Abstract
Usando la distinzione tra regola e regolarità ed il concetto e la pratica della opinio, si mostra: a) che le tradizionali definizioni delle consuetudini giuridiche nascono nel diritto privato e conservano le loro caratteristiche peculiari in tale diritto; b) che anche nel diritto privato e comunque in generale bisogna distinguere tra il fatto “regolarità” ed il modo con il quale il sistema giuridico risponde (modo che è diverso da ordinamento ad ordinamento e secondo la materia); c) che nel diritto pubblico prevale la parola prassi e che diverse possono essere le risposte giuridiche nei confronti delle prassi; d) che il ridotto numero dei soggetti costituzionali e degli eventi significativi nella vita costituzionale, facilmente collocabili nel tempo e nello spazio, imprimono alle regolarità in esso presenti caratteristiche (e nomi) specifici, fino al punto che diventa difficile o impossibile distinguere tra vere e proprie consuetudini giuridiche e fatti normativi che non sembrano consuetudini; e) che l’affermarsi ormai unanimemente condiviso e l’espandersi dei principi costituzionali non scritti costituisce oggi il modo prevalente attraverso cui l’opinio juris et necessitatis e il conseguente usus si manifesta, assorbendo la tematica delle consuetudini nel diritto costituzionale; f) che infine in tutte le questioni esaminate l’elemento dominante è proprio l’opinio, e naturalmente nel diritto l’ opinio juris et necessitatis, che talvolta assorbe in sé l’usus, e che comunque costituisce il cuore e l’anima di tutto il diritto nelle sue diverse e complesse manifestazioni.
Consuetudine, in italiano, come parola generica senza aggettivi, indica qualcosa che è abituale, ripetuto nel tempo da una o molte persone: in questo senso così generale e generico è parola che può essere sostituita da costume, uso, abito, tradizione, abitudine, prassi. Con queste parole ci si riferisce anzitutto ad un fatto constatabile; poiché si tratta di qualcosa che si ripete nel tempo c’è una parola che rende perfettamente la cosa constatabile e che verrà continuamente usata in questa voce: regolarità.
Vi sono, abitudini, costumi, regolarità, usi alimentari, sessuali, sociali, linguistici e così via, cioè consuetudini che nessuno giudicherebbe giuridiche.
Esiste però un caso da lungo tempo riconosciuto e codificato nel quale un uso seguito da una collettività e prolungato nel tempo genera, sia in molti anche se non necessariamente in tutti i soggetti che praticano tale uso, sia nei giudici e nelle autorità che governano tale comunità, la consapevolezza da un lato della esistenza della regola di comportamento che si manifesta nell’uso e la convinzione dall’altro che è male non seguire tale regola e che, se violazione della regola dovesse venire compiuta da qualcuno, alla violazione dovrebbe seguire una adeguata sanzione. In questo caso la consuetudine, il fatto consuetudinario, l’uso collettivo prolungato nel tempo, viene qualificato giuridico entro l’ordinamento che lo riconosce e lo ammette: non si tratta soltanto della constatazione di una regolarità, ma della estrazione da questo fatto di una regola giuridica di comportamento (e di eventuali altre regole necessarie per l’applicazione della regola di comportamento).
Da qui le tradizionali caratterizzazioni della consuetudine giuridica (o uso normativo, come preferisce dire il codice civile italiano). Anzitutto una mera regolarità genera una regola giuridica se si danno congiuntamente due requisiti (secondo la teoria tradizionale dominante, anche se è ben noto che vi sono autori che negano la necessità ora di uno ora dell'altro dei due requisiti): l’uso prolungato nel tempo e la cd. opinio juris et necessitatis.
Poiché nel caso tipico ora descritto la regola viene ricavata da una regolarità rinvenibile all’interno di una comunità (e cioè nei rapporti tra i privati membri della comunità, cosicché in realtà esiste una specifica tradizione di pensiero ed una specifica pratica che caratterizza le consuetudini nel diritto privato), emergono automaticamente tre altri aspetti da sempre individuati nella consuetudine giuridica tipica del diritto privato (nota bene): a) non si sa e non si riesce a sapere quando è cominciato l’uso; b) la regola non è stata posta da una autorità (si dice in questo senso che è fonte autonoma e non eteronoma, con l’avvertenza che autonoma non va riferita al singolo che deve obbedire alla consuetudine, ma alla collettività che autonomamente ha creato, con l’uso, la regola); c) non esiste un testo ufficiale della regola tratta dalla regolarità; naturalmente anche la regola consuetudinaria deve essere scritta da chi pretende di avvalersi di essa e dal giudice che deve sanzionarla; addirittura è possibile e previsto che la regola consuetudinaria venga scritta in astratto da una autorità ed ottenga in tal modo una specifica efficacia giuridica; nel nostro ordinamento esiste la raccolta degli usi curata per gli usi locali dalle camere di commercio e per quelle nazionali dal ministero competente; però chi esibisce il testo così compilato ha provato l’esistenza ed il tenore della consuetudine, ma è ammessa la prova contraria; invece, come è ben noto, quando una autorità pubblica competente emana un atto normativo legittimo, il solo testo da usare ed applicare (salva ovviamente la facoltà e la necessità di interpretarlo) è quello stampato nella pubblicazione legale prescritta.
