Abstract
La cd. consuetudine internazionale presenta natura sostanzialmente diversa dalla fonte prevista nel diritto interno con lo stesso nome. Differente è la base sociale che la esprime, assai limitata nel diritto internazionale; diverso il ruolo che svolge nel sistema delle fonti, ruolo ancora centrale nel diritto internazionale; diversa anche la tipologia, che nel diritto internazionale comprende fenomenologie di norme con caratteri a volte nettamente difformi. Ciò nonostante, gli elementi essenziali della consuetudine internazionale sono comunque identificati in prassi ed opinio juris, salvo poi introdurre varie specificazioni. Comprendere in quale senso si parli di consuetudine internazionale è particolarmente rilevante nell’ordinamento italiano. L’obbligo di conformarsi alla consuetudine internazionale è posto infatti dall’art. 10, co. 1, Cost., con la conseguenza che le relative norme di adattamento hanno rango costituzionale. La codificazione promossa dalle Nazioni Unite ha offerto l’occasione per rivisitare un aspetto fondamentale del sistema giuridico internazionale. Il risultato è tuttavia una conferma della nozione più tradizionale di consuetudine.
Il commercio giuridico dei soggetti internazionali è disciplinato per una parte ancora qualitativamente significativa da regole cd. consuetudinarie. Accanto a norme aventi ad oggetto la regolamentazione di determinati rapporti tra gli Stati, sono infatti non scritte, pur se talvolta codificate, norme strutturali del diritto internazionale, come quelle concernenti l’eguaglianza sovrana degli Stati o la validità dei trattati. Si tratta di norme che riflettono in maniera ineludibile il modo di essere del contesto sociale di riferimento. Inoltre, le norme consuetudinarie presentano, in linea di principio, portata generale nei confronti di tutti i soggetti. Tale carattere è assai rilevante in un sistema di relazioni giuridiche tra enti superiorem non recognoscentes, che non hanno demandato ad alcuno la funzione normativa. La rilevazione di norme consuetudinarie permette la loro applicazione nel caso concreto, indipendentemente da uno specifico consenso del soggetto destinatario. Questi aspetti convergono ad attribuire alle norme consuetudinarie la funzione di architrave di tutto il sistema giuridico internazionale, o come la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha affermato (Golfo del Maine, ICJ Reports, 1984, 291) di “background”, rispetto alla frammentazione creata dai diversi regimi pattizi e dovuta alla natura particolare, limitata alla cerchia degli Stati contraenti, degli accordi. Pertanto, seppure le norme pattizie sono oggi assai più numerose, le regole non scritte – anche se talora trascritte – conservano un ruolo cruciale nel diritto internazionale (Condorelli, L., Diritto non scritto: Erosione degli spazi o continua vitalità?, in L’incidenza del diritto non scritto sul diritto internazionale ed europeo, Napoli, 2016, 43 ss.; in senso contrario, Trachtman, J., The Growing Obsolescence of Customary International Law, in Custom’s Future, Cambridge, 2015, 172 ss.). Ne è testimonianza la giurisprudenza della CIG: la sua opera di accertamento, interpretazione e applicazione di tali regole non accenna a diminuire.
Aspetto rilevante dell’attuale sistema internazionale è la diversificazione, o pretesa tale, della sfera soggettiva. Accanto agli Stati e oltre a casi come governi in esilio, partiti insurrezionali o la S. Sede, si considerano, infatti, comunemente soggetti anche le organizzazioni internazionali. Eppure, gli Stati sono restii ad accettare un contributo di tali enti alla formazione di norme consuetudinarie (cfr., ad es., documento Nazioni Unite A/C.6/69/SR.20, p. 8). La Commissione del diritto internazionale (CDI), nella sua opera di codificazione del tema Identification of customary international law, ha scelto di considerare rilevante principalmente la prassi degli Stati, solo in qualche caso quella delle organizzazioni internazionali, mentre ha escluso dalla nozione di prassi la condotta di altri attori (Conclusion 4 del testo approvato in prima lettura dalla CDI nel 2016 e relativo commentario, documento Nazioni Unite A/71/10, 87 ss.). Si limiteranno le osservazioni seguenti agli Stati.
Il termine consuetudine indica, per buona parte della dottrina, sia la fonte di produzione giuridica, che il risultato del procedimento, analogamente a quanto previsto, con ben diversa rilevanza, negli ordinamenti interni. Così come gli accordi, la consuetudine costituisce un procedimento di formazione di norme giuridiche connaturato al carattere anarchico della società internazionale. Tradizionalmente la consuetudine è stata concepita come fonte di norme destinate a risolvere conflitti di interessi tra Stati e a salvaguardarne l’indipendenza, a differenza degli accordi, considerati piuttosto strumenti per il perseguimento della cooperazione tra Stati. Oggi questa distinzione non sembra più attuale, poiché regole consuetudinarie disciplinano anche interessi condivisi, quali ad esempio la tutela di alcuni diritti umani fondamentali.
Il carattere anarchico della società internazionale è peraltro richiamato anche per negare la stessa configurabilità di una fonte di produzione giuridica cui ricondurre le norme non scritte, norme la cui vigenza nel diritto internazionale viene in ogni caso riconosciuta. In tempi recenti è stata poi nuovamente riproposta la critica radicale, secondo cui la consuetudine internazionale non costituirebbe in ogni caso norma in senso proprio, e ciò comporterebbe la negazione della natura giuridica di tutto il diritto internazionale (Goldsmith, J.L.-Posner, E., The Limits of International Law, Oxford, 2005; Guzman, A.T., Saving Customary International Law, in Michigan Journal of International Law, 2005-2006, 115 ss.).
