Contaminazioni
La molteplicità dei media
La cultura artistica contemporanea è caratterizzata da un crossover linguistico che agisce su più livelli. Da una parte, le arti visive dialogano con il cinema, la letteratura, l’architettura, la musica, il teatro, la danza, la televisione, lo sport e così via. Dall’altra, gli artisti usano diversi mezzi (disegno, fotografia, performance, installazione, video, suono), e talvolta li combinano all’interno della stessa opera; inoltre, spesso interagiscono con altri artisti o altri soggetti culturali, e a volte accolgono opere altrui nella propria. La molteplicità dei media regna quindi sovrana: «Gli artisti entrano e agiscono nel campo dell’immagine con un’attitudine leggera e plurale, muovendosi senza istanze univoche nella panoramica di tutti i media», scrive Germano Celant (2008, p. VII).
Multimedialità è la parola che è stata di volta in volta usata per indicare l’uso delle nuove tecnologie e l’incrocio dei linguaggi. Recentemente il termine è stato usato in senso piuttosto ristretto, e quindi non pienamente condivisibile, per indicare la confluenza di tutti i linguaggi in un unico medium, il più nuovo, quello digitale (Taiuti 2005, p. 7). Per quel che riguarda la questione terminologica, bisogna comunque ricordare che il termine multimediale precede la rivoluzione digitale, e anche che da alcuni è stato proposto il termine intermediale (v. A. Balzola, A.M. Monteverdi, Introduzione a Le arti multimediali digitali, 2004, pp. 7-8). I crossovers linguistici non avvengono tuttavia solo all’interno del medium digitale. Quest’ultimo può essere stato un catalizzatore e uno strumento di comunicazione ma, particolarmente in questa occasione e in questo contesto, appare maggiormente interessante guardare, più che all’avanzamento tecnologico, all’ottica artistica. Cercare cioè di capire e di evidenziare come gli artisti hanno inteso attraversare il crocevia tra diversi media e come hanno effettivamente realizzato la pluralità linguistica.
Uno dei più interessanti modi in cui questo è avvenuto è nel rapporto con il cinema, che sembra procedere su un binario doppio. Da una parte, vi sono i riferimenti diretti al cinema, modello per tutta la sperimentazione multimediale, identificato da alcuni con l’ideale wagneriano dell’opera d’arte totale (A. Balzola, L’utopia della sintesi delle arti dai romantici alle avanguardie storiche, in Le arti multimediali digitali, 2004, pp. 25-63). Dall’altra, l’uso che gli artisti fanno del video, pratica artistica che, diffusasi più lentamente di quanto non si possa immaginare, si è imposta anche grazie all’utopistica idea di un’arte per tutti.
Il percorso tra questi molteplici media verrà effettuato attraverso le opere degli artisti, punto di partenza imprescindibile per ogni discorso critico. Ogni opera è esemplificazione delle differenti modalità di declinazione multimediale. Un meccanismo tipicamente postmoderno fatto di rielaborazioni di film celebri, accostamenti letterari, rimandi a icone della cultura popolare caratterizza la trama artistica di queste ‘contaminazioni’ multimediali. I paragrafi che seguono sono dedicati a una campionatura, necessariamente parziale, di artisti, ognuno dei quali incarna una differente tipologia, un approccio personale e diversamente orientato sul terreno della multimedialità.
Il mondo già tradotto
Un vero precursore va considerato lo spagnolo Antoni Muntadas (n. 1942), che ha sempre utilizzato diversi linguaggi e tipologie d’intervento per analizzare criticamente i sistemi di rappresentazione e di informazione della società contemporanea. L’artista, residente da molti anni a New York, ha iniziato a lavorare negli anni Settanta, e sin dall’inizio il microfono è apparso come elemento base delle sue opere: la voce è emanazione del corpo per la comunicazione (tipico in questo senso Words: the press conference room, 1991, un video di 60 min dove l’assenza dei leader dalla sala per la conferenza stampa è sottolineata dalla selva di microfoni). Muntadas per primo indaga il grande tema dell’audience, una delle parole-chiave del suo lavoro insieme a power, manipulation, context. Si interessa ai giornali underground, usa come mezzo i cartelloni pubblicitari, guarda alla galleria come spazio culturale e allo stadio come spazio della cultura popolare. Generalmente Muntadas opera attraverso installazioni, fotografie, video e interventi urbani (di cui è un precursore), ma è anche autore di uno dei primi lavori in rete, The file room (1994), un archivio pubblico di informazione comparata su un gran numero di casi. Scrive Muntadas: «La forma fisica di The file room simboleggia il controllo informativo. Sui muri dello spazio sono allineati centinaia di armadietti-archivi di acciaio dal pavimento al soffitto, in modo da racchiudere un archivio esagerato eppure minimale. In vari armadietti alcuni terminali di computer sostituiscono i cassetti. I computer ospitano un archivio sulla censura che fornisce informazioni su scala planetaria di casi storici e attuali di censura e violazioni dei diritti umani» (The file room, in Arte, identità, confini, a cura di C. Christov-Bakargiev, L. Pratesi, 1995, pp. 30-31). Per l’artista, avere coscienza del mezzo permette di utilizzarlo, qualunque sia lo spazio – protetto (galleria o museo) o pubblico (dove può perdersi la percezione) – in cui l’opera si inserisce.