Tutte queste caratteristiche, ed in particolare quelle per cui manca una autorità che ha formulato la regola e manca un testo ufficiale della regola, spiegano perché la consuetudine viene collocata tra i fatti giuridici, in contrapposizione agli atti giuridici (che in questo caso sono più propriamente gli atti normativi: legge, regolamento, ecc.).
Si dà dunque per scontato che esistono atti normativi, e cioè dichiarazioni di volontà di specifiche autorità che immettono nel sistema per iscritto regole di comportamento in principio generali e astratte, ed altre regole serventi rispetto alle precedenti. Si presuppone anche che il diritto oggettivo è un insieme dai contorni indeterminati di regole di comportamento ed altre regole serventi che ricevono entro il sistema un trattamento specifico (in particolare, per ricordare gli istituti maggiormente significativi, si tratta di norme che consentono il ricorso per cassazione se male interpretate ed applicate; ad esse si applicano i principi secondo cui jura novit curia e ignorantia legis non excusat; se sono contenute in atti normativi non sono vigenti se non sono state pubblicate legalmente; per esse vigono specifici principi e specifiche regole di interpretazione). Si presuppone infine che fonti del diritto oggettivo possono essere, secondo quanto stabilisce l’ordinamento, sia atti che fatti normativi, e resta per ora indeciso se tutti i fatti normativi sono consuetudini giuridiche o esistono fatti normativi che non sono consuetudini giuridiche (il punto sarà ripreso nel par. 6).
Basta leggere di seguito le tradizionali voci in materia per constatare immediatamente che in tema di consuetudine giuridica esiste un solo elemento costante e irriducibile, e cioè la esistenza di una regolarità e cioè di un fatto da constatare (salvo poi dividersi anche su questo punto, giacché diverse sono e possono essere le definizioni di regolarità, come del resto sperimenteremo in questa voce), ed il problema giuridico nasce con la domanda intorno al criterio o ai criteri in base ai quali uno specifico ordinamento decide quando una regolarità genera diritto oggettivo e quando invece resta regolarità nella vita di una comunità ma non genera diritto oggettivo, o peggio viene e deve essere combattuta dal sistema giuridico perché giudicata contraria al diritto.
Per questi aspetti, data anche la complessità ed estensione del tema, rinvio o alle trattazioni sulle consuetudini giuridiche in generale o alle trattazioni specifiche sulle consuetudini giuridiche in diversi ordinamenti (ad es. diritto canonico, diritto internazionale) o in diversi settori (ad es. usi normativi, contrapposti a contrattuali, nel diritto privato).
Però nel codice civile italiano è ancora formalmente in vigore una disposizione generale in tema di usi normativi secondo cui «nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati» (art. 8 delle Disposizioni sulla legge in generale); con l’avvento della Costituzione è evidente che tutte le questioni in materia diventano subordinate alle disposizioni ed ai principi costituzionali (e di questa possibilità verrà fatto ampio uso proprio in tema di consuetudini costituzionali).
Ciò che peraltro resta fermo, anche dopo la Costituzione, è la tradizionale distinzione tra consuetudini contra legem, o secundum legem, o praeter legem, secondo che la consuetudine (il fatto consuetudinario) appare contrario al diritto scritto (e resta pacifico e indiscusso che tutti debbono applicare il diritto scritto e non la ipotizzata consuetudine contraria al diritto scritto, senza occuparsi in questa sede delle norme che prescrivono secondo i diversi casi le conseguenze derivanti dall’aver obbedito ad una consuetudine contraria al diritto), oppure viene richiamato (e quindi legittimato) dal diritto scritto, oppure disciplina qualcosa che né è previsto dal diritto scritto né è contrario al diritto scritto, e quindi non è né secundum né contra legem.
Restando sempre nel tema delle consuetudini giuridiche in generale conviene sottolineare tre punti: a) c’è differenza tra desuetudine, e cioè cessazione di applicazione di una regola quand’anche posta da un atto normativo, e consuetudine che pretende di prendere il posto di una norma giuridica posta da un atto normativo: nel primo caso si assiste semplicemente ad un non uso (che in ipotesi potrebbe non generare alcuna reazione), nel secondo caso c’è una regola che pretende di prendere il posto di precedente regola; b) nel testo implicitamente si accoglie la tesi per cui è consuetudine praeter legem quella che comunque integra una disciplina senza essere contraria a norma espressamente posta da un atto normativo, interpretando, e quindi di fatto correggendo il codice civile che sembra ammettere una consuetudine praeter legem solo se la materia non è disciplinata da legge o regolamento; corollario di questa impostazione è che la consuetudine praeter legem (sempre che ovviamente ricorrano i requisiti che l’ordinamento esige affinché una regolarità generi una regola costitutiva del diritto oggettivo) prevale in caso di lacune sia sulla analogia che sul ricorso ai principi dell’ordinamento che non siano di ordine costituzionale; c) come già si vede con l’inciso che precede, con la Costituzione, e quindi sia con la materia costituzionale (presupponendo che sia delimitabile rispetto ad altre materie) sia con il livello costituzionale (in principio sovraordinato a tutto gli altri livelli del sistema, a cominciare da quello legislativo) nasce la domanda (in attesa di risposta) se la consuetudine in materia costituzionale riceve (deve o può ricevere) un trattamento specifico, ed in particolare quale rapporto si instaura tra consuetudine costituzionale (o in materia costituzionale) ed altre fonti del diritto, e, come corollario, come si può abrogare o modificare una consuetudine costituzionale o in materia costituzionale. A questo specifico tema viene dedicato il par. 4.