In virtù dell’art. 38, par. 1, lett. b) del suo Statuto, la CIG applica nella risoluzione delle controversie ad essa sottoposte «international custom, as evidence of a common practice in use between nations and accepted by them as law». La disposizione fu introdotta nello Statuto della futura Corte permanente di giustizia internazionale dal piano Root–Phillimore, senza essere oggetto di discussioni approfondite. In aderenza all’art. 38, la Corte internazionale ha costantemente ribadito, nella ricostruzione delle regole consuetudinarie, l’esigenza dei due elementi della prassi consolidata e dell’opinio iuris.
Circa il primo requisito, la CIG ha sottolineato che la prassi deve essere generalizzata, ossia seguita dalle diverse componenti della società internazionale pur se non da ogni singolo Stato, e sostanzialmente uniforme. La Corte ha definito l’elemento soggettivo come «belief that this practice is rendered obligatory by the existence of a rule of law requiring it ... States concerned must therefore feel that they are conforming to what amounts to a legal obligation» (Piattaforma continentale del Mare del Nord, ICJ Reports, 1969, 45). La presenza dell’opinio iuris è frequentemente invocata nella prassi per distinguere condotte tenute a semplice titolo di cortesia od opportunità da comportamenti richiesti da norme giuridiche.
Carattere fondamentale della consuetudine è, come notato, la sua portata generale. Questo significa che la norma è destinata a trovare applicazione rispetto a tutti gli Stati che si trovino a soddisfare i requisiti richiesti dalla fattispecie contemplata. In particolare, seppure uno Stato non ricade nell’ambito di applicazione al momento della formazione della norma, essa avrà comunque efficacia nei suoi confronti ove ciò si verifichi successivamente.
Sulla natura della consuetudine internazionale ed in particolare dell’elemento soggettivo si è molto dibattuto e si dibatte tuttora. La dottrina positivista considerava infelice la formulazione dell’art. 38, perché poco conforme alla riconduzione della consuetudine internazionale ad un accordo tacito (Anzilotti, D., Corso di diritto internazionale, vol. I, Padova, 1955, 71 ss.). Per tale visione, è essenziale anche nella consuetudine la volontà dello Stato di seguire un comportamento in quanto giuridicamente dovuto, e tale volontà sarebbe implicita nella ripetizione della condotta; la consuetudine internazionale avrebbe quindi natura completamente diversa dalla consuetudine nel diritto interno. Questa dottrina sottolineava ancora che la formulazione della disposizione è discutibile, poiché non è la consuetudine a costituire la prova di una prassi comune, quanto piuttosto il contrario.
La riconduzione della consuetudine ad un accordo tacito comporta conseguenze circa le condotte significative, che non potrebbero essere atti meramente interni, e l’esigenza di formazione di un consenso tra i diversi Stati, limitazioni ed elementi che in realtà dalla prassi non emergono. Inoltre, tale impostazione porterebbe a negare l’applicabilità di regole non scritte a soggetti venuti in essere successivamente alla loro formazione. La dottrina dei Paesi socialisti ha in effetti valorizzato tale concezione, rivendicando l’esigenza di un apposito consenso affinché la norma non scritta possa vincolare lo Stato (Tunkin, G.I., Droit international public, Parigi, 1965, 80).
Altra parte della dottrina ha negato che la consuetudine sia il frutto di una determinazione volontaristica degli Stati, alcune opinioni arrivando, come si accennava, a negare la stessa configurazione della consuetudine quale procedimento di formazione di norme giuridiche (Ago, R., Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950, 78 ss.). La concezione della consuetudine come diritto nascente da un “processo informale di sedimentazione sociale”, che prescinde da manifestazioni di volontà, non è il prodotto di appositi procedimenti e va semplicemente rilevato in quanto esistente, è ancora in qualche misura sostenuta nella dottrina italiana contemporanea (Condorelli, L., Consuetudine, in Dig. pubb., vol. III, Torino, 1988, 494-495, 508-510; Salerno, F., Diritto internazionale, Padova, 2011, 144). Per questa impostazione, la formulazione dell’art. 38 conferma che la consuetudine non produce norme giuridiche, ma ne costituisce piuttosto la prova. In ogni caso, l’elemento psicologico dell’opinio iuris resta necessario.
Anche a proposito della consuetudine internazionale si è poi osservato che la convinzione circa la doverosità della condotta tenuta potrebbe intervenire solo al momento in cui la formazione della norma si è completata, mentre in precedenza una tale convinzione costituirebbe un errore o tutt’al più la convinzione di seguire una norma non giuridica; la creazione di norme sarebbe quindi un effetto, ma non lo scopo della condotta (Bobbio, N., La consuetudine come fatto normativo, Torino, 2010, 53 ss.). In questa prospettiva, l’opinio costituirebbe allora, per qualcuno, non un elemento necessario per la formazione di norme non scritte, ma piuttosto una prova della consuetudine già venuta in essere (Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, V ed., Napoli, 1968, 130). Per altri, invece, l’obiezione conduce ad intendere l’elemento soggettivo come “atto intellettivo avente per oggetto la graduale formazione della norma”, anziché “atto volitivo diretto alla creazione della norma”; la consuetudine internazionale sarebbe così, al pari di quella interna, un fatto giuridico (Morelli, G., Nozioni di diritto internazionale, Padova, 1967, 28).
Il dibattito qui molto sintetizzato con riguardo soprattutto alla dottrina italiana continua fino ai nostri giorni in tutte le diverse scuole internazionalistiche. Recentemente, anzi, esso ha visto un apporto critico di studiosi anche delle relazioni internazionali, soprattutto di lingua inglese. Senza alcuna aspirazione alla completezza, vi si è qui fatto cenno, perché esso non è privo di risvolti pratici; è infatti necessario capire cosa si deve ricercare, per individuare la regola consuetudinaria.
