CONSUETUDINE (dal lat. consuetudo; fr. coutume; sp. costumbre; ted. Gewohnheit; ingl. custom law)
È una delle fonti di diritto positivo (ius non scriptum): quella, cioè, che si concreta nell'osservanza costante, uniforme e generale di una norma di condotta, compiuta dai membri di una comunanza sociale con la convinzione della sua obbligatorietà giuridica. Due, quindi, sono gli elementi costitutivi della consuetudine; l'uno, di fatto, esterno; l'altro, interno. Il primo consiste in una serie di atti simili, uniformemente e costantemente ripetuti; non occorre, però, che si tratti di pratica antica, cioè, di inveterata consuetudo, di usus longaevus, né occorre una durata fissa, come richiede il diritto canonico, che parla di consuetudine la quale sia legitime praescripta; una certa durata di tempo è indispensabile, per l'indole stessa della consuetudine, ma tale durata non è un requisito di essa. L'altro consiste nella convinzione giuridica che l'osservanza di quella pratica corrisponde a una necessità di diritto (opinio necessitatis seu iuris).
Storia. - Se nei diritti primitivi la consuetudine, dati i suoi due elementi costitutivi, cui si è accennato, è la sola fonte di diritto, più tardi, con l'avvento della legge scritta, questa condizione è profondamente modificata. La legge scritta dapprima contrasta il posto alla consuetudine e poi prevale su di essa. Tuttavia, nelle profonde trasformazioni giuridiche, quando la legge, non più adatta alle circostanze sociali, vien meno, ecco che la consuetudine riprende imperio, per lasciare più tardi il posto a una legge meno imperfetta. È una vicenda, questa, che ricorre presso tutti i popoli e presso tutti i paesi.
Così, nel diritto romano più antico, prevale la consuetudine; e questa, detta usus, mos, consuetudo, resta fonte notevole di diritto, anche nel periodo del principato, nonostante lo sviluppo della legge scritta e della giurisprudenza. Ma questa condizione di cose si modifica col volgere del tempo: con una legge di Costantino (Cod., VIII, 52 [53], quae sit longa cons., 2), la consuetudine è privata del potere di abrogare il diritto esistente; e la legge prevale in via assoluta.
Nel diritto germanico, la consuetudine, che i Longobardi dicono cawarfrida o disposizione di pace, è, per lungo tempo, la sola fonte del diritto. Viene poi la legge scritta, imitata dal diritto romano, e questa guadagna rapidamente, con le leggi popolari e con le leggi regie, una posizione preminente. Nei capitolari carolingi, la legge è dichiarata prevalente sull'uso, e quest'ultimo si consente solo nei casi non preveduti o non regolati da quella. Ma la debolezza delle monarchie barbariche non permise che questo principio resistesse. Succede il periodo della dissoluzione feudale, e la consuetudine riprende impero. Allora predomina, in base al principio della territorialità del diritto, contro il sistema barbarico della personalità, la consuetudo loci, che, quando è buona, antica e approvata, prevale sulla legge; si distingue però dall'uso generale (usus regni) l'uso locale (usus loci, usus terrae). Cosi si formano quelle consuetudini delle città e dei castelli, che i grandi feudatarî, i re, l'imperatore o la Chiesa non tardano a riconoscere e ad approvare. Anche l'uso giudiziario serve, con le sentenze (laudamenta, placita), a formare il vasto e complesso corpo delle consuetudini, che, fin dal sec. XI o XII, le città italiane cominciarono a redigere in iscritto, costituendo cosi un diritto consuetudinario, che prevale sugli statuti e sulle leggi.
Fin dal 1056, a Genova, si ha una compilazione di consuetudini, già approvate dal re Berengario nel 958, che formano uno dei testi più antichi; e subito dopo, il Constitutum usus di Pisa, distinto da quello della legge fino dal 1156, dà esempio di un vasto corpo consuetudinario, che aveva anche un proprio tribunale: il tribunale dell'uso. Anche Venezia ebbe, fin dalla seconda metà del sec. XII, il suo testo di consuetudini (Usus Venetorum); e cosi Milano, il cui Liber consuetudinum, che sembra ufficialmente adottato nel 1216, è senza dubbio di compilazione anteriore. Identico movimento si ebbe in tutte le città italiane, anche nell'Italia meridionale e nelle isole, che hanno testi famosi di consuetudini, come Napoli, Salerno, Amalfi, Bari, Messina, Palermo, Catania.
Ma con lo sviluppo degli statuti e col risorgimento del diritto romano anche la consuetudine perde terreno; e per la sua validità si richiede anzitutto che sia approvata dagli organi comunali e scritta. Entrata così nella serie delle leggi comunali, essa prevale con queste, come legge eccezionale territoriale, sul diritto romano, che, in mancanza di quello, trova applicazione come diritto comune. L'uso non scritto ha valore soltanto se manca la legge comunale e se non vi è nel diritto comune una norma applicabile. La consuetudine diventa cosi una fonte sussidiaria del diritto.
