Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina
Cacciato Piero de’ Medici e riformato lo Stato nel 1494, il Palazzo della Signoria riaprì le porte alle consulte, assemblee convocate dai Signori per saggiare i cittadini riguardo a fatti o eventi rilevanti di politica interna ed estera. I verbali protocollati (pratiche) di tali riunioni sono conservati in varie sedi: Archivio di Stato di Firenze sotto la segnatura Consulte e Pratiche 61-70, Dieci di Balìa, Resp. orig. 11, Acquisti e doni I 3; BNCF, Carte Machiavelli I 71; Biblioteca Riccardiana, Ricc. 1848; BAV, Ott. lat. 2759 (copia integrale del reg. 69 delle Consulte e Pratiche). In tutto sono documentate 745 consulte, tenutesi tra il 5 gennaio 1495 e il 21 agosto 1512, con cadenza sempre più diradata fino al mutamento di governo seguito al sacco di Prato. Alcune interruzioni, tra cui una lunga sequenza da novembre 1509 a giugno 1511, lasciano presumere che uno o più registri siano andati perduti. Già a fine Ottocento Oreste Tommasini (1883-1911) e Clemente Lupi (1886) pubblicarono alcuni frammenti di pratiche riguardanti l’epilogo dell’era savonaroliana; quasi un secolo dopo Felix Gilbert (1957) illustrò aspetti della cultura politica fiorentina tramite citazioni emblematiche da questi testi. Sarà tuttavia la loro pubblicazione integrale a cura di Denis Fachard (1988-2002) a comprovarne pienamente l’innegabile interesse pluriprospettico.
Se nell’ottica di una riflessione sulla scrittura della politica a Firenze durante l’epoca repubblicana la lettura complessiva delle pratiche non offre sempre, per dirla con Francesco Rinuccini, «cosa importantissima e da titubarne gl’ingegni grandi» (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1495-1497, 2002, poi sempre Consulte, 2002, p. 89), essa rappresenta tuttavia, in quanto abbraccia simultaneamente svariate percezioni e diseguali modi di interrogarsi su questioni legate alla gestione degli affari dello Stato, un’importante fonte per chiunque voglia studiare il ruolo di politici, magistrati o semplici cittadini coinvolti in una nuova procedura democratica. Questi testi restituiscono inoltre, a dispetto del filtro non sempre affidabile imposto dallo scriba, un ampio serbatoio di riferimenti culturali, istituzionali e amministrativi, utilissimi per studiare la genesi del pensiero politico di M. e la specificità della sua prosa, rispetto alla koinè cancelleresca, in assenza di tracce o indizi sintomatici relativi al suo cursus accademico o professionale anteriore all’entrata in cancelleria.
Esposti in apertura di seduta i temi da dibattere, poi riassunti o letti vari documenti, tra cui responsive di commissari o ambasciatori, veniva quindi sollecitato «el parere di ciascuno, perché le pancate sono lunghe e èvi pure di quegli che sentono in contrario» (Piero Soderini, in Consulte, 2002, p. 119). Affidata ai segretari della prima e seconda cancelleria, la verbalizzazione currenti calamo dei discorsi uditi nelle sale di Palazzo Vecchio offre un ampio e vivace resoconto della percezione e della valutazione dell’attualità politica da parte dei rappresentanti delle varie magistrature (Signoria, Dieci, Sedici gonfalonieri, Dodici buonuomini, Sei della mercanzia, ufficiali di Monte, capitani di parte guelfa, Otto di guardia ecc.), insieme al parere di ‘richiesti’ o ‘arroti’, ossia di cittadini privati convocati a seconda della specificità dei punti all’ordine del giorno. Al fine di istruire e consigliare la signoria sulle decisioni da prendere, in funzione della «qualità de’ tempi», gli interventi in successione confermano, confutano o sfruttano argomenti altrui: «Francesco Pepi disse che arebbe desiderato essere l’ultimo a parlare, per imparare uno consiglio buono e a proposito della città (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1505-1512, 1988, poi sempre Consulte, 1988, p. 190). Denunciano inoltre l’indecisione e l’immobilismo dei cittadini più influenti in una polis «menata dallo accidente e non dalla ragione», lacerata da dissensi interni, indebolita da carenze governative e da un’acuta crisi economica, incapace di condurre una politica coerente ed efficace nei confronti di città amiche o ribelli, e meno ancora di potenze straniere. Bernardo Rucellai, per esempio, denuncia un’innata inerzia: «è antiquo costume della città intendere le cose poi sono state fatte»; ricordando «il proverbio antico che “Firenze non si muove se tutto non si duole”»; Giuliano di Jacopo Mazzinghi ammonisce che «a mano a mano sareno ciechi, e che l’uno occhio è Pisa e l’altro è Pistoia»; per Domenico di Baldassarre Bonsi il presente governo toglie «speranza alli amici e inimici; alli amici per non se ne potere valere, alli inimici di potere essere amici» (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1498-1505, 1993, poi sempre Consulte, 1993, pp. 335, 786, 778).