On translation è il titolo di una serie di opere a cui Muntadas lavora dal 1995, anticipate per alcuni aspetti da Between the frames (1983-1992), complessa analisi strutturale sul sistema dell’arte che ha richiesto dieci anni di interviste (proposte dall’artista nella loro lingua originale, come in una torre di Babele). Il ciclo On translation indaga su temi quali la trascrizione, l’interpretazione e la traduzione, analizzando il mutamento dei dati culturali e l’incrocio tra codici linguistici. Invitato a rappresentare la Spagna alla Biennale di Venezia (2005), Muntadas ha deciso di ripresentare alcune opere mescolandole con altre appositamente realizzate per l’occasione, in un’articolata installazione chiamata anch’essa On translation (cfr. Muntadas, 2005). Il complesso rappresenta anche un sintetico esempio del lavoro effettuato dall’artista spagnolo sui luoghi: attraverso il microcosmo del padiglione, Muntadas compie una lettura della composizione e delle dinamiche che attraversano la rappresentazione della Biennale di Venezia. Scrive Bartomeu Marí: «On trans-lation sposta la tensione verso la figura dello spettatore, il cittadino, il vero destinatario dell’opera dell’artista, la cui attenzione è necessaria perché il contenuto delle opere possa essere percepito, usato e trasformato. L’affermazione ‘la percezione ha bisogno della partecipazione’ appare nella presentazione di tutti i progetti, facendo degli spettatori gli abitanti definitivi delle opere» (Muntadas. On translation, in La Biennale di Venezia, 2005, p. 118). Muntadas allude alla nuova condizione del mondo, ormai sempre già riprodotto, ma anche già tradotto, non soltanto attraverso il linguaggio, ma anche attraverso le tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa: in altre parole, un mondo completamente mediato.
Andata e ritorno
Il canadese Stan Douglas (n. 1960) è un artista che lavora specificamente sul tema del rapporto con il cinema e più in generale con i media, in primo luogo la televisione, stabilendo inoltre rapporti con altri codici linguistici: letteratura, musica, teatro. Douglas partecipa di quella tendenza della cultura visiva contemporanea che mette in atto un tentativo di ‘riagganciare’ lo spettatore. Sembra infatti essersi spezzato quel filo di comunicazione diretta tra l’attore e lo spettatore presente, per es., nel teatro: un rapporto di andata e ritorno, in cui esisteva una reciprocità e in cui ognuno dei due soggetti era consapevole della presenza dell’altro. Questo rapporto si è interrotto nell’esperienza cinematografica e televisiva nell’ambito della quale al contrario, lo spettatore scompare, perché non è compresente, non vive lo stesso momento, non condivide tempo e luogo. Una parte della cultura contemporanea, a livello cinematografico ma soprattutto delle arti visive, sta quindi attuando il tentativo di riavviare questo tipo di contatto o, almeno, di ricreare una situazione di ‘ritorno’, di reciprocità (si pensi ai lavori di Grazia Toderi, di Janet Cardiff e di altri artisti, che cercano in modi diversi di ricostituire questa comunicazione e si pongono il problema dello spettatore riportandolo al centro dell’attenzione). Douglas propone dunque un discorso molto attuale, svolto in modo particolarmente consapevole dei mezzi che utilizza; lavorando in connessione con il cinema, la sua tendenza è quella di creare o ricreare veri e propri film.
Fra il 1987 e il 1988 Douglas ha realizzato i Television spots, dodici brevi sequenze (da 15 a 30 s) progettate per essere inserite all’interno dei normali annunci pubblicitari televisivi. Ha riproposto un’operazione del tutto simile nel 1991 con i Monodramas, video leggermente più lunghi (da 30 a 60 s) ispirati a serial, telenovelas o soap opera. Tuttavia, rispetto al linguaggio delle pubblicità in cui si dovrebbero inserire, queste opere sembrano avere tempi molto lenti; in realtà, le scene sono semplicemente girate in tempo reale, mentre sono i tempi della pubblicità a essere molto veloci. L’artista, con questo espediente ottiene il risultato di cambiare i ritmi e di rompere l’uniformità del linguaggio pubblicitario, facendo entrare lo spettatore in un tempo diverso. Riemerge il concetto di ritorno, l’idea che lo spettatore sia attore, nel senso che compie un’azione. Tutto il lavoro sarebbe infatti come ‘non finito’ se non ci fosse l’elemento fondamentale del coinvolgimento dello spettatore. Volendo rompere le convenzioni della visione televisiva che non concede il ‘movimento di ritorno’ verso lo spettatore, i Monodramas sono inoltre concepiti senza alcuna in-troduzione né spiegazione, proprio al fine di provocare un ‘effetto di delusione’.
