strati di emulsione argentica sensibili ai tre colori fondamentali, che producono il colore (ciano, magenta, giallo) in seguito alla loro combinazione con i prodotti di ossidazione dello sviluppo ‘cromogeno’. A questa struttura generale fa eccezione una delle prime pellicole invertibili, il Kodachrome, in cui i copulanti sono invece aggiunti nei vari bagni chimici.
A cominciare dagli anni Novanta del Novecento, ci si è resi conto che le comuni stampe a colori a sviluppo cromogeno, su supporto cartaceo o plastico, in particolare quelle prodotte negli anni 1960-1980, e tutti i materiali di ripresa a colori in genere presentavano gravi problemi di stabilità. Una delle caratteristiche più marcate del loro rapido degrado è la decolorazione dei coloranti organici contenuti nello strato immagine. Ogni colorante, possedendo una sua specifica struttura molecolare, evolve infatti nel tempo in maniera diversa. Il fenomeno, favorito da temperatura e umidità relativa elevate e dall’esposizione luminosa, provoca sull’immagine un pronunciato sbilanciamento cromatico, che si evidenzia con l’apparizione di fastidiose dominanti di diverso colore. Bisogna però sottolineare che alcuni materiali cromogeni sbiadiscono anche se vengono conservati nell’oscurità, la quale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non garantisce una sicura protezione.
Le sperimentazioni sulla velocità di formazione delle alterazioni, condotte in particolare dall’IPI e pubblicate nella guida di Reilly Storage guide for color photographic materials, e gli studi condotti da uno dei maggiori esperti sulla stabilità del materiale fotografico a colori, Henry Wilhelm, hanno scientificamente dimostrato che l’unica garanzia per la conservazione a lungo termine risiede nell’archiviazione a temperature bassissime, comprese cioè fra 0 °C e −18 °C e con un tasso d’umidità relativa non superiore al 40% (www.wilhelm-research.com).
Problemi analoghi esistono anche per le odierne stampe digitali ottenute con stampanti a getto d’inchiostro o a sublimazione termica. Come quelle cromogene, anche le stampe digitali sono, infatti, sensibili a fattori ambientali, quali la temperatura, l’umidità e gli agenti atmosferici inquinanti, specialmente l’ozono. I primi inchiostri a base di coloranti organici sono stati sostituiti in seguito, a partire dagli anni Novanta, da inchiostri a pigmenti chimicamente più durevoli, che garantiscono una buona permanenza dell’immagine, anche se dal punto di vista fisico sono molto fragili e la loro superficie è facilmente soggetta ad abrasioni. La qualità della carta, di cui il mercato offre un’ampia scelta, è importante quanto la tipologia d’inchiostro; generalmente il tipo rivestito (coat-ed), formato da numerosi strati, uno dei quali può essere a base di solfato di bario, come nelle classiche carte fotografiche, è quello che offre maggiori garanzie di durata nel tempo.
Nell’agosto 2009 è stato pubblicato, a opera di Martin C. Jürgens, il volume The digital print. A complete guide to processes, identification and preservation, interamente dedicato alla descrizione e identificazione dei procedimenti digitali che si sono evoluti in questi ultimi quarant’anni e dei relativi problemi di conservazione. La stabilità delle stampe digitali è un oggetto di studio e di indagine non solamente da parte delle grandi industrie che fabbricano prodotti di base e stampanti, ma è diventata una priorità anche per i centri di ricerca specializzati che intendono raccogliere informazioni sulla natura fisica e chimica delle stampe digitali, sui loro meccanismi di degrado e sulla loro corretta manipolazione, esposizione e archiviazione, a uso delle istituzioni interessate ad acquisire tali tipi di opere. Uno dei programmi di ricerca attualmente in corso è quello condotto dall’IPI e denominato DP3 (The DP3 project. Digital print preservation portal), attraverso il quale s’intendono valutare gli effetti della luce, dell’inquinamento, dell’umidità e del calore su questo tipo di materiale. I risultati sono consultabili sul sito www.dp3project.org.
