Conservazione
Conservazione e restauro
"Restaurare significa conservare. Si restaura tutto ciò che non è stato conservato e protetto". Con questa affermazione, alla fine del 20° sec., G. Urbani, allora direttore dell'Istituto centrale del restauro (ICR), lasciava intendere che i migliori restauri fossero quelli mai eseguiti ed esprimeva l'esigenza e l'auspicio che l'attività di prevenzione, da lui stesso definita conservazione programmata, potesse diventare prassi generalizzata in modo da non essere costretti a ricorrere, presto o tardi, al restauro, termine, in questo caso, usato volutamente nella sua accezione deteriore (e comunemente più diffusa), di indebito ripristino formale a scapito del rispetto dell'autenticità.
Il concetto stesso di restauro è comunque ambiguo se lo si intende come un atto eminentemente critico, ossia come un cauto intervento sulla materia dell'antica testimonianza, storica o artistica che sia, volto a mantenerla e a tramandarla nella sua integrità d'oggetto che non deve necessariamente né essere riportato allo stato originale, né apparire falsamente nuovo, oppure come sinonimo di 'ripristino' ossia, letteralmente, di 'restituzione in pristino' quindi in uno stato originario che dovrebbe ottenersi reintegrando nel manufatto artistico le parti danneggiate attraverso un processo 'creativo' più che critico. Nell'operazione di restauro si dovrebbe quindi guardare alle esigenze di autenticità documentaria, preservando rigorosamente i valori storici, come anche alle necessità puramente estetiche, finalizzate alla reintegrazione di una menomata espressione artistica: o meglio, usando le parole di C. Brandi, decidere se privilegiare 'l'istanza della storicità' o 'l'istanza estetica', intese però in una dialettica interazione e non irrimediabilmente contrapposte tra loro. Delle due posizioni la prima può apparire, nell'immediato, più accettabile, perché legata a un rigoroso rispetto dell'antico e ancorata alla stabilità dei dati storici e documentari, mentre la seconda finisce per dipendere troppo da soggettivi e mutevoli aspetti formali e artistici. La crisi di qualsiasi sistema di valori, anche sotto l'aspetto estetico, dell'ultimo scorcio del 20° e degli inizi del 21° sec., ha fatto sì che la distinzione (sulla base di una più o meno rilevante qualità artistica dell'oggetto) fra capolavori e produzione minore, fra 'emergenze' architettoniche, dette non sempre propriamente monumenti, e tessuto edilizio urbano, insomma fra arte e ciò che arte non è, divenisse in realtà uno degli aspetti più nefasti per i beni culturali nel loro complesso. Nonostante ciò, non è negando il riconoscimento dell'opera d'arte che il problema può essere risolto e neppure contestando il diritto di intervenire non solo per conservare fisicamente ma anche per restituire leggibilità e vera fruibilità a una mutila immagine artistica. Se il ripristino di 'fantasia' (la più grave eresia del restauro) e quello 'analogico' in stile, di tipo ottocentesco, sono oggi, almeno teoricamente, fuori discussione, non è detto che per un eccesso di prudenza nei riguardi di ogni intervento moderno che abbia rilevanza visiva, si debba escludere dal restauro qualunque interesse per l'immagine in quanto tale, quindi ogni impegno 'creativo' (ossia interpretativo) criticamente fondato. Pertanto, in ragione della doppia polarità, storica ed estetica, che caratterizza l'oggetto del restauro, si tratterà in primo luogo di agire in modo che, nel caso sorga un contrasto tra le due (come, per es., nel caso in cui si debba scegliere se rimuovere o meno ridipinture o integrazioni architettoniche), si possa definire volta per volta quale far prevalere e in un secondo tempo di stabilire le linee dell'intervento, senza affidare troppe deleghe a 'specialismi' estrinseci e parziali, ma conservando chiaro il compito di coordinamento come anche di proposta e di scelta, a chi, persona o gruppo di lavoro, abbia specifiche competenze storico-critiche e, nel caso dell'architettura, storico-progettuali.
