Abstract
Il Consiglio superiore della magistratura, organo posto dalla Costituzione a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura ordinaria da ogni altro Potere dello Stato, è esaminato con particolare riguardo alla sua composizione, ai criteri di elezione dei suoi membri, alle competenze e ai provvedimenti dallo stesso adottati nei riguardi dei magistrati. In riferimento a questi ultimi si sono poste problematiche circa la sottoposizione dei medesimi alla giurisdizione amministrativa e in ordine ai limiti della loro sindacabilità, dovendo essere tutelati sia la posizione di rilievo costituzionale del Consiglio sia le situazioni giuridiche soggettive dei singoli magistrati.
Il Consiglio superiore della magistratura è previsto e disciplinato dagli articoli 104, 105, 106, 107 e 110 della Costituzione. L’articolo 104 stabilisce che lo stesso è presieduto dal Presidente della Repubblica e che ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, mentre gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento e i membri elettivi durano in carica quattro anni, non sono immediatamente rieleggibili e non possono essere iscritti agli albi professionali finché sono in carica né far parte del Parlamento o di un Consiglio Regionale. L’articolo 105 specifica, poi, che spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. L’articolo 106 stabilisce, inoltre, che, su designazione del Consiglio possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di cassazione per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano 15 anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori. L’articolo 107, infine, prevede che i magistrati non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso. Da ultimo, l’articolo 110 stabilisce che spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, ferme restando le competenze del Consiglio superiore della magistratura.
L’istituto del Consiglio superiore della magistratura non è un qualcosa di creato ex novo dal legislatore costituente, essendo già presente nell’ordinamento con funzioni e ruoli del tutto diversi o, quanto meno, non assimilabili a quelli poi riconosciuti dalla Costituzione. Infatti, con la l. 14.7.1907, n. 511, art. 34, fu introdotto in Italia il primo Consiglio superiore della magistratura, le cui attribuzioni si ritiene fossero esclusivamente o, comunque, prevalentemente consultive, giacché l’unico potere deliberativo allo stesso riconosciuto era quello relativo alle promozioni. Al contrario, altri sostiene (Scarselli, G., Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2007, 89) che il Consiglio avesse più di un potere consultivo, poiché era in grado di interferire sui trasferimenti d’ufficio, sulle incompatibilità, sulle nomine di professori ed avvocati a giudici, sulle ammissioni o riammissioni in magistratura, sul passaggio dei giudici dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa (art. 25, l. n. 511/1907). Il Consiglio, comunque, non aveva alcun potere disciplinare, poiché questo era attribuito ad un’apposita Corte suprema per l’appunto disciplinare, istituita presso il Ministero di grazia e giustizia, della quale facevano parte oltre a sette magistrati anche sei senatori del regno nominati con decreto reale (art. 18, l. 24.7.1908, n. 438).
Successivamente, con la l. 19.12.1912 n. 1311 (art. 12) fu previsto che tutti i membri del Consiglio dovessero essere di nomina regia su proposta del Ministro guardasigilli. Il vecchio sistema fu ripristinato con r.d. 14.12.1921, n. 1978, ma fu di nuovo abolito con il r.d. 30.12.1923, n. 2786, seguito, poi, dal r.d. 30.1.1941, n. 12. Dopo la caduta del fascismo e prima dell’approvazione della Costituzione, il Consiglio superiore fu di nuovo ripristinato dalla legge sulle guarentigie della magistratura di cui al r.d.lgs. 31.5.1946, n. 511, e fu istituito presso il medesimo Consiglio un organo giurisdizionale che provvedesse alla repressione degli illeciti disciplinari, organo che, diversamente da quanto disposto in precedenza, fu costituito da soli magistrati.
Attualmente, a seguito della riforma della l. 24.3.1958, n. 195 introdotta dalla l. 28.3.2002, n. 44, il Consiglio superiore della magistratura è composto, oltreché dai tre membri di diritto sopra indicati da 24 membri, di cui 8 eletti dal Parlamento in seduta comune con votazione a scrutinio segreto e con la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’assemblea (dopo il secondo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti, art. 22, l. n. 195/1958) e 16 eletti dai magistrati.
