Abstract
Con l’editto di Racconigi (18.8.1831) Carlo Alberto istituisce nel Regno di Sardegna un Consiglio di Stato alle dirette dipendenze del sovrano. Nel 1859 una prima riforma attribuisce al Consiglio di Stato, oltre alle originarie funzioni consultive, quelle giurisdizionali e un presidente proprio. Con l. 20.3.1865, n. 2248, All. D viene cancellato dall’ordinamento il giudice speciale. Muta anche l’estrazione dei consiglieri: la provenienza aristocratica e cetuale lascia luogo a una componente burocratica e borghese. La l. 31.3.1877, n. 3761, attribuisce la risoluzione dei conflitti non più al Consiglio di Stato ma alla Corte di Cassazione di Roma. Con la l. 2.6.1889, n. 6177 al Consiglio di Stato si attribuisce la funzione giurisdizionale (attraverso la nuova Sezione IV) in relazione agli interessi legittimi. La riforma è completata con l. 7.3.1907, n. 62 (V Sezione giurisdizionale). Dopo la guerra mondiale, la riforma fascista del ministro De Stefani (1923-24) ne fa il dominus incontrastato, specie della materia del pubblico impiego (presidente è dal 1928 al 1943 il giurista Santi Romano). Nel dopoguerra, uscito pressoché indenne anche dall’epurazione antifascista, il Consiglio, grazie specialmente a Meuccio Ruini, viene “costituzionalizzato” (artt. 100 e 103 Cost.). Nel 1971 la l. 6 dicembre di quell’anno, n. 1034, istituisce i TAR (tribunali amministrativi regionali), assumendo il Consiglio la funzione di giudice d’appello. Dal d.lgs. n. 29/1993 (cosiddetta “privatizzazione”) deriva la perdita per il Consiglio di Stato della giurisdizione esclusiva sull’impiego pubblico, anche se nuove norme ne estendono la competenza in altre direzioni. In definitiva, in 150 anni, il Consiglio di Stato continua a dimostrare la sua capacità di cambiare, modificando funzioni e culture interne a seconda dei mutamenti storici.
«Ci siamo determinati di riunire intorno a Noi un certo numero di persone di palese merito, devote al Nostro trono, dedite ad abituali studi sulle scienze politiche, commendevoli per lunghi e importanti servigi e cognite per l'amor loro al pubblico bene. Noi vogliamo perciò essere costantemente assistiti da essi, e profittare dei lumi loro, e della loro esperienza».
Così nel preambolo al regio editto 18 agosto 1831 (editto di Racconigi), con il quale il re di Sardegna Carlo Alberto istituiva, «ne' regii Stati di terraferma», il Consiglio di Stato. Il nuovo istituto, senza apparente soluzione di continuità, avrebbe proseguito trent'anni dopo nel nuovo contesto istituzionale del Regno d'Italia ma allontanandosi di molto dall'ispirazione da cui aveva tratto origine (Melis, G., Il Consiglio di Stato, in Storia d'Italia. Annali. 14. Legge, diritto, giustizia, a cura di L. Violante, in coll. con L. Minervini, Torino, 1998, 8212 ss.; molto utile Pescatore, G., Il Consiglio di Stato: da Carlo Alberto ai problemi attuali, in Studi sul centociquantenario del Consiglio di Stato, vol. I, Roma, 1981, VII ss.).
Il modello del 1831, piuttosto che al precedente “alto” del Conseil d'Etat napoleonico (pure largamente presente nell'esperienza degli Stati italiani prima del 1814), si conformava ai «diversi Consigli permanenti dello Stato» e ai «diversi Congressi temporarii, radunati a tempi non determinati», espressamente richiamati del resto nel preambolo dell'editto (Pene Vidari, G.S., Note sul primo anno di attività del Consiglio di Stato albertino, in Riv. stor. dir. it, LXII, 1989, 30): nulla – lo avrebbe autorevolmente notato nel 1931 Santi Romano – «che limitasse in senso giuridico i poteri assoluti del Re», sicché «il suo carattere politico non era e non poteva essere diverso né maggiore di quello che nelle monarchie non costituzionali hanno istituzioni del genere». Posto alle dirette dipendenze del sovrano, «e non dei suoi ministri» («è creato presso la nostra Persona un Consiglio di Stato», art. 1); dal Re in persona presieduto; messo, sì, in relazione coi ministri, che trasmettevano gli affari da discutersi e potevano intervenire alle adunanze dell'organo (art. 14) ma sempre su puntuale autorizzazione regia (art. 11). Insomma, un tipico consilium regis, in certo senso – notava acutamente Romano – «organo […] parallelo, coordinato ma non subordinato ai ministri». Se si vuole, una sorta di bilanciamento dello spazio politico di quelli (pur sempre, anch'essi, dipendenti per altro dalla benevolenza regia, da cui traevano l'autorità): «un mezzo con cui la Corona era posta in grado di esercitare un certo controllo e sindacato sui suoi ministri» (Romano, S., La funzione e i caratteri del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, vol. I, Roma, 1932, 1 ss., in part. 6-7).
La composizione del consesso confermava questa interpretazione. Il Consiglio era composto «di Consiglieri di Stato ordinarii e Consiglieri di Stato straordinarii, di un Segretario Capo e di Sotto Segretari» (art. 2) per un numero complessivo di quattordici, «non compresi i Presidenti» (art. 3), inclusi invece – tra gli straordinari – «ben quattro rappresentanti dei ceti privilegiati, ossia due cavalieri della S.S. Annunziata e due vescovi», con possibilità per il sovrano di aggiungere – «quando gli affari lo richiederanno» – «altri soggetti, li quali, sia per la loro personale dignità, sia per le loro cognizioni speciali, o per superiorità di talenti, Ci sembreranno meritare tutta la nostra confidenza» (art. 4). Previsto il giuramento dei consiglieri nelle mani del Re (art. 6). Espressamente richiamata l'incompatibilità con altri impieghi di Stati o incarichi (art. 7).