Conservazione: breve excursus
Se, come ha notato L. Benevolo, conservare non può significare astenersi dall'intervenire (perché ciò accelererebbe la perdita dell'opera), quanto piuttosto intervenire in maniera mirata, si dovrà tenere presente che l'approccio non può che essere quello del restauro, anche nel caso della più modesta opera di manutenzione come la semplice stesura di uno strato di intonaco.
Il restauro, secondo la sistematizzazione concettuale e lessicale scritta nell'art. 4 della Carta del restauro del 1972, sarà da concepire quale intervento, eventualmente anche di modifica, non a fini d'indebito abbellimento ma di difesa, di c. dell'opera e di facilitazione della lettura, attuato nella sintesi dialettica delle due fondamentali istanze; la c., invece, quale opera di prevenzione, condotta 'prima sull'ambiente e poi sulle cose', di controllo e di costante manutenzione. Ed è proprio Urbani che, nella prima metà degli anni Settanta, fece lo sforzo più lucido e coerente per porre le basi di una 'scienza della c.', che non si collocava in antitesi o in contrasto con la più moderna teoria e prassi del restauro, da lui stesso appresa e praticata all'ICR, perché si poneva su di un piano diverso, quello della strumentazione metodologica e della tecnica innovativa che sarebbero state in grado di garantire un'efficace politica di salvaguardia del patrimonio culturale nazionale. La 'conservazione programmata', di cui egli fornisce nel Piano pilota per la conservazione programmata dei Beni culturali in Umbria (1976) un esempio di fattibilità, configura infatti un metodo di gestione del patrimonio culturale attraverso la salvaguardia materica; si occupa pertanto di classi omogenee di materiali, il cui studio non può che essere fondato sui metodi tipici delle scienze naturali, che così vengono ad assumere un ruolo preponderante rispetto alla funzione 'sussidiaria' da sempre svolta nell'ambito del restauro tradizionale. In questa accezione la c. diventa in qualche modo propedeutica al restauro o, meglio, rivolta com'è alla generalità dei beni culturali presenti in una data area storico-geografica, ingloba il restauro, senza però poterlo omologare o surrogare.
Nella sequenza ciclica immaginata da Urbani, schematizzabile nei termini di 'prevenzione - interventi conservativi diretti su un manufatto o su un insieme di manufatti - controllo ed eventuale manutenzione', ovvero un nuovo concetto di prevenzione, il restauro inteso nel suo significato più specifico è considerato un'eventualità eccezionale all'interno dell'intervento diretto sul manufatto artistico, pur mantenendo intatto il suo ruolo di strumento insostituibile per una più approfondita conoscenza ed esperienza della realtà, e non solo nella sua dimensione storica. L'esigenza di limitare il ricorso al restauro solo a casi eccezionali derivava anche, in lui, dalla convinzione che le conoscenze dei materiali costitutivi dei manufatti, dei fenomeni di degrado e, di conseguenza e a maggior ragione, dei metodi di intervento, fossero nel complesso ampiamente inadeguate in quanto fondate su informazioni ed esperienze empiriche e dalla ben poco attendibile scientificità. Ragione in più, secondo Urbani, per concentrare l'attenzione sulla prevenzione, quindi su tutte quelle attività che tendono a preservare il manufatto dal naturale degrado dovuto al passare del tempo o quantomeno a rallentare i tempi del suo inevitabile deterioramento. Senza contare che l'attività preventiva, per essere efficace, va effettuata su larga scala e pertanto non è investita dal problema della selettività, che invece si pone quando è in gioco il restauro (una riduzione del tasso di inquinamento intorno alla Cappella Scrovegni a Padova non avvantaggerebbe solo il ciclo pittorico di Giotto ma tutti gli altri manufatti, e non solo quelli antichi, presenti nell'area).