Per chi scrive, è innegabile che gli Stati valutino con estrema attenzione le implicazioni che le loro condotte, le loro prese di posizione, il loro silenzio o la mancanza di reazioni possono comportare sul piano dello sviluppo del diritto internazionale. Gli stessi sostenitori della ricostruzione della consuetudine quale diritto spontaneo sono costretti a riconoscere i diffusi interventi intenzionali che gli Stati oggi compiono nella formazione di tali norme (Treves, T., Customary International Law, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, par. 2).
Una conferma della natura “volontaristica” dell’elemento soggettivo della consuetudine è fornita, inoltre, dal trattamento dello Stato obiettore persistente. Ammettere che un soggetto possa opporsi con effetti preclusivi alla formazione di una norma consuetudinaria, significa considerare determinante la volontà di ogni singolo consociato nel processo di creazione di norme non scritte. Di qui la comune conclusione che lo Stato che contesti un certo sviluppo del diritto consuetudinario non riesce ad impedirne il venire in essere, a meno che la sua posizione non si inscriva in quella, più ampia, di una componente della società internazionale. Tuttavia – e questo è il punto da sottolineare – meno pacifico è se quello Stato ottenga l’effetto, limitato, di escludere se stesso dall’ambito di applicazione della norma. La CDI ha sposato la soluzione positiva, ove lo Stato obiettore manifesti questa sua volontà in maniera chiara, coerente e continua (Conclusion 15, A/71/10, 112 ss.). La CDI afferma di fondare la sua posizione sulla prassi; e la soluzione ha ottenuto un certo consenso nei commenti degli Stati. Anche questo profilo indica, dunque, che l’elemento soggettivo considerato determinante nel sorgere di una norma consuetudinaria va ricondotto ad una manifestazione di volontà, piuttosto che ad un mero atto ricognitivo.
La ricostruzione della natura della consuetudine internazionale che appare più convincente mette in luce che sotto quella denominazione cadono in realtà norme non scritte di natura diversa: alcune di origine molto antica, come quelle sulle relazioni diplomatiche, fondate su una prassi ben consolidata e raramente messe in discussione dai nuovi membri della società internazionale; altre dovute a condotte riconducibili a soggetti ed a momenti storici determinati, poi fatte proprie dalla generalità degli Stati; altre ancora frutto di una concordanza tra gli Stati realizzatasi in tempi anche ristretti (Arangio-Ruiz, G., Consuetudine, iii) Consuetudine internazionale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, par. 6). Questa impostazione sviluppa la critica di chi riteneva infondato ricondurre le norme non scritte del diritto internazionale alla nozione di consuetudine propria degli ordinamenti interni, sottolineando le differenze tra le due basi sociali, senza, peraltro, sposarne la conclusione di un diritto spontaneo.
Un tale approccio permette di evidenziare come la combinazione dei fattori oggettivo e soggettivo sia multiforme, in particolare per quanto riguarda il tempo necessario alla formazione della norma.
Connaturata alla nozione di prassi è infatti la ripetizione di una condotta in un certo arco temporale, prima che la regola possa considerarsi affermata. L’elemento temporale è sempre stato considerato assai variabile, dipendendo dal numero dei soggetti interessati, dalla frequenza con cui si manifesta la possibilità di seguire una certa condotta od esprimere la propria opinione od anche di rimanere quiescenti. La presenza di fori internazionali a vocazione universale ha molto facilitato le occasioni di confronto. La concordanza tra le varie componenti della comunità internazionale verificatasi in sede di organizzazioni internazionali ha condotto ad individuare addirittura un diritto consuetudinario istantaneo. In tal modo, si prescinderebbe completamente da una prassi applicativa, che seguirebbe, anziché precedere, la formazione della norma. Tale conclusione sembra però contraddetta dalla giurisprudenza della Corte internazionale, così come dai lavori della CDI. Entrambi questi organi indicano infatti tuttora come necessaria ai fini dell’emergenza della norma la presenza di una prassi, seppure sottolineano che non è richiesta una particolare sua durata (Conclusion 8, par. 2) e seppure la CIG in pratica attribuisca grande, se non determinante, rilievo all’elemento soggettivo (Condorelli, L., Customary International Law: The Yesterday, Today and Tomorrow of General International Law, in Realizing Utopia, Oxford, 2012, 147 ss.; Roberts, A.E., Traditional and Modern Approaches to Customary International Law: A Reconciliation, in AJIL, 2001, 757 ss.).
La nozione di un diritto internazionale consuetudinario istantaneo è stata più recentemente riproposta, per indicare la ricostruzione logica di una nuova regola sulla base di norme già esistenti, ricostruzione compiuta soprattutto dai giudici (Cannizzaro, E., Diritto internazionale, III ed., Torino, 2016, 125-127). Per questa via, l’accertamento del diritto consuetudinario (infra, par. 4) finirebbe, almeno in alcuni casi, per essere essenzialmente creativo.
Alle norme consuetudinarie in senso proprio, si affiancano talora altre norme non scritte, come i principi generali, i principii, i principi di diritto internazionale, le norme costituzionali internazionali, oltre ai principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili e agli accordi taciti. Tralasciando queste due ultime fonti ed operando qui una certa approssimazione anche diacronica, la distinzione delle varie norme rispetto a quelle consuetudinarie risiederebbe soprattutto nel loro contenuto assiologico. I principi, come l’eguaglianza sovrana degli Stati o oggi, forse, il principio di solidarietà (Picone, P., Gli obblighi erga omnes tra passato e futuro, in Riv. dir. int., 2015, 1081 ss., 1091), rifletterebbero il modo di essere della società internazionale; sarebbero per altri “espressione diretta della volontà del corpo sociale” e comprenderebbero sia norme strumentali sulle fonti che norme materiali (Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, V ed., Napoli, 1968, 119 ss.); sarebbero invocati a tutela di alcuni valori considerati oggi imprescindibili, e riconducibili allora a norme cogenti (Brownlie, I., Principles of Public International Law, IV ed., Oxford, 1990, 512-513; infra, n. 7); esprimerebbero ancora il carattere ordinamentale ormai assunto dal sistema giuridico internazionale (Cannizzaro, E., Diritto internazionale, cit., 136 ss.). Secondo talune visioni, i principi si distinguerebbero dalla consuetudine perché s’imporrebbero indipendentemente dall’uso (Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, cit., 130-131).