Originariamente riservate a uso interno, le pratiche venivano spesso compendiate nella corrispondenza ufficiale e citate in cronache e trattazioni storiche coeve. Permettono così di individuare le fazioni dietro cui si schieravano i consultori, valutarne la miopia o la lungimiranza nel venerare o sanzionare le lezioni della storia, forse addirittura risentire e condividere le loro ansie. In veste di amanuense occasionale, tra altri compiti cancellereschi, M. stese nel reg. 69 ventinove protocolli, alcuni dei quali poi trascritti in bella copia nel reg. 68 da Biagio Buonaccorsi, non senza integrazioni di lacune testuali, correzioni stilistiche e formali, o ancora omissioni di immagini o espressioni popolari giudicate improprie, come, per es., «non vorrebbe che si facessi come fe’ el compare della cavalla […] tale crede ire a pascere che andrà ad arare, ché ’ colpi non si danno a patti» (Consulte, 1988, p. 15; cfr., al riguardo, Bausi 2006). Chi in un modo e chi in un altro, quei cittadini anticiparono indubbiamente alcuni elementi della lingua e della visione politica di M., indicando addirittura lezioni di comportamento politico singolarmente congruenti con paragrafi della sua opera. Qualche esempio: secondo Antonio Canigiani «l’esperienza vi doverrebbe insegnare, e chi non può come e’ vuole, faccia come e’ può» (LCSG, 4° t., p. 481); a Francesco Gualterotti pare che «questa impresa che si è fatta di Pisa abbi seguita l’ordine delle cose della guerra, che hanno contrario fine a quello si disegna»; per Giovan Vittorio Soderini «non si vedendo dove abbi a essere la vittoria, non si può vedere dove si abbi a collocare l’amicizia, perché deliberarsi al certo nelle cose incerte fu sempre pericoloso» (Consulte, 1988, pp. 65, 159).
Le accese denunce espresse in nome proprio, di un collegio, quartiere o pancata svelano i rapporti di forza tra gruppi politici, mercantili, forensi o religiosi, e offrono una ricca fonte di lingua orale registrata dallo scriba con penna frettolosa, restituendo al tempo stesso una molteplicità di voci ed espressioni attinenti ai ceti presenti. Teoricamente segrete – a Paolo Antonio Soderini «pareva necessario provedere che le cose gravi e importanti si trattano non trapelino per le piazze» (Consulte, 1993, p. 125) –, quelle assemblee consultive richiedevano altrettanto teoricamente ai partecipanti di mettere da parte ogni interesse privato: «Iohampaulus de Loctis: […] e quando e’ cittadini si vestissino de’ panni del comune e non delle gare, e’ si farebbe bene per la città; e non è bene stare a gareggiare perché sono cose da pentirsene poi» (Consulte, 2002, p. 469). Requisiti vincolanti cui avrebbero dovuto attenersi i consultori, la difesa del bene comune e l’uso della ragione venivano proclamati ripetutamente: per Alessandro Mannelli «chi desidera caminare in verità e avere per suo obietto l’utile e onore della città, è necessario mortifichi tutte le sue passioni e sottometta il senso alla ragione» (Consulte, 1993, p. 270); per Francesco di Giovanni Pucci
il bene publico, a similitudine delli antiqui, si doveva preporre al privato; e raccontò più esempi di sudditi inimicissimi che, nelle cose appartenenti al buono stato della loro republica, tutti sono uniti e stanno e conversano insieme sicuramente (Consulte, 1993, p. 282).
Sebbene tali regole teoriche venissero spesso infrante, la plurivoca tonalità adoperata nelle varie strategie suasorie – l’esaminare «tritamente», il disputare «alla mescolata» o «alla panca», il parlare «liberamente», «apertamente», «egregiamente», «ampiamente» o «con varietà», «chiaro e specificato», «lungo», «fuor di cerimonie» o «per comparazione», «più tosto per conclusioni che per cerimonie» – permette in ogni caso di meglio comprendere e interpretare la natura dei dubbi, la causa dell’indecisione e l’ansia dei cittadini in cerca della concordia civium.