Uno sviluppo abbastanza simile si ebbe anche in Francia, ma soltanto nei paesi che si dissero di droit écrit, cioè quelli delle regioni meridionali, dove lo svolgimento del diritto comunale e l'applicazione del diritto romano ebbero identiche vicende. Invece la condizione delle cose fu profondamente diversa nelle regioni della Francia occidentale e settentrionale, dove prevalse il cosiddetto droit coutumier. Qui si ebbe, nelle varie regioni e nelle varie città, un largo sviluppo di consuetudini, accanto alle leggi statutarie e alle leggi dei principi; e queste consuetudini, dette coutumes, furono raccolte in iscritto, elaborate da giuristi pratici e indirizzate a costituire un vasto corpo di diritto vivo, in continuo movimento, che ebbe grande importanza nella formazione dei codici moderni. Questo diritto consuetudinario, che ha tra le opere maggiori il testo delle Coutumes du Beauvoisis di Beaumanoir, il Grand Coutumier de France di Giacomo d'Ableiges (sec. XIV), la Somme rurale di Boutillier e altri testi famosi, si colloca quasi come un diritto comune dei paesi di droit coutumier, per modo che, in mancanza di leggi precise vigenti nel luogo, si viene subito all'applicazione del diritto consuetudinario, che ha la prevalenza; e, solo in sua mancanza, si ricorre ai testi del diritto romano e al diritto comune.
Tra la fine del sec. XV e la prima metà del XVII, si compie, in questi paesi di diritto consuetudinario, un vasto movimento, che conduce alle varie redazioni ufficiali del diritto consuetudinario, il quale si fissa nello scritto e diventa legge generale. Allora, anche in questi paesi, il movimento creativo della consuetudine viene ad essere frenato e arrestato.
Non altrimenti in Inghilterra, dove un fondo di diritto romano, divulgato dalle antiche città di fondazione latina, non era rimasto senza influsso sulle leggi anglosassoni, si svolge più tardi, dai diversi territorî e dalle città, unificate dalla monarchia, un vasto complesso di consuetudini giuridiche, che, poste in parte in iscritto ed elaborate dalla giurisprudenza delle corti e dalla dottrina, formano il grande tessuto del common law, tuttora vigente, di fronte alle leggi speciali, emanate dai re e dai parlamenti, che sono, come negli altri paesi, la legge d'eccezione, da osservarsi prima d'ogni altra. In Germania, dopo lo sviluppo delle leggi barbariche, derivate dalla consuetudine, fiorì un diritto consuetudinario, che ebbe favore nei diversi territorî, onde i testi dei cosiddetti Specchi della Svevia e della Sassonia, e le consuetudini delle città e dei territorî. Con la recezione del diritto romano, che, nonostante la dura lotta, dal secolo XV, fu accolto come diritto comune nella maggior parte dei paesi, lo spazio d'azione della consuetudine venne ristretto.
La consuetudine ha grande importanza nel diritto musulmano, dove gli usi dei diversi paesi, elaborati dai conoscitori del diritto, servono all'applicazione del Corano, come libro non soltanto religioso, ma di regola morale e giuridica, donde le varie scuole e i varî modi divergenti d'interpretazione giuridica. Dai libri sacri si elabora, su fondamenti consuetudinarî, il diritto degl'Indiani, e anche quello degli altri paesi d'Estremo Oriente, dove la consuetudine prevale decisamente sulla legge.
Bibl.: C. van den Berg, Principes du droit musulman, Algeri 1895; S. Brie, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht, Breslavia 1899; A. Brissaud, Cours d'histoire générale du droit français, Parigi 1904, voll. 2; P. Viollet, Histoire du droit civil français, Parigi 1905, 3ª ed.; Pollock e Maitland, Hist. of English Law, 2ª ed., Cambridge 1911; E. Besta, Storia del dir. ital. Le fonti: legislazione e scienza, Milano 1925.
Aspetti della consuetudine nei rapporti con la legge. - La legge scritta è, ormai, la fonte normale del diritto positivo, e, talvolta, esclusiva, come nel diritto penale. Alla consuetudine, quindi, non resta che un valore puramente sussidiario, per determinare il quale occorre esaminarla negli aspetti che essa assume di fronte alla legge. Secondo l'opinione più universalmente accolta, la consuetudine può distinguersi in tre specie: 1. è considerata dalla legge stessa (consuetudo secundum legem); 2. sorge in contraddizione delle leggi esistenti (consuetudo contra legem); 3. si presenta soltanto come mezzo d'interpretazione, come supplemento delle leggi scritte (consuetudo praeter legem). Esaminiamo partitamente questi varî aspetti.
1. Consuetudo secundum legem. - È quella richiamata espressamente dalla legge, che ne impone l'osservanza.
Esempî tipici di questo richiamo si trovano nel codice civile, in una norma di ordine generale, come quella dell'art. 2 che dispone: "i comuni, le provincie, gl'istituti pubblici civili ed ecclesiastici e in generale tutti i corpi morali legalmente riconosciuti, sono considerati come persone e godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi (tale espressione è adoperata qui, come nell'art. 1 cod. comm., e come, del resto, in quasi tutta la legislazione, promiscuamente, cioè tanto nel senso di consuetudine vera e propria, quanto nel senso di uso propriamente detto, di cui diremo in fine) osservati come diritto pubblico"; e in norme relative a particolari materie: cosi negli articoli 487, 506, 1607, 1608, 1609, 1610, 1651, 1654. Esempî se ne trovano nel codice di commercio, il quale all'art.1, dispone "in materia di commercio si osservano le leggi commerciali. Ove queste non dispongano, si osservano gli usi mercantili; gli usi locali o speciali prevalgono agli usi generali. In mancanza si applica il codice civile". E vi sono esempî di riferimento alla consuetudine in materie speciali di diritto pubblico, oltre il richiamo generale di essa nell'art. 2 del cod. civ.
In questi casi è evidente che la norma del diritto consuetudinario è divenuta una norma di legge e gode della stessa autorità di questa, anche quando la sua formazione sia stata anteriore alla legge che la richiama, come chiaramente si rileva dall'art. 48 delle disposizioni transitorie del cod. civ., il quale, dichiarando abrogate nelle materie che formano oggetto del nuovo codice tutte le leggi anteriori generali e speciali e gli usi e le consuetudini, eccettua gli usi e le consuetudini a cui il codice stesso espressamente si riferisce.