Questo sembra essere l’approccio della CIG, che, senza alcun tentativo di provarne l’esistenza in quanto consuetudini, ha identificato come principi, tra gli altri, la libertà di navigazione; l’obbligo di non permettere l’uso del proprio territorio al fine di compiere atti illeciti nei confronti di altri Stati; l’uti possidetis juris; l’autodeterminazione dei popoli (Gaja, G., General Principles of Law, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, par. 17 ss.). Si tratta, peraltro, di norme eterogenee, che non tutte esprimono un particolare contenuto valoriale. Da parte sua, la CDI si è posta il problema del rapporto tra consuetudine e principi generali, ma ha preferito non approfondirlo.
La nozione di principi neppure coincide, del resto, con quella di norme cogenti. La sovrana eguaglianza degli Stati, ad esempio, non conduce a considerare invalido il trattato con cui una parte abbia accettato di esercitare in maniera limitata alcuni suoi poteri.
È dubbio, poi, se i principi vadano dedotti tramite un’astrazione da fattispecie specifiche già regolate da norme internazionali (in senso negativo, Gaja, G., The Protection of General Interests in the International Community, in Recueil des Cours de l’Acadénie de Droit International, vol. 364, Leiden/Boston, 2014, 34; in senso positivo Brownlie, I., Principles of Public International Law, cit., 19.).
La categoria non è comunque più solo espressione dottrinaria o giurisprudenziale, avendo essa trovato riconoscimento anche in accordi internazionali, come lo Statuto della Corte penale internazionale.
È ragionevole concludere che vi è un nucleo di norme non scritte avvertite «ormai come vincolanti da tempo immemorabile» (Arangio-Ruiz, G., Consuetudine, cit., par. 6.2) o comunque indiscusse nell’attuale momento storico, la cui esistenza si ritiene di non dovere – o non dover più – dimostrare attraverso i requisiti della prassi e dell’opinio juris. Tuttavia, non tutte queste norme hanno una particolare valenza ordinamentale, vuoi dal punto di vista strutturale, vuoi da quello assiologico. Sarebbe opportuno che dottrina e giurisprudenza limitassero l’uso dell’espressione alle regole fondanti il sistema internazionale.
Poiché le norme consuetudinarie sono non scritte, è difficile distinguere la loro rilevazione dalla loro interpretazione. È significativo che la CDI abbia indicato il tema oggetto di codificazione in un primo tempo come «Formazione e prova del diritto internazionale consuetudinario», per poi modificarlo in «Identificazione del diritto internazionale consuetudinario», senza che questo cambiamento le abbia impedito di occuparsi dei requisiti per il venire in essere di quel diritto. Un esempio della difficoltà di separare i due aspetti può rinvenirsi nel caso sulle Immunità giurisdizionali dello Stato (ICJ Reports, 2012, 99 ss.), dove l’oggetto della controversia concerneva il contenuto della norma sull’immunità dello Stato estero dalla giurisdizione civile, norma che entrambe le Parti riconoscevano esistente. La Corte internazionale di giustizia si pronunciava, tra l’altro, sulla cd. tort exception, la mancanza di immunità rispetto ad atti che abbiano causato morti, lesioni personali o danni sul territorio dello Stato ospite. L’Italia invocava una tale eccezione di diritto consuetudinario anche rispetto ad atti jure imperii. Il compito della Corte, quindi, poteva essere inteso sia come accertamento dell’esistenza di un’eccezione alla regola generale, sia come interpretazione di quest’ultima. Sul presupposto, sempre ribadito dalla CIG, che la concordanza delle parti circa l’esistenza o il contenuto di una regola non la esime dal compiere un proprio accertamento, la Corte si è posta sul primo piano, affermando di dover determinare l’ambito e l’estensione dell’immunità, sulla base dei due elementi della prassi e dell’opinio juris (par. 55).
In altra occasione, la CIG aveva comunque indicato che regole consuetudinarie e regole pattizie soggiacciono a metodi diversi di interpretazione, così ammettendo che questa operazione è possibile anche per le norme non scritte (Nicaragua, ICJ Reports, 1986, 95; Gradoni, L., Consuetudine internazionale e caso inconsueto, in Riv. dir. int., 2012, 704 ss.). Conseguenza di un tale approccio è che, almeno in linea teorica, se l’esistenza della regola non è in dubbio, l’interprete non deve ricercare gli elementi costitutivi della consuetudine, ma analizzare invece il contenuto della norma (op. dissidente del giudice Morelli, Piattaforma continentale del Mare del Nord, ICJ Reports, 1969, 202). Sulla base di tale premessa, taluni individuano diversi modelli di accertamento di natura logica seguiti in giurisprudenza (Cannizzaro, E., Unità e pluralità dei metodi di accertamento del diritto consuetudinario, in L’incidenza del diritto non scritto nel diritto internazionale ed europeo, Atti del XX Convegno della società italiana di diritto internazionale, Macerata 5-6 giugno 2015, a cura di P. Palchetti, Napoli, 2016, 23 ss.); mentre altri negano che la CIG segua alcun metodo di interpretazione, sia esso induttivo o deduttivo (Talmon, S., Determining Customary International Law: The ICJ’s Methodology between Induction, Deduction and Assertion, in EJIL, 2015, 417 ss.).