Alla visione apocalittica della città denunciata da Francesco Pepi («Alla Signoria pare essere entrata in uno caos, e non vegono lume da alcuna banda donde ne possi uscire»), Filippo Buondelmonti («qui non è capo e siamo una arca isconnessa») e Guido di Francesco Mannelli («questa Republica è uno corpo malato, e dandole quello che piace sarebbe contrario al bisogno suo»), concorrono altri temi e pericoli scottanti: la contrastata vicenda savonaroliana, la disastrosa campagna pisana – «accosterebbesi a chi rendessi Pisa, se fusse bene el Turco», dice Antonio di Giovanni Giugni –, la lotta fra le fazioni pistoiesi, il sospetto di alleanze segrete con il «tiranno» e «parricida» Piero de’ Medici, l’ambizione egemonica di Cesare Borgia, «cosa venenosa e da volere con arte e ingegno adempiere il malo animo suo» a parere di Veri de’ Medici; ma anche la subdola personalità di Alessandro VI («chi manco se ne fiderà meno si troverrà ingannato», avverte Francesco Gualterotti: Consulte, 1993, pp. 275, 311, 600, 181, 648, 929), le tergiversazioni di Massimiliano d’Asburgo, che, secondo Bernardo Rucellai, «ha la prudenzia italiana, ché è menato da altri, e la milizia alamannesca» (Consulte, 2002, p. 325), o ancora le simulazioni di Pandolfo Petrucci. Un posto di rilievo, in tale concatenamento di potenziali o imminenti minacce, occupano, da un lato, la scarsa affidabilità dei francesi, i quali per Giuliano di Jacopo Mazzinghi «sanno bene simulare e dissimulare, e nientedimeno attendono a fare e’ fatti loro» (Consulte, 2002, p. 434); dall’altro, le dannose conseguenze della malafede dei loro sovrani, denunciate da Piero Capponi intrecciando, come spesso accade in M., discorso dilemmatico e ipotetico: «O el Re di Francia vi vuole bene, o male; se vi vuole bene, l’arà caro di farvi bene; se vi vuole male, bisogna provedere per non morire» (Consulte, 2002, p. 86). Sulla spinosa questione dell’ineluttabile alleanza, torna Giuliano di Jacopo Mazzinghi: «è da fare ogni cosa di volere una volta intendere come noi abbiamo a vivere col re di Francia (Consulte, 1993, p. 683). Francesco Valori afferma che «lo stomaco di Francia è lo stomaco di Firenze, de’ panni e della seta, e è lo smaltitoio vostro», e secondo Piero di Giovanni Capponi «per avere tenuta buona inimicizia colla Maestà del Re noi siamo venuti in odio con tutti e potentati d’Italia»; infine, parlando quale fiorentino, Giovan Battista Ridolfi sancisce che «a comparazione di loro siamo imbecilli» (Consulte, 2002, pp. 356, 107-08, 313), battuta che anticipa quella di M. a Vettori, nella lettera del 26 agosto 1513: «noi altri di Italia poveri, ambiziosi e vili» (Lettere, p. 261).
Non mancano, a riscontro di tali amare confessioni, sagaci suggerimenti di cui non pochi echi si ritrovano già in alcuni scritti politici minori di M., segnatamente nel Discorso sopra Pisa, nelle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, o ancora nel De rebus pistoriensibus. «Una buona zuppa [diceva Iacopo Tedaldi il 31 genn. 1500] non si può fare sanza il pane e il vino, e una Republica non si può bene governare sanza ordine e buona provisione di danaio». Prendendo esempio dal savio giudizio di Bernardo Rucellai («non è di parere di mutare stato, ma di ordinarlo sì»), alcuni preconizzano l’uso della forza: per Giovanni Formiconi «lo ultimare pare difficile, ma il molestare e il dare il guasto pare omnino si faccia; e facciasi guerra grudele non per usare crudeltà, ma per levarsi da molestia» (Consulte, 1993, pp. 229, 821, 998); Clemente Sernigi suggerisce alternative diplomatiche: «quando la dignità della città si potessi mantenere con la spada nella guaina lo farebbe volentieri, per non accendere qualche guerra» (Consulte, 1988, p. 112); Luigi Mannelli si sforza di rincuorare la coscienza insieme civica e religiosa dei cittadini: «l’abbandonarsi è perniziosa cosa per la città, perché abandonare la patria è abandonare Iddio» (Consulte, 2002, p. 300); Guido di Francesco Mannelli auspica la rivalutazione di valori morali: «l’ostinazione nostra ci ha condotto qui che ci ha fatti inimici tutti e’ potentati d’Italia, che ne abbiamo e la fame e penuria di danari, e strachi e abandonati da ognuno; e tutto nasce da poco amore e consiglio». Contro l’attendismo, Francesco Valori esorta all’azione («In questo luogo è bisogno non venire a predicare le calamità, ma soccorrerle in fatto. […] egl’è tempo da non far più parola ma far fatti, perché e’ soldati non hanno più bisogno di suon di campane ma di fatti e di danari») e intima rimedi concreti: «duo cose ci possono difendere, cioè la forza e lo ’ngegnio. Circa la forza consiste el danaio […] e quando e’ non ci fusse altro rimedio, io ricorrerei a spogliare le chiese per difendere la patria» (Consulte, 2002, pp. 300, 433, 291-92, 300). In prospettiva affine Bernardo Rucellai chiede un’attiva partecipazione finanziaria dei religiosi, poiché
tenendo e’ preti quasi la metà di tutti e’ beni, e se si anderà ricercando quello hanno pagato e’ preti e e’ cittadini, sarà una piccola porzione a comparazione di quello hanno pagato e’ cittadini; e che e’ cittadini sono stracchi e loro riposati (Consulte, 1993, p. 397).