2. Consuetudo contra legem. - È quella che consiste in una norma di condotta che è in antitesi con la norma stabilita dalla legge nella doppia forma, o, cioè, per desuetudine, in quanto una norma di legge è costantemente e generalmente inosservata, generandosi la comune convinzione che essa abbia perduto efficacia, ovvero per essersi sostituita alla norma di legge una norma consuetudinaria a quella contraria (consuetudo abrogatoria). È opinione comune che la consuetudo contra legem non abbia alcun valore nel nostro diritto positivo. Tale opinione è imposta dall'art. 5 delle disposizioni preliminari al cod. civ., il quale sancisce: "le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità delle nuove disposizioni con le precedenti, o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore". Né è possibile distinguere, come molti scrittori hanno fatto, fra desuetudine e consuetudine abrogatoria, sostenendo che una legge possa perdere la sua efficacia, il suo valore obbligatorio, quando per molto tempo non si è più osservata. La distinzione è inammissibile, perché si fonda sopra una vuota questione di parole. La desuetudine, infatti, non è altro che una consuetudine negativa; essa, cioè, non sostituisce alla norma di legge una nuova norma -contraria, ma conduce egualmente all'abrogazione della legge in virtù della norma consuetudinaria, che ha pure un proprio contenuto, cioè quello di autorizzare l'inosservanza della norma stabilita dalla legge. È chiaro quindi che la desuetudine, identificata con la consuetudine abrogatoria, viene come questa a porsi in contraddizione con il citato art. 5 delle disposizioni preliminari (per quel che riguarda l'annosa questione se il 1° articolo dello statuto albertino fosse caduto in desuetudine, v. statuto).
3. Consuetudo praeter legem. - È quella che tende a completare la legge scritta, nel senso di supplire col mezzo dell'interpretazione alle deficienze e alle eventuali lacune di essa, specie quando si tratti di applicarla a casi non previsti e forse nemmeno prevedibili all'epoca in cui la legge fu formata. Può avvenire infatti, frequentemente anzi avviene, che, nell'interpretazione di una legge, specie per applicarla a rapporti della vita che assumono nuovi atteggiamenti, o addirittura a rapporti nuovi, si adotti una pratica costante, che finisce con l'essere considerata quale contenuto proprio della norma che s'interpreta.
Nemmeno a questa consuetudine può attribuirsi, nel sistema del nostro diritto positivo, l'autorità e il valore di fonte autonoma del diritto, parallela alla legge, per le stesse ragioni per le quali non si può attribuire tale autorità alla consuetudo contra legem. Nel nostro ordinamento giuridico positivo, la facoltà di emanare norme giuridiche spetta esclusivamente agli organi del potere legislativo e a taluni organi del potere esecutivo (legge 31 genn. 1926, n. 100) e non è possibile che, all'infuori di queste, vi sieno altre fonti del diritto positivo. E, d'altro canto, sarebbe illogico ritenere la consuetudine come fonte sussidiaria per colmare le lacune della legge, o per interpretarla, e non pure per sostituirsi addirittura ad essa.
La consuetudo praeter legem può essere considerata soltanto come un autorevole mezzo d'interpretazione della legge scritta e, come tale, essa rivela la sua maggiore efficacia nel campo del diritto pubblico, amministrativo e costituzionale, in quest'ultimo specialmente. Qui, infatti, gl'istituti e i rapporti giuridici hanno una tradizione storica meno ricca che non gl'istituti e i rapporti di diritto privato; talvolta, anzi, non ne hanno alcuna.
Inoltre, tali rapporti sono, per la loro natura, più mutevoli e contingenti, sicché le leggi che li regolano non possono seguirli in tutta la loro rapida trasformazione, e si rende necessaria, perciò, un'opera più completa d'interpretazione, che valga a stabilire il contenuto e l'estensione delle norme legislative, specialmente da parte degli organi dell'amministrazione, che sono preposti all'attuazione e all'applicazione della legge. Orbene, quando si forma, in ordine a queste leggi, la cosiddetta prassi amministrativa, indubbiamente questa ha e deve avere una grande autorità morale, che, però, non può mai elevarsi al grado e alla dignità di una norma giuridica.
Sicché, conchiudendo, è da ritenere che nel nostro sistema giuridico, mai la consuetudine possa essere considerata come fonte giuridica autonoma, capace, quindi, di sostituirsi alla legge e di abrogarla. Essa può valere soltanto, o in quanto la legge espressamente la richiama, o in quanto serve come mezzo d'interpretazione della legge stessa, considerata come elemento di essa.
Prova della consuetudine. - Ammesso che nel sistema del nostro ordinamento giuridico positivo, la consuetudine è fonte di diritto quando è richiamata dalla legge, che ne fa proprio il contenuto e ne impone la osservanza, sorge la questione se la norma da essa risultante debba essere provata come i fatti giuridici, in genere, da colui che la invoca, e per tanto possa applicarsi dal giudice in quanto sia stata provata, ovvero se essa, contenendo una norma di diritto, debba essere regolata dalle norme che disciplinano la conoscenza di questa da parte del giudice, il quale, perciò, deve conoscerla e applicarla, indipendentemente dalle prove sull'esistenza e sul contenuto di essa, che possa avergli fornite la parte che la invoca. Generalmente si ritiene che la prova della consuetudine è la prova di una norma di diritto e, quindi, debbano applicarsi ad essa le regole che son proprie di queste. Questa opinione è sostanzialmente esatta, ma va precisata.