La rilevazione della consuetudine deve, inoltre, tener conto del fatto che gli Stati godono della massima libertà di espressione nel diritto internazionale. Non si è infatti affermato alcun vincolo formale in materia. Pertanto, è necessario tenere presente ogni manifestazione di condotta e di espressione dell’elemento soggettivo da parte degli Stati, nonché di astensione o di silenzio anche tenuti sul piano statale ove abbiano riguardo al diritto internazionale, e collocati in un quadro d’insieme. Inoltre, è rilevante la reazione di Stati, che non hanno adottato un certo comportamento (Vismara, F., Rilievi in tema di inaction e consuetudine internazionale alla luce dei recenti lavori della Commissione del diritto internazionale, in Riv. dir. int., 2016, 1026 ss.). La CDI ha citato ad esempi di prassi, a titolo non esaustivo, atti e corrispondenze diplomatiche; condotte adottate al momento dell’approvazione di risoluzioni di organizzazioni internazionali o in relazione a trattati; condotte tenute dagli organi esecutivi; atti legislativi ed amministrativi, giurisprudenze nazionali (Conclusion 6, A/71/10, 91 ss.). Gli atti di diritto interno hanno rilevanza nel diritto internazionale non in quanto atti giuridici, ma quali fatti giuridicamente rilevanti. La CDI ha anche specificato che non vi è una gerarchia tra le diverse espressioni di prassi e che, a seconda della regola in causa, possono essere significative manifestazioni sia di prassi che di opinio juris volta a volta diverse. Un esempio è fornito proprio dall’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione, regola per la quale i due elementi vanno accertati soprattutto sulla base delle decisioni giurisprudenziali e delle normative statali in proposito, a scapito di condotte tenute dagli esecutivi.
Oltre ad atti materiali ed omissioni, la Commissione ha indicato quali esempi di prassi anche dichiarazioni verbali. Diventa così piuttosto sottile la distinzione con l’elemento soggettivo. La CDI si è infatti riferita alla corrispondenza diplomatica e alla condotta tenuta in occasione dell’adozione di risoluzioni internazionali anche quali espressioni di opinio juris (Conclusion 10, A/71/10, 99). La Commissione ha osservato che lo stesso “materiale” può essere rilevante ai fini dell’accertamento sia della prassi che della sua accettazione come diritto, rimanendo le due analisi comunque distinte (A/71/10, 87). Questa compenetrazione dei due elementi può essere ricondotta alla concezione dualista della consuetudine nel caso in cui la condotta rilevante consista in un obbligo di non fare, ossia di un’astensione, mentre è meno agevole da inquadrare nelle categorie tradizionali nel caso in cui la regola in formazione prescriva la tenuta di un certo comportamento. Si può probabilmente ricondurre la posizione assunta dalla CDI alla tendenza della CIG ad attribuire all’elemento soggettivo un ruolo preponderante nell’accertamento di nuove norme consuetudinarie.
Ancora oggi, poi, l’accertamento del diritto spetta in via di principio ad ogni Stato, con la conseguenza che il sorgere delle controversie internazionali è spesso legato a valutazioni di segno opposto compiute da due o più Stati circa l’esistenza o il contenuto di norme consuetudinarie.
La funzione di ricostruzione/interpretazione è dunque estremamente delicata. In questo quadro, il ruolo della pregressa giurisprudenza internazionale dovrebbe essere quello di strumento sussidiario per l’accertamento del diritto (Statuto della CIG, art. 38, par. 1, lett. d). In concreto, l’affermazione circa l’esistenza ed il contenuto di una norma consuetudinaria compiuta dalla CIG ha finito per assurgere ad una presunzione di difficile superamento. Ciò è dovuto all’autorevolezza della Corte: l’accertamento da essa svolto supera i confini soggettivi dell’efficacia vincolante della decisione per le sole parti in causa e quelli oggettivi della natura meramente consultiva dei pareri. Un tale risultato può non essere del tutto soddisfacente, se si tiene presente come la Corte affronta l’accertamento. Non di rado, infatti, essa non esamina dettagliatamente i due aspetti su cui continua a fondare l’esistenza di norme consuetudinarie, ma, oltre a considerare per lo più l’elemento soggettivo, si limita frequentemente all’enunciazione delle sue conclusioni, rinviando a lavori di codificazione della CDI e/o affermando l’avvenuta “cristallizzazione” in norme generali di regole codificate. Nonostante ciò, la CGI continua a rivestire un ruolo di particolare rilievo, seppure le giurisdizioni internazionali, la cui giurisprudenza può essere richiamata come mezzo sussidiario ai termini dell’art. 38, siano oggi varie.
La CDI ha annoverato anche la giurisprudenza delle corti nazionali tra i mezzi sussidiari (Conclusion 13 e commentario, A/71/10, 109). A questo fine, la Commissione ha distinto la nozione di giurisprudenza, quale manifestazione di prassi statale per le conclusioni cui giunge, dalla disamina compiuta nell’argomentazione delle decisioni statali circa l’accertamento e il contenuto di regole consuetudinarie. È quest’ultima a poter costituire un mezzo sussidiario di accertamento.