Nelle opere di Douglas è molto importante (anche se non espressamente dichiarato) il rapporto con la psicoanalisi, e anche i film e i testi letterari scelti come punto di riferimento hanno spesso a che fare con essa. Tra i Television spots e i Monodramas si colloca Subject to a film: Marnie (1989), un film in 16 mm di 6 min che rappresenta la sua prima opera esplicitamente dedicata al cinema, e in particolare a colui che Douglas elegge a proprio maestro, Alfred Hitchcock, e al suo film del 1964 Marnie (la cui protagonista è una cleptomane); l’artista vi ‘ricrea’ la celebre scena del furto in ufficio, modernizzando gli arredi e gli strumenti di lavoro.
Risale al 1986 invece Overture, un film in 16 mm di 7 min basato su alcuni brevi documentari girati agli albori del cinema (tra il 1899 e il 1901) sui viaggi in treno attraverso le Montagne Rocciose del Canada. L’artista riprende da questi documentari le parti che riguardano l’entrata e l’uscita dei treni dai tunnel, aggiungendovi dei fotogrammi completamente neri e generando in tal modo un’ambiguità: si tratta di un tunnel, della fine della sequenza o della fine del film?
Del 1993 è Pursuit, fear, catastrophe: Ruskin B.C., un’opera ancora più strutturata in senso filmico, la prima in cui la narrazione comincia ad avere un ruolo importante. Già il titolo è composto da elementi che hanno origini diverse: la prima parte si riferisce a una composizione musicale di Arnold Schönberg (Begleitmusik zu einer Lichtspielszene, 1930, le cui tre sezioni s’intitolano appunto Drohende Gefahr, Angst e Katastrophe), la seconda a una città del Canada, Ruskin, e a una sua regione, la British Columbia. Il film, una detective story muta e in bianco e nero, ambientata agli albori dell’industrializzazione nelle Montagne Rocciose canadesi, fa riferimento agli inizi della storia del cinema, ai tempi in cui le piccole orchestre erano impiegate per rafforzare l’impatto emotivo dei film muti.
Per Documenta 11, Douglas ha poi realizzato Suspiria (2002), il cui titolo e la cui colonna sonora sono ispirati all’omonimo film (1977) di Dario Argento e al gruppo rock italiano dei Goblin, cui si devono le musiche di questo e di diversi altri film del regista italiano. Il video è composto da scene ispirate alle favole dei fratelli Grimm e recitate da attori contemporanei, cui sono sovrapposte, a intervalli diversi, sequenze tratte dalle registrazioni di videocamere di sorveglianza. Infine Klatsassin (2006) – ambientato nella British Columbia nel 1864 e ispirato al film di Akira Kurosawa Rashomōn (1950; Rashomon) che racconta versioni differenti e contraddittorie di un delitto – narra un episodio della rivolta dei nativi contro i bianchi, mostrandone diverse interpretazioni; le 22 sequenze sono iterate in 850 permutazioni per una durata totale di oltre 70 ore.
Una cinematografia dell’età della pietra
Una cinematografia dell’età della pietra: in questo modo William Kentridge (n. 1955), sudafricano bianco, filmmaker e regista teatrale, definisce la particolare tecnica di animazione con cui realizza i suoi video che nascono, senza un copione o una trama, da un semplice disegno. A sua volta, il punto di partenza per il disegno è costituito da alcune immagini-chiave, come quella dell’uomo che si rade davanti allo specchio fino a far scomparire il suo volto in Felix in exile (1994).
Mentre un classico film d’animazione è costituito da migliaia di disegni, la tecnica di Kentridge consiste nell’effettuare centinaia di modifiche sulla base di pochi disegni, trasformati da una serie continua di cancellazioni e riscritture. Così l’immagine cresce su sé stessa secondo i principi di durata e memoria. È impossibile eliminare tutte le tracce che rimangono in ogni disegno e così è la tecnica stessa a contenere il significato dell’opera. Altro elemento centrale è il paesaggio brullo e artificiale intorno a Johannesburg (la città dove Kentridge è nato e dove risiede tuttora), ricco di suggestioni e immagini che offrono all’artista continue ispirazioni per le sue opere. Se il paesaggio è il luogo della memoria storica (importante all’inizio per il lavoro di Kentridge, figlio di un avvocato che ha combattuto contro l’apartheid in Sudafrica), il corpo lo è di quella individuale. Medicine chest (2001) consiste in una video-animazione scandita in tre fasce orizzontali sullo sportello di un armadietto di medicinali. Come l’ombra, il corpo ci appartiene, ma è completamente fuori dal nostro controllo. Ma per Kentridge il disegno è il mezzo per controllare e, paradossalmente, è il film il procedimento che porta al disegno, un disegno in movimento.