Per quanto riguarda le caratteristiche specifiche delle consuetudini costituzionali conviene approfondire preliminarmente l’analisi intorno alle ragioni possibili ed alle caratteristiche constatabili e constatate del fatto “regolarità”.
Esiste nel linguaggio degli operatori giuridici una parola molto comoda che viene usata quando l’operatore vuole semplicemente dire a se stesso ed agli interessati che una regolarità è rinvenibile entro la attività di strutture organizzative di diritto pubblico, senza impegnarsi a chiarire la natura di tale regolarità: la parola prassi. È difficile che questa parola venga usata nel linguaggio del diritto privato (nel codice civile, secondo una tradizione praticamente immemorabile, viene fatta distinzione tra usi normativi e usi contrattuali); la spiegazione di tale differenza nel linguaggio tra pubblicisti e privatisti sta probabilmente nelle caratteristiche delle consuetudini giuridiche e delle prassi dei soggetti pubblici di cui diremo tra breve.
Con la parola prassi l’operatore si limita a descrivere una regolarità: qualcosa di eguale che accade con significativa frequenza.
In generale però l’operatore giuridico se parla di qualcosa è perché vuole concludere in termini giuridici, e cioè in termini di prescrizione (o assenza di prescrizione), a se stesso o verso altri.
In questa operazione, tacita o dichiarata, può ben accadere che la prassi venga qualificata o presupposta irrilevante a fini giuridici (notare che anche questa è una conseguenza giuridica, e cioè il riconoscimento che la prassi constatata è nel caso esaminato manifestazione di libertà). Se è prassi che un organo collegiale si riunisca il giovedì, è ben possibile che questa prassi non sia giuridicamente significativa, sia un mero fatto (il collegio potrebbe riunirsi almeno una volta a settimana nel giorno che decide).
La prassi può manifestare un comportamento pienamente conforme al diritto scritto, ufficiale, quello imposto per iscritto con un atto normativo da una autorità. I diritti, i poteri, gli obblighi, i doveri possono essere esercitati mediante modalità di fatto indeterminate, tutte non contrarie in ipotesi al diritto. Se è obbligo giuridico recarsi a Napoli, si può usare il treno o l’automobile o l’aeroplano, a meno che il diritto disciplini anche questo punto; basta avere un po’ di fantasia e richiamare alla mente quello che tutti fanno quotidianamente per rendersi conto di quante sono o possono essere le variazioni di fatto anche nell’esercitare diritti e poteri e nell’adempiere ad obblighi e doveri. E del tutto ovvio che in questi casi si generino abitudini, usi, costumi, consuetudini, e cioè di nuovo, con una parola molto utile in questa analisi, regolarità.
Nel diritto pubblico troviamo spesso (non sempre beninteso) regolarità che hanno un preciso e documentabile inizio e si sa quale o quali soggetti hanno dato inizio alla regolarità; questa è una differenza significativa e non trascurabile rispetto alle tradizionali definizioni delle consuetudini giuridiche nel diritto privato.
Nel diritto pubblico le regolarità, sia quelle che hanno avuto inizio in un momento preciso per opera di specifiche autorità, sia quelle delle quali non si sa e non si riesce a sapere quando sono iniziate e perché e come, hanno diversa valenza giuridica, dalla totale irrilevanza, se non come manifestazione di libertà o totale discrezionalità, alla creazione di una vera e propria norma giuridica che riceve nel sistema il trattamento proprio delle norme di diritto oggettivo (trattamento già sommariamente descritto nel par. 1), passando per gradi intermedi di rilevanza giuridica che dipendono dal contesto entro cui si colloca la regolarità riscontrata.
Due esempi. Una regolarità nel comportamento di un ufficio della p.a. può derivare da una circolare del ministro o del dirigente dell’ufficio; è opinione pacifica che una circolare non è un atto normativo, cioè di per sé non ha il potere riconosciuto dal sistema di creare diritto oggettivo. Non per questo la circolare diventa automaticamente illegittima, e la regolarità riscontrata va bandita perché contraria a diritto. Neppure però il solo fatto che la circolare, e la conseguente regolarità, non è contraria a diritto pare sufficiente per concludere che la regolarità è divenuta consuetudine giuridica, e cioè fatto creatore di diritto oggettivo (secondo il trattamento che il sistema segue nei confronti degli atti e fatti creatori di diritto oggettivo). La circolare non vincola i soggetti esterni alla amministrazione, ed in particolare i giudici, le regole in essa contenute non ricevono il trattamento proprio del diritto oggettivo, ma la circolare in principio vincola i dipendenti della p.a.