Tra le forme che la prassi può assumere, si trova inoltre quella convenzionale. La CDI ha ricondotto “disposizioni pattizie” a possibili prove dell’elemento soggettivo (Conclusion 10, par. 2, A/71/10, 99). Allo stesso tempo, la Commissione ha precisato che dalla regola convenzionale può sorgere una regola consuetudinaria, se la prima ha dato luogo ad una prassi generalizzata accettata come diritto (Conclusion 11, par. 1, c A/71/10, 102). Può essere difficile distinguere l’opinio juris, necessaria per la nascita della norma consuetudinaria, dalla doverosità insita nell’adempimento di una norma convenzionale, specie nel caso di trattati multilaterali ampiamente ratificati (Piattaforma continentale del Mare del Nord, ICJ Reports, 1969, par. 76, 43). I vantaggi di questo modo di procedere sono molti: la portata generale del diritto consuetudinario conduce ad applicare la regola anche a Stati non parti dei trattati; non è dato al singolo Stato di apporre riserve rispetto alla regola consuetudinaria; non è ammissibile una denuncia unilaterale. Deve tuttavia sempre tenersi presente che lo scopo principale della conclusione di trattati è il porre regole derogatorie oppure specificatrici rispetto al diritto consuetudinario. Pertanto la trasposizione sul piano generale di quanto gli Stati hanno accettato a livello convenzionale va fatta con molta cautela, come indica la stessa CDI (Conclusion 11, para. 2, A/71/10, 102). Cautela ancora maggiore è necessaria nell’indagare se disposizioni incluse in raccomandazioni di organizzazioni internazionali corrispondano a regole consuetudinarie. In una tale sede, infatti, gli Stati in via di principio si esprimono sul presupposto di non assumere alcun obbligo internazionale. È piuttosto la reiterazione in quel contesto di una regola già affermata, magari in sede convenzionale, a costituire indice «with all due caution» (CIG, Nicaragua, ICJ Reports, 1986, 99) dell’opinio juris circa la norma consuetudinaria. L’adozione di una raccomandazione può così essere l’occasione che permette agli Stati di esprimere il proprio convincimento circa la doverosità di una certa condotta (Liceità della minaccia od uso delle armi nucleari, ICJ Reports, 1996, p. 254-255).
La consuetudine particolare presenta la specificità di essere un procedimento di formazione di norme non scritte, destinate a trovare applicazione solo nei confronti di alcuni Stati. La fattispecie è stata ammessa dalla CIG in più occasioni (Diritto d’asilo, ICJ Reports, 1950, 276-277; Diritto di passaggio nel territorio indiano, ICJ Reports, 1960, 39; Diritti di navigazione e connessi, ICJ Reports, 2009, par. 141, 265-266). La limitata sfera di efficacia può essere definita da ambiti geografici, politici o anche dalla partecipazione ad un certo trattato. La figura può essere ricondotta alla nozione finora esaminata, se si applica il carattere di generalità della norma all’ambiente più circoscritto in cui viene in essere la consuetudine particolare. Più difficile è ricondurre ad una consuetudine, pur particolare, una prassi intervenuta tra due soli Stati; questi casi, nonostante un diverso orientamento della CIG (Diritto di passaggio sul territorio indiano, cit.; Diritti di navigazione, cit.) e della CDI (Commentary, Conclusion 16, A/71/10, 115), appaiono piuttosto accordi taciti.
L’inquadramento della consuetudine particolare nell’ambito della nozione di consuetudine è significativo ai fini dell’adattamento dell’ordinamento italiano, previsto per le norme “del diritto internazionale generalmente riconosciute” dall’art. 10, co. 1, Cost (v. Adattamento).
Il ricambio delle norme consuetudinarie è apparso, nei tempi di mutamento e ampliamento della base sociale che si sono succeduti nel corso del XX secolo, un aspetto critico del diritto internazionale. La generale uniformità richiesta per il sorgere di nuove norme consuetudinarie ha infatti spesso impedito un veloce mutamento normativo nel senso desiderato da Stati nuovi o portatori di ideologie difformi. Oggi queste tensioni appaiono allentate; le motivazioni sono diverse. Da una parte, la critica non ha riguardato le norme strutturali, che anzi sono state riaffermate con vigore; dall’altra, la partecipazione ai fori internazionali ha permesso a tutti gli Stati di esprimersi, trovare appoggio in altri Stati e propugnare modifiche, raggiunte peraltro spesso con accordi. Inoltre, come si è notato, i tempi per la formazione di norme non scritte sono oggi ridotti, rispetto al passato, e grande attenzione viene riservata all’elemento soggettivo.
La regola consuetudinaria può essere modificata per il tramite di accordi o di successive norme consuetudinarie contrastanti; può, ancora, cadere in desuetudine. Nel primo caso la rilevazione della modifica è abbastanza semplice; si tratterà di capire qual è la sfera soggettiva del trattato modificatore, per continuare ad applicare ai soggetti che non ne siano parti la norma consuetudinaria. Nel secondo caso, l’individuazione di una norma consuetudinaria modificatrice è più complessa. La CIG ha affermato (Nicaragua, ICJ Reports, 1986, par. 186, 98) che condotte discordanti rispetto a quanto richiesto dalla norma non sono sufficienti a concludere nel senso dell’emergenza di una regola modificatrice. Sempre secondo la Corte, in questi casi è necessario indagare se gli Stati che hanno così agito hanno giustificato la loro condotta sulla base di circostanze che non incidono sul riconoscimento della vigenza della regola, oppure se essi hanno dichiarato di voler discostarsi dalla norma vigente o di volerne promuovere la modifica o l’estinzione, richiamandosi a tendenze in atto. L’aspetto problematico del ricambio per via di altra norma consuetudinaria consiste nel fatto che, nel momento iniziale della prassi di segno diverso, si crea un’ “area grigia” in cui gli Stati assumono posizioni diverse (op. dissidente del giudice Gaja, Immunità giurisdizionali dello Stato, ICJ Reports, 2012, par. 9). Quando adottano una condotta contrastante con la regola vigente, essi lo fanno con l’intenzione di promuovere o consolidare il nuovo orientamento, ma allo stesso tempo si espongono alla commissione di un fatto illecito internazionale. In un tale contesto, l’intervento di una pronuncia della CIG che accerti la violazione della norma ancora vigente può bloccare il processo di evoluzione. Questo potrebbe essere il caso della già ricordata tort exception all’immunità degli Stati dalla giurisdizione.