Molto importante è anche il rapporto con il teatro, dal quale nascono diverse opere. A Documenta 11 Kentridge ha presentato Confessions of Zeno (2002), un video collegato a uno spettacolo teatrale basato su un testo di Jane Taylor tratto dal romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno (1923). È un’opera multimediale che Kentridge stesso definisce ‘un oratorio d’ombre’, dove la musica (scritta da Kevin Volans ed eseguita dal quartetto d’archi The Sontonga Quartet), il canto, la recitazione, il video e le marionette (animate dalla Hand-spring puppet company) si fondono per indicare il male di vivere, la paralisi del dubbio, la mancanza di determinazione, l’ironia, tutte tematiche di fondo presenti nel romanzo di Svevo. Una delle ragioni della scelta di questo romanzo per Kentridge deriva, come in altri casi, dal fatto che si tratta di un’opera estranea alla cultura sudafricana e quindi libera da interpretazioni pregresse; inoltre per l’artista esiste una similitudine tra Trieste e il Sudafrica, entrambe zone ai confini della cultura europea. Ma c’è da domandarsi se nella scelta di un personaggio come Zeno Cosini non abbia giocato quella vaga aspirazione, che si avverte nelle sue opere più recenti, a ricongiungere i due protagonisti di molti suoi video, l’idealista Felix e il capitalista Eckstein.
Cinema/Paradiso
«Cerca di seguire il ritmo dei miei passi, così potremo stare insieme»: è uno degli inviti che ci rivolge la canadese Janet Cardiff (n. 1957), o meglio la sua suadente voce-guida, in una delle sue Walks realizzate a partire dal 1991, opere sonore che accompagnano gli spettatori, uno alla volta, alla scoperta di legami con luoghi a cui si sovrappongono frammenti di ricordi e memorie stratificate; opere in parte di origine autobiografica, sulle quali ognuno può proiettare una parte di sé. In questi impalpabili lavori che sconfinano in ambienti aperti, che aprono i propri confini a discipline e aspetti della conoscenza differenti e vogliono essere principalmente brani di vita vissuta, è il ‘passo’ a innescare il ricordo. In altre opere della stessa artista la memoria viene invece attivata dagli oggetti e dai rumori, dagli odori e da altre sensazioni fisiche. Così in The dark pool (1995), opera realizzata con George Bures Miller, il flusso di reminiscenze scaturisce da libri, strumenti meccanici, foto, oggetti. L’ambiente è costruito come un set cinematografico, e appare come un ibrido tra un laboratorio per esperimenti parascientifici e una soffitta che conserva vecchie cose e in cui si accumulano ricordi di ogni sorta. Attraversando questo ‘stagno oscuro’, simile all’antro di una maga, lo spettatore attiva una serie di congegni acustici e il silenzio viene rotto da voci, frammenti musicali, racconti sull’immaginario luogo del titolo, un misterioso sito che sfida tutte le leggi della fisica.
The Paradise institute (2001) è un’installazione multimediale (premiata alla Biennale di Venezia dello stesso anno) formata da un piccolo edificio a forma di cinematografo, una sorta di alambicco dove ricreare sperimentalmente in vitro la memoria collettiva del cinema e dei suoi artifici. L’atmosfera è intrisa di nostalgia per la magia della sala cinematografica. Gli spettatori, muniti di cuffie, salgono e trovano posto nelle poltrone di velluto rosso della galleria, da dove scorgono uno schermo miniaturizzato e le minuscole poltroncine della platea. Questo espediente per rendere la distanza, una sorta di trompe l’œil, era già stato usato da Cardiff in Playhouse (1997), concerto di una cantante lirica che si esibisce sul palco di un teatro all’italiana. In The Paradise institute, nella sala cinematografica ci giungono frammenti dell’audio del film che scorre sullo schermo, fruscii, sussurri, chiacchiere dei vicini, e persino il fastidioso e realistico suono di un cellulare che ci fa sobbalzare: è come se alla colonna sonora del film si sovrapponesse quella dell’intera gamma di rumori della sala, fondendosi effettivamente nell’esperienza vissuta.
Il cinema e lo sport
Molte operazioni artistiche dello scozzese Douglas Gordon (n. 1966) sembrano avere come matrice l’arte concettuale, ma se ne distaccano perché sono sempre legate al contesto spaziale e relazionale. Gordon lavora sull’immagine cinematografica: nel 1993 ha dilatato nell’arco di una giornata il film Psycho (1960; Psyco) di Hitchcock, fino a ottenere, attraverso l’alterazione del tempo, un’altra opera, 24 hours Psycho; nel 1999 ha separato i fotogrammi pari e quelli dispari del film di Otto Preminger Whirlpool (1949; Il segreto di una donna), e li ha proiettati in un dittico (Left is right and right is wrong and left is wrong and right is right) con un minimo scarto temporale tra le due sequenze; nello stesso anno ha realizzato Through a looking glass, un video con la famosa sequenza di Robert De Niro allo specchio in Taxi driver (1976) di Martin Scorsese. Tutti questi lavori sono basati sulla divisione e moltiplicazione dello schermo: il tempo della fiction ha infatti invaso il tempo della realtà fino a modificare l’immaginario collettivo. In Off screen (1998), sempre in bilico tra realtà e fiction, Gordon proietta un sipario rosso su uno schermo che gli spettatori attraversano diventando così parte della realtà e del film.