Se una autorità amministrativa nell’emettere un atto amministrativo non segue la prassi seguita negli stessi casi precedentemente trattati con eguale tipo di atto amministrativo, questo è un motivo sufficiente per indagare se tale atto è viziato per eccesso di potere. Non per questo solo fatto la prassi, e cioè la regolarità, diventa consuetudine giuridica, e cioè fatto creatore di diritto oggettivo.
Nella esperienza costituzionale (e quindi come componente di fatto della dinamica costituzionale) vi sono regolarità da cui trarre regole di comportamento che però non sono costitutive del diritto oggettivo: le convenzioni costituzionali, che in questa sede, per la complessità e la lunghezza necessaria della trattazione, possono essere soltanto ricordate (si rinvia alla specifica voce).
Accertato dunque che vi sono regolarità che possono produrre conseguenze giuridiche o manifestare vicende giuridicamente significative, ma non sono costitutive di diritto oggettivo, la domanda diventa: quando una regolarità riscontrata, quale che sia la sua origine e la sua durata, va qualificata consuetudine giuridica, e cioè fatto creatore di diritto oggettivo?
Poiché ci collochiamo entro il diritto costituzionale (ma alcune delle cose che dirò possono applicarsi a tutto il diritto pubblico, escluso ovviamente quello penale, secondo Costituzione e tradizione), le particolarità di molte (ma non di tutte) le regolarità nel sistema costituzionale sono determinate dal fatto che quasi sempre esse riguardano pochi soggetti (gli organi costituzionali ed i soggetti politico-costituzionali), sono facilmente individuabili e sotto gli occhi di tutti, e spesso si manifestano in occasioni rare e comunque facilmente numerabili.
Però, prima ancora di sondare le conseguenze che queste particolarità determinano nel diritto costituzionale, è necessario distinguere con chiarezza, almeno sul piano concettuale (quand’anche in pratica riesca difficile o impossibile), tra consuetudine con forza costituzionale e consuetudine in materia costituzionale: nel secondo caso ci si limita a constatare che una certa consuetudine rientra nella materia costituzionale, salvo chiedersi come è possibile modificarla, o abrogarla, o sostituirla, nel primo caso si attribuisce forza costituzionale alla consuetudine praeter legem (resta fermo che non è ammissibile la consuetudine contra legem; quanto alla consuetudine secundum legem, basta qui constatare che la Costituzione e le leggi costituzionali non richiamano mai consuetudini)e dunque si sostiene, magari tacitamente, che essa non è derogabile o abrogabile da una legge ordinaria ma soltanto da una legge costituzionale (o da una contraria consuetudine con forza costituzionale, si dovrebbe dire ragionando in astratto, anche se la cosa sembra del tutto inverosimile; diversa la questione e la risposta se si ammettono fatti normativi diversi dalle consuetudini, su cui vedi i paragrafi successivi). In altre parole la espressione consuetudine costituzionale è ambigua, e copre le due diverse ipotesi, almeno sul piano concettuale; da ora in poi il contesto dovrebbe chiarire se si parla di una o dell’altra.
Contro le affermazioni precedenti è stato detto e molti ripetono che la consuetudine non ha grado, e quindi la espressione consuetudine costituzionale può avere soltanto il significato di consuetudine in materia costituzionale; la notazione è corretta se si guarda soltanto alla regolarità che la manifesta, giacché, proprio perché fonte non scritta, non esistono indici esteriori in grado di collocarla nella gerarchia delle fonti di un sistema normativo; ma se viene ammessa la consuetudine secundum o praeter legem, è ragionevole concludere che la consuetudine acquista il grado del livello normativo che o la richiama o ne viene integrato; se una consuetudine viene richiamata in ipotesi da un regolamento (legittimo) o integra legittimamente un regolamento, avrà grado regolamentare; e così via percorrendo l’intero sistema. Avremo così consuetudini che integrano leggi ordinarie in materia costituzionale, e consuetudini che integrano direttamente la Costituzione (e dunque con forza costituzionale, cosicché per modificare tale consuetudine ci sarebbe bisogno o di una legge costituzionale o di un fatto normativo al quale venga riconosciuta la medesima forza: sul punto vedi in particolare il par. 7 dove verranno esaminati i principi costituzionali non scritti e si sosterrà che in pratica è il ricorso ad essi che assorbe e nasconde il fenomeno consuetudine).