Il Consiglio, pur nella sua attività di “governo” della magistratura, non può essere ritenuto organo di vertice della medesima, giacché il potere giudiziario costituisce un potere diffuso, nel senso che non è la magistratura nel suo complesso ad essere titolare della funzione giurisdizionale, ma il singolo organo giurisdizionale, attese le disposizioni costituzionali di cui agli artt. 107, co. 3 e 101, co. 2, Cost. (il primo relativo al fatto che i magistrati si distinguono tra loro solo in relazione alle funzioni svolte e il secondo con riguardo alla soggezione dei giudici alla sola legge). Parimenti, lo stesso Consiglio non può essere ritenuto rappresentante, in senso tecnico, dell’ordine giudiziario, in modo che, attraverso di esso, se ne realizzi immediatamente il cosiddetto autogoverno, giacché composto non solo da magistrati (C. cost., 28.6.1973, n. 142).
È stata sostenuta la natura di organo costituzionale ovvero di alta amministrazione del Consiglio, ma, poi, si è giunti a ritenere lo stesso “organo di sicuro rilievo costituzionale” corrispondendo all’intento di rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l’autonomia della magistratura, così da collocarla nella posizione di ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere (C. cost., 2.6.1983, n. 148 e 13.4.1992, n. 189; v. infra, § 3).
Le elezioni del nuovo Consiglio hanno luogo entro tre mesi dallo scadere del precedente. L’elezione da parte dei magistrati ordinari dei sedici componenti “togati” viene effettuata: a) in un collegio unico nazionale, per due magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Corte suprema di cassazione e la Procura generale presso la medesima; b) in un collegio unico nazionale, per quattro magistrati che esercitano le funzioni di pubblico Ministero presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia ovvero che sono destinati alla Procura Generale presso la Corte suprema di cassazione ai sensi dell’art. 116, r.d. n. 12/1941, come sostituito dall’art. 2, l. 13.2.2001, n. 48 (poi abrogato dall’art. 4, d.lgs. 23.1.2006, n. 24); c) in un collegio unico nazionale per dieci magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso gli uffici di merito, ovvero che sono destinati alla Corte suprema di cassazione ai sensi dell’articolo 115 r.d. n. 12/1941, come sostituito dall’art. 2, l. n. 48/2001 e, successivamente, dall’art. 1, co. 3, d.lgs. n. 24/2006.
La riforma del sistema elettorale dei componenti togati di cui alla l. n. 44/2002 ha presentato elementi di particolare rilievo, consistenti non solo nella riduzione del numero dei magistrati componenti elettivi del Consiglio (da 20 a 16), ma anche nella introduzione della distinzione, nell’ambito dei giudici di merito, tra magistrati che esercitano funzioni giudicanti e magistrati che esercitano funzioni requirenti, mentre nella precedente costruzione normativa la distinzione operava esclusivamente tra magistrati di legittimità e magistrati di merito.
Inoltre, la votazione nell’ambito dei tre collegi unici nazionali non avviene più sulla base di liste con formula proporzionale, ma nei confronti di un solo candidato, con elezione di quei magistrati (due di legittimità e quattordici di merito, di cui quattro svolgenti funzioni requirenti e dieci funzioni giudicanti), che riportano il maggior numero di voti (a parità di voti prevale l’anzianità di ruolo e a parità di questa l’anzianità anagrafica).
In primo luogo, deve rilevarsi che già in precedenza era mutato il numero dei componenti elettivi del Consiglio. La l. n. 195/1958 aveva previsto, infatti, un numero di 21 componenti, che fu aumentato a 30 dalla l. 22.12.1975, n. 695, la quale stabilì anche un diverso sistema elettorale, con un passaggio da un sistema nel quale gli elettori votavano per le persone ad un sistema di votazione per liste concorrenti, espressione delle libere associazioni dei magistrati, fino ad allora estranee alla competizione elettorale.
L’aumento dei componenti e la contestuale riforma elettorale consentì la partecipazione alle elezioni e la rappresentanza in Consiglio di componenti provenienti dalle correnti interne alla magistratura, ivi incluse quelle di minore entità, con valorizzazione del pluralismo associativo e, nello stesso tempo, una più allargata presenza di esponenti politici anche dell’opposizione parlamentare (Bruti Liberati, E., Associazionismo giudiziario e autogoverno, in Dem. dir., 1986, nn. 4-5, 99 ss.; Guarnieri, C., Elites, correnti e conflitti fra i magistrati italiani: 1964-1976, in Pol. dir., 1976, 666). Soddisfò, inoltre, l’esigenza di migliorare il funzionamento del Consiglio, atteso che i compiti dello stesso erano aumentati in ragione del maggior numero di magistrati e della modifica della progressione in carriera degli stessi (l. 25.7.1966, n. 570 e l. 20.12.1973, n. 831, cc.dd. Breganza e Breganzone; si veda, al riguardo, Pizzorusso, A., Il Consiglio superiore della magistrature nella forma di governo vigente in Italia, in Questione giust., 1984, 281 ss.; contra Ferrari, G., Soliloquio sulla magistratura, Roma, 1984).