La molteplicità dei processi di stampa digitale utilizzati per la produzione delle opere contemporanee, integrati spesso ad altri media, ne rende difficile il riconoscimento, importantissimo per stabilire le adeguate modalità di conservazione. A questo proposito, è interessante notare che ormai alcuni musei, come il MET di New York e la MEP di Parigi, al momento dell’acquisto di un’opera, richiedono all’autore di compilare un apposito questionario. All’artista vengono chieste delle precise indicazioni di ordine tecnico e concettuale relative alla permanenza nel tempo dell’opera acquistata. Vi sono, infatti, casi in cui l’instabilità intrinseca dei materiali utilizzati determina la condizione di fruizione dell’opera, sia per precisa volontà dell’artista, che desidera in tal modo sottolinearne il carattere effimero, sia per sue precise indicazioni circa gli interventi da eseguire in caso di degrado accidentale.
In questo contesto, diviene particolarmente importante il ruolo del restauratore, quale mediatore tra le differenti professionalità implicate nella tutela del patrimonio culturale, essendo egli la figura specializzata nell’affrontare tutte le problematiche conservative della materia dell’opera, spesso indissolubilmente legate a quelle delle espressività creative di ogni artista.
Restauro e conservazione preventiva
Il bisogno di conservare in maniera duratura le immagini fotografiche è stato sempre all’origine di molte delle principali innovazioni tecnologiche nel campo dei materiali e dei metodi, con miglioramenti sensibili ed evidenti nel corso degli anni. L’esigenza di recuperare comunque le immagini degradate, adottata fin dalle origini in maniera empirica e talvolta grossolana da fotografi, collezionisti e semplici utenti, ha prodotto talvolta rimedi peggiori del male, con definitivo e irrimediabile deterioramento delle immagini stesse.
Per comprendere l’evoluzione delle tecniche di restauro, il caso dei tentativi di ripulitura dei dagherrotipi è particolarmente emblematico. Annoverati tra i materiali più antichi e più preziosi, essi sono stati sovente sottoposti a restauro, allo scopo di eliminare lo strato di ossidazione formato da solfuro d’argento, che compromette a volte la leggibilità dell’immagine. Nell’Ottocento e ancora durante i primi decenni del secolo seguente, si usava pulire la lastra impiegando composti a base di cianuro. Negli anni Cinquanta del Novecento, Charles van Ravensway introdusse l’utilizzazione di prodotti comunemente usati per la pulitura dell’argenteria (silver dip) a base di tiourea. Se l’effetto immediato era buono, queste immagini hanno poi purtroppo subito nel tempo un processo irreversibile di decomposizione, dovuto ai residui chimici dei trattamenti subiti.
Con il consolidarsi di una pratica di restauro scientifica, la questione della pulitura dei dagherrotipi è stata frequentemente affrontata al fine di mettere a punto metodi alternativi alla semplice rimozione chimica dell’ossidazione, che comportavano l’eliminazione anche di un sottile strato d’argento. Partendo dal principio che il solfuro d’argento poteva essere riconvertito in argento metallico, sono state sperimentate diverse metodologie, tra cui l’applicazione di un sistema di pulitura elettrolitica, collaudato, negli anni Ottanta del Novecento, dalla ricercatrice Susan Barger, presso il Materials research laboratory dell’università della Pennsylvania.
L’evolversi delle metodologie conservative degli ultimi anni ha, tuttavia, condotto a privilegiare l’integrità di questo prezioso oggetto, scegliendo di eseguire interventi minimi sulla sua fragile immagine e agendo, invece, sul microambiente costituito dalla custodia di protezione. Senza rinunciare a mantenere il più possibile intatti tutti gli elementi originali dell’opera, ma sostituendo, per es., il vetro di protezione, spesso degradato, la lastra viene inserita in un nuovo involucro con un sistema di montaggio a sandwich, realizzato con materiali di conservazione e completamente sigillato per evitare il contatto con l’aria, responsabile dei fenomeni di ossidazione.