Non si può disconoscere infatti che, per quanto la consuetudine contenga una norma giuridica, tuttavia essa si fonda su un fatto, la determinazione del quale può essere un presupposto necessario per renderne possibile l'applicazione. Quindi, non possono applicarsi in tutto e per tutto le regole che disciplinano l'applicazione del diritto. Il giudice non può non conoscere la legge, ma può perfettamente ignorare la consuetudine. Sicché, mentre non può mai richiedere alle parti la prova dell'esistenza della legge e del suo contenuto, può richiedere invece quella della consuetudine. D'altro canto però, siccome la consuetudine contiene una norma giuridica, fa parte, quindi, del sistema del diritto positivo, il giudice può e deve applicarla quando, indipendentemente dalla prova che ne abbiano fornito le parti, la conosca direttamente o se ne procuri aliunde la conoscenza, mentre la prova di ogni altro fatto giuridico non può derivare se non dalle parti, né il giudice può sostituire la sua scienza personale di quel fatto alla prova che non hanno fornita le parti.
Precisato dunque il concetto che alla consuetudine, in quanto contiene una norma giuridica, devono essere applicate le regole che disciplinano la conoscenza del diritto, ma che, d'altra parte, poiché essa deriva da un fatto, può esser necessario l'accertamento di questo fatto, bisogna concludere che, di regola, la consuetudine è sottratta alle norme che presiedono all'accertamento di ogni altro fatto giuridico, ma che, a differenza di ciò che avviene per le norme giuridiche che derivano dalla legge, il giudice può richiedere alle parti la prova dell'esistenza e del contenuto della consuetudine. All'infuori di questa caratteristica, che deriva dall'indole della norma consuetudinaria, o che si fonda su di un fatto, a essa si applicano le regole che son proprie dell'accertamento del diritto. Da qui deriva: a) il giudice può applicare la norma consuetudinaria se ne abbia diretta, personale conoscenza e può anche procurarsi di ufficio tutti gli elementi che servono a fargli avere tale conoscenza (ius novit curia); b) il giudice deve applicare la norma consuetudinaria anche se le parti non la invocano; c) la norma consuetudinaria è norma di diritto, quindi la violazione o la falsa applicazione di essa da parte del giudice di merito può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione, e può esserne anche invocata per la prima volta l'applicazione in Corte di cassazione. Al riguardo però deve osservarsi che, siccome nel nostro ordinamento giudiziario la Corte di cassazione è chiamata a giudicare unicamente del diritto, potrebbe sembrare che ad essa fosse preclusa ogni indagine di fatto sull'accertamento della consuetudine, ond'è stato autorevolmente ritenuto (N. Coviello) che, praticamente, la facoltà d'invocare una consuetudine anche in cassazione, si può esercitare solo se si tratti di consuetudine nota e che non abbia bisogno di prova. Ciò è soltanto in parte vero, poiché, se alla Corte di cassazione è interdetto di procedere a talune indagini di fatto, come quella di ordinare la raccolta di mezzi di prova, non può esserle vietato di procurarsi di ufficio la prova della norma consuetudinaria e di applicarla.
Circa i mezzi di prova della consuetudine, dei quali il giudice di merito può giovarsi per il suo accertamento, poiché tale prova appartiene all'accertamento del diritto, ne deriva che devono essere esclusi tutti quei mezzi probatorî, che, nel nostro ordinamento giuridico processuale, sono fondati sulla dichiarazione dell'interessato, perché essi riguardano esclusivamente la prova dei fatti, quali: l'interrogatorio, la confessione e il giuramento, che sostituiscono all'accertamento del fatto la sua ammissione da parte dell'interessato.
I mezzi di prova della norma consuetudinaria possono essere costituiti dalla prova testimoniale, dalle perizie, ovvero dai documenti, fra i quali hanno una particolare importanza le raccolte degli usi che i Consigli dell'economia nazionale devono compilare e pubblicare (legge 18 aprile 1926 n. 731, art. 3 n. 12); precedenti decisioni giudiziarie che hanno accertato l'esistenza e il contenuto della consuetudine; opinioni degli scrittori; circolari; fatture stampate; polizze di assicurazioni e, infine, anche certificati di notorietà privata di commercianti. S'intende però che non solo l'apprezzamento del valore di tali prove è lasciato al criterio del giudice, salvo l'eventuale censurabilità di esse in cassazione, ma che, siano questi mezzi stati offerti da una delle parti o siano ordinati di ufficio dal giudice, può offrirsi la prova contraria, potendo benissimo avvenire che quelle attestazioni non siano vere o che la norma consuetudinaria da esse attestata abbia cessato di aver vigore, o per desuetudine, o perché ad essa si è sostituita una consuetudine contraria.
Usi. - Dalla consuetudine vera e propria vanno distinti gli usi, ai quali si riferisce talvolta anche il cod. civ. (articoli 489, 580, 582, 1124, 1134, 1135, 1505, 1608, 1609, 1610, 1654, 1656), i quali consistono in una cosciente e prolungata ripetizione di atti volontarî. Essi hanno comune con la consuetudine l'elemento di fatto, consistente nella ripetizione costante e uniforme d'una serie di atti, ma se ne distinguono, sia perché non occorre l'elemento della generalità, potendo l'uso restringersi alla pratica di due persone soltanto che siano tra loro in relazioni d'affari, sia soprattutto per l'elemento interno, il quale non deve consistere già nell'opinio necessitatis seu iuris, ma nella convinzione di seguire una norma giuridica, bastando soltanto la volontà di seguire un precedente.
La loro forza vincolativa si fonda sulla presunzione di volontà della quale possono far parte e si dicono, perciò, usi interpretativi o, meno esattamente, usi di fatto, usi di affari, e hanno valore come mezzo di interpretazione della volontà delle parti.