Oltre al cinema, lo sport è l’altro grande mito corale con cui Gordon si confronta: dopo Above all else (1991), installazione centrata sulla scritta We are evil, frase presa dallo striscione di un gruppo di ultrà, nel 2006 ha realizzato con Philippe Parreno il film in 35 mm Zidane, un portrait du 21e siècle (Zidane, un ritratto del 21° secolo); la colonna sonora è del gruppo rock scozzese Mogwai. I due artisti si sono ispirati ai ritratti di principi e condottieri dipinti dai grandi pittori spagnoli del 16° e 17° sec., e hanno creato una versione attuale del ritratto riprendendo il lato umano di Zidane, la sua fatica in campo. I calciatori sono eroi dei nostri tempi, e Zidane è un mito che esiste solo in campo e solo nei tempi di gioco; i due artisti lo hanno quindi seguito e inquadrato durante la partita Real Madrid-Villareal del 23 aprile 2005.
Remake
Anche il francese Pierre Huyghe (n. 1962) muove dal cinema. E uno dei punti di partenza è proprio un classico, Rear window (1954; La finestra sul cortile) di Hitchcock, dove il protagonista, nel forzato tempo libero dovuto all’immobilità causata da un incidente, spia quadri di vita nelle finestre di fronte; con Remake (1995), l’artista chiede a un gruppo di persone di ‘rifare’ questo film, svelandone, e complicandone, la struttura multipla. Per Huyghe il rifacimento non è nostalgia, ma messa in discussione. Così, come il film di Pier Paolo Pasolini Uccellacci e uccellini (1966) raccontava l’itinerario di due vagabondi ai margini della città, attraverso borgate, cave e viadotti, Les incivils (1995) ospita riprese dall’alto di edifici in costruzione o in precoce abbandono, veri e propri scheletri di case. Uno degli spunti di maggior interesse in quest’opera – un remake di Uccellacci e uccellini definito d’après, come un equivalente della pittura – è il rapporto con il paesaggio urbano, i suoi orizzonti, i suoi punti e snodi di transizione e transito sui quali l’artista posa uno sguardo che non è mai neutrale. Il remake rappresenta una delle strategie perseguite da Huyghe al fine di assumere i media stessi come oggetto di analisi e di sottoporre la loro pretesa di mediazione a serrata revisione critica.
Il problema della traduzione, per es. da codice a codice, appare fondamentale anche per i lavori sul doppiaggio, come Dubbing (1996) e Blanche-neige Lucie (1997) in cui l’artista persegue l’annullamento dell’effetto fiction, e fa emergere il tema della forza-lavoro dei ‘prestatori’ di voce. Sul tema del doppiaggio e dell’espediente escogitato dalle compagnie cinematografiche per salvare la supremazia hollywoodiana dopo l’avvento del sonoro è anche The multi-language versions: Atlantic-Atlantik-Atlantis (1997). In The third memory (1999) l’artista, rintracciato John Wojtowicz, il protagonista del fatto di cronaca a cui è ispirato il film di Sidney Lumet Dog day afternoon (1975; Quel pomeriggio di un giorno da cani), gli chiede di rivivere quell’episodio sul set, filmandolo e correggendo così l’interpretazione degli avvenimenti fornita dal film di Lumet. Questo «tempo ricostituito», come lo chiama Jean-Charles Masséra (La leçon de Stains, in Pierre Huyghe, 2000, p. 51), è il tempo vissuto da una soggettività particolare, mentre l’immagine è la somma degli sguardi su un avvenimento.
Al Castello di Rivoli a Torino (2004), in occasione della sua prima mostra a carattere retrospettivo, Huyghe, per il quale ogni esposizione è in fondo un remake, ha organizzato una vera e propria struttura multimediale, utilizzando differenti mezzi e mirando a un totale coinvolgimento dello spettatore. Anche in questa occasione è emersa la volontà di Huyghe di sperimentare una sorta di soggettività collettiva che lo induce a volte a lavorare da solo, a volte con altri artisti. Da una riflessione sul white cube, come contenitore neutro, e dall’intento di renderne permeabili i confini è nato il progetto per la mostra. L’artista ha pensato a una sorta di origami o pop-up; progressivamente l’idea di partenza si è trasformata nell’immagine di un pallone aerostatico, fantasma levitante nello spazio che, come le mongolfiere che alla fine del Settecento accompagnavano feste e celebrazioni, doveva alzarsi in volo e approdare sul Castello. Nella sala più grande del Castello convivevano quattro video che si alternavano nell’audio: Les grands ensembles (2000; due edifici dialogano attraverso le luci prodotte dal bagliore dei televisori accesi), il citato Blanche-neige Lucie e due avventure dell’avatar AnnLee, protagonista di No ghost just a shell (2000-2003), che Huyghe e Parreno, avendone acquistato il copyright e l’immagine digitale da un’agenzia giapponese, avevano ‘deviato’ e immesso nell’universo dell’arte. Quando uno dei quattro video citati si animava nel buio e conquistava il sonoro, gli altri tre recedevano nella ‘memoria’: in questa sala, come all’interno di una testa, Huyghe ha messo a nudo i meccanismi della memoria e del pensiero. In un’altra sala, in Sleeptalking (1998) l’immagine del volto del poeta John Giorno – di cui Andy Warhol in Sleep (1963) aveva ripreso il sonno per circa otto ore – era accompagnata dalla sua voce che raccontava l’esperienza con Warhol, facendo comprendere che Sleep non era stato in realtà un lavoro effettuato in diretta.