L'articolazione interna era prevista in tre sezioni, ratione materiae: Interno; Giustizia, Grazia e Affari ecclesiastici; Finanze. La prima di sei membri, le altre di quattro, compresi i presidenti (art. 8) («scelti da Noi – soggiungeva l'art. 9 – fra i personaggi i più autorevoli e i più distinti dello Stato»).
Punto cruciale era la funzione, espressamente delineata come consultiva e mai deliberativa (art. 20).
Oggetto dell'attività, l'esame delle leggi e dei regolamenti, le eventuali questioni di competenza insorgenti nell'amministrazione, i conflitti di giurisdizione giudiziaria o amministrativa, «le determinazioni generali che riguardano la conservazione del buon ordine, alle opere pie ed istituzioni di carità, alla salute pubblica, al perfezionamenti degli studi, e progresso delle scienze, all'agricoltura, all'industria ed al commercio», il bilancio dello Stato, le modifiche delle pubbliche imposte, le condizioni dei prestiti dello Stato ecc.
Un vastissimo campo di competenze, dunque, sino alla norma di chiusura del corposo art. 23 che le elencava: «Ed infine tutti gli altri affari non specificati di sopra, che Noi crederemo conveniente di fare dapprima esaminare dal Consiglio di Stato».
L'editto determinava anche le modalità pratiche dell'attività: ogni sezione avrebbe dovuto istruire le pratiche, sarebbe stato nominato per ogni affare un consigliere relatore (sia nella sezione che «avanti il Consiglio di Stato»), questi avrebbe dovuto esporre innanzitutto i fatti, e poi «mettere sott'occhio lo stato della legislazione, concernente la materia, determinare il punto della quistione, discuterla, e palesare il suo avviso».
Un organismo, insomma, con una propria vita interna, per quanto pur sempre sotto l'egida del Re che lo presiedeva; in forte rapporto con le singole amministrazioni, dalle quali in definitiva veniva alimentato attraverso la proposta degli affari sui quali deliberare. La competenza amministrativa sembrava prevalente. Il che giustificava la composizione di fatto, largamente orientata a valorizzare professionalità specifiche negli “affari di Stato”, con evidente superamento del criterio puramente aristocratico delle nomine tipico dell'Ancien Régime.
Come avrebbe ancora osservato Romano, la missione stessa del Consiglio avrebbe inoltre sin dall'inizio determinato una estensione di fatto delle sue competenze (Romano, S., La funzione e i caratteri, cit., 7). Con esclusione degli esteri, della guerra e della marina, non esisteva campo dell'attività pubblica sul quale il Consiglio non fosse chiamato a esprimere i suoi pareri. Ciò fece sì che il ruolo attivo del Consiglio del 1831, in una stagione che ben presto apparve (ed era) essenzialmente costituente, si rivelasse di fatto subito assai pronunciato: tutta l'opera di codificazione di Carlo Alberto molto si giovò della sua competenza, così come crebbe tacitamente il dualismo con l'amministrazione corrente, controparte più o meno esplicita della sua influenza.
Non per caso dunque, quando nel 1848 sopravvenne la promulgazione dello Statuto, l'art. 83 della Carta costituzionale riservò al Re, assieme al compito generico di predisporre alcune leggi (stampa, elezioni, milizia comunale), quello specifico del «riordinamento del Consiglio di Stato».
Si dovette tuttavia attendere oltre un decennio prima che il legislatore ponesse mano ad una ridefinizione generale dei compiti dell'istituto. Frattanto la riforma Cavour della finanza e dell'amministrazione, nel 1853, aveva modificato radicalmente il quadro di riferimento dei primi anni Trenta, sostituendo la pluralità di ministeri ed aziende con il monopolio dei soli ministeri, secondo il modello amministrativo belga-napoleonico, e accrescendo notevolmente il potere dei ministri sulla macchina amministrativa (il che incideva fortemente sul bilanciamento tra “assistenza consultiva” al Re esercitata dal Consiglio di Stato e “assistenza attiva”, garantita dai ministri).
Nel 1859 furono emanate, per iniziativa del governo Rattazzi, quattro leggi (30.10.1859, nn. 3705, 3706, 3707 e 30708) tutte volte a riordinare il contenzioso amministrativo. La riforma, per quanto strettamente conseguente allo Statuto, apparve subito ambiziosa: con la n. 3705 si sopprimeva la Camera dei conti (cui il precedente ordinamento affidava funzioni puntuali nella materia) devolvendo le sue attribuzioni quale giudice di appello del contenzioso amministrativo al Consiglio di Stato (e alla Corte dei conti invece, istituita con la legge n. 3706, l'appello in materia di contabilità e le attribuzioni non giurisdizionali); con la legge n. 3707 si riordinava il Consiglio di Stato, attribuendogli, in aggiunta a quelle consultive, funzioni giurisdizionali (precisamente alla Sezione III), e dunque, oltre alle funzioni di giudice di appello del contenzioso amministrativo sulle decisioni dei consigli di governo, quelle di giudice unico in materia di debito pubblico, di richiami relativi alla liquidazione delle pensioni a carico dello Stato, di miniere, cave e “usine”; con la legge 3708 si chiarivano «le varie ipotesi di conflitti positivi tra autorità giudiziarie e fra queste ultime e l'autorità amministrative; e di conflitti negativi fra tribunali ordinari e tribunali del contenzioso» (Barbagallo, G., La giurisdizione del Consiglio di Stato dalle origini al 1923, nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia. Le biografie dei magistrati (1861-1948), a cura di G. Melis, Milano, 2006, t. II, 2299 ss.).