Con l’avanzamento delle conoscenze, oggi è fortunatamente possibile non ripetere gli errori del passato. Se una buona dimestichezza dei problemi conservativi del materiale cartaceo resta uno dei requisiti di base per lo specialista, recentemente le ricerche rivolte alla risoluzione delle problematiche conservative poste, non solo dal dagherrotipo, ma anche da altri tipi di immagine – in particolare quelle in astuccio, quali l’ambrotipia e la ferrotipia – sono state l’occasione per allargare il campo delle conoscenze con l’esigenza di un approccio pluridisciplinare. La specificità e la molteplicità dei supporti e delle sostanze impiegate richiedono, infatti, non solo una conoscenza eclettica relativa alla produzione dei manufatti artistici in genere, ma anche un’abilità nell’applicazione di altre metodiche di restauro.
La microstruttura caratteristica della superficie di determinati materiali fotografici può richiedere la necessità di lavorare utilizzando nuovi strumenti di precisione, simili a quelli usati in campo medico, attualmente in via di sperimentazione presso i laboratori di restauro della GEH. L’area di attività del restauratore di fotografie si estende ormai da alcuni oggetti fotografici in miniatura, come, per es., i bottoni ottocenteschi con ferrotipie incastonate, fino alle opere contemporanee, nelle quali la fotografia è oramai onnipresente, al pari di innumerevoli altre tecniche.
I recenti sistemi di stampa consentono inoltre di ottenere formati dalle dimensioni impensabili in altri tempi. Ciò ha condotto all’uso di tipi di presentazione molto diversi dal tradizionale abbinamento cornice-passe-partout, con l’apparizione di nuove problematiche conservative. È, infatti, ormai frequente l’abitudine di montare il lato emulsione contro lastre plastiche trasparenti (face mounting) comunemente in polimetacrilato (PMMA), note con il nome commerciale di Plexiglass®, Perspex® o altro, per proteggere l’immagine, ma soprattutto per favorire la presentazione diretta dell’opera. Tali materiali plastici sono, però, estremamente vulnerabili alle abrasioni meccaniche e la loro sostituzione non è facile.
Altri artisti, invece, preferiscono far montare l’opera su alluminio o su altri tipi di supporti rigidi e mostrarla senza schermo protettivo. In questo caso è possibile far eseguire una plastificazione della superficie che filtri i raggi ultravioletti e garantisca un minimo di protezione. Queste pellicole protettive alterano, però, la saturazione dei colori e influiscono sulle caratteristiche di superficie delle immagini; molti artisti preferiscono perciò non impiegarle, mantenendo le qualità estetiche originali della stampa, che si troverà però molto più esposta al rischio di danni fisici.
Le decisioni riguardanti i tipi di interventi da eseguire sono a volte problematiche e richiedono la collaborazione dell’autore anche nell’intento prioritario di rispettarne la volontà. A questo proposito, un gruppo internazionale di professionisti della conservazione, che operano a diversi livelli nel campo dell’arte contemporanea, ha preso l’iniziativa di creare una rete, l’International network for the conservation of contemporary art (INCCA, www.incca.org), che risponde alla necessità di una piattaforma per lo scambio di informazioni su progetti di ricerca.
L’atto del restauro, eseguito nel rispetto dell’integrità storica e culturale, lungi dal ridursi a semplici operazioni tecniche eseguite con lo scopo di assicurare ‘la trasmissione al futuro’ delle opere fotografiche, contribuisce anche alla loro valorizzazione. Alla base, tuttavia, di un ben articolato concetto di restauro si trova anzitutto una corretta conservazione dell’opera. Anche se è possibile differenziare teoricamente il momento del restauro da quello della conservazione, nella realtà ci sono dei trattamenti in cui essi sono strettamente connessi. La pulitura della superficie impolverata di un’immagine fotografica, i consolidamenti degli strappi, i trattamenti per attenuare deformazioni della stampa o pieghe pronunciate del supporto cartaceo concorrono a ripristinare l’aspetto estetico dell’immagine e quindi la sua piena fruibilità. Essi sono, però, anche interventi conservativi di prevenzione, in quanto, rimuovendo, per es., la polvere, si eliminano possibili fonti di futuro degrado biologico e, consolidando gli strappi, si stabilizza fisicamente il supporto, rendendone così possibili la manipolazione e l’utilizzazione, senza il rischio di ulteriori alterazioni fisiche.