Da questa loro caratteristica derivano parecchie conseguenze e cioè: a) è sempre possibile combattere la presunzione di volontà, dimostrando che, nel caso concreto, la volontà fu diversa; b) la prova dell'uso è in tutto regolata dalle norme che disciplinano la prova di qualsiasi fatto giuridico: quindi il giudice non può accertarne l'esistenza d'ufficio, ma esso deve essere allegato e provato da chi intende avvalersene; i mezzi di prova sono quelli comuni a qualsiasi fatto, la violazione o la falsa applicazione dell'uso non può essere motivo di ricorso per cassazione; c) l'ignoranza dell'uso ne fa cessare l'obbligatorietà, perché cade la presunzione di volontà sulla quale l'uso si fonda; d) l'uso, appunto perché fa parte della dichiarazione di volontà, può sempre derogare alle norme di legge dispositive o permissive, mentre la consuetudine, richiamata dalla legge, di regola, è norma suppletiva nel senso che può applicarsi solo quando manchi un'espressa disposizione legislativa; soltanto eccezionalmente ha un'efficacia surrogatoria (articoli 30, 64 cod. comm.)
Bibl.: I. Vanni, Della consuetudine nei suoi rapporti col diritto e colla legislazione, Perugia 1877; F. S. Bianchi, Principii generali sulle leggi, in Corso del cod. civ., 2ª ed., Torino 1888, pp. 102-123; A. Morelli, La funzione legislativa, Bologna 1893, p. 186; C. Ferrini, Consuetudine, in Encicl. giur. it.; E. Gianturco, Sistema di diritto civile it., I, Napoli 1894, pp. 8-10; Miceli, La forza obbligatoria della consuetudine, 1899; id., Le fonti del diritto, Palermo 1905; F. Degni, L'autorità del diritto consuetudinario nella legislazione civile italiana, Napoli 1906; Filomusi-Guelfi, in Enciclopedia giuridica, 1907, par. 21-22, pp. 56-69; C. Fadda e P. E. Bensa, in Note nella trad. di B. Windscheid, Diritto delle Pandette, I, Torino 1902, pp. 112-117; N. Coviello, Manuale di diritto civile, Milano 1910; id., Manuale di diritto ecclesiastico, Roma 1915, pp. 16-21; F. Ferrara, Trattato di diritto civile, I, Roma 1921, pp. 125-129; B. Dusi, Istituzioni di diritto civile, Napoli, I, 1922, pp. 20-21; De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile italiano, I, 1926; C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, I, 5ª ed., Milano 1922, n. 5 L. Bolaffio, La legislaz. comm., Torino 1929; A. Rocco, Principii di dir. comm., I, Torino 1928, par. 12; V. E. Orlando, Trattato di diritto amministrativo, I, Milano 1897 segg., pp. 1056-1072; O. Ranelletti, La consuetudine come fonte del diritto pubblico, Milano 1913, p. 146 segg.; id., Principii di diritto amm., Napoli, II, p. 6 seg.; S. Romano, Principii di diritto amm., 3ª ed., Milano 1912; F. Cammeo, Corso di diritto amm., 2ª ed., Padova 1914; E. Presutti, istituzioni di diritto amm. italiano, I, 2ª ed., Roma 1917-1920, p. 74 seg.; F. Savigny, System, Berlino 184, I, p. 7 seg.; Schmidt, Zur Lehre vom Gewohnheitsrecht, 1884; A. Sturm, Revision der gemeinen Lehre vom Gewohnheitsrecht; F. Geny, Méthode d'interp. et sources en droit positif, 2ª ed., Parigi 1919; Lambert, La fonction du droit civ. comparé, 1903; A. Esmein, La coutume doit-elle etre reconnue comme... du droit civ. français?, in Bull. de la société d'ét. leg., 1905, p. 533 seg.
La consuetudine nel diritto canonico.
È principio fondamentale nella Chiesa cattolica che ogni potere legislativo, fuori naturalmente di quanto concerne il diritto divino naturale e positivo, di cui la Chiesa è solo interprete, e la cui fonte esclusiva è Dio, risiede nel pontefice e negli altri organi superiori della gerarchia, mentre i fedeli (populus, christiana plebs) ne sono totalmente privi. Ne deriva che il diritto canonico riconosce come fonte di diritto la consuetudine, non quale frutto indipendente della coscienza giuridica del popolo, ma solo in quanto il consenso del superiore ecclesiastico conferisca ad essa forza di legge. Ciò nondimeno l'importanza pratica della consuetudine nel diritto canonico è stata ed è tuttora rilevante. Il che spiega l'ampia elaborazione che la dottrina della consuetudine andò assumendo negli scritti dei canonisti e dei teologi, a partire dai primi decretalisti fino alla promulgazione del Codex iuris canonici. Il quale, poi, dal suo canto, riconoscendone l'efficacia creatrice e abrogatrice di diritto, le conserva nella legislazione della Chiesa una posizione assai notevole.
Storia. - Nei primi secoli della Chiesa non esiste una dottrina ben definita intorno alla consuetudine e al suo valore giuridico. Mentre da un lato è posto il principio che ogni autorità in essa viene dall'alto (Rom., XIII,1), la Chiesa stessa che, per avversare i costumi rituali in onore presso gli Ebrei e i Gentili aveva condannato gli usi e le pratiche religiose fino allora seguite, instaura il culto della tradizione (cioè dell'insegnamento e della pratica di Gesù Cristo e dei suoi rappresentanti) e non tarda a proclamare la legittimità delle consuetudini stabilitesi in conformità di essa. Viene però, fino al sec. XII, riconosciuta solamente l'efficacia delle consuetudini iuxta e praeter legem. La questione se la consuetudine potesse anche derogare a una legge, assai controversa anche dopo Graziano, viene risolta affermativamente (per quanto anche in seguito continuino a permanere isolati dubbî) solo con le Decretali di Gregorio IX, nel celebre cap. ult., quum tanto, X (I, 4). Questo rimase il testo fondamentale in materia e i suoi termini furono poi riprodotti dallo stesso codice del 1917. Secondo questo testo non è ammesso che la consuetudine possa in alcun modo derogare al diritto naturale: quanto al semplice diritto positivo "benché l'autorità di una consuetudine longeva non sia dappoco, tuttavia essa non può valere al punto da portargli pregiudizio, se non sia ragionevole e legittimamente prescritta".