Pur avvertita e gestita diversamente in tempo di pace o di guerra, la scarsità delle finanze della città rappresentava nella mente dei fiorentini meno una novità che non uno spettro risorgente in occasione di ogni crisi politica o campagna militare. Per cui, alla maniera di altre piaghe della patria, richiamava l’esaltazione insieme nostalgica e rassicurante delle virtù, della coscienza civica, dell’abnegazione e dei sacrifici dei loro padri: per Stratta Bagnesi «stiamo a spiluzzare in su una decima scalata e e’ nostri antiqui in una sera posono 600 ducati, che è grande vergogna»; Guido di Francesco Mannelli ricorda i modi «con i quali e’ nostri antenati si sono difesi, cioè colle buone borse le quali a tempo di guerra hanno isborsato, e le piccole nella pace rimborsatole». Esprimendosi in nome proprio, Francesco degli Albizzi «disse che noi siamo o legittimi o bastardi; se bastardi andiamne col bastardo, se legittimi facciàno quello hanno fatto e’ nostri padri, cioè difendiamo questa libertà, la quale loro con tanto sangue hanno acquistata». Durante le discussioni, vi è chi vuol rinnovata la fiducia nei camerlenghi, poiché, lamenta Giovambattista Ridolfi, vale l’adagio che «fatto uno camarlingo è fatto uno ladro»; ma anche chi chiede l’aggiornamento delle competenze dei Monti e delle chiese, tra cui S. Maria Nuova, la quale secondo Giuliano di Jacopo Mazzinghi «è una delle zucche che tengono a galla la città» (Consulte, 1993, pp. 886, 597, 644, 698, 497). Bernardo Rucellai non esita a proporre di rinunciare temporaneamente al finanziamento dello Studio, essendo «più da operare l’arme che lettere (Consulte, 2002, p. 45), ed esorta perfino i suoi concittadini a separarsi da oggetti personali come «anella e proprie cintole delle donne». Antonio Malegonnelle afferma che «per difesa della libertà non si lasci indrieto modo alcuno; ancora che fussi disonesto, che si pigli, non trovandosene uno manco cattivo», e Giuliano di Jacopo Mazzinghi ricorda che «benché bisogni danaio, li pare bisogni più cervello e andare alla difesa della libertà» (Consulte, 1993, pp. 803, 107, 807).
Nonostante le giostre verbali in cui si alternano eloquenza e noiosi sproloqui, il Segretario da poco assunto, a contatto delle consulte, poté acquisire familiarità con tutti gli ingranaggi della macchina politica della sua città, «cercando di qualcosa per uno paragone, a l’usato» (B. Buonaccorsi a M., 17 nov. 1503, Lettere, p. 90). In modo non del tutto dissimile lo studioso moderno può a sua volta, nel leggere le pratiche, insinuarsi dietro le quinte del teatro politico fiorentino e rivivere con i suoi protagonisti maggiori la difficile ripresa di un esercizio libero e responsabile nel governo della cosa pubblica dopo sessant’anni di regime mediceo. Sforzandosi di seguire le orme degli antichi – per Piero Peruzzi «è tempo farsi vivi per la Republica, e porsi inanzi agl’occhi que’ savi e amorevoli Romani» (Consulte, 2002, p. 74) – Bernardo Rucellai adduce l’esempio della Serenissima, il cui governo «penò 200 anni a fermarsi, e però non è maraviglia se ci abiamo noi fatto qualche errore» (Consulte, 1993, p. 821). I consultori rinviano nelle loro arringhe allo Stagirita (Benedetto Gherardi «vedrebbesi quattro cose essere mantenimento delle republiche secondo Aristotele: unione, mercatanti, coloni e soldati, e’ quali soldati e unione etc. sono mantenimento delli stati»: Consulte, 2002, p. 31) – ai Saguntini, e a Scipione, per citarne alcuni. Ma anche esempi moderni: «Per averlo sentito da messer Giovanni Arginopoli» (Giovanni Argiropulo, maestro di Poliziano e professore di retorica presso lo Studio, morto nove anni prima), Braccio Martelli invita a meditare sulla sorte di Costantinopoli, i cui abitanti rimasero sordi alle esortazioni dell’imperatore Costantino Paleologo.
Compaiono ripetutamente in questi testi motti e detti di saggezza popolare, rintracciabili anche nel-l’opera machiavelliana: «Bernardus de Manettis: […] sono molte cose che, a volerle giudicare, bisogna vedere el fine come el principio»; Amerigo Corsini decreta che «egl’è men male pigliare el minore male che cadere in uno maggiore» (Consulte, 2002, pp. 95, 113); per Bernardo Nasi «la necessità non ha legge» (Consulte, 1993, p. 38); Antonio Malegonnelle conferma che «dove la necessità restrigne, la disputazione è vana, e che s’intende quello si doverrebbe fare per assicurarsi; ma non ci essendo panno da cavarne la vesta come doverebbe essere, curarla e darle migliore garbo che si può»; per Cappone Capponi «chi perde la reputazione perde li amici, e chi perde li amici si può credere dovere perdere lo stato»; Piero di Niccolò Popoleschi «stima che il timore ne mandi più in paradiso che lo amore»; per Guidantonio di Giovanni Vespucci «è grande differenzia da fare guerra ad esserli fatta, e che il cervello del’ uomo non basta a tante cose». A nome dei gonfalonieri di Compagnia, Piero Mannelli dichiara «che tutti unitamente consigliano che la impresa si debba fare, e che si rendono certi che chi ha fatto il carro abbi pensato chi l’abbi a condurre» (Consulte, 1993, pp. 909, 271, 279, 298, 1024). Non è da escludere, infine, che, quando dice «parerli [quanto al punire] che i Signori ne faccessino ammunizione nel Consiglio e dicasi: “chi ha fatto taccia e non più faccia”» (Consulte, 1993, p. 140), Giuliano di Jacopo Mazzinghi non alluda al savio monito di Agilulf al palafreniere: «Chi ’l fece nol faccia mai più» (Decameron III 2 30).