Del resto, sulla maggiore rilevanza etica della c. era ritornato frequentemente Brandi. Non è un caso, infatti, che la sua Teoria del restauro (1972) si chiuda con il capitoletto dedicato al restauro preventivo: "anche più imperativo, se non più necessario, di quello di estrema urgenza, perché volto proprio ad impedire quest'ultimo, il quale difficilmente potrà realizzarsi con un salvataggio completo dell'opera d'arte" (p. 56). Questa concezione della c. come dovere primario di ogni società civile e del ruolo fondamentale giocato al suo interno dalla prevenzione ha, nel nostro Paese, radici antiche e, a tal proposito, basta citare due importanti pubblicazioni: il Piano pratico per la general custodia delle pubbliche pitture di P. Edwards del 1785, e Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti d'arte e sulla riforma dell'insegnamento accademico di G.B. Cavalcaselle del 1863. Un nuovo impulso alla ricerca venne poi dato agli inizi degli anni Settanta del Novecento, quando divenne convinzione diffusa che il patrimonio artistico venisse esposto a seri rischi, soprattutto a causa dell'inquinamento atmosferico che proprio in quegli anni di boom economico aveva raggiunto dimensioni macroscopiche. Di fronte all'urgenza di mettere a punto strumenti adeguati a contrastare un fenomeno sostanzialmente senza precedenti, tutte le altre esigenze non potevano che passare in secondo piano e, d'altra parte, proprio per le sue caratteristiche particolari, si era imposta subito la convinzione che solo la scienza avrebbe potuto far vincere una battaglia così difficile mediante la messa a punto di nuove metodologie di indagine, prodotti industriali all'avanguardia e innovativi procedimenti tecnologici.
La focalizzazione sugli aspetti più strettamente fisico-materici dei manufatti costituenti il nostro patrimonio storico-artistico era in stretta relazione con un altro fenomeno caratteristico di quel periodo, ossia l'affermarsi di una visione antropologica dei segni dell'attività umana, con la conseguente sostituzione del concetto onnicomprensivo di bene culturale a quelli tradizionali più specifici di opera d'arte, monumento storico, oggetto d'antichità e d'arte ecc. Non a caso proprio in quegli anni al posto della Direzione generale antichità e belle arti venne creato il Ministero per i Beni culturali e ambientali (1974), il cui ambito di competenza andava ben oltre le categorie di oggetti prima citate dato che comprendeva tutti i segni e le tracce documentarie anche quelle prive di consistenza fisica (i cosiddetti beni immateriali), per la tutela dei quali sarebbe stata necessaria e sufficiente la sola conservazione. Quando però studiosi come M. Calvesi, M. Gregori, A. Conti contrapposero la pura c. o la c. integrale al restauro, la loro posizione rispecchiò soprattutto una situazione di disagio di fronte a dubbie metodologie man mano che andavano crescendo le dimensioni degli interventi, in seguito alla crisi dell'attività edilizia e al conseguente spostamento di interessi verso l'attività di recupero del tessuto edilizio storico, ivi comprese le emergenze monumentali e artistiche. Ciò spiega perché i loro punti di riferimento fossero costituiti soprattutto da strenui difensori del diritto delle opere a non essere alterate nei loro valori formali oltre che materici, quali M. Dvořak e R. Longhi, nonché da quella sensibilità storica che, reclamando il rispetto dell'opera nella sua totalità e, quindi, anche nei suoi più minuti valori documentari, faceva dire a G.C. Argan che, nel campo dell'arte, 'tutto significa', 'tutto è artistico', anche le materie, le tecniche, i supporti, gli schemi tipologici o iconici, perfino lo stato di conservazione.
È interessante notare come a conclusioni almeno formalmente analoghe approdi, pur muovendo da posizioni diametralmente opposte, C. Chirici: dalla negazione della possibilità di concettualizzare il restauro in quanto attività per sua natura selettiva, e quindi costretta a trovare la propria giustificazione nel concetto di valore, ossia su uno dei concetti di cui la filosofia della crisi, cui l'autore si rifà, ha da tempo dimostrato la non validità, contrariamente alle certezze del vecchio storicismo ottocentesco; all'affermazione che l'unica realtà conoscibile è rappresentata dalla materia formata dall'artista ma pervenuta a noi come traccia di un passato che non è possibile conoscere; alla conclusione che l'unica forma di interesse nei confronti di questo immenso universo che sono i beni culturali sia la c. generalizzata, con il conseguente riconoscimento della totale inutilità della competenza storica nell'attività di c., alla quale riuscirebbero utili di conseguenza solo le competenze del restauratore e degli specialisti in discipline scientifiche, necessarie alla definizione dello stato di c. della materia e alla conseguente messa a punto e poi in opera degli interventi conservativi più idonei. Posizioni simili si ispirano, anche se in forma meno estrema, alla tradizione ruskiniana dei 'conservazionisti puri'.