Il numero dei magistrati che svolgevano effettivamente funzioni di legittimità diminuì, proprio a causa della diversa progressione in carriera, anche se la Corte costituzionale intervenne per garantire, in ogni caso, la presenza all’interno del Consiglio di magistrati di cassazione che svolgessero effettive funzioni di legittimità, come imposto dagli artt. 106, co. 3 e 135, co. 1 e 2, Cost. (C. cost., 7.5.1982, n. 87).
Tale rilevante modifica trasformò il Consiglio da una “rappresentatività di tipo categoriale-corporativo” ad una rappresentatività “di tipo politico-ideologico” (Ferri, G., Magistratura e potere politico, Padova, 2005, 30), atteso che i consiglieri togati diventarono espressione non tanto della categoria di appartenenza, quanto, piuttosto, delle correnti organizzate.
Le modifiche introdotte dalla l. 3.1.1981, n. 1 (art. 15) completarono il passaggio ad una rappresentanza di tipo politico-ideologico: solo la metà dei seggi venne suddivisa in parti prestabilite fra le varie categorie (quattro fra i magistrati di cassazione, di cui due idonei alle funzioni direttive superiori, due fra i magistrati di appello, quattro fra i magistrati di tribunale), consentendo la scelta dell’altra metà indipendentemente dalla categoria di appartenenza (Fiumanò, C., Nuovi ritocchi alla legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Foro it., 1981, V, 157 ss.).
In seguito, la l. 22.11.1985, n. 655 (art. 1) e la l. 12.4.1990, n. 74 (artt. 5 ss.) ridussero il numero dei consiglieri spettanti ai magistrati di cassazione e ne previdero un numero fisso di due, scelti fra coloro che svolgevano effettivamente le funzioni di legittimità. In particolare, la l. n. 74/1990 introdusse tre importanti novità: 1) l’elezione dei magistrati di merito in quattro distinti collegi circoscrizionali, con superamento del collegio nazionale (Morozzo Della Rocca, F., Pluralismo della Magistratura e sistema elettorale del Consiglio Superiore, in Legalità e giust., 1989, 227); 2) la preferenza unica, allo scopo di evitare la formazione di “cordate”, attraverso le quali i candidati della medesima corrente, una volta ottenuta l’elezione con scambio di “pacchetti di voti”, riuscivano a creare all’interno del Consiglio “gruppi di potere”, capaci di influenzare lo stesso (Bruti Liberati, E., Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in Questione giust., 1990, 21; Barbera, A., Una riforma per la Repubblica, Roma, 1991, 187 ss.); 3) l’innalzamento della clausola di sbarramento per l’accesso alla distribuzione dei seggi, che passò dal 6% al 9% (percentuale particolarmente elevata che raramente trova riscontro nelle legislazioni elettorali) rispetto al totale dei votanti sul piano nazionale, con l’intento di escludere dal Consiglio correnti allora di recente costituzione (Cicala, M., Commento alla legge n. 74/1990, in Corr. giur., 1990, 556; Bruti Liberati, E., Pepino, L., Autogoverno o controllo della magistratura? Il modello italiano di Consiglio superiore, Milano, 1998, 38 ss.).
La l. n. 44/2002 ha, poi, abolito il voto di lista ed ha previsto per l’elettore la possibilità di esprimere una preferenza soltanto per i singoli candidati, i quali si presentano a titolo individuale. L’eliminazione dello scrutinio di lista avrebbe dovuto comportare, nell’intenzione dei proponenti del testo legislativo poi approvato, l’esclusione dalla competizione elettorale delle correnti della magistratura associata, con eliminazione della connotazione politica del Consiglio, che sarebbe derivata proprio dalla presenza delle medesime correnti e che avrebbe portato lo stesso organo ad esercitare competenze non previste dalla Costituzione. La rappresentanza, in tal modo, avrebbe perduto il connotato di politicità che aveva in precedenza e il legame con il territorio derivanti dallo svolgimento delle elezioni nei collegi circoscrizionali avrebbe aiutato a trasformare tale legame in un vero e proprio rapporto di fiducia fra l’elettore e l’eletto.
