ARALDICA, CONSULTA
. Fra i varî corpi consultivi dello stato, la consulta araldica occupa uno dei posti più importanti, perché la sua opera di consulenza si svolge in una sfera riservata all'esercizio di una prerogativa personale del re, o, secondo una più recente dottrina, in un campo in cui il monarca è soggetto di autarchia, ovvero di una potestà pubblica, che egli esercita non come organo dello stato, quantunque anche nell'interesse di questo (Romano, Corso di Diritto Costituzionale, Padova 1926, p. 154). Difatti secondo l'art. 79 dello statuto fondamentale del regno, il re continua a far uso di una potestà che costituiva una delle caratteristiche comuni a tutte le monarchie assolute, per cui il sovrano era considerato quale unica fonte degli onori. Nondimeno la necessità di armonizzare tale potestà con l'istituto costituzionale della irresponsabilità regia suggerì l'opportunità di porre, a fianco del ministro responsabile costituzionalmente dell'uso della regia prerogativa, un corpo di consulenti tecnici, che, a simiglianza degli altri consigli superiori esistenti presso i varî ministeri, fosse in grado di coadiuvare i ministri responsabili nella preparazione dei provvedimenti da sottomettersi alla firma del sovrano in questo campo specialissimo della pubblica amministrazione.
Negli antichi stati d'Italia, al momento in cui venne abolita la feudalità, pur facendosi sussistere le distinzioni nobiliari che ad essa si connettevano, si ritenne utile la costituzione di alcune speciali commissioni consultive, alle quali fu deferito l'esame preventivo delle questioni in materia nobiliare, innanzi che fossero trasmesse al principe, cui spettava la definitiva decisione.
Si ebbero in tal modo il tribunale araldico in Lombardia, la commissione araldica di Venezia, la commissione dei titoli di nobiltà nel Regno delle Due Sicilie, e altre analoghe istituzioni anche in altri stati, quali i ducati di Parma e di Modena, e il granducato di Toscana. A Roma funzionava la Congregazione araldica capitolina, specialmente competente per le aggregazioni al patriziato romano. Nessuna speciale commissione esisteva in siffatta materia nel regno di Sardegna, ma gli atti e i provvedimenti sovrani in materia nobiliare venivano talvolta sottoposti al parere del procuratore generale o del primo presidente della Camera dei conti, ovvero del primo presidente o dell'avvocato generale presso il senato del Piemonte.
Successivamente lo statuto di Carlo Alberto, pur conservando al re la facoltà di concedere nuovi titoli di nobiltà, volle espressamente garantire il godimento di quelli legalmente acquisiti prima della sua promulgazione. Ciò in sostanza importava rinunzia effettiva del re, dato il sistema di guarentigia adottato dallo statuto, a una facoltà da lui indubbiamente posseduta nel regime di assolutismo, quella cioè di poter privare secondo il suo beneplacito dei titoli come di tutte le altre dignità onorifiche, coloro che ne fossero in legittimo possesso per investitura dei suoi reali predecessori.
Al duplice intento, quindi, di dare parere al re nell'esercizio della sua potestà riservata in materia di titoli di nobiltà, sia sulle nuove eventuali concessioni, sia rispetto ai diritti legittimamente acquisiti, fu istituito, con r. decr. 14 nommbre 1869, n. 5318, il collegio consultivo denominato Consulta araldica.
L'ordinamento in vigore, art. 70 del regolamento, approvato con r. decr. 21 gennaio 1929. n. 61 stabilisce che la Consulta è presieduta dal capo del governo, ed è composta di un vice presidente, di quattordici consultori effettivi e di sette supplenti, oltre il commissario regio effettivo, ed eventualmente un aggiunto, e il cancelliere; tutti nominati con decreto reale. Di essi almeno quattro devono essere senatori e due, alti magistrati. Analogamente venne aumentato il numero dei componenti effettivi della giunta da cinque a sette, oltre due supplenti eletti dalla Consulta nel suo seno, mentre il presidente è nominato con decreto reale (art. 71).
Le attribuzioni della Consulta furono definite la prima volta dall'art. 1 del r. decr. 14 novembre 1869, n. 5318, così formulato: "È istituita una Consulta araldica per dare parere al governo in materia di titoli gentilizî, stemmi ed altre pubbliche onorificenze". Malgrado la non felice aggiunta delle ultime parole accennanti ad altre pubbliche onorificenze, oltre quelle riguardanti i titoli gentilizî e gli stemmi, la competenza della Consulta non si estese, né poteva estendersi, alle onorificenze equestri, né tanto meno alle ricompense al valore, né ai cosiddetti diritti di precedenza, e ciò per l'opportuno richiamo all'art. 79 dello statuto contenuto nel preambolo del decreto, norma che si riferisce esclusivamente alle sole destinazioni nobiliari.