In ogni caso, una volta riconosciuta la esistenza e la ammissibilità delle consuetudini in materia costituzionale (esistenza ed ammissibilità riconosciute dalla stessa Corte costituzionale nelle decisioni ricordate tra breve), diventa necessario rispondere ad alcune domande che il sistema pone oggettivamente: a) se le consuetudini possono essere oggetto di giudizio da parte della Corte costituzionale: alla luce del testo costituzionale pare certo di no, e comunque la Corte di cassazione ha già stabilito che il giudizio sulla costituzionalità di una consuetudine spetta ai giudici, con un controllo diffuso (sentenza n. 5724/1977); b) se le consuetudini costituzionali possono essere parametro nel giudizio di legittimità costituzionale: anche in questo caso, accertato che la Corte non si è mai pronunciata sul punto, l’opinione prevalente è in senso negativo; alla luce del successivo n. 3, se la consuetudine integra direttamente una disposizione o un principio costituzionale, non si vede per quale ragione la risposta in principio non debba essere positiva; c) la Corte, almeno in tre casi, ha accertato la esistenza di ed applicato consuetudini costituzionali nel giudizio sui conflitti di attribuzioni (sentenza n. 7/1996 e n. 129/1981, conflitto tra i poteri dello Stato; ord. n. 140/2008, in un conflitto tra Stato e Regione); d) va ricordato che il diritto parlamentare è ovviamente parte del diritto costituzionale, ma riceve un trattamento giuridico specifico che lo sottrae per buona parte al giudizio di organi esterni a ciascuna Camera, con ovvia ricaduta sulle prassi parlamentari; e) per quanto riguarda l’abrogazione o modificazione di una consuetudine costituzionale, pare ovvio che il regolamento parlamentare prevale sulla consuetudine nel diritto parlamentare, e che la legge o atto con forza di legge prevale sulla consuetudine in materia costituzionale che integra una legge o atto con forza di legge ordinaria; se però si sostiene che una consuetudine ha forza costituzionale, allora se ne dovrebbe concludere che c’è bisogno di una legge costituzionale (o fatto normativo con forza costituzionale).
Avendo presenti tutte le notazioni fin qui illustrate, si comprende perché diventa possibile nel diritto costituzionale chiedersi se creano diritto oggettivo i precedenti o anche un solo precedente; se è possibile trarre consuetudini costituzionali da assenze prolungate nel tempo; se è possibile che esistano consuetudini facoltizzanti (e cioè attributive di poteri giuridicamente efficaci in capo a soggetti pubblici); se, di fronte a eventi che comunque sembrano introdurre regole, si tratta di vere e proprie norme di diritto oggettivo, e se tali fenomeni vanno qualificati consuetudini giuridiche oppure fatti normativi diversi dalle consuetudini, se quindi esistono fatti normativi che non sono consuetudini (e quindi tutte le consuetudini giuridiche sono fatti normativi, non tutti i fatti normativi sono consuetudini giuridiche). Infine e soprattutto si comprende perché il tema delle consuetudini costituzionali venga quasi totalmente assorbito dal tema dei principi costituzionali non scritti, secondo quanto diremo in un prossimo paragrafo.
Resta inteso però che nel diritto costituzionale possono trovarsi anche consuetudini giuridiche eguali o molto vicine a quelle tradizionali del diritto privato (vedi ad es. le decisioni della Corte costituzionale prima ricordate). Nello stesso tempo è comprensibile a questo punto che l’attenzione venga dedicata a quelle consuetudini o fatti normativi che per alcuni aspetti appaiono diversi dalle tradizionali consuetudini giuridiche di diritto privato.
Accertato in fatto che esistono casi che sono stati decisi da specifiche autorità costituzionali senza trovare sostegno in specifiche disposizioni scritte in atti normativi ufficiali, è anzitutto evidente che per ciascun caso è possibile indicare il tempo, il luogo, le autorità intervenute, la o le decisioni adottate. I precedenti si dice.
Della consuetudine tipica della storia del diritto privato mancano alcune caratteristiche tradizionali. Se i precedenti sono più di uno e sono costanti (nel senso che al ripetersi dello stesso caso le autorità adottano le stesse decisioni adottate in precedenza), si ritrova l’uso, ma un uso che si riassume quasi sempre in pochi precedenti, tutti ben conosciuti. Perché allora attribuire valore giuridico solo all’uso (e cioè alla regolarità) e non a ciascun precedente, compreso il primo? Anzitutto, in questa ipotesi a quale punto della regolarità comincia la norma giuridicamente vincolante? Col secondo precedente? col quarto? E se i precedenti sono soltanto due? oppure addirittura esiste un solo precedente? Se si ammette, o meglio si riconosce che le autorità costituzionali che hanno deciso nei diversi precedenti volevano con il loro comportamento la regola che si ricava dall’uso, perché non accettare l’idea che essi fin dal primo momento volavano creare diritto e l’hanno creato già con il primo precedente?