Da questi principî vennero specialmente desunti gli elementi per la dottrina generale della consuetudine, secondo il diritto delle Decretali. Ivi non si contengono ancora specificati tutti gli estremi che dovranno caratterizzarla in seguito, rendendola autonoma dalla teoria civilistica, ma essi andranno precisandosi attraverso l'elaborazione secolare dei dottori.
In particolare non appare cenno nel capitolo quum tanto di quanto concerne la necessità del consenso del sovrano, ma la dottrina ortodossa della Chiesa non tardò molto a comprenderlo fra i requisiti indipensabili per la validità della consuetudine, salvo a discutersi intorno alla forma in cui tale consenso andava manifestato. Fra i punti che diedero luogo a maggiori dispute uno fu quello relativo al requisito, voluto dalla decretale, della legitima praescriptio. Esso derivò da ciò che si considerava la consuetudine ora come una immunitas di fronte alla legge, ora come una servitù imposta ai fedeli, che potesse perciò venire acquistata per usucapione contro il legislatore e il diritto comune, e per la quale il possesso necessario era rappresentato dall'esercizio, la bona fides dalla opinio necessitatis, e il iustus titulus (del resto non essenziale per l'usucapione) dal longum tempus. I canonisti successivi però avvertirono tosto la differenza fra i due concetti di consuetudine e di prescrizione, e distinguendo fra l'una e l'altra, spiegarono che l'espressione del cap. 11 (legitime praescripta) non poteva avere in sostanza altra portata, se non quella che la consuetudine dovesse avere la durata necessaria perché, come accade con una prescrizione, produca il proprio effetto. Ma anche chiarito questo concetto, restarono insoluti non lievi dubbî, sia sul tempo necessario a introdurre - o come dicevasi, a prescrivere - la consuetudine, sia su altri punti della materia. Né, d'altra parte, fuori del cap. 11 quum tanto, era agevole trarre criterî sicuri e uniformi d'orientamento dai varî testi del Corpus iur. can. relativi alla consuetudine, per lo più consideranti l'argomento solo sotto l'aspetto particolare di una fattispecie o di una questione singola.
La codificazione scioglieva, se non tutti, i principali dei dubbî precedenti, e, pur distaccandosene su qualche punto particolare, sanzionava ufficialmente nei lineamenti generali la dottrina elaborata dalla scuola.
La consuetudine nel "Codex". - Il codex iuris canonici tratta della consuetudine in un titolo apposito (Libr. II, tit. 2, can. 25-30) ove ne regola i requisiti e l'efficacia in generale. Il codice non definisce la consuetudine, la cui nozione rimane pertanto quella tradizionale, ius non scriptum diuturnis populi moribus cum aliquo legislatoris consensu introductum. È invece sancito espressamente, avanti ogni altra norma in materia, il principio relativo alla necessità del consenso legislativo quale causa efficiente della consuetudine. Consuetudo in ecclesia vim legis a consensu competentis superioris ecclesiastici unice obtinet (can. 25). Quale debba essere questo consenso non è detto in maniera esplicita dal legislatore. La teoria discusse molto per il passato se e quando, oltre al consenso detto speciale, e che può essere espresso o tacito (si ha consenso tacito quando il legislatore, conoscendo la consuetudine, taccia e non la contraddica mentre lo potrebbe facilmente), valesse a confermare la consuetudine anche il consenso legale o generale detto anche presunto (quello cioè espresso in modo generale dalle leggi: così quello concesso a tutte le consuetudini rationabilibus et legitime praescriptis dal cap. ult., X, quum tanto). Molti, distinguendo la consuetudine iuxta e praeter legem da quella contra legem, ammettevano il consenso legale per le sole due prime specie, ma la maggioranza ritenne che valesse anche per la terza. Il codice ha accolto quest'ultima dottrina ritenendo sufficiente in ogni caso il consenso legale, laonde il consenso del superiore richiesto dal can. 25 deve ritenersi sussistere, o quando egli approvi in concreto la consuetudine, oppure quando essa abbia i requisiti indicati dalla legge (v. M. Falco, Introd. allo studio del Codex iuris canon., Torino 1925, pag. 119).
La consuetudine può essere fonte sia di diritto generale nei confronti della Chiesa universale, sia di diritto particolare in quelli di collettività minori, ed è in questo secondo campo che essa esplica più frequentemente la sua azione. Può dar luogo alla formazione della consuetudine ogni comunità capace almeno di ricevere una legge ecclesiastica, communitas quae legis ecclesiasticae saltem recipiendi capax est (can. 26), cioè tale che ad essa possa imporsi una vera legge, non un semplice comando o precetto.