La nuova legge mantenne l'architettura delle tre sezioni (ora però così distribuite: Affari interni e di finanza; Grazia, giustizia e affari ecclesiastici; Contenzioso) ma prevedeva adesso un presidente del Consiglio di Stato in luogo del sovrano, due presidenti di sezione, ventidue consiglieri più sei referendari (la figura, ausiliaria, esisteva già, ma adesso fu meglio delineata), un segretario generale e due segretari di sezione.
Sei anni dopo, però, una nuova riforma, quella inserita nell'ambito della delega conferita al governo con la legge per l'unificazione amministrativa (l. 20.3.1865, n. 2248, specificamente sul Consiglio di Stato l'Allegato D), intervenne ulteriormente sulla materia, in nome di una concezione liberale (si disse poi ultraliberale) secondo la quale doveva essere cancellato dall'ordinamento il giudice speciale e ripristinato il sistema delle garanzie giurisdizionali a favore del cittadino.
E tuttavia, accanto alle prevalenti attribuzioni consultive (artt. 7, 8 e 9), si indicavano anche le materie nelle quali il Consiglio di Stato esercitava la propria giurisdizione (art. 10), si delineavano le regole del giudizio e i poteri […] in sede giurisdizionale (artt. 25, 26 e 27) e l'ambito territoriale di applicazione della nuova normativa (art. 28).
Prevalenti – lo si è detto – le funzioni consultive, così come stabiliva l'art. 7 dell'allegato, secondo il quale il Consiglio di Stato:«1) dà il suo parere in tutti i casi nei quali il suo voto è prescritto dalla legge; 2) dà parere sopra le proposte di legge e sugli affari di ogni natura pei quali sia interrogato dai ministri del Re; 3) formola quei progetti di legge e i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo». Residuali però alcune specifiche funzioni giurisdizionali, pur essendo abolita dal successivo Allegato E la giurisdizione ordinaria del contenzioso amministrativo (Barbagallo, G., op. cit., 2307). In particolare l'istituto agiva ancora nelle vesti del giudice (art. 10, All. D): a) «sui conflitti che insorgono tra l'autorità amministrativa e la giudiziaria; b) sulle controversie fra lo Stato e i suoi creditori, riguardanti l'interpretazione dei contratti di prestito pubblico, delle leggi relative a tali prestiti e delle altre sul debito pubblico; c) sui sequestri di temporalità, sui provvedimenti concernenti le attribuzioni rispettive delle podestà civili ed ecclesiastiche, e sopra gli atti provvisionali di sicurezza generale relativi a questa materia; d) sulle altre materie che dalle leggi generali del regno sono deferite al Consiglio di Stato e sopra tutte le questioni che da leggi speciali non per anco abrogate nelle diverse province del regno fossero di competenza dei Consigli e delle Consulte di Stato».
La natura dell'attività del Consiglio di Stato, dopo la riforma del 1865, mutava comunque profondamente. Si riduceva drasticamente l'area dei poteri giurisdizionali, sebbene non tanto da scomparire totalmente; ma si rafforzava enormemente la “vocazione” consultiva e di collaborazione con il governo (non più, se non nominalmente, con il sovrano, che aveva già perso nel 1859 la presidenza dell'istituto).
Dal 1865 al 1889 (data della seconda, incisiva riforma del Consiglio di Stato: senza dimenticare quella del 1877, che ebbe pure – come si vedrà – un suo intrinseco valore) la composizione del corpo dei consiglieri mutò con una certa rapidità: da collegio prevalentemente di estrazione aristocratica e nella confidenza del sovrano (la legge istitutiva del 1831, non a caso, usava, nella versione in francese, il sostantivo confiance, il cui senso era più esteso della traduzione italiana, confidenza), il Consiglio di Stato assunse sempre più marcatamente i caratteri di un organo tecnico-giuridico preposto alla trattazione di affari dal contenuto fortemente specialistico.
Corrispose a quell'indirizzo anche la sua composizione. Tra l'ottobre 1859 e il dicembre 1874 il Consiglio fu ininterrottamente presieduto da una figura che potremmo definire di transizione tra i due modelli: Luigi Des Ambrois de Nevâche, nobile, giurista però (per formazione e per carriera), magistrato ma anche uomo di amministrazione attiva (era stato tra l'altro intendente di divisione), già ministro all'Interno, ai Lavori pubblici e all'Agricoltura, membro autorevole del consiglio di conferenza per la concessione dello Statuto («vero redattore dello Statuto», lo avrebbe definito nel 1907 Giolitti; si veda Bersani, C., Des Ambrois de Nevâche, Luigi Francesco, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia cit., vol. I, 1-13). Accanto a lui operò inizialmente un gruppo di consiglieri (almeno 10 sui 26 componenti il collegio) di estrazione aristocratica (senza conteggiare i titoli nobiliari per «servigi allo Stato»), dei quali 15 torinesi o delle province piemontesi, per lo più con alle spalle esperienze nella carriera giudiziaria.
Negli anni successivi, tuttavia, specie dopo il 1865, la composizione dell'istituto cambiò: emersero cioè, nelle nomine, i rappresentanti delle classi dirigenti borghesi e gli uomini nuovi di un'amministrazione via via meno legata ai modelli personalistici dello Stato patrimoniale. Tra di essi il marchese Tommaso Spinola, che sul finire del 1868 fu nominato presidente di sezione, milanese di origini ma genovese per carriera politica (deputato e poi sindaco del capoluogo ligure), uomo di banca e di finanza; o Massimo Martinelli, uno studioso molto noto di problemi amministrativi e finanziari; o Cristoforo Mameli, magistrato proveniente dalla Sardegna; o Giuseppe Pisanelli, Matteo Raeli, Antonio Ghivizzani ed altri. Dei 12 consiglieri che si succedettero nelle cariche di presidenti di sezione tra il 1865 e il 1889 solo tre appartennero alla vecchia tradizione aristocratico-dinastica del Piemonte. In quel Consiglio di Stato entrò, nel novembre 1868, anche Silvio Spaventa.