Invero, al contrario di quanto presunto, all’esito delle elezioni avvenute con il nuovo sistema, il potere delle correnti è uscito rinvigorito: le candidature, infatti, sono state decise dalle segreterie nazionali, anche perché, senza il sostegno degli apparati delle correnti stesse, avevano possibilità di successo inferiori a quelle, pure limitate, che avevano quando l’elezione avveniva nei collegi territoriali. Il ritorno al collegio nazionale ha ridotto la possibilità di presentazione di candidature indipendenti, stante l’elevato numero degli elettori e l’impossibilità di raggiungerli nella maggior parte dei casi, se non tramite le correnti organizzate. Non c’è stata, poi, nessuna scelta netta per un sistema maggioritario con collegi uninominali (tanti quanti i candidati da eleggere), anche perché in contraddizione con la scelta di riduzione dei componenti del Consiglio (l’adozione di collegi uninominali avrebbe comportato inevitabilmente l’aumento del numero dei componenti “togati” elettivi). In ogni caso, è risultato difficile eliminare programmi e orientamenti ideali a vantaggio esclusivo dell’elemento personale, rimasto, comunque, ai margini, proprio in ragione delle difficoltà di comunicazione con gli elettori. D’altro canto, il nuovo sistema elettorale, ha modificato il comportamento delle correnti, inducendole a coalizzarsi per non essere penalizzate nella rappresentanza. Si è proposto, allora, di introdurre lo strumento del sorteggio, come meccanismo di selezione dei componenti togati del Consiglio, al fine di evitare un eccessivo potere delle correnti, che, pure, sono espressione di una libertà associativa che non può essere negata ai magistrati (artt. 18 e 21 Cost.). Vi sono dubbi che detto strumento possa essere previsto attraverso modifiche della legislazione ordinaria, anche perché l’art. 104 Cost. prevede che i componenti togati siano eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie (v. supra, § 1). Si potrebbe allora ipotizzare la possibilità di richiedere per la candidatura e, dunque, per l’esercizio del diritto di elettorato passivo, l’aver affrontato con esito positivo una procedura di estrazione a sorte. Al riguardo, la commissione di studio incaricata di predisporre uno schema di progetto di riforma della disciplina legale in materia di costituzione e funzionamento del Consiglio istituita con decreto del 12.8.2015 del Ministro della giustizia ha escluso detta ipotesi, avendo previsto, invece, una sorta di doppio turno di votazioni: al primo si presenterebbero tutti i magistrati, senza liste o sigle di appartenenza, anche singolarmente. I magistrati sarebbero chiamati a scegliere con il voto un numero di candidati quattro volte superiore rispetto ai 16 posti (64 divisi per ruolo: 8 magistrati di cassazione per 2 seggi, 16 pubblici ministeri per 4 seggi e 40 giudici per 10 seggi). Solo successivamente i candidati eletti si potrebbero riunire per liste distinte sulla base di diversi orientamenti culturali o politici.
L’affidamento della presidenza del Consiglio al Presidente della Repubblica è ispirata ad una duplice ratio. In primo luogo, perché il Presidente della Repubblica, come tale, per definizione, rappresenta un organo di collegamento e coordinamento dei poteri dello Stato, a tutela dell’unità dell’ordinamento, e, quindi, è stato ritenuto dal legislatore costituente il più idoneo a svolgere una funzione di equilibrio e di moderazione basata sulla sua posizione di imparzialità e neutralità anche tra le diverse componenti del Consiglio. In secondo luogo, perché organo chiamato a svolgere la sua istituzionale funzione di garanzia degli interessi generali della collettività e di osservanza dei principi costituzionali anche all’interno dell’ordine giudiziario (Volpe, G., Consiglio superiore della magistratura, in Enc. dir., IV agg., Milano, 2004, 384). Per tali motivi, tutte le singole attribuzioni del Presidente della Repubblica all’interno del Consiglio sono strumentali all’esercizio del detto ruolo di coordinamento e di controllo e, pertanto, tutte “organiche”, nel senso che non esiste una posizione o funzione del capo dello Stato come Presidente del Consiglio superiore autonoma e distinta da quella di capo dello Stato in via generale (art. 87 Cost.). Il Presidente della Repubblica costituisce un soggetto che, in ogni momento, conserva la sua autonoma posizione rispetto al collegio ed esprime la sua distinta e separata volontà di organo dello Stato diverso dal Consiglio medesimo. Il vicepresidente, ai sensi dell’art. 19, l. n. 195/1958, dopo essere stato eletto tra i componenti laici secondo le modalità previste dall’articolo 3 del regolamento interno esercita le funzioni esercitate in sostituzione del Presidente o da lui espressamente delegate nonché quelle attribuitegli direttamente dalla legge e dallo stesso regolamento interno.