Occorre in ogni caso per l'essenza di una consuetudine legalmente efficace, che si abbia una pratica pubblica, costante, frequente e uniforme, da parte della collettività, o almeno della maggioranza dei suoi componenti, rispetto a un determinato rapporto, attuata coscientemente, e sempre che sia conforme a ragione (rationabilis) e osservata legittimamente per un dato lasso di tempo. Circa il requisito della razionalità, il codice si limita a dichiarare non rationabilis la consuetudine quae in iure expresse reprobatur (can. 27, § 2): sempre poi s'intesero riprovate, inammissibili, irrazionali quelle che fossero contrarie al diritto divino, quelle che porgessero occasione o fomite al peccato, o mettessero in pericolo la salute dell'anima, o che contravvenissero al bene generale, o che sovvertissero il sistema generale della costituzione e della disciplina ecclesiastica, o riuscissero contrarie all'essenza di un determinato istituto. Delle tre specie in cui la consuetudine si distingue, iuxta legem, praeter legem e contra legem, la prima viene considerata come interprete, la migliore, della legge: optima legum interpres (can. 29). Non importando quindi lo stabilimento di nuove norme giuridiche, la consuetudine non è in questo caso vera fonte di diritto, come è nelle altre due specie, di maggiore, sebbene diversa, importanza.
La consuetudine praeter legem, quella cioè che introduce una nuova norma mancante nell'ordinamento precedente (vale a dire che rende obbligatorî o vieta atti che prima erano liberi), richiede che la comunità abbia osservata la norma con l'animo di obbligarsi, per quarant'anni continui e completi (can. 28). Dato l'animus se obligandi. richiesto per la consuetudine praeter legem, non indurrebbe diritto nuovo l'osservanza comune di determinate pratiche fatta dal popolo per errore sulla loro obbligatorietà, o senza intenzione di sottomettersi a una norma giuridica, quali le consuetudini praticate per libera devozione dalla maggior parte del popolo cristiano (ad es., quelle di sentire tre messe nel giorno di Natale, di prendere le ceneri all'inizio della Quaresima, e simili).
La consuetudine contra legem viene regolata dal codice in base agli stessi criterî fondamentali già posti dal cap. 11, X, quum tanto e illustrati dalla dottrina. Nessuna consuetudine può derogare in alcun modo al diritto divino sia naturale sia positivo; può invece l'efficacia contra legem della consuetudine manifestarsi nei riguardi del diritto positivo ecclesiastico, qualora concorrano i già accennati requisiti di razionalità, e la consuetudine sia legitime per annos quadraginta continuos et completos praescripta (can. 27, § 1).
Accade talora che una legge ecclesiastica sia munita di clausola che proibisce anticipatamente sull'oggetto da essa regolato qualunque consuetudine futura. Sull'efficacia di una tale clausola sorsero vivi dispareri, specialmente a proposito dei decreti disciplinari del concilio di Trento, riguardo ai quali le costituzioni di Pio IV, Benedictus Deus, del 26 gennaio 1563, Sicut ad Sacrorum, del 19 luglio 1564, e In principiis del 18 febbraio 1565, interdicevano l'introduzione di ogni consuetudine ulteriore contraria ad essi. In base a tale divieto molti ritennero caduca ogni successiva consuetudine opposta, ma i più opinarono che esso divieto non impedisse il sorgere di una consuetudine contraria (v. per tutti Ortolan, Clauses apostoliques, in Dict. de théol. cathol., III, v, 2 e 7), e in realtà molti decreti del Tridentino caddero effettivamente in desuetudine. Il codice accolse il principio che la consuetudine posteriore possa prevalere anche al divieto della legge precedente, solo però quando si tratti d'un consuetudine centenaria o immemorabile (can. 27, § 1).
La consuetudine può essere abrogata (revocatur) da una consuetudine contraria o da una legge; la legge però non revoca le consuetudini centenarie o immemorabili, se non ne faccia espressa menzione, né una legge generale revoca le consuetudini particolari (can. 30). Non è detto quale tempo si richieda perché una consuetudine sia abrogata da una consuetudine contraria, onde rimane dubbio se si richiedano anche in questo caso quarant'anni.
La codificazione, provvedendo a fissare le relazioni con il diritto anteriore, considerò con norme particolari (can. 5) le consuetudini vigenti all'entrata in vigore del codice e contrarie alle disposizioni di esso. A tal fine stabilì una distinzione fondamentale fra le consuetudini espressamente riprovate dal codice e le rimanenti. Le prime sono tutte abrogate, anche se immemorabili, e si vieta di lasciarle rivivere per l'avvenire. Le altre consuetudini, contrarie al codice, ma non espressamente riprovate da esso, potranno essere tollerate, quando gli ordinarî ritengano che per le speciali circostanze dei luoghi e delle persone non sia prudente rimuoverle, solo se siano centenarie e immemorabili. Tutte le altre sono abrogate, eccetto che il codice disponga espressamente il contrario. Quanto alle consuetudini anteriori non contrarie al codice, è da ritenere che esse, sia universali sia particolari, continuino ad avere vigore anche se non espressamente richiamate da quello.
Il diritto canonico non offre particolarità speciali riguardo alla prova della consuetudine. L'esistenza di questa, come fatto, deve essere provata in tutti i suoi estremi (eccettuata la razionalità da apprezzarsi dal giudice) da colui che la allega, salvo che si tratti di consuetudine notoria, per cui la notorietà tiene luogo di prova (cfr. can. 1747, n. 1) e di cui deve anzi il giudice tener conto anche se non invocata dalle parti.