Anche le funzioni – come è frequente nella storia delle istituzioni – risentirono della prassi più di quanto si conformassero rigidamente ai dettati delle norme. Il Consiglio di Stato divenne, in breve, l'insostituibile suggeritore del governo su materie che spesso si rivelarono totalmente da definire, man mano che il legislatore liberale andava approfondendole. Il che comportò da subito un evidente «aggravio di affari», testimoniato da due indici. Il primo fu quello delle statistiche interne dell'attività: assumendo come anno campione il 1875 (l'anno dal quale sono disponibili statistiche più elaborate) si verifica come in quell'anno il Consiglio affrontasse in adunanza generale 101 affari giurisdizionali e 36 consultivi; e nelle sezioni 5851 affari per complessive 51 diverse materie. Appena due anni dopo, nel 1877, poco prima della riforma di quell'anno, gli affari complessivi sarebbero saliti a 7631, con una forte concentrazione nella sezione dell'Interno (3339). E da allora in poi la tendenza sarebbe stata alla crescita (Melis, G., Il Consiglio di Stato ai tempi di Silvio Spaventa, in Silvio Spaventa. Filosofia, diritto, politica. Atti del Convegno di Bergamo, 26-28 aprile 1990, Napoli, 1991, 163 ss.).
Interessante anche l'articolazione delle materie: al predominio iniziale di alcune voci come gli «affari relativi ai contratti», comprensivi di appalti, permute, cancellazioni di ipoteche; o come gli «acquisti da parte dei Comuni», fece riscontro gradualmente l'emergere di voci legate alle attività economiche e alle nuove legislazioni speciali degli anni Ottanta, come per esempio le «concessioni d'acque»; ed anche – specie dopo che nel 1879 furono ristabiliti i perimetri delle sezioni (R.d. 11.12.1879, n. 5184) – un riequilibrio interno del carico degli affari (dal 1880 la sezione dell'Interno perse la sua posizione di leader e fu superata da quella di Grazia e giustizia, nella quale erano confluiti però – e massicciamente – i lavori pubblici).
Fu in quel Consiglio di Stato che intervenne la “piccola” ma incisiva riforma del 1877, quando la legge n. 3761 del 31 marzo di quell'anno – accogliendo la tesi sostenuta da Mancini e, tra gli studiosi, da Mantellini – attribuì la risoluzione dei conflitti alla Corte di Cassazione di Roma a sezioni unite. Non fu una decisione senza conseguenze, se si considera che il Consiglio di Stato – stando ai dati di Mantellini – aveva pronunciato nel periodo 1865-1877 500 decisioni in materia di conflitti (Mantellini, M., I conflitti di attribuzione in Italia dopo la legge del 31 marzo 1877, Firenze, 1878, poi cit. in Salandra, A., La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1904, 414, n. 19).
Il quadro sin qui delineato mutò radicalmente dopo la legge 2.6.1889, n. 6166, la “legge sul Consiglio di Stato”. La riforma seguì un periodo di intense trasformazioni dell'intera amministrazione. La nuova legislazione degli anni Ottanta (sempre meno generale ed astratta, sempre più volta ad affrontare questioni specifiche del Paese in evoluzione), fitta com'era di prescrizioni regolamentari, dava all'amministrazione un potere di fatto, un'ingerenza e una discrezionalità nell'applicazione delle norme, che non aveva precedenti nei primi tre decenni dell'esperienza unitaria. Lo Stato, da “guardiano notturno” qual era stato concepito nel 1865, diveniva ora raccoglitore e organizzatore di dati, edificatore di opere pubbliche in relazione o talvolta in conflitto con interessi privati, tutore della salute pubblica con poteri cogenti di applicazione delle nuove norme, garante dell'ordine pubblico inteso però come esercizio di una funzione non solo repressiva ma preventiva, protettore dei cittadini. Cresceva la dimensione degli apparati pubblici, e insieme il fitto reticolo delle norme che ne fissavano le prerogative in settori un tempo ignoti all'iniziativa dell'autorità.
Fu la cultura (il mondo degli studi in primo luogo) ad avvertire l'insufficienza dell'assetto del 1865. E furono personalità eminenti come Silvio Spaventa e Marco Minghetti (tramiti intelligenti tra cultura e politica) a porre con forza il tema della “giustizia amministrativa”. La politica (Crispi) seppe farsene carico. Il legislatore del 1865 aveva creduto di risolvere il delicato problema dell'equilibrio tra il carattere autoritativo dell'azione amministrativa e l'azionabilità delle pretese del cittadino compiendo una scelta a favore della seconda istanza. Nel farlo, stabilendo che i diritti fossero regolati davanti al giudice ordinario, aveva tuttavia lasciato fuori dalla tutela gli interessi legittimi. Ora lo sviluppo stesso del Paese, e la nuova, più articolata domanda di legalità che ne derivava, obbligavano il legislatore del 1889 a revisionare quella opzione.
Alla divisione in tre sezioni del Consiglio di Stato si aggiungeva dunque, adesso, una sezione IV, con il compito «di decidere su ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali». Si introduceva così la giurisdizione generale del giudice amministrativo per lesione di interessi legittimi (sebbene sia stato giustamente osservato come nella legge non venisse utilizzato mai il termine “giurisdizione”, e ciò forse anche a fini di mera tattica parlamentare) (D'Agostini, G., Sezione IV, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 2337).