Rispetto al 'restauro critico' e, a maggior ragione, al restauro in quanto 'critica in atto', il punto qualificante e distintivo della pura c. sta nella drastica scissione fra scelte operative e giudizio di valore: non si accetta più che l'intervento sia guidato da una concomitante valutazione storica, com'è avvenuto di norma nell'Ottocento e per gran parte del Novecento, quasi senza eccezioni. Esso è il portato degli sviluppi d'una più moderna riflessione storiografica e delle successive aperture, in materia, anche ai temi della valutazione economica, funzionale e sociale dei beni culturali. Vero è anche, per i fautori di questa tesi, che la coscienza della 'paradossalità' dell'assunto della c. integrale porta comunque ad ammettere, per il solo fatto che ogni intervento modifica inevitabilmente la realtà, anche nei restauri più rigorosi, momenti progettuali, dunque 'creativi' e induce inoltre a non escludere a priori controllate trasformazioni. Queste, tuttavia, dovranno essere minimizzate e subordinate a valutazioni che non provengono da premesse ideologiche e soggettive (estetiche e storico-critiche o di presunto minor interesse testimoniale), ma da ragioni considerate più oggettive, come quelle fisico-chimiche, relative, per es., a un irrecuperabile stato di degrado della materia originale o quelle legate a moderne 'esigenze vitali'. Con la tal cosa sembra che l'intera questione si rimetta in movimento per proporre nuovamente, come nella tradizione storica del restauro e della sua versione 'critica' in specie, criteri di giudizio e di scelta, meno ideologici forse, ma non per questo necessariamente più appropriati alle ragioni di fondo della tutela. Sembra quindi che non il 'giudizio' critico in sé sia in crisi, ma solo la formulazione filosofica o estetica (non quella empirica) di tale facoltà tanto che, in effetti, a tutt'oggi si è ben lontani dal negare la possibilità e liceità di riconoscere, in manufatti diversi, differenze qualitative. Insomma, non vi è storia senza critica e viceversa. Si potrebbe anche obiettare, in accordo con il pensiero di R. Pane, che per conservare bisogna comunque restaurare, esponendo al rischio l'opera che altrimenti sarebbe votata alla distruzione. Si torna quindi al problema del restauro visto nella sua doppia polarità storico-estetica e critico-creativa. Il dilemma fondamentale, c. o intervento, storicità o esteticità del restauro, resta comunque sempre presente e non basta per risolverlo negare uno dei termini, agendo, da un lato, da disinvolti innovatori e dall'altro da accaniti conservatori; esso può e deve essere affrontato ogni volta con un atto e una scelta critica che, in quanto tale, è soggettiva, ma non per questo infondata o arbitraria.