Bibl.: N. Tedesco, Commentaria super primum decretalium librum, I, Venezia 1617; A. Reiffenstuel, Ius canonicum universum, I, Venezia 1735; F. Schmalzgrueber, Ius eccles. univ., I, Napoli 1738; L. Ferraris, Prompta Bibliotheca can. iur. mor. théol., s. v.; I. A. Alasia, Comm. de legibus, Torino 1783; F. Suarez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Venezia 1740; Hochstetter, De praescriptione consuetudinis ad cap. ult. X, de cons. Stoccarda 1776; G.F. Puchta, Das Gewohnheitsrecht, Erlangen 1828; G. Phillips, Du dr. ecclésiastique, trad. Crouzet, III, Parigi 1851; P. K. A. Kreutzwald, De canonica iuris consuetudinarii praescriptione dissertatio, Berlino 1873; I. Schwering, Zur Lehre v. kanon. Gewohnheitsrecht, Warendorf 1888; G. Bauduin, De consuet. in iure can., Lovanio 1888; V. Haas, Die Stellung des Geewohnheitsrechts in der kath. Kirche, Mannheim 1898; S. Brie, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht, Breslavia 1899; F.X. Vernz, Ius decretalium, I, 2ª ed., Roma 1905; B. Dolhagaray, in Dictionn. de théol. cath., III, Parigi 1908, s. v.; P. Maroto, institutiones iuris canonici ad normam novi codicis, Madrid 1918, pp. 215 segg., 130 segg.; R. Köstler, Consuetudo legitime praescripta. Ein Beitrag zur Lehre vom Gewohnheitsrecht und vom Privileg., in Zeitschrift der Savigny-Stiftung, XXXIX, Weimar 1918; I. B. Ferreres, Instituciones canónicas, I, Barcellona 1920, p. 67 segg.; A. Vermeersch e I. Creusen, Epitome iuris canonici, I, 3ª ed., Malines-Roma 1927, p. 97 segg., 48 seg.; R. Wehrlè, De la coutume dans le droit canonique, Parigi 1928; A. Bertola, Note sulla dottrina canonistica della consuetudine, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1930, fasc. 3°-4°.
Le consuetudini monastiche.
Sono l'insieme degli usi vigenti in un monastero, che regolavano i particolari delle occupazioni giornaliere e costituivano quasi un commentario alla regola che fissava le leggi generali; riguardando poi esse principalmente il servizio divino, si potrebbero anche chiamare "rituale" o "cerimoniale". Una volta fissate e accettate, le consuetudini acquistavano forza impegnativa. Data l'indipendenza scambievole degli antichi monasteri, gli usi locali variavano molto; nei secoli VII e VIII quasi ogni convento aveva la propria tradizione, cosicché, nonostante vi fosse la medesima regola, poca uniformità vi era nell'osservanza di essa. Tuttavia si nota già nel sec. VIII l'influenza di Montecassino, che servì di modello a molti conventi della Germania, ad es. ai monasteri di Fulda e di Warden fondati in quel tempo. S. Benedetto di Aniano (morto nell'811) cercò per primo di fissare gli usi per iscritto, e di raggiungere l'osservanza uniforme in tutti i conventi: Una regula, una consuetudo. Nel capitolo di Aquisgrana (817) le consuetudines da lui redatte, che riguardavano tuttavia solo i punti fondamentali della vita monastica, furono accettate da tutti gli abati dell'impero. Le decisioni di Aquisgrana formarono la base per le consuetudines di Bernone e Odo a Cluny, e furono della massima importanza per la vita monastica del Medioevo. Cosi a poco a poco l'osservanza di Cluny venne introdotta in quasi tutti i conventi, o secondo il testo letterale, ovvero con alcune modificazioni; da Cluny si diffusero le consuetudini di Firenze. di Gand, dell'Inghilterra, di Einsiedeln, di Farfa, di Fruttuaria, di Digione, di S. Vito, di S. Blasiano, di Hirsau, per non nominare che i più importanti. L'accettazione degli usi portò nei singoli monasteri un maggior sentimento di unione, che riposava sulla comune osservanza. Cosi si formò una specie di organizzazione occasionata dalle stesse consuetudini. In antitesi col cerimoniale solenne delle consuetudini di Cluny, la riforma di Cistercio (Cîteaux), per cui fu abbandonato il cerimoniale fastoso, portò una nota più sobria nelle consuetudini. Gli usi dei cisterciensi penetrarono spesso anche presso i benedettini, specie nei conventi di monache, senza che per questo si seguisse ufficialmente il nuovo ordine. Dopo il sec. XIV gli antichi usi di Cluny perdettero la loro importanza.
Le consuetudini hanno molta importanza per la storia monastica. Dànno la spiegazione della regola nei varî secoli, e permettono di penetrare nella vita delle abbazie. Sono importanti anche dal punto di vista storico e culturale, giacché offrono notizie sulle relazioni fra il convento e la vita esteriore, sull'amministrazione interna, sull'influenza di un convento sugli altri, ecc. Per queste ragioni, da molto tempo le ricerche degli storici sono state indirizzate sulle consuetudini, come fonti importantissime per la storia. Spetta a d'Aubry e a Mabillon il merito di avere per i primi annotato gli usi antichi e averne fatto dottissime indagini. La prima raccolta di consuetudines fu preparata dal Martène (De antiquis monachorum ritibus); tentarono poi la raccolta dell'intero materiale M. Hergott e V. Thuillier nella loro Vetus disciplina monastica (Parigi 1726). Una nuova edizione delle consuetudini più importanti fu preparata da B. Albers, Consuetudines monasticae, voll. 5, Stoccarda-Monaco 1900-1912.
Bibl.: E. Sackur, Die Cluniacenser, voll. 2, Halle 1892-1894; B. Albers, Untersuch. zu den ältesten Mönchsgewohnheiten, Monaco 1905; P. Volk, Der Liber Ordinarius des Lütticher St. Jakobsklosters (da Beiträge z. Gesch. des alten Mönchtums u. des Benediktinerordens, X), Münster 1923, pp. xiii-xxi.