L'istituzione della IV sezione impose una serie di aggiustamenti di carattere organizzativo e funzionale (suggerendo tra l'altro le quasi coeve, più severe, norme suo concorsi ai posti di referendario, poi ritoccate più volte sino alla fine del secolo ed oltre). Ma soprattutto richiese ai membri del Consiglio di Stato una più spiccata formazione e più raffinate sensibilità giuridiche, contribuendo ad accelerare quel processo di specializzazione del collegio già avviato nei due decenni precedenti. Invalse l'uso, in funzione di ciò, che fosse lo stesso collegio a suggerire di fatto al ministro i nomi dei futuri consiglieri (come fece, ad esempio, nel 1898 il presidente Saredo a favore, tra gli altri, di Carlo Schanzer, Carlo Sandrelli, Luigi Bodio ed altri) (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Personale del Consiglio di Stato, b. 1, Roma, 8 febbraio 1898).
A presiedere la IV sezione, nel delicato momento del “rodaggio”, fu chiamato naturalmente Silvio Spaventa, che ne era stato il padre riconosciuto. Inaugurata il 13 marzo 1890 (ma non «in forma solenne», per volontà minimalista del governo), la nuova sezione adottò quasi subito, nella redazione delle sue decisioni, lo stile tradizionale delle corti italiane, basato sulla struttura articolata, sull'ampiezza del riferimento al fatto, sulla illustrazione larga e spesso plurima delle motivazioni. Ciò che ne accentuò anche nella prassi la natura giurisdizionale e col tempo ne favorì la terzietà anche rispetto al Governo (una indagine delle prime decisioni dimostra con evidenza l'indipendenza di quei giudizi).
Alla IV si aggiunse nel 1907 la V sezione, sulla base della legge 7.3.1907, n. 62, con attribuzione della cosiddetta giurisdizione di merito già attribuita alla IV, sia nel primo che nel secondo grado, aggiungendosi la materia dei ricorsi per spese di spedalità e per ricoveri degli inabili al lavoro. La nuova legge, realizzata in forma di novella al testo unico del 1889, recava un comma all'art. 37 nel quale si conferiva alla V sezione la facoltà di «ordinare qualunque altro mezzo istruttorio nei modi che saranno determinati dal regolamento di procedura». Previde inoltre l'inoppugnabilità delle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato innanzi alla Corte di Cassazione per assoluto difetto di giurisdizione e ridefinì la composizione dell'adunanza plenaria, affidando ad essa la soluzione dei conflitti tra IV e V sezione (Barbagallo, G., La giurisdizione del Consiglio di Stato, cit., 2311).
Gli effetti della riforma si manifestarono in tre novità rilevanti. La prima fu il ruolo di guida che la giurisprudenza della IV e poi anche quella della V sezione assunsero nei confronti degli stessi indirizzi legislativi in materie di incerta definizione, e in particolare in tema di pubblico impiego. Fu ad esempio attraverso le pronunce del Consiglio di Stato che prese forma quell'ordinamento dei diritti e doveri dell'impiegato pubblico che la legge Giolitti-Orlando del 1908 (il primo stato giuridico nella storia dell'amministrazione italiana) avrebbe di lì a poco codificato (Rusciano, M., L'impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978, 60 ss.). La seconda novità fu il coinvolgimento del Consiglio di Stato, questa volta in sede consultiva, nella legislazione di fine Ottocento e poi in quella giolittiana. I pareri obbligatori si moltiplicarono e l'incisività dell'expertise si fece in molti casi decisivo (basti ripercorrere la serie dei pareri, relatore Giolitti, in materia di credito, banche, attività finanziaria). La terza novità fu rappresentata dal proliferare degli incarichi esterni, cioè quelle particolari “missioni” attribuite dal governo a singoli consiglieri di Stato, sia nell'amministrazione attiva (ad esempio la guida di importanti direzioni generali), sia nelle prime “amministrazioni parallele”, sia nell'ambito della consulenza ai ministeri, sia infine nei gabinetti ministeriali. La prassi fu tanto rilevante da suscitare a più riprese le proteste del presidente del Consiglio di Stato preoccupato della funzionalità dell'organo (nel 1898 quelle di Saredo, ad esempio; si pensi che nel 1919 ben 41 dei 45 consiglieri risultavano secondo Nitti oberati di incarichi esterni) (Melis, G., Il Consiglio di Stato, cit., 834-835). Ma qui si presentava una novità destinata a consolidarsi nei decenni successivi, e cioè la supplenza dei consiglieri di Stato rispetto alla debolezza di una haute fonction amministrativa che in Italia non avrebbe mai raggiunto la forza e la consapevolezza da grand-corps dimostrata in altri Paesi.
La guerra mondiale segnò, alla fine dell'età giolittiana, un momento decisivo per lo sviluppo dell'amministrazione italiana. L'esperienza delle amministrazioni speciali, create durante il conflitto per fronteggiare l'emergenza, caratterizzate dall'essere fuori dai controlli della legge di contabilità; l'espansione orizzontale degli apparati, con la crescita del personale da circa 300 mila a oltre 500 mila dipendenti; la crescita del ruolo dello Stato e della sua influenza nell'economia, con i primi esperimenti di ingerenza nella produzione: furono questi alcuni dei fattori più determinanti del cambiamento. Dapprima la caotica legislazione di guerra aveva sostituito il canonico parere del Consiglio di Stato, previsto invece puntualmente in tutte le leggi di settori dell'epoca giolittiana, con i pareri di consigli tecnici allocati nei vari ministeri o di organi creati ad hoc perché giudicati più prossimi alle esigenze belliche. La concorrenza tra il Consiglio di Stato e la pletora di questi nuovi consigli, fossero essi i consigli superiori dei ministeri (caso tipico quello influentissimo dei Lavori pubblici) o altri, fu una delle contraddizioni più vistose del dopoguerra. Caso tipico nel 1922-23, proprio all'inizio dell'esperienza di governo fascista, la riforma Carnazza (dal nome del ministro che la promosse), in realtà ideata da Carlo Petrocchi (uno dei grandi tecnici espressi dall'amministrazione liberale): applicata all'amministrazione centrale e periferica dei Lavori pubblici, la riforma ridusse notevolmente il ruolo di controllo del Consiglio di Stato sostituendolo con un potenziamento delle competenze del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, in pratica tendendo ad unificare nel medesimo luogo (più prossimo all'amministrazione operante e ai suoi bisogni) sia il giudizio tecnico che l'apprezzamento giuridico. Riforme simili furono introdotte a vantaggio del Consigli superiore delle acque e di quello delle miniere.