Vediamo un caso che chiarisce il punto e ci dice anche quali sono le condizioni presenti nel contesto che permettono di concludere che, date certe condizioni, anche un solo precedente, ed a maggior ragione alcuni o molti precedenti, possono creare norme giuridiche nel diritto costituzionale. La Costituzione italiana prevede l’impedimento, temporaneo o permanente, del Presidente della Repubblica, e la conseguente supplenza del Presidente del Senato. Non dice che cosa bisogna fare se il Presidente della Repubblica è impedito e non è in grado di dichiarare da se stesso tale impedimento. È del tutto ovvio che: a) la cosa può oggettivamente accadere; b) comunque una soluzione giuridicamente valida va trovata. Gli esperti sanno che il caso si è verificato nel 1964, e conoscono anche quale fu allora la risposta degli organi costituzionali. Il caso non si è mai più ripetuto fino ad oggi. È comprensibile e facilmente prevedibile che, se esso dovesse ripetersi, molti soggetti (politici, singole persone, autorità) riandrebbero a quel precedente, in tutto o in parte (la vicenda conobbe diverse fasi e aspetti), ed è molto probabile che costoro sarebbero la maggioranza e soprattutto determinerebbero un forte sostegno nei confronti di quelle autorità che in ipotesi ripetessero il precedente.
Che cosa è tutto questo se non opinio juris et necessitatis protratta nel tempo (anche quando non si verifica alcun caso che esige la ripetizione della norma applicata nel o nei precedenti), e cioè fatto normativo che presenta a ben vedere le due caratteristiche tipiche delle consuetudini (con beninteso la particolarità che in questo caso uso e opinio coincidono, nel senso che ciò che si protrae nel tempo è proprio l’opinio)? Se poi non volete chiamare consuetudine giuridica questo caso, poco male: non è questione di nomi, ma di cose (vorrà dire che, secondo diversi modi di classificare e ricostruire l’accaduto, o vi sono fatti normativi che non sono consuetudini o vi sono fatti che comunque non sono normativi; ad es. Pizzorusso, A., Delle fonti del diritto, 2011, 650, contrappone consuetudine a precedente). A me pare che con il precedente (uno soltanto), e naturalmente a maggior ragione con i precedenti, se un solo precedente o una serie di precedenti è accompagnata dalla opinio juris et necessitatis, si determina la nascita di una norma giuridica (non contraria in ipotesi al diritto scritto) e cioè la rilevazione di un fatto normativo che può benissimo essere chiamato consuetudine giuridica (nel caso prima descritto si tratta di una consuetudine in materia costituzionale perché attiene ad organi costituzionali, ma non necessariamente con forza costituzionale: vedi la discussione tenuta sul punto nel par. 4).
Proseguendo in questo ordine di idee ci si è chiesto se è possibile ipotizzare divieti di ordine costituzionale ricavati dalla assenza nel tempo di comportamenti che avrebbero potuto materialmente accadere e non sono stati tenuti, o esattamente al contrario consuetudini facoltizzanti, e cioè consuetudini che attribuiscono poteri discrezionali e dunque consuetudini che non si manifestano per lunghi periodi o comunque si manifestano in modo sporadico.
Per il primo caso si può ricordare che il Presidente Ciampi, nel rifiutare la candidatura per una seconda elezione che molti nel 2006 auspicavano, sostenne pubblicamente, tra i diversi argomenti a sostegno della sua decisione, anche la tesi che forse si era consolidata nel tempo una consuetudine costituzionale che vietava la rielezione. La rielezione di Napoletano nel 2013, senza alcuna contestazione di ordine giuridico da parte di tutti, dimostra che tale consuetudine non si era creata (tutt’al più, come ritengo, vigeva una convenzione costituzionale, derogata nel 2013, ma forse ancora vigente per tempi politicamente normali).
Per le consuetudini facoltizzanti ed alcune esemplificazioni rinvio agli autori che più persuasivamente ne hanno trattato (vedi in particolare Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, 1984, 156; Paladin, L., Le fonti del diritto italiano, 1996, 386 e ivi la sottolineatura che le consuetudini facoltizzanti assorbono l’usus nella opinio; Guastini, R., Teoria e dogmatica delle fonti, 1998, 647-649).
Nella esperienza giuridica vi sono fatti dai quali, in base a constatazione di ciò che è accaduto ed a previsione di ciò che verosimilmente accadrà, sia gli studiosi che gli operatori giuridici traggono norme costitutive del diritto oggettivo, epperò questi fatti non sono propriamente né atti normativi né consuetudini giuridiche (sia nel senso tradizionale del diritto privato sia nel senso allargato che nel diritto costituzionale talvolta fa leva sulla sola opinio juris indipendentemente dall’uso).
In astratto il caso paradigmatico è costituito dal diritto giurisprudenziale, e cioè dal sistema giuridico che accoglie al suo interno e pratica come principale il meccanismo per cui il diritto oggettivo è creato anche (e talvolta soprattutto) dai giudici, e nel quale nella pratica e nella riflessione domina il precedente giudiziario, talvolta portato al suo massimo con la vigenza e l’applicazione del principio dello stare decisis. Tale era il diritto comune, tale è oggi il common law (vale la pena di ricordare che nei paesi anglossassoni si fa distinzione tra common law e custom). La domanda diventa se qualcosa di vicino o simile o addirittura eguale ricorre anche nel nostro ordinamento.