Spuntano di frequente lezioni di realismo politico, reperibili pure nelle corrispondenze diplomatiche coeve. Per Piero Popoleschi «era necessario credere che li òmini si possino mutare in quello maxime che fa per loro, e che sendo seguìto varie cose hanno ancora variato li cervelli»; Giovambattista Ridolfi sancisce che «sono partiti che, qualche volta indotti dalla voluntà e non dalla ragione, fanno mali effetti»; per Bernardo Nasi «chi non tenta la fortuna, la fortuna lo lascia dove si truova. […] Inoltre, o la guerra è giusta o no; se l’è giusta, elli è anche iusto che voi facciate e’ fatti vostri, di che nessuno ve ne può reprendere; se non iusta, è bene levarsi da questa briga»; per Gerardo Corsini «chi non fa quando può, non fa quando vuole (Consulte, 1988, pp. 26, 48, 225, 227).
Ricorrente bersaglio di biasimo, durante le consulte, è la natura stessa dei fiorentini. Guido de’ Ricci ammonisce che «si abbia da guardare da 3 generazioni: prima malotichi, pazzeroni e cicaloni» (Consulte, 2002, p. 33); per Giovanni Benizi «nella città sono di tre sorte uomini, cioè una che può di presente, una che può col tempo, e una che non può di presente né con tempo» (Consulte, 1993, p. 644), retoricamente così vicino al machiavelliano «sono di tre generazioni cervelli: l’uno intende da sé, l’altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri» (Principe xxii 4). Le difficoltà precedentemente descritte spiegano, in parte almeno, l’occasionale reticenza dei cittadini a impegnarsi: «per l’essere l’ora tarda e molte cose a dire, e poca memoria e poco giudicio, mi cognosco insufficiente», avanza come pretesto Bernardo Del Nero (Consulte, 2002, p. 507); Giuliano di Jacopo Mazzinghi censura lo sfoggio di gratuita eloquenza degli oratori: «ciascuno si fa bello colle parole, e in fatto non riescie» (Consulte, 1993, p. 510); Guidantonio di Giovanni Vespucci rileva il carattere effimero dei giudizi: «le condizioni de’ tempi si mutano spesso, e tal cosa ora si consulta in uno modo che, mutandosi le cose in altro modo, sarebbono poi da consultarle altrimenti» (Consulte, 2002, pp. 436-37); Francesco degli Albizzi deplora il sottrarsi alle responsabilità civiche: «questa sera è di mala voglia vedendo che si tratta del perdere o salvare la libertà, e ci è tre scalzi» (Consulte, 1993, p. 715). Tale assenteismo potrebbe anche essere dovuto alla natura stessa delle consulte e al loro svolgimento. All’eccessiva varietà dei temi affrontati: Francesco Gualterotti dichiara che «stasera è messo inanzi insalata di molte erbe d’importanza»; alla sterilità dei dibattiti: «Guido di Francesco Mannelli: […] qui si dice assai e concludesi poco» (Consulte, 1993, pp. 928, 335); «noi vegnamo spesso in su questa aringhiera a fare lunghe tulliane, e nientedimeno a’ danari non si pro-vede; e’ medici disputano insieme e lo ’nfermo si muore» (Consulte, 2002, p. 296); alla scarsa efficacia delle consulte: secondo Alessandro da Filicaia «il ragunare cittadini e fare conclusioni, le quali dipoi nel Consiglio Maggiore non abbino luogo, è uno faticare indarno» (Consulte, 1993, p. 323).
Quanto politicamente compromettenti e commercialmente dannosi fossero i cattivi rapporti con l’autorità pontificia viene illustrato dalla varietà di reazioni alle minacce di scomunica: segnatamente nel 1498 a proposito di Savonarola – «l’è cosa grande entrare in uno interdetto, perché ognuno ci può rubare e trattare come sbanditi» (Consulte, 1993, p. 46) – e nel 1512, dopo la decisione di appesantire le imposizioni alla comunità religiosa:
sua Santità dichiarerà e’ Fiorentini tutti eretici e farà dare in preda tutte le robe de’ mercatanti fiorentini in qualunque luogo si truovino, o a Roma, o a Napoli, o in Inghilterra e in qualunque altro luogo, pronunziando ogni maladizione e censure potrà fare contra di noi (Consulte, 1988, p. 274).