Bisogna, infine, accennare almeno al fatto che un oggettivo, per quanto involontario, contributo a una contrapposizione per tanti versi artificiosa tra c. e restauro è stato dato dagli organismi che a livello internazionale si interessano di salvaguardia del patrimonio culturale (Cultural Heritage). Essi, facendo uso di una terminologia anglofona, nell'ambito della quale è stato dato, da tempo, l'ostracismo al termine restoration nel significato ormai consolidato di ripristino o, addirittura, ricreazione, si sono visti obbligati a utilizzare soltanto l'abbinamento conservation-preservation sul quale erano stati riversati i contenuti concettuali di restauro-conservazione-prevenzione, enfatizzando nel primo termine il dato di rispetto per l'esistente, sia sotto forma di cura rigorosa di quanto di autenticamente originario è pervenuto fino a noi, sia come rifiuto di inserimenti incongrui o falsificanti, e accentuando nel secondo l'aspetto della prevenzione in quanto forma ottimale di conservazione. Nella stessa direzione, del resto, si doveva andare per rispondere positivamente alle esigenze poste da culture diverse da quella europea o discendenti da essa, rispetto alle quali è la stessa nozione di restauro, alla quale noi ci riferiamo, che appare inadeguata o addirittura estranea: si tratti dell'amuleto il cui significato deve restare nascosto perché rispondente a pratiche tradizionali di magia o dell'artigiano che diventa oggetto di tutela in quanto 'bene culturale vivente'. Il bene culturale immateriale tocca peraltro categorie sempre più numerose di beni anche in ambito europeo e occidentale, nelle quali si concretizzano molte espressioni estetiche della fine del 20° sec. e per le quali sarebbe improponibile qualcosa di diverso dalla pura e semplice prevenzione del degrado (eat art, land art ecc.).
Conservazione e tutela
Se si affronta il problema del rapporto c.-restauro sotto l'aspetto della politica di tutela e delle relative forme giuridico-amministrative, la contrapposizione apparirà impropria dato che si è in presenza di livelli diversi: organizzativo nel caso della c., metodologico nel caso del restauro. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) dedica l'art. 29 alla c., a proposito della quale il 1° comma recita: "La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro", termini definiti nei commi successivi. L'azione di tutela del patrimonio culturale, dunque, ha per fine primario la sua c. e si sviluppa attraverso il restauro definito al 4° comma: "intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all'integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali". Il restauro, avvalendosi delle conoscenze e delle tecniche appropriate, permette l'individuazione e lo studio storico-critico del patrimonio stesso e la sua integrazione nel quadro della vita culturale, sociale ed economica dell'umanità. La c. va quindi intesa come un fine sociale (così come la sanità, la giustizia, l'istruzione ecc.), il cui scopo principale è quello di assicurare l'intangibilità e la durata del patrimonio culturale, curando il suo idoneo adeguamento ai bisogni e alle attese della società, attraverso un insieme di misure legislative, finanziarie, fiscali, educative e così via. La c. richiede, in alcuni casi, provvedimenti di prevenzione (salvaguardia o c. programmata) che non implicano necessariamente l'intervento diretto sul bene e, in altri casi, provvedimenti di manutenzione e di restauro con interventi diretti sulle opere.
Il restauro, a sua volta, fermo restando il suo fondamento storico-critico, va inteso come l'insieme degli strumenti concettuali e operativi, ovvero, più nello specifico, come il mezzo tecnico d'intervento volto a mantenere in efficienza e a trasmettere integralmente al futuro il suddetto patrimonio. A questo proposito è il caso di ricordare che già la Carta di Venezia (1964), all'art. 9, spiega che lo scopo del restauro è quello di: "conservare e di rivelare i valori formali e storici del monumento e si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche". Successivamente la Carta del restauro (1972) del Ministero della Pubblica istruzione all'art. 4 precisa che: "s'intende per restauro qualsiasi intervento volto a mantenere in efficienza, a facilitare la lettura e a trasmettere integralmente al futuro le opere e gli oggetti d'interesse artistico, storico, paesistico e ambientale". Per conseguire tale fine s'impone, innanzi tutto, come realtà non qualitativamente distinta dal restauro, la manutenzione, intesa quale complesso di operazioni che si devono eseguire periodicamente e con continuità. È infatti da attribuirsi la massima importanza alle cure assidue di prevenzione, manutenzione, oltre che alle opere di consolidamento, volte a restituire al manufatto la perduta o menomata resistenza e durabilità. Anche gli interventi di consolidamento, infatti, non possono ritenersi autonomi dal restauro vero e proprio ma devono considerarsi inerenti al suo ambito teorico e tecnico; pertanto devono inquadrarsi, coerentemente, nel progetto generale.