Richiamo per memoria tre esempi: a) le sentenze manipolative della Corte costituzionale; b) le sentenze interpretative dei giudici supremi; c) la costruzione del sistema normativo italiano sulla base dell’art. 11 Cost. (in base al quale il diritto dell’Unione europea prevale non solo sulle leggi ordinarie ma anche sulla Costituzione salvi i cd. controlimiti).
In tutti questi casi sussiste un elemento che comunque li differenzia dalle consuetudini giuridiche: esiste sempre un atto giuridico, chiaramente collocabile nel tempo e nello spazio, riferibile a specifici soggetti (o addirittura ad un solo specifico soggetto) da cui far originare lo specifico diritto oggettivo; in altre parole non siamo di fronte ad un uso generalizzato entro una cerchia di soggetti e neppure di fronte ad una opinio juris et necessitatis da ricercare entro questa stessa cerchia; qui ci troviamo di fronte a veri e propri atti giuridici; però nello stesso tempo a) non sussiste propriamente un atto normativo ufficiale, o perché il tipo di atto (una sentenza) in principio si differenzia per più aspetti dagli atti normativi certi, o perché l’atto normativo usato non viene ritenuto sufficiente per il risultato (è stata usata una legge ordinaria, e sarebbe stata invece necessaria una legge costituzionale: l’adesione della Repubblica italiana ai trattati costitutivi dell’Unione europea è sempre avvenuta con legge ordinaria); b) manca un testo ufficiale che manifesti la regola, e questa (come accade nella consuetudine peraltro) deve essere ricavata da ciascun operatore volta per volta.
Se esaminiamo la giurisprudenza costituzionale di sessanta anni in Italia, e quella di altri Paesi, è sorprendente, ma a ben vedere comprensibile, scoprire come il tema dei principi costituzionali non scritti, iniziato timidamente, sia divenuto sempre più pervasivo e decisivo. Un esempio recentissimo e clamoroso. La Corte costituzionale, aderendo alla impostazione della Corte di cassazione (la quale a sua volta aveva accolto la impostazione delle parti attrici, come è doveroso ricordare), ha dichiarato incostituzionali due distinte disposizioni delle vigenti leggi elettorali per Camera e Senato (sentenza n. 1/2014). Tutto il ragionamento seguito dalle due Corti si regge su una premessa che, se accolta, conduce inevitabilmente alla decisione adottata, e, se respinta, apre una lotta giuridica contro la Corte costituzionale (e la Corte di cassazione). Questa premessa è la formulazione di un principio costituzionale non scritto, ricavato da alcune disposizioni del testo costituzionale: la Costituzione prevede e garantisce il diritto di voto dei cittadini elettori; dalle disposizioni scritte nel testo costituzionale, sia la Corte di cassazione che la Corte costituzionale hanno tratto un principio costituzionale non scritto secondo cui il diritto di voto è un diritto soggettivo costituzionalmente garantito che tutela la pretesa diretta ad ottenere una rappresentanza politica non irragionevole e non sproporzionata. Se si accetta questo principio non scritto, diventa inevitabile accettare le conclusioni (un sistema elettorale che dà un premio in seggi che supera la maggioranza assoluta ad una lista o coalizione di liste che ha un solo voto in più di ciascun altra lista o coalizione è chiaramente irragionevole e sproporzionato: io non ho dubbi che la Corte, dato il principio, su questo punto ha ragione; del resto nessuno mi pare ha avuto il coraggio di dire il contrario).
Vorrei far notare che la Corte da sempre segue un principio costituzionale non scritto che è gerarchicamente ancora più alto (un meta principio per dir così): è principio costituzionale non scritto che dal testo costituzionale si possano e si debbano trarre anche principi costituzionali non scritti (come ad es. il principio di ragionevolezza e quello di proporzionalità, applicati nel caso della sentenza C. cost. n. 1/2014, ed in moltissimi altri casi; ma anche il principio di legalità e quello di divisione dei poteri sono principi costituzionali non scritti, da tutti accettati, salvo dividersi sulle implicazioni e articolazioni che vengono tratte da tali principi).
Una volta accettato questo terreno di confronto (e oggi tutti, politici e giuristi, accettano questo modo di vedere e ragionare), sono inevitabili due cose a catena: a) poiché si tratta di principi non scritti, a mano a mano che la Corte ne enuncia qualcuno, vi saranno consensi e dissensi, ma se il consenso col tempo, o fin dall’inizio, è unanime (unanime nella cerchia di coloro che contano in questioni del genere), il principio enunciato diventa diritto vivente di ordine costituzionale, e si realizza quello che Carlo Esposito ipotizzava in generale, e cioè una consuetudine confermativa del principio (e si spiega così perchè parlando di principi costituzionali non scritti non c’è più bisogno di parlare di consuetudini); b) questi principi non scritti, enunciati in astratto, vengono poi articolati in principi e regole più specifiche secondo il caso su cui la Corte si è pronunciata: di nuovo si realizza il meccanismo precedentemente illustrato: i) fin dall’inizio, o col tempo, si crea un consenso pressocché unanime sul principio minore o sulla regola più specifica tratta dal principio generale in relazione ad un caso specifico, e allora avremo di nuovo una regolarità che conferma il principio o la regola specifica (e quindi una consuetudine che si presenta con altro nome e diversa apparenza); ii) oppure avremo una lotta per il diritto nella quale una parte significativa di coloro che sono coinvolti in questa lotta si battono affinché la Corte cambi opinione (come ogni tanto accade).