Una condotta tesa a promuovere il ricambio può inoltre comportare conseguenze sul piano di un ordinamento interno, che ponga obblighi di conformità al diritto internazionale vigente. La Corte costituzionale ha affrontato la questione con la sentenza del 22.10.2014, n. 238, in cui, ancora con riferimento all’immunità dello Stato estero, ha affermato che “non entrano” nell’ordinamento italiano norme di (adattamento al) diritto internazionale generale, contrastanti con principi fondamentali e diritti inviolabili (par. 3.4). Tra le motivazioni addotte dalla Corte costituzionale, vi era l’auspicio di «concorrere … ad un’auspicabile e da più parti auspicata evoluzione dello stesso diritto internazionale» (par. 3.3). Questa giurisprudenza interna dal punto di vista del diritto internazionale costituisce dunque insieme prassi ed espressione dell’elemento soggettivo, tesi alla modifica della norma vigente.
Un particolare tipo di norme consuetudinarie sono le norme imperative. Queste, infatti, sono definite dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (artt. 54 e 63) come norme consuetudinarie generali accettate e riconosciute dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme, quali norme alle quali non è consentita alcuna deroga e che possono essere modificate solo da successive norme imperative. Anche rispetto ad esse vanno dunque accertati i due elementi costitutivi. Potrebbe essere questa una differenza rispetto ai principi (supra, par. 3). La Convenzione di Vienna non si esprime circa il contenuto delle norme cogenti e la dottrina ha espresso pareri diversi, andando dalla protezione di valori largamente condivisi e preminenti nell’attuale società internazionale, come il divieto di aggressione, a norme strutturali, come l’invalidità dei trattati. La CIG ha esplicitamente riconosciuto natura cogente al divieto di tortura (Questioni concernenti l’obbligo di perseguire od estradare, ICJ Reports, 2012, 457) richiamando prassi e opinio juris degli Stati a sostegno dell’affermazione, e al divieto di genocidio (Attività armate sul territorio del Congo (Nuova domanda: 2002), Congo c. Ruanda, ICJ Reports, 2006, 30). Non manca in dottrina chi non esclude la possibilità di norme cogenti regionali.
L’incertezza e la genericità che contraddistinguono le norme consuetudinarie sono il motivo che ha spinto Stati e studiosi a tradurle in forma scritta. Quanto alle iniziative governative, attualmente l’opera più significativa è espressa dalla CDI, organo sussidiario dell’Assemblea generale, cui l’art. 13, par. 1 della Carta ONU attribuisce il compito di promuovere «lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione». Questa è finora avvenuta in gran parte attraverso la conclusione di accordi internazionali, risultato dei lavori di una conferenza di Stati su un testo proposto dalla CDI. La CDI è organo sussidiario dell’Assemblea generale, composta da esperti che siedono a titolo individuale e sono rappresentativi delle diverse aree culturali; essa compie studi di approfondimento sulle materie indicate dall’Assemblea e formula proposte. Negli ultimi tempi prevale il modello di adozione di un articolato scritto, ma non vincolante, da parte dell’Assemblea generale. Una tale soluzione permette di sottrarre al negoziato tra gli Stati un testo che è già il risultato di mediazioni all’interno della CDI. Questa, peraltro, presenta alla Sesta Commissione dell’Assemblea generale ogni anno un rapporto sui suoi lavori, rispetto ai quali si pronunciano, singolarmente o per gruppi, gli Stati membri. Di tali osservazioni la CDI tiene conto nel prosieguo dei lavori. Si instaura così una dialettica costante con gli Stati, sollecitati periodicamente a sottoporre anche pareri scritti.
Come si accennava, la CGI ha molto valorizzato questi lavori, anche se non ancora conclusi. La Corte ha in più occasioni sostenuto che la codificazione può determinare la “cristallizzazione” di una norma consuetudinaria. In tali casi, il processo di codificazione è l’occasione per definire in maniera certa il contenuto della norma, concludendone il processo di formazione. La Corte ha sempre preso in considerazione le varie regole individualmente, e non la materia codificata nel suo complesso. Poiché tra i compiti espliciti dell’AG vi è lo sviluppo progressivo del diritto internazionale, la codificazione può infatti contenere anche norme che non riflettono ancora il diritto positivo. Peraltro, la formulazione di una norma non scritta è necessariamente generica, e questo carattere almeno in parte viene meno al momento della codificazione. Generalmente la CDI dichiara esplicitamente, nel commentario ai suoi articolati, quando ritiene di aver usato una misura di sviluppo progressivo. L’interprete deve però tenere presente, oltre alla portata soggettiva dell’eventuale convenzione di codificazione, il tempo trascorso dall’adozione del testo, per valutare se la norma ispirata allo sviluppo progressivo abbia ricevuto conferma nella prassi successiva e possa essere considerata ormai anch’essa consolidata nel diritto generale.
La CDI ha proceduto alla codificazione di diverse materie centrali nel diritto internazionale: tra le altre, il diritto dei trattati, le riserve ai trattati, le relazioni diplomatiche, le relazioni consolari, la successione nei trattati, la responsabilità degli Stati per fatto illecito, la responsabilità delle organizzazioni internazionali per fatto illecito, la protezione diplomatica, la frammentazione del diritto internazionale, gli effetti della guerra sui trattati, gli atti unilaterali. Quale che sia la veste giuridica che questi lavori hanno alla fine assunto, i rapporti della Commissione costituiscono il fondamentale punto d’inizio della ricerca che l’interprete compie al fine di identificare le norme consuetudinarie.