A seguito dell'introduzione dell'art. 4, L. 18.12.1967, n. 1198, è il Consiglio a provvedere all’autonoma gestione delle spese per il proprio funzionamento nei limiti del fondo stanziato allo scopo nel bilancio dello Stato, anche se è sottoposto al controllo della Corte dei conti il rendiconto di ciascun esercizio, cosa che, unitamente al collocamento dei fondi nel bilancio statale, distingue la posizione del Consiglio da quella degli organi costituzionali.
Il Consiglio, inoltre, è articolato al suo interno in numerose commissioni, che hanno, normalmente, i compiti di istruire le pratiche e riferire al Consiglio medesimo sugli argomenti su cui questo deve deliberare.
Le competenze del Consiglio descritte dall’art. 105 Cost. riguardano le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (v. supra, § 1). In particolare, il Consiglio delibera il conferimento delle funzioni giurisdizionali ai magistrati che hanno effettuato positivamente il tirocinio a seguito della loro assunzione a mezzo concorso; procede alla valutazione di professionalità cui tutti i magistrati sono sottoposti ogni quattro anni, sino al superamento della settima valutazione di professionalità, che interviene al ventottesimo anno di servizio, provvede ai tramutamenti di sede dei magistrati e al loro eventuale passaggio da una funzione ad un’altra, il tutto secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, sulla base del parere espresso dai consigli giudiziari esistenti presso ogni distretto di Corte d’appello e della documentazione acquisita, conferisce gli incarichi direttivi e semidirettivi.
Invero, il Consiglio, nello svolgimento delle sue funzioni, non ha esercitato soltanto le funzioni amministrative previste dalla Costituzione e dalla legge istitutiva, ivi inclusa l’adozione del regolamento interno (cd. funzioni tipiche), ma anche altre funzioni non espressamente attribuite allo stesso da un testo normativo (cd. funzioni atipiche). Se le prime consistono in quelle sopra individuate, delle seconde si è discusso in dottrina in ordine alla legittimità, anche se, a fronte di un indirizzo restrittivo, secondo cui sarebbe escluso lo svolgimento da parte del Consiglio di attività diverse da quelle previste dalla Costituzione e dalla legge (sulle diverse posizioni v. Ferri, G., Il Consiglio superiore della magistratura e il suo Presidente. La determinazione dell’ordine del giorno delle sedute consiliari nella prassi costituzionale della presidenza Cossiga, Padova, 1995, 26 ss.) è prevalso l’orientamento che consente al Consiglio di compiere attività ulteriori, soprattutto in considerazione della funzione di “organo di garanzia costituzionale”, connesse proprio con quanto disposto dal dettato costituzionale (Bonifacio, F.P.-Giacobbe, G., sub art. 104 e 105, in Comm. cost. Branca, La magistratura, Art. 104-107, tomo II, Bologna-Roma, 1986, 46 e 98; C. cost., n. 12 del 1971).
In particolare, in alcuni interventi il Consiglio, nel richiamare in modo esplicito quale proprio compito primario la tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ha difeso anche singoli magistrati destinatari non solo di semplici critiche ma di vere e proprie “denigrazioni diffamatorie” (v. delibere del 1.12.1994 e del 21.10.2009).
Detta prassi ha trovato fondamento normativo nell’articolo 21 bis del Regolamento Interno, recepito con d.P.R. 15.7.2009, che è venuto a disciplinare le procedure per gli interventi a tutela dell’indipendenza e del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria.
L’art. 17, l. n. 195/1958 prevede che tutti i provvedimenti del Consiglio nei riguardi dei magistrati siano adottati, in conformità con le sue deliberazioni, con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto di quest’ultimo. Contro i provvedimenti riguardanti i magistrati adottati dal Consiglio «è ammesso ricorso al Consiglio di stato per motivi di legittimità», mentre «contro i provvedimenti in materia disciplinare, è ammesso ricorso alle sezioni unite della Corte suprema di cassazione».
Pertanto, i provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio possono essere impugnati innanzi alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione e gli altri atti in grado di incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei singoli magistrati possono essere oggetto di ricorso innanzi all’autorità giudiziaria amministrativa. Ciò in attuazione dell’art. 24 Cost. secondo cui “tutti” (e, quindi, anche i magistrati titolari delle garanzie predisposte nel titolo IV parte II della Costituzione e destinatari dei provvedimenti del Consiglio) «possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi».
Sulla impugnabilità degli atti di natura non disciplinare del Consiglio si contrastano, sostanzialmente, due interessi: l’interesse del singolo giudice a vedere tutelata la propria indipendenza, soggetto qual è alla sola legge, con totale assenza di condizionamenti e di ingerenze esterne anche da parte dello stesso Consiglio (stante l’assenza di vincoli di dipendenza gerarchica all’interno dell’ordine giudiziario, come sancito dagli artt. 101 co. 2 e 107 co. 3, Cost.) e l’interesse del Consiglio a vedere tutelate le proprie competenze costituzionalmente previste (C. cost., 16.11.2000, n. 497).