La nuova tendenza durò però poco, circa due anni. Poi la riforma generale di De Stefani del 1923 (la cui filosofia di fondo poteva riassumersi nel ripristino degli assetti dell'anteguerra e in una forte spinta gerarchicizzante tipica del fascismo) letteralmente la capovolse, restituendo spazio al monopolio del Consiglio di Stato. De Stefani, infatti, riprese le proposte emerse nella commissione reale del 1910 e riassunte nella relazione finale del 1916: non solo i consigli tecnici vennero nettamente ridimensionati ma l'introduzione della giurisdizione esclusiva del pubblico impiego, perno della riforma stessa, fece del Consiglio di Stato il dominus incontrastato dell'intera materia, estendendone la competenza anche a zone marginali del rapporto che sino ad allora gli erano state sottratte (Melis, G., Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo. Burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Roma, 1988).
La “svolta” del 1923 fu sancita nel 1927 dalla nomina a presidente di Santi Romano, il primo presidente che non provenisse dall'interno dell'istituto. Romano (all'epoca professore nell'Università di Milano) prevalse sulla candidatura “interna” di Carlo Schanzer, ex ministro dal passato giolittiano. Mussolini rivendicò la nomina in funzione del potenziamento del Consiglio di Stato, cui egli pensava – così dichiarò – di affidare poteri amministrativi pari a quelli che, in campo politico, veniva ad assumere il Gran consiglio del fascismo (sia pure non ancora costituzionalizzato) (Melis, G., Santi Romano e il Consiglio di Stato, in Le Carte e la Storia, IX, 2003, n.1, 5-14).
Sul piano politico il fascismo avrebbe effettuato nel Consiglio di Stato una “piccola epurazione”, che nel caso specifico riguardò (nel 1927) soltanto due consiglieri: Meuccio Ruini e Camillo Corradini, entrambi legati rispettivamente a Nitti-Bonomi e Giolitti (mentre “risparmiò”, dopo un curioso tentativo fallito per difetto di forma, Alfredo Lusignoli e Vincenzo Giuffrida, anch'essi “amici” dei leaders della passata stagione liberale). Le nomine effettuate nel corso del ventennio si mantennero nell'ambito della tradizione, privilegiando la provenienza amministrativa su quella politica: 51 consiglieri su 101 dal Ministero dell'interno (la metà prefetti), 11 dai Lavori pubblici, 8 dagli Esteri. Molti, dopo il 1930, gli ex avvocati dello Stato (Righettini, S., Consiglio di Stato e classe politica in Italia, in Il Consiglio di Stato in Francia e in Italia, a cura di Y. Meny, Bologna, 1994, 51 ss.).
L'articolazione delle sezioni conobbe nel ventennio fascista modifiche modeste: soppressa nel 1923 (R.d. 7.1.1923, n. 165) la VI sezione “provvisoria”, istituita per le nuove province di Trento, Trieste e Pola con d.l. 24.11. 1919, n. 2304; ricostituita la stessa sezione VI nel 1939 (R.d.l. 6.2.1939, n. 478) per gli affari relativi all'amministrazione dell'Africa italiana; soppressa ancora con d.lgs. 5.5.1948, n. 642, ma per essere istituita nuovamente, e questa volta in via definitiva, dallo stesso d.lgs. n. 642 nell'ambito dei provvedimenti per accelerare i giudizi presso le sezioni giurisdizionali.
Tra il 1944 e il 1945 il Consiglio di Stato si era come “sdoppiato”, avendo trasferito la sua sede a Cremona, nella Repubblica sociale italiana (d.lgs. 18.8.1944, n. 536 della RSI), mentre la sede romana continuava tuttavia ad operare. A Cremona, all'atto pratico, si trasferirono però solo sette magistrati tra consiglieri e referendari, sotto la presidenza di Tito Livio Mesina (poi ridottisi a 5). Essi, sospesa la funzione consultiva, furono concentrati nella sezione IV giurisdizionale, che operò per altro non discostandosi dai criteri e dallo stile tradizionali dell'istituto (Giorgi, C., Il Consiglio di Cremona, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 2347-2351).
Uscito pressoché indenne dall'epurazione antifascista (in una fase della quale fu anzi direttamente implicato come sezione speciale d'appello, in base al d.lgs.lgt. 9.11. 1945, n. 702) (Cardia, M., L'epurazione della magistratura alla caduta del fascismo. Il Consiglio di Stato, Cagliari, 2009), il Consiglio di Stato ebbe alla Assemblea Costituente specialmente in Meuccio Ruini (l'epurato del 1927 nominato nel dicembre 1945 presidente) il suo più strenuo e appassionato difensore, in particolare quale membro nel 1946-47 della commissione dei diciotto, ma soprattutto presidente della commissione dei 75, e poi relatore generale del progetto di Costituzione. Decisivo fu in particolare il ruolo svolto da Ruini per la costituzionalizzazione del Consiglio di Stato, attraverso gli artt. 100 (1° comma: «Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione») e 103 (1° comma: «Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi, e in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi») (Focardi, G., Ruini Meuccio (Bartolomeo), in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 1075-1076).