Nello stretto rapporto che intercorre tra arte e cinema di solito quest’ultimo viene usato per documentare. Huyghe, invece, lo usa come punto di partenza. Così il cinema si rivela un format, come le riviste, la televisione, il fumetto e anche la mostra, su cui l’artista indaga e ci invita a riflettere.
Narrazioni interrotte
Anche Tracey Moffat (n. 1960), artista australiana trasferitasi a New York, lavora attraverso la citazione cinematografica. Nel ricordare un periodo della sua giovinezza – durante il quale, mentre frequentava il Queensland college of art a Brisbane, preferiva nascondersi in una sala cinematografica invece di seguire corsi di pittura –, l’artista dichiarava di essersi in un certo senso rifugiata nello studio delle tecniche del cinema. Moffat ha raggiunto i più interessanti risultati con i video (diffusi in genere da case di distribuzione cinematografica), opere come Night cries. A rural tragedy (1989), Heaven (1997), Love (2003). In Night cries vi è una messa a fuoco molto precisa, con vividi colori antinaturalistici, della storia di una donna aborigena adottata da una famiglia bianca, ispirata alla vicenda autobiografica dell’artista.
Moffat lavora contemporaneamente su video e fotografia, ritenendo quest’ultima altrettanto importante nella sua produzione. Del 1989 è la sequenza fotografica Something more, un photo tableau in nove sezioni organizzate in una griglia di tre ordini in cui colore e bianco e nero si alternano secondo una tecnica utilizzata anche nei video. Il tentativo è quello di realizzare una narrazione interrotta, che distoglie l’attenzione, fa riflettere e impedisce di entrare acriticamente nella storia, come nota Lynne Cooke: «Il posizionamento intermittente del trio di lavori monocromi interrompe il facile flusso della narrativa e la discontinua risultante, un tipo di congegno brechtiano che stimola una riflessione nello spettatore, indebolisce la spiegazione seduttiva di quello che è familiare favola per aspirazioni spezzate e sogni falliti. Una giovane donna, nata ai margini con poche possibilità, abbraccia le stereotipate delusioni della storia. Dolente saga, come Baby doll di Tennessee Williams e Tobacco road di Erskine Caldwell, Something more è allo stesso tempo particolare e generale, locale e universale [...]. Tutto quello che è il piano del linguaggio, ovverosia primi piani, grandangoli, dettagli [...], deriva dal cinema» (A photo-filmic odissey, in Tracey Moffat, 1998, pp. 23-24).
Guapa (o Goodlooking), del 1995, è un ciclo fotografico su una squadra femminile di pattinaggio basato su un’idea di agonismo e di violenza che in qualche modo anticipa le scene di lotta di Up in the sky (1997). Quest’ultimo è una sequenza fotografica di venticinque immagini ispirata al film Accattone (1961) di P.P. Pasolini, di cui riprende l’idea di fondo che per il sottoproletariato non esista via di scampo. Moffat sceglie di raccontare la storia attraverso il ritmo interrotto di una sequenza di fotogrammi in cui alterna seppia e bianco e nero, e non attraverso la continuità della narrazione. Al tema pasoliniano dei ‘ragazzi di vita’ Moffat sovrappone il tema formale della dialettica luce-tenebra di origine caravaggesca (non estraneo alla poetica di Pasolini). La vicenda narrata (che non è un remake di Accattone) viene trasferita in Australia, secondo la mappa della nuova emarginazione che risulta sempre più decentrata.
Laudanum (1998) è invece una serie fotografica che rammenta il film di Joseph Losey The servant (1963; Il servo), ma presenta anche riferimenti a film di David W. Griffith e Fritz Lang, a melodrammi come Mandingo (1975) di Richard Fleischer e alle fotografie di Julia Margareth Cameron, esponente del ‘pittorialismo’ fotografico. Su questo stesso tema del rapporto servo-padrone Moffat è tornata in modo più aggressivo nel video Lip (1999), compilation di videoclip e film hollywoodiani in cui attrici di colore interpretano lo stereotipo della domestica prepotente e irriverente, in un montaggio di immagini che ribaltano il rapporto tradizionale.
