consiglieri di frode
. Con questa denominazione è invalso l'uso di designare i peccatori puniti nell'ottava bolgia del cerchio ottavo dell'Inferno. Ma D., diversamente dagli altri luoghi della prima cantica, non dà esplicitamente un nome al peccato punito nell'ottava bolgia, e solo appiglio all'epiteto di consiglieri di frode potrebbe essere il passo (If XXVII 116) in cui il nero cherubino che sottrae a s. Francesco l'anima di Guido da Montefeltro dichiara che il peccato di Guido consistette nel consiglio frodolente dato a Bonifazio VIII: appiglio tuttavia di debole consistenza e smentito da troppi altri elementi dei canti XXVI e XXVII dell'Inferno. Lo stesso demonio loico venuto a prendersi l'anima del Montefeltrano spiega infatti che questi sbagliò fidandosi della promessa del papa, credendo cioè all'efficacia di un'assoluzione concessa prima del peccato e del necessario pentimento: argomento che, mentre condanna il pontefice corrotto e corruttore, dimostra che neppure l'astuzia più fina può sottrarsi alle leggi della giustizia e della ragione. Se Guido non vide, come pur avrebbe potuto vedere mercé la semplice applicazione della logica, l'insidia chiusa nella promessa di Bonifazio VIII, ciò sta a provare non la perfidia della frode, ma i limiti propri anche della più smaliziata intelligenza quando è messa alla prova di una verità d'ordine morale e religioso. D'altra parte Virgilio (If XXVI 55-63) indica quali colpe di Ulisse e Diomede alcuni espedienti per mezzo dei quali i due eroi aiutarono le sorti dei Greci nella guerra di Troia. Essi sono dunque dei guerrieri che hanno ottenuto il successo, più che ricorrendo alla forza delle armi, valendosi di un'intelligenza superiore, non diversamente da Guido da Montefeltro, se questi può dire delle sue azioni che non furon leonine, ma di volpe (If XXVII 75). Giustamente osservava il D'Ovidio che i due soli personaggi messi in rilievo nell'ottava bolgia sono uomini d'arme resisi famosi per l'astuzia, e che la loro colpa, come quella di tutti i peccatori della stessa bolgia, consiste nell'abuso del nobile dono dell'intelletto acuto e sottile. Perciò D., quando si dispiega ai suoi occhi lo spettacolo delle fiammelle vaganti sul fondo, può essere preso da un particolare sentimento di smarrimento ed esprimere il proponimento di guardarsi egli stesso, divenuto nell'esilio uomo di corte e consigliere, di non abusare dell'intelligenza superiore che ha avuto in dono dal cielo (If XXVI 19-24).
Ciò non toglie che egli pensasse a una colpa che rientra nella categoria generale della frode; ma è pur vero che in quel degradarsi dell'umano che ha luogo in Malebolge il poeta non ha esitato a presentare Ulisse come uno " dei prototipi dell'umanità pagana ", dimenticando il peccato per il quale lo ha collocato in Malebolge, e anzi ha fatto di lui " quasi il simbolo per eccellenza di quel che di più nobile è nell'umanità pagana o più generalmente nell'umanità ignara della rivelazione " (Fubini). Meno alta è la statura morale di Guido da Montefeltro. Se già il modo nel quale la sua voce esce dalla fiamma che lo avvolge è indizio di una sofferenza che è ben altra cosa dall'assorta solennità con la quale ha inizio il racconto dell'eroe greco, tutto il discorso di Guido sta poi a significare che dal mondo degli eroi si è passati a quello degli uomini, e dalla grandezza di un'impresa collocata in un tempo leggendario alla realtà della cronaca contemporanea. Ma, salva la differenza di livello poetico dei canti XXVI e XXVII, neppure la figura di Guido da Montefeltro fa pensare all'umanità degradata dei frodolenti, e non sembrano accettabili le proposte d'interpreti che vedono inserirsi in alcuni particolari del canto XXVII uno spirito comico. Anzi il lettore non può dimenticare il passo di Cv IV XXVIII 18, nel quale del nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano è lodata la decisione di calare le vele de le mondane operazioni e di rendersi a vita religiosa una volta giunto alla vecchiezza, con parole che assai simili suonano anche in If XXVII 79-84.
Bibl. - F. D'Ovidio, Guido da Montefeltro, in Studi sulla D. C., I, Caserta 1931; M. Fubini, in Due studi danteschi, Firenze 1951, 5-53; E. Bonora, Il canto XXVII dell'Inferno, ibid. 1962.