Emblematica della disunione generata da tali minacce è la risentita risposta dei cittadini alla pubblicazione di due brevi papali miranti a proibire le predicazioni del frate. Bernardo Nasi denuncia un complotto ordito per sovvertire il governo: «sono tutti modi introdotti da’ vostri inimici e potentati d’Italia; e’ vi danno buone parole e seminano in voi le zizanie»; sforzandosi di minimizzarne l’impatto religioso, Antonio Malegonnelle non crede che «udire o non udire le prediche di fra Girolamo, che per questo noi abbiamo a perdere el paradiso, perché ne possiamo avere un altro»; Ormanozzo Dati suggerisce di «non imbrattare la conscienzia e tirare inanzi questa cosa»; Carlo di Daniele Canigiani giudica «più conveniente in questo luogo parlare della guerra e del danaio. E che questo sarebbe stato più a proposito, perché simile cosa gli pareva più conveniente si trattassi a Roma, dove s’ànno a canonizzare e’ santi» (Consulte, 1993, pp. 59, 51, 67); Girolamo Rucellai, infine, raccomanda
che si levassi via frate e non frate, arabbiato e non arabbiato, e che alla concordia si dovessi prima pensare; […] quando e’ si vedessi che per questo fuoco s’avessi a comporre la città, che non solamente nel fuoco ma nell’aqua, nell’aria e nella terra; se non, che e’ s’attenda alla città, non a’ frati (Consulte, 1993, p. 64).
Nel corso delle discussioni Luigi Corsi rimette in questione l’autorità di un papa «male informato», e Antonio Canigiani esprime dubbi riguardo all’infallibilità di Alessandro VI: «el Pontefice è Pontifice e vero Pontifice, ma quegli [...] errano come uomini, e maggior signoria è quella di Dio che quella del Pontefice, e è più da stimare d’ira di Dio che del Pontifice». E allorché l’infelice epilogo savonaroliano richiama a Giovanni Canacci «lo esempio d’Elena etc., di che ne fu la città di Troia arsa e disfatta. Item, addusse lo esempio d’Annone Cartaginese, etc.», Antonio Canigiani predilige invece richiami alla tradizione cristana: «non bisogna esempi di pagani, ma pigliare esempi del Testamento Vecchio e Nuovo, ché si sono lasciati scorticare e martirizzare per piacere a Dio»; Giuliano di Jacopo Mazzinghi ricorda l’episodio di sant’Ambrogio che «uscì scalzo di chiesa» al «tempo di Teodosio a Milano», nonché fra Bernardino per la cui cacciata «tutti capitoron male» (Consulte, 1993, pp. 43, 56, 47, 56, 55, 43, 44). Evocando «Giovanni Usso che fu arso dal Concilio», Giovanni Brunetti raccomanda a nome della propria pancata, con ragionamento insieme sillogistico e sofistico, che
frate Girolamo non predichi per obedire al breve in questo solamente, e stiasi in San Marco. Iddio dette a Pietro e al Pontefice suo e’ duo coltelli, che è lo spirituale e il temporale; e allegò esempi di molti imperadori a’ quali el Papa ha comandato. A quella parte di frate Girolamo che ha dottrina etc., ogni uomo può errare, e quelle cose che si sanno a comparazione di quelle che non si sanno sono molte poche. E’ non sono stati e primi uomini dottissimi, uomini come Origene e altri, che sono stati dottissimi e hanno avuto degli errori? Immo etiam gl’angeli hanno in loro qualche inscienzia; or se cade negl’angeli qualche nescienza, molto più può esser negl’uomini. Appresso, di quelli che hanno detto s’egl’è buono non può errare, perché e’ non sarebbono e’ primi che possono esser ingannati in pensare d’avere la profezia, e esser di suo fantasia (Consulte, 1993, p. 57).