Una speciale attenzione, sotto l'aspetto della tutela, meritano le questioni urbanistiche e quelle attinenti al paesaggio e ai siti storici, anche d'interesse archeologico. Ciò nel richiamo alle proposizioni, espresse in sede europea, della 'c. integrata' (Carta europea del patrimonio architettonico, Amsterdam 1975) e all'esigenza di un più ampio riconoscimento di tale genere di beni, premessa a ogni speranza di futura salvaguardia; riconoscimento che, in termini urbanistici, comporta doveri inderogabili di educazione alla c. e di attiva partecipazione di quella parte di opinione pubblica sensibile al problema, considerando il fatto che, certamente, non può ritenersi sufficiente né l'impegno di pochi specialisti, né quello delle sole istituzioni. È questo il campo in cui si giocherà anche il futuro dei singoli beni architettonici, la grande scala della programmazione e pianificazione urbanistica e territoriale. Se quella per la tutela resterà una battaglia minoritaria, pur se sostenuta dalle migliori ragioni, non potrà che finire con una sconfitta. Si dovrebbe puntare a un coordinamento di programmi, forze e finanziamenti, che consenta le opportune sinergie; ne deriverebbe, con tutta probabilità, sulla scia di qualche buon esempio fornito dalle autorità direttamente competenti, anche l'innesco di processi locali di buona autoconservazione, auspicabilmente promossi da parte privata. Ai beni 'materiali' storico-artistici vanno accostati altri di natura 'immateriale' ai quali, in certi casi, si fa riferimento, per es., in campo archeologico o in merito a questioni di tutela dell'ambiente (restauro ambientale). Anche in questo caso, secondo alcuni, esclusi i beni naturali che competono piuttosto alle scienze naturali, si definirebbe come ambiente tutto il non-costruito antropizzato, anch'esso da sottoporre a c. attraverso l'utilizzo di metodologia non dissimile da quella del consueto restauro e che quindi prevede la ricerca storica, lo studio delle modalità di degrado, la definizione dei tipi d'intervento, le delimitazione delle possibili innovazioni, la gestione e la manutenzione, ma con un più ricco e complesso apporto di competenze specialistiche. Eppure in tal senso, insistendo sull'aspetto antropico delle trasformazioni indotte, più che d'ambiente si dovrebbe parlare di territorio e di 'restauro territoriale', con maggiori analogie rispetto al 'restauro urbano'. Questo genere di definizioni è comunque pur sempre ambiguo perché, a mano a mano che ci si allontana dalla tipologia dell'oggetto (artigianale, artistico, architettonico) verso realtà più complesse ed estese, il restauro sembra perdere le sue specifiche connotazioni, anche tecniche, per risolversi in qualcosa di diverso, venendo a rappresentare le ragioni della c. in un cammino progettuale volto ad altri interessi (riequilibrio territoriale, reti e infrastrutture di servizio e trasporto, economia del territorio, sfruttamento del sottosuolo ecc.). Per questo, mutando la scala di riferimento, il restauro più correttamente, da sostantivo tenderà a porsi come aggettivo di elaborazioni di natura strutturalmente diversa; sarà preferibile, quindi, non tanto parlare di restauro del territorio o dell'ambiente, quanto piuttosto di aspetti conservativi della pianificazione territoriale e via dicendo.
Sul medesimo versante urbanistico del problema, infine, è da rilevare la crescente attenzione alle grandi periferie urbane, nelle quali si riscontrano, ora, valenze estetiche e culturali fino a qualche tempo fa impensabili: espressioni di una 'cultura di massa' marginale (come certe formulazioni pop art) e insieme vitale; immagini di una città de-costruita e caoticamente creativa sino a oggi espunte da ogni riferimento alla tutela ma che fanno indiscutibilmente parte del nostro tempo.