Nel citato video Love, le sequenze dei baci o degli schiaffi ogni volta vengono interrotte da un’immagine diversa, che rompe l’omogeneità. Moffat costruisce gli storyboard dei video come piccoli disegni, vere e proprie vignette che richiamano un frame fotografico, fatto di immagini e non di un unico flusso narrativo. Il video, caratterizzato da un montaggio dal ritmo serrato, svela la violenza che si cela sotto l’artificio romantico. Analogamente, in Artist (2000) l’artista combina sequenze di film in cui appaiono opere d’arte e conclude il video con la loro distruzione, e in Doomed (2007) il montaggio lega e contrappone immagini di film su disastri naturali e attacchi terroristici a un commento critico sulla fissazione contemporanea per le catastrofi e il loro predominio nei media. Questi ultimi film e il citato Lip sono stati realizzati in collaborazione con il film editor Gary Hillberg.
Di questa attività per videoclip musicali resta una traccia nel contrappunto del citato Night cries, con il cantante aborigeno che si esibisce in una canzoncina ritmata; ma nelle sue opere vi sono riferimenti anche alla pittura, per es. a Caravaggio: ricordiamo la scena del lavaggio dei piedi in Night cries o le foto di Pet Thang (1991) con il loro drammatico contrasto di bianco e nero, luce e ombra. Dalla metà degli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta nell’opera degli artisti i riferimenti alla storia dell’arte si sono comunque ridotti, mentre sono stati introdotti nuovi riferimenti a cinema, televisione, musica, design, sempre più frequenti all’inizio del 21° secolo. E per Moffat, cresciuta nei sobborghi dove vive la working class australiana, la televisione costituisce evidentemente il mezzo di comunicazione e la forma culturale per eccellenza.
Traduzioni di luce
Il nastro di Möbius realizzato al neon (Mobius strip,1997) può rappresentare una chiave di lettura dell’intera opera dell’artista gallese Cerith Wyn Evans (n. 1958). La striscia di Möbius, simbolo concreto del rovesciamento, è infatti una giusta introduzione a un lavoro che prende spunto da altri linguaggi e mira a costituire una polifonia, attraverso lo studio delle identità, l’analisi dei meccanismi di percezione e illusione, la relazione tra luce, spazio e linguaggio. Avendo iniziato come filmmaker, l’artista mantiene del cinema il procedimento base: creare un’immagine con la luce. In occasione della mostra Bubble peddler (Kunsthaus, Graz, 2007), Wyn Evans ha voluto che fosse proiettato il film di Kenneth Anger Eaux d’artifice (1953), che raffigura con un linguaggio astratto i giardini di villa d’Este a Tivoli e i loro giochi d’acqua (un set suggerito da Federico Fellini), al suono del concerto di Antonio Vivaldi noto come L’Inverno.
Firework (1996), la sua prima opera, è ambientata a Roma: sulla spiaggia di Ostia viene commemorata la fine violenta di P.P. Pasolini. Sulla sabbia è eretta una grande struttura lignea su cui si accende una frase tratta dall’Edipo re. Dell’evento resta il breve film Firework text (Pasolini) del 1998.
The sky is thin as paper here (2004), il cui titolo riproduce una frase di William Burroughs, presenta sovrapposte foto d’astronomia e immagini di uomini nudi nel rituale giapponese dello shinto. Nella serie Dreamachine (1998), Wyn Evans aveva ricostruito, per generare esperienze psichedeliche, le macchine inventate dal poeta e pittore Brion Gysin, compagno di Burroughs, utilizzando, oltre alla luce, tatami giapponesi affiancati da palme. L’uso delle piante nelle sue creazioni deriva dall’enorme impatto che ha avuto su di lui l’opera di Marcel Broodthaers (esposta all’Institute of contemporary arts di Londra), così come i film di Alain Resnais che hanno insegnato all’artista a immaginare un film senza averlo visto, solo dal titolo. D’altra parte, le opere di Wyn Evans si configurano proprio come gesti capaci di creare una comunione tra i viventi e coloro che non vivono più o coloro che non sono ancora nati, comunione che dà senso ai nostri pensieri e alle nostre azioni. Nell’operazione di Dreamachine l’artista si era riservato il ruolo di conferenziere, cerimoniere, maître de plaisir. In ‘Calibration and sensitometry’ by R. Ziener (1987) del 2006, l’artista trasmette invece in alfabeto Morse due testi mediante impulsi di luce, in una sorta di traduzione luce/letteratura: con il lampadario di Ca’ Rezzonico ‘traduce’ un testo sull’astrofotografia, con un lume tubolare degli anni Settanta (progettato dai designer italiani Livio Castiglioni e Gianfranco Frattini) un testo di Joris-Karl Huysmans. «Le luci stesse hanno una storia da raccontare. Nel caso di Against nature, 2003, quattro tubi plastici che si illuminano dall’interno, disegnati da Livio Castiglioni e Gianfranco Frattini nel 1970, trasmettono il romanzo Against nature [À rebours] (1884) di J.-K. Huysmans», scrive Jan Verwoert (Kommt! zurück! wieder! wann immer! / Come! back! again! whenever!, in Cerith Wyn Evans, 2007, pp. 25-26), notando che così si crea «il contatto tra coloro che non vivono più (Huysmans morì nel 1907, Castiglioni nel 1979, Frattini nel 2004) e i fruitori odierni e futuri del lavoro» (p. 26). Le citazioni, tradotte in alfabeto Morse, si trasformano nella luce dei lampadari, citazioni anch’essi della storia dell’antiquariato o del design.