In mezzo ad avvincenti schermaglie tra difensori e avversari di Savonarola, Paolantonio Soderini esige che «detto frate Ieronimo si carezzassi come preziosa gioia», e Lorenzo Lenzi pretende «che si vorrebbe risciacquarsi la bocca quando se ne parla»; Enea della Stufa ricorda «quanti buoni frutti ha partoriti nella città nostra, e el monasterio suo esser ripieno di tanta santità che si può aguagliare a quegli cenobii antiqui», per suo conto Francesco Valori avvalora che «questo monasterio è scuola di natura che se ne dirà per bontà più di qui a 50 anni che ora», esortando a venerare il predicatore, «onorarlo e farne conto più che uomo che sia stato da 200 anni in qua». Nei ranghi degli arrabbiati, al contrario, si levano voci per denunciare con veemenza le nefaste conseguenze politiche della sua azione: «costui farà una setta di fraticelli, come altra volta fu in questa città, e è una setta di eresia che voi fate in questa terra. Abbiamo noi a opporci a tutta Italia e a’ potentati d’Italia e al Sommo Pontifice?», avverte Giuliano Gondi. Le passioni si accendono durante la consulta del 30 marzo 1498 allorché la maggioranza dei presenti si pronuncia in favore della prova del fuoco. Guidantonio di Giovanni Vespucci cita a memoria Matteo 12, 39: generatio mala et adultera signum querit («una generazione perversa e adultera pretende un segno»); Luca Corsini stima che «si possa fare, perché al tempo degli eretici si fece tal cosa, e al tempo de’ simoniaci e di San Giovan Gualberto; e però credo che sia lecito, né sarei d’opinione che la si differissi, perché s’è acceso qui maggior fuoco», e Braccio Martelli rincara con piglio sarcastico «per certo chi vuole entrare nel fuoco non debbe fare conto d’andare in-fino a Roma. E a me pare che si debba più tosto fare fuoco di carità» (Consulte, 1993, pp. 48, 49, 51, 54, 53, 65, 67). Filippo Giugni, infine, commenta con altrettanto sarcasmo:
potrebbese tentare con minore pericolo entrasse nell’aqua! E se non si immollassi, io sarei un di quegli che gli chiederei perdono. Pure, volendo andare al fuoco, io credo che e’ moranno. Quando e’ saranno morti, si unirà ogni cosa; mai sì, che si levassi via la radice (Consulte, 1993, p. 70).
Particolarmente rilevanti per lo studio della storia e dell’ideologia della Repubblica fiorentina risultano le pratiche del triennio 1495-97, poiché rivelano, con chiarezza e ricchezza di particolari, la complessità di comportamenti o di manovre generata da strutture amministrative del tutto nuove e dall’assai dibattuto mutamento dei sistemi elettorali. Spiccano innanzitutto l’eccessivo individualismo e le incalzanti sollecitazioni di chi dopo decenni di dominio mediceo aspirava a incarichi influenti, nonché l’ambizione di chi, pur poco o per nulla abituato a insoliti oneri cancellereschi e politici, non intendeva rinunciare a vantaggi o a diritti da poco conseguiti. Domina, in tale frangente, un’insoddisfazione generale e un profondo sentimento di sconcerto di fronte alla complessità di situazioni nuove con cui venivano a confrontarsi i cittadini. Per Giuliano di Jacopo Mazzinghi «la guerra nostra è grande fuori e anche dentro; […] gl’inconvenienti e ’ disordini ci hanno tolto la dignità della città, in modo che noi per questo abbiamo perduto ogni obidienza e reputazione nelle genti dell’arme e condottieri, e con ogni altro potentato»; «E se io dissi altra volta che noi eravamo a l’olio santo, ora abbiamo e’ frati inanzi» (Consulte, 2002, pp. 309, 448). In tale vena pessimistica si iscrive l’incisivo ragionamento deduttivo di Bernardo da Diacceto:
noi abbiamo la guerra, la fame, principio di moria, e la quarta che è la disunione, e Piero de’ Medici per la quinta; e credo che ognuna di queste sia per fatigare assai la città. […] Le cagioni della nostra discordia sono le pazzie nostre; […] è superbia e ambizione nostra, ché non sappiamo godere questa libertà (Consulte, 2002, pp. 482-83).
A questo si aggiunge il risolutivo discernimento di Bernardo Rucellai:
io ho sentito più volte da relligiosi ch’egl’è meglio temere Iddio che amarlo: nonché più tosto non sia meglio d’amarlo, initium sapientie timor Domini. Così nel caso dello stato si può dire, se noi non possiamo avere l’amore, cominciamo al timore, ché el timore si convertirà poi in amore (Consulte, 2002, pp. 485-86).
Sul fondamento di quel che precede, non si ha certo la pretesa di scoprire nelle pratiche la radice della scrittura politica di M.; non si può tuttavia negare che vi si trovino innegabili convergenze tematiche e formali: necessità di adattarsi all’evoluzione dei tempi e della società, sottomettere la volontà alla ragione, scegliere tra il minore di due mali, mantenere il segreto, considerare la causa e il fine, incitare i cittadini all’amor di patria, alla concordia, al rispetto del bene pubblico, all’ordine civico, al rispetto dell’autorità politica, militare e giudiziaria.