In tal modo il Consiglio di Stato confermava, anche rispetto alla rottura costituzionale del 1948, quello che è stato indicato come uno dei dati più interessanti della sua storia, ossia la sua grande facilità di adattamento e la capacità di superare i momenti critici (Meny, Y., “Conseil d'Etat”, Consiglio di Stato: imitazione o divergenze parallele?, in Il Consiglio di Stato in Francia e in Italia, cit., 12). Delle due funzioni, tuttavia, la consultiva e la giurisdizionale, già nel corso del dopoguerra, la seconda piuttosto che la prima si sarebbe affermata come la prevalente, confermando in particolare la rilevanza della giurisprudenza amministrativa ai fini di precedere e spesso di ispirare la legislazione (ciò fu evidente nel caso del testo unico del 1957, costruito largamente dalla commissione Santoro Passarelli sulla falsariga delle decisioni del Consiglio di Stato).
Un altro mutamento si verificò nei primi anni Cinquanta, e consistette nel progressivo ruolo centrale della Adunanza plenaria, specialmente quando le norme di attuazione dello Statuto siciliano del 1948, istituendo il Consiglio della giustizia amministrativa della Sicilia con sede a Palermo (d.lgs. 6.5.1948, n. 654), le attribuirono, in alcuni casi, l'appello avverso le decisioni del nuovo organo nonché la soluzione delle eventuali questioni di competenza che insorgessero rispetto alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (De Nictolis, R., L'istituzione definitiva della VI sezione e l'attività del Consiglio di Stato nel dopoguerra, in Il Consiglio di Stato 180 anni di storia, cit., spec. 371-372).
Seguì un periodo nel quale il Consiglio di Stato svolse una delicata funzione, assumendo, in assenza della Corte costituzionale, il ruolo di fatto d'essere l'interprete dei nuovi valori costituzionali nel campo delle leggi amministrative (e ciò su temi cruciali quali la immediata precettività o meno delle norme costituzionali, i criteri di distinzione dell'atto amministrativo, il sindacato incidentale di costituzionalità rispetto alle leggi anteriori o successive alla Costituzione, la gerarchia delle fonti di diritto e il valore delle fonti anteriori, la costruzione – alla luce dei mutamenti intervenuti – del processo amministrativo). Crebbe in ciò la rilevanza dell'istituto, ora forte della nuova legittimazione costituzionale. Eloquenti le tabelle dell'attività: «dal 1951 al 1960 si conferma il trend in aumento degli affari giurisdizionali, che si traduce anche in un progressivo aumento dell'arretrato per la sezione V» (De Nictolis, R., L'istituzione cit., 410).
Nel 1971 la legge 6 dicembre, n. 1034 istituì i tribunali amministrativi regionali (TAR); e Mario Nigro (pur criticandola severamente) la definì «una legge molto importante, che attua quella che forse è la più impegnativa riforma della giurisdizione amministrativa che sia intervenuta dal 1889 ad oggi» (Nigro, M., Giustizia amministrativa, Bologna, 1976, 95). Scomparse le Giunte provinciali amministrative, che alcune sentenze della Corte costituzionale avevano dichiarato incostituzionali in sede giurisdizionale, subentrava la rete dei Tar, uno per ogni capoluogo di regione, rispetto ai quali il Consiglio di Stato assumeva funzioni di giudice d'appello.
Tra gli ultimi due decenni del XX secolo e il primo del XXI il peso e il ruolo del Consiglio di Stato e in genere della stessa giustizia amministrativa hanno conosciuto decisivi mutamenti.
Fondamentale fu, agli inizi dell'ultimo decennio del secolo XX, la l. 23.10.1992, n. 421, che nel conferire delega al governo per realizzare la cd. privatizzazione del pubblico impiego stabilì che le controversie di lavoro riguardanti i pubblici dipendenti dovessero essere devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. La relativa normativa delegata fu contenuta nel d.lgs. 3.2.1993, n. 29. Il Consiglio di Stato e il sistema della giustizia amministrativa vennero così a perdere la competenza su una materia (il pubblico impiego) che aveva costituito, in particolare dopo il 1923, il principale terreno della giurisdizione esclusiva. Restava ferma – è vero – la qualificazione di atti amministrativi autoritativi per lo meno degli atti organizzativi generali e di quelli relativi alle procedure concorsuali. Ma non, per esempio, degli atti di gestione di tali rapporti, in quanto privi di connotazione autoritativa. A conti fatti, al Consiglio di Stato veniva sottratta un'ampia zona dell'ordinamento nella quale si era sino ad allora esercitata la propria esclusiva giurisdizione.
Rispetto a quella che potrebbe interpretarsi come una riduzione di peso, il Consiglio di Stato ha rimediato avvalendosi di una serie di progressivi provvedimenti succedutisi rapidamente nel tempo (e all'ispirazione dei quali l'istituto non è stato forse del tutto estraneo). Questi interventi, dopo la cesura del 1992-93, possono essere raggruppati «intorno a due poli: riparto di giurisdizione e accelerazione del processo» (Patroni Griffi, F., Le trasformazioni della giustizia amministrativa: dalla l. n. 205 del 2000 al codice del processo amministrativo, in Il Consiglio di Stato 180 anni di storia, cit., 511). Cruciale è stato, in entrambi i versanti, la l. 21.7.2000, n. 205, o legge di riforma della giustizia amministrativa, volta ad sancire «una specie di compromesso tra le due giurisdizioni […] consistente nell'attribuire al giudice ordinario la cognizione del lavoro pubblico 'privatizzato' e al giudice amministrativo tutte le controversie comunque (più o meno) collegate con l'esercizio dell'attività amministrativa». Ma la legge 205 intervenne anche sul versante della ragionevole durata del processo sia puntando all'effettività e pienezza della tutela, sia introducendo sostanziali novità nei confronti della razionalizzazione dei tempi del processo stesso (Patroni Griffi, F., op. cit., 512 ss.). Specialmente rilevante, poi, ma sostanzialmente restrittiva della 205 (e della precedente legge n. 80 del 1998 da essa recepita), fu la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, per la quale la materia dei pubblici servizi poteva essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se in essa la pubblica amministrazione agisse «esercitando il suo potere autoritativo».