Le norme consuetudinarie e pattizie entrano in multiformi rapporti. Esse sono reciprocamente derogabili; fanno eccezione solo le norme imperative. In caso di conflitto con queste ultime, la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 prevede la nullità dell’accordo, se la norma imperativa sussisteva al momento della conclusione del trattato, oppure l’estinzione, se la norma cogente è sopravvenuta. Con accordi gli Stati possono derogare o specificare norme generali; con prassi successive, se accompagnate dall’elemento soggettivo della doverosità, possono modificare accordi. Un esempio ben noto in tal senso è la modifica dell’art. 27, par. 3, della Carta ONU.
Si ritiene generalmente che questa possibilità sia esclusa nel caso in cui vi sia un organo di controllo dell’applicazione del trattato. Anche in queste ipotesi, peraltro, la condotta uniforme e l’opinio degli Stati, i “padroni” del trattato, dovrebbe prevalere.
Possono inoltre coesistere due norme, pattizia e consuetudinaria, aventi lo stesso contenuto (CIG, Nicaragua, cit.). Esse hanno allora, generalmente, destinatari diversi e soggiacciono a regole diverse, il diritto dei trattati non essendo applicabile a norme consuetudinarie.
Ancora, una norma convenzionale può dare origine allo sviluppo di una norma consuetudinaria, i cui elementi essenziali andranno naturalmente verificati in maniera indipendente dalle vicende del trattato (Conclusion 11. 1 c) A/71/10, 102).
Le norme pattizie, pur potendo derogare al diritto generale, non riescono tuttavia mai ad escludere radicalmente l’applicazione del diritto consuetudinario. La CIG ha impiegato l’espressione di regime autosufficiente con riguardo al diritto delle relazioni diplomatiche per indicare che queste regole, consuetudinarie e codificate, includono anche meccanismi di reazione alla loro violazione (Personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran, ICJ Reports, 1980, 40). La nozione è stata in seguito più ampiamente applicata a sistemi convenzionali, che prevedano organi di accertamento degli illeciti e/o misure ad un tale accertamento conseguenti, in via esclusiva rispetto alle norme consuetudinarie sulla responsabilità. Anche in queste ipotesi, però, nel caso estremo in cui le norme convenzionali non riescano a trovare applicazione, le norme di chiusura sono sempre rinvenibili nel diritto internazionale generale. Ciò è conseguenza del fatto, che lo strumento a disposizione degli Stati per realizzare quei sistemi è sempre e solo l’accordo, e che questo non riesce a sottrarsi all’applicazione delle regole consuetudinarie concernenti, tra l’altro, la sua sospensione od estinzione, nonché le conseguenze della sua violazione in termini di responsabilità.
La codificazione dell’identificazione del diritto internazionale consuetudinario non ha condotto, almeno fino al momento in cui si scrive, a soluzioni o letture particolarmente innovative. A parte forse le disposizioni relative all’obbiettore persistente, la CDI ha preferito ancorare saldamente il suo articolato alla giurisprudenza, piuttosto che percorrere vie ricostruttive innovative. Scopo dichiarato della codificazione è stato, d’altronde, anche quello di fornire uno strumentario ad interpreti, che non fossero specialisti del diritto internazionale.
L’accertamento di regole non scritte è per definizione un processo non definibile con una formula precisa, ma frutto di una valutazione di tutte le circostanze con cui, caso per caso, esse si manifestano. La dottrina può proporre percorsi con “segnaletiche” diverse da prassi ed opinio juris; l’impressione è che per gli Stati – e per la giurisprudenza internazionale – sia più conveniente continuare ad usare quei codici, per poi intenderli e combinarli nella maniera ritenuta via via più opportuna.
Art. 3, Statuto della Corte internazionale di giustizia; art. 10 Cost.
Tutti i manuali di diritto internazionale dedicano una parte alla consuetudine.
Si segnalano qui inoltre, Kelsen, H.,Théorie du droit international coutumier, in Revue international de thèorie du Droit, 1939, vol. X, 253 ss.; Bobbio, N., La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942; Ziccardi, P., La costituzione dell’ordinamento internazionale, Milano, 1943; Ago, R., Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950; Giuliano, M., La comunità internazionale e il diritto, Padova, 1950; Barile, G., La rilevazione e l’integrazione del diritto internazionale non scritto e la libertà di apprezzamento del giudice, Comunicazioni e studi, vol. 5, Milano, 1953, 141-229; Dupuy, R.-J., Coutume sage et coutume sauvage, in Melanges offerts à Charles Rousseau, La communauté internationale, Parigi, 1974, 75 ss.; D’Amato, A., The Concept of Custom in International Law, Ithaca-London, 1971; Akehurst, M., Custom as a Source of International Law, in BYIL, vol. 47, 1976, 1 ss; Ferrari-Bravo, L., Méthodes de la recherche de la coutume international dans la pratique des Etats, in RCADI, vol. 192, 1985-III, 233 ss.; Arangio-Ruiz, G., Consuetudine (consuetudine internazionale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; Condorelli, L., Consuetudine internazionale, in Dig. pubbl., vol. III, Torino, 1989, 490 ss.; International Law Association, Final Report of th Committee, Statement of Principles Applicable to the Formation of General Customary International Law, 2000; Roberts, A.E., Traditional and Modern Approaches to Customary Law: A Reconciliation, in AJIL, 2001, 757; Treves, T., Customary International Law, in The Max Planck Encyclopedia of Public International Law, vol. II, Oxford, 2012, 937 ss.; Talmon, S., Determining Customary International Law: The ICJ’s Methodology between Induction, Deduction and Assertion, in EJIL, 2015, 417 ss.; L'incidenza del diritto non scritto nel diritto internazionale ed europeo, Atti del XXConvegno della società italiana di diritto internazionale, Macerata, 5-6- giugno 2015, Napoli, 2016; Bradley, C.A., a cura di, Custom’s Future, Cambridge, Cambridge University Press, 2016.