Le linee generali attualmente adottate per la tutela dell’opera d’arte tendono a privilegiare la conservazione (curativa e preventiva). Nel campo delle fotografie, ci si trova spesso a confrontarsi con archivi e collezioni costituiti da un gran numero di immagini; in questi casi, si preferisce optare per la salvaguardia delle collezioni nel loro complesso, mettendo in atto una strategia di conservazione preventiva. A questo scopo viene fatta una valutazione di tutti i fattori ambientali che interagiscono con le opere (la temperatura, l’umidità, la luce) nonché dei materiali di contatto in cui si trovano archiviate le opere (buste, cartelline, scatole o altro). Sulla base delle informazioni così raccolte, viene stilato un progetto di interventi a vari livelli, secondo una lista di priorità che può includere, per es., la climatizzazione degli spazi di archiviazione, la creazione di un microambiente conservativo neutro con l’uso di buste e scatole o, in caso di necessità, anche interventi diretti di restauro.
Tali procedure, inoltre, devono essere naturalmente applicate alle situazioni espositive sia temporanee sia permanenti. I metodi di presentazione, in vetrine oppure in cornice, la qualità dei materiali impiegati, la scelta dell’illuminazione nonché i sistemi di sicurezza, svolgono, in questo caso, un ruolo molto importante per la salvaguardia. Il monitoraggio costante dei parametri microclimatici, nei locali adibiti all’archiviazione e in fase di movimentazioni delle opere, costituisce un elemento di fondamentale importanza nel settore della conservazione preventiva.
Il crescente interesse del pubblico per la fotografia ha condotto in questi ultimi anni alla realizzazione di molte mostre di materiali fotografici, spesso storici, alcuni dei quali particolarmente vulnerabili alla luce. Le radiazioni ultraviolette, insieme a quelle visibili, possono essere infatti molto dannose per le immagini, a causa dell’effetto cumulativo delle esposizioni. Per rendere possibile il controllo dell’esposizione luminosa è stato messo a punto, nell’ambito del programma di ricerca LiDo (Light Dosimeter) finanziato dall’Unione Europea, un apposito sistema per il monitoraggio della quantità complessiva di luce ricevuta. Si tratta di un supporto, denominato LightCheck®, rivestito di una combinazione di elementi fotosensibili che cambia colore in maniera direttamente proporzionale alla durata e all’intensità dell’esposizione luminosa, quantificabili in base a un’apposita scala di riferimento.
La fotografia gode già da diversi decenni di precise norme di standardizzazione, sia per la produzione industriale di pellicole e carte, sia per le caratteristiche dei materiali di conservazione destinati all’archiviazione a lungo termine. Emanate da organismi internazionali, quali l’International organization for standardization (ISO) e l’American national standards institute (ANSI), tali normative forniscono definizioni e specifiche relative alla conservazione dei materiali fotografici tradizionali, mentre sono attualmente in corso analoghe iniziative per i materiali digitali. Specifici test inoltre, come il Photographic activity test (PAT), introdotto dall’IPI già da diversi anni, consentono una valutazione delle possibili reazioni delle fotografie al contatto con i materiali di archiviazione oppure con quelli utilizzati durante la fase del loro restauro, quali carte, cartoni per il montaggio, adesivi, colori per il ritocco e così via.
Questioni di autenticità
Quello fotografico rappresenta oggi uno dei recenti e più vivaci settori del collezionismo, il cui mercato, insieme con quello dell’arte contemporanea, ha avuto la maggiore crescita in volume d’affari. Negli Stati Uniti, dove la fotografia, intesa come fine art, ha iniziato a far parte delle collezioni dei grandi musei negli anni Trenta del Novecento, questo mercato si è sviluppato con largo anticipo rispetto all’Europa e ha fatto nascere un’associazione di categoria (Association of international photography art dealers, AIPAD, www.aipad.com), con il proposito di rappresentare le gallerie o, più in generale, tutti i commercianti specializzati nella vendita di fotografie, promuovendo per i suoi membri, non solo iniziative educative sulla fotografia, ma incoraggiando anche il pubblico generico al riconoscimento del suo valore storico e culturale. In questo senso, l’associazione si è anche fatta promotrice di un codice etico (Code of ethics) che i suoi membri sono tenuti ad applicare nell’ambito della condotta delle trattative di vendita. Anche se Sotheby’s ha cominciato a inserire la fotografia tra i suoi dipartimenti tradizionali fin dal 1971 a Londra e dal 1975 a New York, si è dovuto attendere il 2007 per assistere in Italia alla prima asta di fotografie, organizzata dalla San Marco casa d’aste, e il 2008 per quelle proposte dalla Bloomsbury.