Cioè, in tutti i casi descritti, assistiamo in concreto al modo specifico attraverso cui oggi si crea spesso una opinio juris et necessitatis, o viceversa assistiamo ad una lotta in corso proprio intorno a tale opinio (che il diritto sia anche una lotta, e che sia necessaria una lotta per il diritto, è vecchia tesi che ridimostra continuamente la sua verità).
Insieme con la parola regolarità in questo scritto ricorre una seconda parola chiave e cioè opinio (e quindi anche assenza di opinio). È necessario, affinché si possa concludere che vige una specifica regola consuetudinaria, che la cerchia dei soggetti implicati nella vicenda descritta siano convinti della opportunità e quindi della necessità sociale che la regola consuetudinaria venga obbedita e se del caso sanzionata come qualunque altra norma di diritto oggettivo. Questa opinio si protrae nel tempo, oppure è verosimile che durerà nel tempo, e dunque diventa essa stessa uso, fino al punto di manifestare una regola senza che vi siano manifestazioni oggettive della regola (come accade nel caso di una regola ricavata da una assenza di qualcosa che pure potrebbe accadere o da un solo precedente). Ma anche nelle convenzioni costituzionali domina l’opinio, e una opinio, e cioè una consapevolezza, che si affida alle ragioni politiche e costituzionali, e non al diritto coercibile: una opinio diversa da quella juris et necessitatis sulla cui base nasce la consuetudine giuridica (si rinvia di nuovo alla voce specifica su convenzioni costituzionali).
Come tutte le cose di questo mondo, anche rispetto alla opinio si tratta di qualcosa che può venire indagata, con tutti i mezzi di prova di cui si dispone; trattandosi di atteggiamento mentale, è ovviamente più difficile da riconoscere e provare di quanto sia riconoscere e provare un fatto materiale, visibile, palpabile; non più però di quanto sia difficile accertare e riconoscere fenomeni individuali quali il dolo o la colpa, o fenomeni collettivi quali la responsabilità politica o la rappresentanza politica.
L’intera analisi condotta in questa voce rifluisce sulle concezioni e definizioni del diritto oggettivo (confermando quanto molti hanno notato, che cioè lo studio delle consuetudini giuridiche mantiene la sua importanza perché in realtà, al di là della pratica rilevanza delle consuetudini nella esperienza giuridica, costringe a riflettere e prendere posizione sul diritto in generale). Il diritto è costruito da esseri umani che si rivolgono ad altri esseri umani. L’atto normativo è lo strumento mediante il quale uno specifico soggetto abilitato dal sistema, mediante uno scritto, introduce nuove regole nel sistema con l’aspettativa, sia da parte sua che da parte della comunità che lo ha incaricato, che tutti i destinatari della regola obbediranno ad essa: l’atto normativo cioè è anch’esso una manifestazione di opinio juris et necessitatis, anzitutto in coloro che producono ed emanano l’atto normativo, e poi in tutti coloro che lo fanno proprio e obbediscono ad esso o, avendone il potere, costringono altri ad obbedire; è proprio questa opinio l’aspetto vitale che dà senso e prospettiva all’atto normativo, che di per sé è un mero documento (da qui parte l’enorme tema e la grande importanza della interpretazione). Lo studio delle consuetudini, ma anche delle convenzioni costituzionali, conferma che cuore di tutto il meccanismo sociale e del suo legame col diritto resta l’opinio, sia quando resta mera opinio, e cioè consapevolezza, sia quando si manifesta come opinio juris et necessitatis, e proprio per questa ragione riesce a creare diritto oggettivo, ora con atti normativi ora con fatti normativi; naturalmente è necessario poi, alla luce dell’intero sistema, analizzare quali e quanti sono gli atti normativi, quali sono i fatti normativi, e quali sono gli atti e fatti giuridici produttivi di conseguenze giuridiche ma da non trattare come normativi, e quali semplicemente atti e fatti umani senza alcuna conseguenza giuridica: in una parola lo studio e la ricostruzione della esperienza giuridica.
Artt. 1, 8, 9 delle Disposizioni sulla legge in generale c.c. (si omettono i molti articoli c.c. che rinviano agli usi, secondo la terminologia c.c., e gli articoli sparsi in altre leggi che anch’essi rinviano alle consuetudini); art. 1 cod. nav.; d.lgs. C.p.S. 27.1.1947, n. 152 e l. 13.3.1950, n. 115; art. 2, co. 2, l. 29.12.1993, n. 580, come sostituito dall’art. 1, co. 2, del d.lgs. 15.2. 2010, n. 23.
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