Su queste premesse, il d.lgs. 2.7.2010, n. 104 (e successive modificazioni), approvando il cd. “codice del processo amministrativo”, avrebbe completato il disegno, consistente – secondo una definizione recente – nella reinterpretazione del giudice amministrativo essenzialmente come “giudice del potere” (Patroni Griffi, F., op. cit., 524).
Avere codificato, in particolare attraverso il successivo d.lgs. n. 160 del 2012, la cosiddetta azione di adempimento pubblicistico (che consente al privato di «ottenere dal giudice amministrativo non solo più l'annullamento dell'atto, ma anche la condanna dell'amministrazione al rilascio di un determinato provvedimento amministrativo») ha costituito – come è stato di recente notato – il decisivo passo in avanti verso l'effettività della tutela, dando una soluzione ad un problema che “caratterizza la storia stessa della giustizia amministrativa, segnandone le tappe più importanti” (Giovagnoli, R., Effettività della tutela e atipicità delle azioni nel processo amministrativo. Relazione tenuta al Convegno “Giustizia amministrativa e crisi economica”, Roma, Palazzo Spada, 25-26 settembre 2013).
Ha scritto di recente Sabino Cassese che la caratteristica tipica del Consiglio di Stato è stata, in definitiva, «la sua straordinaria capacità di cambiare», modificando funzioni e culture interne a seconda delle esigenze del contesto e al tempo stesso rimediando di volta in volta alle debolezze di quel contesto (svolgendo cioè un ruolo di assistenza, integrazione, guida dall'esterno e consulenza dell'amministrazione, e indirettamente della politica) (Cassese, S., Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, 2014, 203). Produttore di un'élite a lungo “prestata” al governo nella delicata expertise dei gabinetti ministeriali, autore di una giurisprudenza che ha fatto da guida a tutte le principali riforme legislative dei 150 anni di vita istituzionale unitaria, dotato di una sua flessibilità, che ne ha consentito la centralità nella esperienza politico-istituzionale di almeno tre diversi ordinamenti costituzionali. Suggeritore stretto dell'esecutivo, divenuto col tempo sempre più giudice “terzo”. E un «giudice di successo», per lo meno se si sta alla sua capacità di corrispondere alla domanda che gli viene di volta in volta indirizzata.
l. 20.3.1865, n. 2248, specificamente sul Consiglio di Stato l'Allegato D; l. 2.6. 1889, n. 6166; l. 7.3.1907, n. 62; l. 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; l. 21.7.2000, n. 205; d.lgs. 2.7.2010, n. 104.
Barbagallo, G., La giurisdizione del Consiglio di Stato dalle origini al 1923, nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia. Le biografie dei magistrati (1861-1948), a cura di G. Melis, Milano, 2006, t. II, 2299 ss.; Bersani, C., Des Ambrois de Nevâche, Luigi Francesco, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia cit., vol. I, 1-13; Cardia, M., L'epurazione della magistratura alla caduta del fascismo. Il Consiglio di Stato, Cagliari, 2009; Cassese, S., Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, 2014; D'Agostini, G., Sezione IV, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 2337; De Nictolis, R., L'istituzione definitiva della VI sezione e l'attività del Consiglio di Stato nel dopoguerra, in Il Consiglio di Stato 180 anni di storia, cit., spec. 371-372; Focardi, G., Ruini Meuccio (Bartolomeo), in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 1075-1076; Giorgi, C., Il Consiglio di Cremona, in Il Consiglio di Stato nella storia d'Italia, cit., 2347-2351; Giovagnoli, R., Effettività della tutela e atipicità delle azioni nel processo amministrativo, Relazione tenuta al Convegno “Giustizia amministrativa e crisi economica”, Roma, Palazzo Spada, 25-26 settembre 2013; Mantellini, M., I conflitti di attribuzione in Italia dopo la legge del 31 marzo 1877, Firenze, 1878; Melis, G., Santi Romano e il Consiglio di Stato, in Le Carte e la Storia, IX, 2003, n.1, 5-14; Melis, G., Il Consiglio di Stato, in Storia d'Italia. Annali. 14. Legge, diritto, giustizia, a cura di L. Violante, in coll. con L. Minervini, Torino, 1998, 8212 ss.; Melis, G., Il Consiglio di Stato ai tempi di Silvio Spaventa, in Silvio Spaventa. Filosofia, diritto, politica. Atti del Convegno di Bergamo, 26-28 aprile 1990, Napoli, 1991, 163 ss.; Melis, G., Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo. Burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Roma, 1988; Meny, Y., “Conseil d'Etat”, Consiglio di Stato: imitazione o divergenze parallele?, in Il Consiglio di Stato in Francia e in Italia, cit., 12; Nigro, M., Giustizia amministrativa, Bologna, 1976, 95; Patroni Griffi, F., Le trasformazioni della giustizia amministrativa: dalla l. n. 205 del 2000 al codice del processo amministrativo, in Il Consiglio di Stato 180 anni di storia, cit.,511; Pene Vidari, G.S., Note sul primo anno di attività del Consiglio di Stato albertino, in Riv. stor. dir. it., LXII, 1989, 30; Pescatore, G., Il Consiglio di Stato: da Carlo Alberto ai problemi attuali, in Studi sul centociquantenario del Consiglio di Stato, vol. I, Roma, 1981, VII ss; Righettini, S., Consiglio di Stato e classe politica in Italia, in Il Consiglio di Stato in Francia e in Italia, a cura di Y. Meny, Bologna, 1994, 51 ss.; Romano, S., La funzione e i caratteri del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, vol. I, Roma, 1932, 1 ss., in part. 6-7; Rusciano, M., L'impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978, 60 ss.