I prezzi di vendita o di aggiudicazione hanno avuto una crescita esponenziale arrivando a cifre record, come in occasione della vendita all’asta, tenutasi a New York nel febbraio 2006, di diverse opere fotografiche provenienti dal MET, tra le quali una famosa stampa di Edward Steichen, The pond, moonlight scattata a Mamaroneck (New York) nel 1904, aggiudicata per ben 2.928.000 dollari. Viste le altissime quotazioni di mercato, anche le stampe fotografiche hanno cominciato a essere recentemente soggette a contraffazioni, come avviene per le altre opere d’arte. Per la fotografia, che vede insito nella sua stessa natura il concetto della riproducibilità, la nozione di autenticità è sempre stata problematica. Lungi dall’essere legato solo alla provenienza dal negativo originale, il valore di una stampa fotografica risiede soprattutto nella tempestiva correlazione tra la ripresa e l’esecuzione della stampa da parte dell’autore, oppure da un altro stampatore, ma sempre sotto il controllo dell’autore stesso. In questo caso la si definisce ‘stampa originale d’epoca’ secondo l’espressione americana vintage print. Essa si distingue da quelle prodotte a posteriori (printed later o modern print), realizzate sempre quando l’artista è in vita, che si definiscono autentiche e non sono però originali.
Vi sono poi le ‘stampe postume’, ossia le stampe ottenute dal negativo originale, ma realizzate dopo la morte dell’autore. A tali distinzioni, grazie alle innumerevoli possibilità offerte dalla tecnica moderna e alle diverse fasi di lavorazione, se ne aggiungono molte altre che complicano notevolmente la questione. Nella letteratura specializzata si trovano, per esempio, le seguenti distinzioni: stampa d’edizione, stampa di lettura, stampa di lavoro, senza contare il problema del formato, del tipo di carta nonché quello dei numeri relativi all’eventuale tiratura.
Ritornando al caso dei falsi, uno dei metodi utilizzati più comunemente è quello di impiegare processi chimici specifici per produrre stampe dall’aspetto antico, oppure quello di stampare l’immagine su carta fotografica scaduta, utilizzando in particolare materiali fabbricati con caratteristiche che li rendono estremamente simili alle carte fotografiche risalenti al periodo 1920-1950, come quelle prodotte in alcuni Paesi dell’Europa orientale (J. Gold, Investigation on methods used to misrespresent the conditions and the age of photographs, «Topics in photographic preservation», 2005, 11, pp. 111-22).
Pur se avvenuti rispettivamente nel 1997 e nel 1999, i due clamorosi casi di falsi di Man Ray (1890-1976) e Lewis Hine (1874-1940) suscitano ancora un grande interesse presso gli specialisti, mobilitando il mondo scientifico americano per trovare soluzioni ai problemi di autenticità. Si scoprì, infatti, che numerose stampe dei due grandi fotografi, facenti parte di collezioni conservate in diversi musei e in prestigiose raccolte private, erano in realtà false, con conseguenti danni per diversi milioni di dollari.
Studi e ricerche, riservati finora ai procedimenti storici artigianali, sono stati quindi intrapresi anche sulle carte fotografiche prodotte dall’industria nel cor-so del Novecento, con particolare riguardo alle carte baritate. Un restauratore statunitense, Paul Messier, ha così cominciato a raccogliere e a sottoporre ad analisi scientifiche esempi di carte fotografiche vergini ai sali d’argento in bianco e nero, prodotte dal 1896 in poi, da circa quaranta diversi fabbricanti, allo scopo di creare una banca dati. Grazie a tali indagini, condotte in collaborazione con numerosi specialisti, è stato possibile evidenziare determinate caratteristiche dei materiali, consentendo di abbinare ciascun tipo di carta a precisi periodi di produzione.