La detta tutela giurisdizionale troverebbe ulteriore garanzia nell’art. 113 Cost. secondo taluni, che ritengono di far rientrare il Consiglio nell’alveo della pubblica amministrazione (Franzoni, G., I giudici del Consiglio superiore della magistratura, Torino, 2014, 62), ma ciò è prevalentemente negato sia dalla dottrina, che ha affermato la natura oggettivamente “amministrativa” degli atti del Consiglio «nel senso che l’attività del Consiglio dà esecuzione alla legge nel pubblico interesse dell’organizzazione e dell’amministrazione della giustizia» (Volpe, G., op. cit., 394) sia dalla giurisprudenza amministrativa, che ha sempre ritenuto che gli atti del Consiglio non si potessero sottrarre al controllo della medesima, pur non ritenendo lo stesso inserito all’interno della pubblica amministrazione. Peraltro, già da tempo la Corte costituzionale con la sentenza del 12.12.1963, n. 168 e, poi, con quella del 30.11.1968, n. 44 aveva dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 17, co. 2, l. n. 195/1958, proprio con riferimento all’art. 113 Cost.
Va sottolineato, comunque, come ritenuto da taluno (Garrone, G.B., Contributo allo studio del provvedimento impugnabile, Milano, 1990, 89), che «non si può … affermare … che il diritto di azione ex art. 24 non sarebbe esercitabile nei confronti delle concrete manifestazioni di potere amministrativo poste in essere da autorità non strutturalmente inserite nell’organizzazione della P.A., perché l’ordinamento … limita l’applicazione dei rimedi giurisdizionali apprestati alle sole ipotesi di atti e provvedimenti della P.A.». Allo stesso risultato è giunta la giurisprudenza di legittimità (Cass., S.U., 24.2.2000. n. 40 e Cass, S.U., 27.1.2004, n. 1479). Inoltre, la giurisprudenza amministrativa, dopo un primo orientamento contrario, ha ritenuto ammissibile anche l’impugnabilità diretta dei provvedimenti del Consiglio a prescindere dalla loro trasfusione in decreti presidenziali o ministeriali.
I vizi sindacabili dai giudici amministrativi, sono limitati a profili di legittimità, non potendo incidere sul merito delle scelte dell’organo di autogoverno della Magistratura, stante la rilevanza e il ruolo costituzionale del Consiglio. Ciò non ha impedito, tuttavia, un controllo giurisdizionale dell’operato del Consiglio, che è andato oltre la verifica della stretta legittimità delle sue decisioni, intesa come conformità a leggi o regolamenti, ma ha comportato la «valutazione degli errori di fatto obiettivamente riscontrabili in base a comuni norme di esperienza o a regole mutuate da scienze esatte» (TAR, Lazio, sez. I, 19.1.2007, n. 356), la coerenza logica, il rispetto dei criteri di massima, il travisamento dei fatti, l’idoneità, la logicità, l’adeguatezza e la stessa sufficienza della motivazione (Salvato, L., Il sindacato del giudice amministrativo sulle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura e l’incerta sorte del conferimento degli uffici direttivi, in Giust. Civ., 2001, 3143).
Sul punto il legislatore è intervenuto modificando il secondo comma dell’art. 17 cit. Infatti, l’art. 2, co. 4, d.l. 24.6.2014, n. 90, convertito con modificazioni nella l. 11.8.2014, n. 114, sia pure con riguardo soltanto ai provvedimenti concernenti esclusivamente il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, ha previsto che, nel caso di azione di ottemperanza, il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, non possa ordinare la stessa, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione né, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, possa determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano. Con l’innovazione legislativa del 2014 si è posto un limite, in materia di incarichi direttivi e semidirettivi, ove è particolarmente presente il profilo di discrezionalità delle decisioni del Consiglio, all’interferenza del giudice amministrativo rafforzando le prerogative costituzionali dello stesso.
Occorre, da ultimo, considerare che la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi e l’esclusione dell’anzianità quale parametro di valutazione ha inciso significativamente sul contenzioso innanzi alla giustizia amministrativa (Greco, R., in Riviezzo, C.-Greco, R., Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno del CSM, in Giustizia insieme, 2010, 20; Giangiacomo, B., I conferimenti degli incarichi direttivi e semidirettivi alla luce delle circolari del CSM e le conferme quadriennali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2012, 159), dando luogo alla necessità di un bilanciamento tra la discrezionalità del Consiglio nell’esercizio di funzioni costituzionalmente ad esso attribuite e il margine di sindacato del giudice amministrativo in merito alle modalità di esercizio delle stesse (Campanelli, G., Nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in www.questionegiustizia.it, 9.4.2016).