Singolari caratteristiche espressive di questi testi, oltre alla svolta decisiva per l’abbandono del latino, iniziato nel corso del Quattrocento (graduale diminuzione degli incipit latini, e quindi contrasto spesso marcato tra il tono solitamente altisonante dell’introduzione e la spontaneità dei discorsi trascritti), sono da un lato i ragionamenti in itinere attraverso le cui puntualizzazioni e riformulazioni «il giudizio del relatore si dispana seguendo schemi e procedimenti testuali definiti, che tradiscono un’esigenza di chiarezza espositiva e uno scrupolo di esaustività nell’analisi se non anche una specifica forma mentis»; dall’altro l’«orientamento endoforico del testo», il suo procedere per strette correlazioni interne: fenomeni studiati in modo esauriente da Stefano Telve (2000, pp. 124, 136), opera di riferimento ormai imprescindibile, da utilizzare con i lavori di Fredi Chiappelli (1952 e 1969) per chi volesse accingersi allo studio del linguaggio cancelleresco nella Firenze repubblicana. Da pareri inizialmente discordanti scaturiscono con piglio teatrale diverse percezioni della realtà politica, nonché soluzioni vagliate con cospicua varietà di registri espressivi. Quanto alle tediose ripetizioni che scandiscono non poche concioni, denunciate sia da Francesco Rinuccini («al danaio che sono e’ nervi della guerra, e’ se n’è tanto oramai parlato che non sa più che dire») sia da Francesco Berlinghieri («sono venuto qui a dire la sentenzia loro, benché si sia sì sapientemente ogni cosa ventilato che non resta più a dire nulla»: Consulte, 2002, pp. 181, 345), esse attestano anche l’assenza di distacco storico, di cui non possono valersi né gli oratori messi a confronto con le urgenze dell’attualità, né gli scribi attenti a renderne conto. La permanenza della tradizione dell’ars dictandi nella prassi cancelleresca, la contaminazione diretta della lingua dei predicatori (in una città definita da M. «calamita di tutti i ciurmatori del mondo», nella lettera a Francesco Vettori, 19 dic. 1513, Lettere, p. 299), o ancora la soggettività dell’amanuense nel trascrivere l’oralità delle arringhe, non permettono di collocare questi testi nella trattatistica spiccatamente politica o storiografica, sebbene a entrambe siano intrinsecamente legati. Ma col registrare, in compenso, la linea di contatto tra l’uomo di palazzo e l’uomo di piazza arricchiscono e documentano la galleria degli attori della storia contemporanea allestita dagli storici coevi, ravvivando una ben percepibile vox populi che, oltre a contestualizzare episodi di storia fiorentina e italiana in prospettiva segnatamente evenemenziale, concorre ad abbozzare un ritratto del cittadino fiorentino e dell’uomo politico moderno, di cui i partecipanti alle consulte suggeriscono tratti e contorni marcati.
Bibliografia: Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1505-1512, a cura di D. Fachard, Genève 1988; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1498-1505, a cura di D. Fachard, prefazione di G. Sasso, 2 voll., Genève 1993; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1495-1497, a cura di D. Fachard, prefazione di G. Cadoni, Genève 2002.
Per gli studi critici si vedano: C. Lupi, Nuovi documenti intorno a fra Girolamo Savonarola, «Archivio storico italiano», 1866, 3-1, pp. 3-77; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911, pp. 676-81, 726-36; F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952; F. Gilbert, Florentine political assumptions in the period of Savonarola and Soderini, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1957, 20, pp. 187-214, ora in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1964, 19772, pp. 67114; F. Chiappelli, Nuovi studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1969; G. Guidi, Lotte, pensiero e istituzioni politiche nella repubblica fiorentina dal 1494 al 1512, 1° vol., Firenze 1992, pp. 76-96; G. Cadoni, Lotte politiche e riforme istituzionali a Firenze tra il 1494 e il 1502, Roma 1994; D. Fachard, Tra cronaca e storia, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1997, Roma 1998, pp. 165-96; D. Fachard, “Che come i Greci non si faccia”: argent et guerre à l’époque républicaine à Florence, in Les guerres d’Italie: histoire, pratiques, représentations, Actes du Colloque international, Paris 1999, éd. D. Boillet, M.F. Piéjus, Paris 2000, pp. 23-37; J.-M. Rivière, Le temps du conseil dans les Pratiche de Florence de 1498 à 1512, «Il pensiero politico», 2000, 33, pp. 185-211; S. Telve, Testualità e sintassi del discorso trascritto nelle Consulte e Pratiche fiorentine (1505), Roma 2000; D. Fachard, La lingua della Mandragola e il politichese cancelleresco, «Versants», 2002, 41, pp. 5-26; D. Fachard, Dietro le quinte della Cancelleria premachiavelliana: la lezione di “quelli cittadini”, in Storiografia repubblicana fiorentina (1494-1570), a cura di J.-J. Marchand, J.-C. Zancarini, Firenze 2003, pp. 267-82; D. Fachard, “Malotichi, pazeroni e cicaloni”: voci di Palazzo, di pergamo e di piazza nella Firenze ‘post reformam totius civitatis’, in «Parlar l’idioma soave». Studi di filologia, letteratura e storia della lingua offerti a Gianni A. Papini, a cura di M. Pedroni, Novara 2003; D. Fachard, Des ‘tulliane’ du Palais de la Seigneurie aux ‘bibbie’ de l’épistolaire machiavélien, in Langues et écritures de la république et de la guerre. Études sur Machiavel, Genova 2004, pp. 103-19; F. Bausi, Machiavelli nelle Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, in Machiavelli senza i Medici (1498-1512). Scrittura del potere. Potere della scrittura, Atti del Convegno, Losanna 2004, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2006, pp. 97-116.