Gli azzurranti ottici, che sono delle sostanze ag-giunte nelle carte fotografiche allo scopo di mascherare il loro ingiallimento nel tempo e di ottenere dei bianchi più puri, appaiono nei processi di fabbricazione dal 1950 in poi. La loro presenza può essere individuata esaminando la stampa alla luce ultravioletta (UV), in quanto queste radiazioni provocano la fluorescenza di tale sostanza (P. Messier, V. Baas, D. Tafilowski, L. Varga, Optical brightening agents in photographic papers, «Journal of the American institute of conservation», 2005, 44, pp. 1-12).
L’esame alle radiazioni UV condotto sulle stampe sia di M. Ray sia di L. Hine ha potuto così confermare che la carta sulla quale le immagini sono state stampate non era dell’epoca, bensì apparteneva a un periodo posteriore agli anni 1950-1955, permettendo così di evidenziare i falsi.
Le indagini sul supporto cartaceo, effettuate prelevando un microcampione dal verso delle carte, hanno consentito, sempre nel caso dei falsi in questione, di confermare che la carta fotografica, oltre a contenere azzurranti ottici, era composta da una pasta di carta a base di fibre, sia di legno tenero sia di legno massiccio, combinazione tipica usata dall’Agfa nella fabbricazione delle carte degli anni 1950-1970. Un altro elemento molto utile alla datazione delle carte è il logo che diverse case di produzione, come l’Afga e la Kodak, stampano sul verso dei loro prodotti. Alcune delle false stampe dei due fotografi americani avevano un tipo di marchio che l’Agfa usava dopo il 1950.
Questo genere di analisi rientra tra l’altro in più vasti programmi di ricerca. Uno di tali progetti, denominato Barytome project e condotto da D. Stulik e dalla sua équipe, in collaborazione con l’università di Northridge, in California, è incentrato sullo studio della composizione dello strato di barite presente in gran parte delle carte fotografiche. Diversamente dall’immagine argentica, che può essere manipolata con trattamenti chimici o deteriorata da altri fattori, lo strato di barite tende a rimanere inalterato e può essere perciò un elemento molto importante per l’identificazione e la datazione (D. Stulik, A. Kaplan, D. Miller, Research in the identification and provenancing of 20th century photographs, http://www.dxcicdd.com/ 08/PDF/Dusan_Stulik_1.pdf; 8 febbr. 2010).
Le indagini, condotte applicando la spettrometria XRF sui numerosissimi esempi raccolti dal GCI e da Messier, permettono un’analisi estremamente precisa di tutti gli elementi chimici e fisici presenti nelle carte fotografiche e delle relative concentrazioni, con l’individuazione di un certo numero di markers. Grazie a essi, è quindi possibile costituire una banca dati di riferimento per determinare con una certa sicurezza la provenienza e la datazione delle stampe su carta baritata in bianco e nero. Tale metodologia, utilissima per i successivi confronti in casi dubbi di autenticità, è in corso di applicazione dal 2008 sulle stampe del fotografo francese Henri Cartier-Bresson (1908-2004), conservate nella fondazione a lui dedicata (HCBF) e in altri musei parigini.
I nuovi orientamenti scientifici si stanno riflettendo anche nel campo delle ricerche storiche specialistiche: è stato infatti creato uno specifico sito (www.notesonphotographs.org) che, su modello di Wikipedia, si propone come un’enciclopedia aperta specializzata nella connoisseurship concernente i grandi maestri nella storia della fotografia. Inizialmente nata da un progetto sviluppato da Luisa Casella nel 2005-2007, nell’ambito del suo programma di studi presso la George Eastman house (Advanced residency program in photographic conservation), questa iniziativa si è poi evoluta in un progetto di ricerca pilota della GEH. L’idea di base è stata quella di voler riunire le conoscenze individuali che il restauratore, in quanto esperto, è in grado di accumulare su determinate opere e sul modo di lavorare di determinati fotografi, insieme a quelle acquisite anche dai collezionisti, dai mercanti, dai curatori delle collezioni, dai galleristi, dagli studenti in via di specializzazione, e di renderle disponibili on-line. La gestione del sito ruota intorno alla GEH, in quanto, disponendo il museo di una ricchissima collezione e accogliendo prestigiosi laboratori di restauro, si adatta in maniera particolare alla realizzazione di questo importante progetto.
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