Il conferimento degli uffici direttivi è deliberato dal Consiglio, previo concerto con il Ministro della giustizia (cfr. art. 11, l. n. 195/1958 e art. 22 regolamento interno). Preliminarmente, va precisato che la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario ha introdotto la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi. Le funzioni direttive e semidirettive hanno così natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per altri quattro anni solo a seguito di valutazione positiva da parte del Consiglio circa l’attività svolta.
Al riguardo, la commissione per gli incarichi direttivi prevista dall’art. 11, l. n. 195/1958 come modif. dall’art. 32, d.P.R. 22.9.1988, n. 449, ha il compito di formulare, di concerto con il Ministro della giustizia, una proposta al Consiglio in ordine al conferimento degli incarichi direttivi. Ai sensi dell’art. 22 regolamento interno nel testo introdotto dal d.P.R. 17.10.1991, la commissione con apposita delibera indica al Ministro l’elenco degli aspiranti, le proprie valutazioni e le conseguenti motivate conclusioni, allegando quelle dei dissenzienti che lo richiedono, e procede al concerto con il Ministro, all’esito del quale riferisce al Consiglio, che delibera sul conferimento dell’ufficio direttivo con voto palese. Al riguardo, la Corte costituzionale ha avuto modo di rilevare che il Ministro non deve dare corso alle deliberazioni del Consiglio concernenti il conferimento degli uffici direttivi quando, da parte della commissione competente, sia mancata un’adeguata attività di concertazione, ispirata al principio di leale cooperazione ai fini della formulazione della proposta. Al contrario, lo stesso Ministro deve dar corso alle dette deliberazioni allorché, nonostante sia stata svolta un’adeguata attività di concertazione ispirata al principio di leale cooperazione, non si sia convenuto in tempi ragionevoli tra la commissione e il Ministro sulla proposta da formulare (C. cost., 9.7.1992 n. 379 e 11.11.2003 n. 380). Il concerto, secondo la Corte, comporta un vincolo di metodo, non di risultato: un vincolo che obbliga le parti a una leale cooperazione, finalizzata alla ricerca della maggiore convergenza possibile attraverso una discussione effettiva e costruttiva. È necessario che l’attività di concertazione venga effettuata in modo adeguato e che le parti non tengano comportamenti ostruzionistici e sleali né usino espedienti dilatori o pretestuosi. I tempi ragionevoli della concertazione sono quelli necessari ad un’effettiva e leale discussione e quelli irragionevoli sono quelli utilizzati per manovre dilatorie e per comportamenti non conferenti rispetto al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico connesso al conferimento dell’incarico direttivo al candidato professionalmente più idoneo (sent. n. 379/1992).
Invero, appare difficile escludere, in sede di giudizio costituzionale, riscontri sulla legittimità degli atti posti in essere e verifiche sul merito delle valutazioni discrezionali effettuate, soprattutto se in stretta connessione con l’accertamento della qualità e dell’adeguatezza della collaborazione prestata (Bartole, S., Consiglio superiore della magistratura e Ministro della Giustizia: bilanciamenti legislativi e bilanciamenti giudiziali, in Giur. cost., 2003, 3907). In ogni caso, la competenza ministeriale sui servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.), non può giustificare un’attribuzione concorrente del Ministro nella deliberazione finale, attribuzione che, in realtà, non viene precisamente individuata dalla Corte costituzionale se non nei limiti della dovuta concertazione (Sorrentino, F., Un conflitto deciso ma non risolto, in Giur. cost., 1992, 3329 ss.; Sorrentino, F., Incertezze e contraddizioni del principio di leale collaborazione, in Giur. cost., 2003, 3910-3911). In ogni caso, vero è che non è messa in discussione l’attribuzione al Consiglio della decisione finale, ma l’imposizione di un vincolo di metodo evidenzia una soluzione di compromesso, da cui scaturisce, di fatto, una vera e propria procedimentalizzazione delle modalità di confronto e il potere di interferenza del Ministro e, pertanto, di controllo governativo, pure vietato dal dettato costituzionale (Carlassare, L., Dibattito sull’attuale disciplina dei conflitti tra poteri dello Stato, con particolare riguardo al conflitto tra C.S.M. e Ministro Guardasigilli, in Giur. cost., 1992, 3325; Pezzini, B., Leale collaborazione tra Ministro della giustizia e C.S.M. alla prova: chi controlla il concerto?, in Giur. cost., 2003, 3911 ss.; Franzoni, S., op. cit., 188).