Intorno alla conservazione: precisazioni
Per completezza va, infine, sgombrato il campo da possibili equivoci, definendo con chiarezza che cosa di certo non è c. nel significato più proprio del termine. Non il semplice 'ripristino', il 'risarcimento' di una struttura, la 'riparazione' funzionale di un oggetto, il 'rifacimento' più o meno integrale di un manufatto; non lo è neanche il cosiddetto riuso, con i suoi derivati e analoghi, quali la 'rivitalizzazione', il recycling, il 'recupero', tanto in auge oggi in campo architettonico e, ancor di più, in quello normativo e urbanistico. Il riuso, infatti, è lo strumento atto ad assicurare la sopravvivenza di un manufatto storico e volgerlo, se possibile, a scopi sociali, ma non è il fine primario né può pretendere di risolvere in sé l'intera problematica del restauro. Il recupero riguarda, indifferentemente, sempre per motivazioni pratiche e in primo luogo economiche, tutte le preesistenze maltenute o sottoutilizzate, ma non coltiva per sua natura l'interesse conservativo e le motivazioni scientifico-culturali del restauro. Se si colloca il problema della destinazione d'uso nella sua giusta prospettiva, interna alla disciplina stessa del restauro, si dovrà parlare non di un qualsiasi 'riuso' ma solo di quello compatibile con le vocazioni che il monumento, indagato con intelligenza storica, saprà rivelare. Non necessariamente dell'uso originale (anche se questo sarà pur sempre preferibile, quando sia possibile conservarlo o riproporlo), ma d'un uso corretto e rispettoso della realtà materiale e spirituale del monumento. La 'valorizzazione' di cui spesso si parla, anche in maniera impropria, vale a dire in termini consumistici di beni, per definizione, preziosi, unici e irripetibili, andrà intesa invece nel suo giusto senso conservativo, rispettoso della sostanza materiale e figurale del manufatto. Non a caso, nella dizione di recupero, il senso letterale è quello di 'ritornare in possesso', 'riavere', ancor meglio 'riscattare' un oggetto perduto o trafugato; da qui alla concezione della tutela e del riuso come 'riappropriazione' dei beni culturali, con i prevedibili esiti strumentali e consumistici, il passo è breve. È stato inoltre notato che il recupero 'tecnologico' privilegia le categorie del comfort, della funzione, della durevolezza, così da poter reintrodurre il bene nel circuito del mercato.
La proposta critico-conservativa
Si è già detto come, negli anni Settanta, si sia definitivamente consolidato il concetto di bene culturale tanto da inserirlo nella denominazione del nuovo ministero. Ma anche all'interno delle tradizionali classi di manufatti si è registrata una estensione di interesse fino a comprendere anche le testimonianze più modeste. Le conseguenze pratiche di questo fenomeno sono l'ampliarsi dell'attenzione conservativa e di restauro a una quantità di beni molto più vasta di quanto potesse concepirsi anche solo settant'anni fa, quando vennero promulgate le due fondamentali leggi di tutela vigenti fino a pochi anni or sono: le leggi nr. 1089 e 1497 del 1939. Ciò ha richiesto, a livello operativo, una qualche sollecitazione del concetto di restauro in direzione della c. intesa come prevalente attività di salvaguardia della 'materia' dell'opera e la conseguente elaborazione di una linea critico-conservativa che assumesse un ruolo tendenzialmente aperto a conservare al massimo sia riguardo ai beni da salvaguardare sia alle loro stratificazioni storiche, nel rispetto dei segni del tempo trascorso. Tuttavia, non per questo va esclusa alla radice la dialettica delle due istanze. Così facendo si andrebbe incontro a gravi incongruenze e si toglierebbe al restauro e alla c. un'arma di giudizio e d'orientamento formidabile, lasciando il campo ad altre meno valide e proprie forme di selezione (le ragioni tecniche lasciate a sé, quelle economiche, quelle pratiche e d'uso, quelle politico-rappresentative ecc.). Il fondamento critico del restauro e la sua interna dialettica restano pertanto pienamente validi e, di conseguenza, hanno il diritto di essere conservate, proprio per avere subito, nel linguaggio scientifico italiano e più generalmente neolatino, un processo di rinnovamento semantico e di aggiornamento dei contenuti, sia la dizione di restauro sia quella, conseguente, di restauro dei monumenti e delle opere d'arte.
bibliografia
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