In seguito, col regolamemto approvato con r. decr. 8 maggio 1870, furono specificati i titoli gentilizî sui quali la Consulta poteva essere chiamata a esprimere il suo parere. Essi furono tassativamente indicati dall'art. 19 secondo le tradizioni nobiliari dei varî stati italiani preesistenti all'unificazione, e cioè quelli di principe, duca, marchese, conte, barone, nobile e cavaliere.
Col successivo articolo 21 si dichiarava ammissibile anche il titolo di patrizio "per indicare il grado supremo di un'antica nobiltà municipale" ed eccezionalmente, solo a titolo di conferma, quello di visconte. Tali su questo punto, salvo brevi modifiche di forma e qualche chiarimento, sono le norme tuttora in vigore consacrate dagli articoli 5 e 20 del vigente ordinamento, approvato con r. decr. 21 gennaio 1929, n. 61.
Occorre però notare che il secondo ordinamento dato alla Consulta col r. decr. 2 luglio 1896, n. 313, sembrava volere allargare la sfera di azione della Consulta stessa. Difatti nell'art. 1 era detto: "La Consulta araldica è stabilita presso il Ministero dell'interno ed è istituita per dare pareri ed avvisi al governo sui diritti garentiti dall'art. 79 dello statuto fondamentale del regno e sulle domande e questioni concernenti materie nobiliari ed araldiche".
Quivi per la prima volta si ponevano tra gli atti di competenza della Consulta i pareri e gli avvisi al governo sui diritti nobiliari garantiti dallo statuto, il che fece ritenere a torto a taluno, e fu tentato perfino sostenerne davanti ai tribunali l'opinione, che tale decreto avesse valore profondamente innovativo rispetto al precedente decreto del 1869. Pertanto, secondo questa opinione, il re, in forza della potestà legislativa da lui conservata in tale materia, pur dopo il trapasso dal regime assoluto a quello costituzionale, avrebbe voluto creare nella Consulta una speciale giurisdizione per i diritti nobiliari, attribuendo a essa ogni competenza nei giudizî in cui si fosse fatta questione dell'esistenza, validità e trasmissibilità dei titoli o di ogni altra distinzione nobiliare vantata in forza di precedente concessione sovrana. Secondo i sostenitori di siffatta teoria, si tratterebbe qui di materia riservata esclusivamente alla prerogativa maiestatica, per cui anche il riconoscimento giuridico dei diritti, sia pure acquisiti, che a essa si ricollegano, al pari della loro attribuzione ex novo, dovrebbe rientrare nella speciale competenza legislativa del sovrano, il quale potrebbe, se lo credesse opporuno, sottrarla al magistrato ordinario per deferirla all'autorità amministrativa.
Ma tale opinione trova un insormontabile ostacolo, oltre che nell'esplicito riconoscimento dei diritti acquisiti, garantiti dall'art. 79 dello statuto (quindi indipendentemente dal sovrano beneplacito), anche e soprattutto nel divieto contenuto nell'art. 71 dello stesso statuto di distogliere alcuno dai proprî giudici naturali, e infine nell'art. 2 della legge 20 marzo 1865 allegato E, sul contenzioso amministrativo, che vuole che siano devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause in cui si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione.
Volendo però conciliare i suesposti principî fondamentali del nostro diritto pubblico con la parola del decreto in esame (corrispondente all'art. 69 del regolamento in vigore), che attribuisce alla Consulta la cognizione delle questioni che involgono l'esame sulla esistenza dei diritti acquisiti garantiti dall'art. 79 dello statuto, e pur senza volerlo in questo punto ritenere senz'altro affetto d'incostituzionalità, si può ammettere che si sia voluto prescrivere all'interessato l'esperimento preliminare del procedimento amministrativo senza pretendere in alcun modo di privarlo della facoltà di sperimentare in un secondo tempo l'azione giudiziaria.
In conclusione, occorre innanzi tutto che l'interessato chieda alla Consulta di emettere il prescritto parere, in base al quale verrà poi eventualmente emanato un provvedimento amministrativo che riconosca la validità del suo diritto; in caso di rifiuto o denegato riconoscimento del diritto affermato, l'interessato conserva però la facoltà d'invocare una declaratoria dall'autorità giudiziaria in confronto dell'autorità amministrativa (ministro dell'interno, e ora primo ministro) ed eventualmente anche contro altri privati aventi interesse ad opporvisi.
Si può ritenere che in questo senso, dopo qualche inevitabile incertezza, si sia da tempo orientata la più autorevole giurisprudenza delle corti e dei tribunali, che in varie occasioni ebbero a formulare chiaramente il loro pensiero circa l'immutata competenza dell'autorità giudiziaria tutte le volte che vi sia contestazione di diritti in materia araldica.
Bibl.: E. Fagnani, La Consulta araldica, Torino 1878; F. Gagliardi, Il R. Decreto e Regolamento sopra la Consulta Araldica, Barletta 1880; M. Di Carpegna, s. v. Araldica (Consulta), in Digesto italiano; G. Sabini, La prerogativa regia e i diritti italiani in tema di interpretazione dell'art. 79 dello Statuto, in Rivista di diritto pubblico, II (1912), pp. 257-273.