Costituzione: artt. 18, 21, 104, 105, 106, 107, 110, 111, 113, 135; l. 14.7.1907, n. 511; l. 24.7.1908, n. 438; l. 19.12.1912, n. 1311; R.d. 14.12.1921, n. 1978; R.d. 30.12.1923, n. 2786; r.d. 30.1.1941, n. 12; r.d.lgs. 31.5.1946, n. 511; l. 24.3.1958, n. 195; l. 25.7.1966, n. 570; l. 18.12.1967, n. 1198; l. 20.12.1973, n. 831; l. 22.12.1975, n. 695; l. 3.1.1981, n. 1; l. 22.11.1985, n. 655; d.P.R. 22.9.1988, n. 449; l. 12.4.1990, n. 74; l. 13.2.2001, n. 48; l. 28.3.2002, n. 44; d.lgs. 23.1.2006, n. 24; d.l. 24.6.2014, n. 90 conv. con modif. in l. 11.8.2014, n. 114; Regolamento Interno del Consiglio superiore della magistratura.
Barbera, A., Una riforma per la Repubblica, Roma, 1991, 187 ss.; Bartole, S., Consiglio superiore della magistratura e Ministro della Giustizia: bilanciamenti legislativi e bilanciamenti giudiziali, in Giur. cost., 2003, 3907; Bonifacio, F.P.-Giacobbe, G., sub art. 104 e 105, in Comm. cost. Branca, La magistratura, Art. 104-107, tomo II, Bologna-Roma, 1986, 46 e 98; Bruti Liberati, E., Associazionismo giudiziario e autogoverno, in Dem. dir., 1986, nn. 4-5, 99 ss.; Bruti Liberati, E., Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in Questione giust., 1990, 21; Bruti Liberati, E.-Pepino, L., Autogoverno o controllo della magistratura? Il modello italiano di Consiglio superiore, Milano, 1998, 38 ss.; Campanelli, G., Nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in www.questionegiustizia.it, 9.4.2016; Carlassare, L., Dibattito sull’attuale disciplina dei conflitti tra poteri dello Stato, con particolare riguardo al conflitto tra C.S.M. e Ministro Guardasigilli, in Giur. cost., 1992, 3325; Cicala, M., Commento alla legge n. 74/1990, in Corr. giur., 1990, 556; Ferrari, G., Soliloquio sulla magistratura, Roma, 1984; Ferri, G., Il Consiglio superiore della magistratura e il suo Presidente. La determinazione dell’ordine del giorno delle sedute consiliari nella prassi costituzionale della presidenza Cossiga, Padova, 1995, 26 ss.; Ferri, G., Magistratura e potere politico, Padova, 2005; Fiumanò, C., Nuovi ritocchi alla legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Foro it., 1981, V, 157 ss.; Franzoni, G., I giudici del Consiglio superiore della magistratura, Torino, 2014, 62; Garrone, G.B., Contributo allo studio del provvedimento impugnabile, Milano, 1990, 89; Giangiacomo, B., I conferimenti degli incarichi direttivi e semidirettivi alla luce delle circolari del CSM e le conferme quadriennali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2012, 159; Greco, R., in Riviezzo, C.- Greco, R., Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno del CSM, in Giustizia insieme, 2010, 20; Guarnieri, C., Elites, correnti e conflitti fra i magistrati italiani: 1964-1976, in Pol. dir., 1976, 666; Morozzo Della Rocca, F., Pluralismo della Magistratura e sistema elettorale del Consiglio Superiore, in Legalità e giust., 1989, 227; Pezzini, B., Leale collaborazione tra Ministro della giustizia e C.S.M. alla prova: chi controlla il concerto?, in Giur. cost., 2003, 3911 ss.; Pizzorusso, A., Il Consiglio superiore della magistrature nella forma di governo vigente in Italia, in Questione giust., 1984, 281 ss.; Salvato, L., Il sindacato del giudice amministrativo sulle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura e l’incerta sorte del conferimento degli uffici direttivi, in Giust. Civ., 2001, 3143; Scarselli, G., Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2007, 89; Sorrentino, F., Un conflitto deciso ma non risolto, in Giur. cost., 1992, 3329 ss.; Sorrentino, F., Incertezze e contraddizioni del principio di leale collaborazione, in Giur. cost., 2003, 3910-3911; Volpe, G., Consiglio superiore della magistratura, in Enc. dir., IV agg., Milano, 2000, 384.