Tutta l’opera di Wyn Evans sembra oscillare tra le due polarità dell’eccesso e del minimalismo. The sky is thin as paper here (2005), facciata luminosa per la Kunsthaus, sviluppa le potenzialità dell’edificio come luogo di spettacolo e architettura performativa: è una sorta di traduzione visiva di una musica composta con Marques Pinto. Afferma Evans: «La musica è molto importante, è legata all’idea di performance. Io suono il basso in un complesso e diamo concerti. È una musica minimalista, come se fosse un’architettura, vuole parlare di sentimenti» (Cherubini 2007, p. 21).
Il reale come montaggio
L’artista sudafricana Candice Breitz (n. 1972), che vive a New York, realizza con Soliloquy trilogy (2000) una trilogia di monologhi costituiti dalle parti ‘parlate’ da tre star del cinema in altrettanti film, che l’artista taglia e rimonta. Si tratta di un’analisi del fenomeno del divismo, con il sezionamento di quello che è quasi per definizione inscindibile e globale: la presenza ‘auratica’ del personaggio. Gli attori prescelti sono tra i più carismatici. A prescindere dalla loro tecnica di recitazione o bravura, si tratta di icone del nostro tempo: Sharon Stone, Jack Nicholson e Clint Eastwood, divi emblematici nella cui mitica immagine si fondono e si confondono persona e personaggio. L’artista applica una procedura per cui, a partire da un film famoso, il protagonista viene individuato e isolato nelle scene in cui appare e parla (cioè nelle scene in cui è soggetto linguistico), lasciando tutto il resto sullo sfondo. I film scelti dall’artista, oltre a essere di grande successo popolare, sono quelli indissolubilmente legati, nell’immaginario collettivo, al carattere dei tre divi.
Soliloquy (Sharon) è la sintesi del thriller psicosessuale Basic instinct (1992) di Paul Verhoeven, e riunisce tutte le sequenze in cui l’attrice parla, geme o ride, isolando e legando tutti (e solo) i momenti verbali di Sharon Stone. Il risultato di questo processo di decontestualizzazione e riconcatenazione è un nuovo film dalla paradossale lunghezza di 7 s: tale infatti il tempo totale delle battute recitate dalla sexy star nel film di cui è simbolo. In Soliloquy (Clint) vi è un’analoga selezione su Dirty Harry (1971; Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo) di Don Siegel, interpretato da Clint Eastwood, divo laconico per antonomasia. Tipico anche il ruolo del diabolico Jack Nicholson in Witches of Eastwick (1987; Le streghe di Eastwick). Siamo di fronte a tre ritratti condensati; Breitz inventa un metodo con cui tratta un ‘girato’ preesistente: una ricomposizione sintattica attraverso il procedimento del montaggio, già alla base della costruzione del film. D’altra parte, tutto il lavoro di Breitz agisce in questo senso: in Babel series (1998) alcuni monitor trasmettono in loop frammenti di video di celebrità della musica pop. Alcune sillabe vengono ripetute all’infinito, e la loro iterazione crea sottrazione di senso, quasi nel tentativo di dare un’immagine prelinguistica del linguaggio stesso. In Rainbow series (1996) l’artista aveva ibridato corpi femminili tratti da riviste porno con immagini di donne africane fotografate con lo stile proprio della rivista «National geographic».
Per Mother+father (2005), Breitz predispone due spazi distinti dedicati al genere maschile e femminile. Da una parte Meryl Streep, Susan Sarandon, Julia Roberts, Diane Keaton, Shirley McLaine, in film in cui interpretano figure materne; dall’altra John Voight, Dustin Hoffman, Donald Sutherland nel ruolo paterno. I personaggi di questo teatro sono scelti con molta attenzione. Faye Dunaway è la diva in senso assoluto: interpreta Joan Crawford in Mommie dearest (1981; Mammina cara) di Frank Perry; Susan Sarandon e Julia Roberts provengono dallo stesso film, Stepmom (1998; Nemiche amiche) di Chris Columbus, in cui sono rispettivamente una madre malata di cancro e la nuova compagna del padre; Meryl Streep e Dustin Hoffman creano una trasversalità tra i due spazi dedicati alle figure maschili e femminili nello scontro di Kramer vs. Kramer (1979; Kramer contro Kramer) di Robert Benton. Ancora una volta Breitz estrae i momenti sonori (parole, ma non solo). Ogni proiezione dialoga assurdamente con le altre, ma a partire da brani di realtà familiare. Per queste sequenze Breitz preferisce il termine re-animate; intervenendo tra le sequenze trovate, la sua manipolazione spinge lo spettatore a non accettare ideologie predisposte.
Casting come inchiesta
Cinecittà, la città del cinema, dove si fabbricano i sogni: a questo luogo, romano quasi quanto il Colosseo, ha dedicato la sua attenzione il tedesco Christian Jankowski (n. 1968) con I played this tomorrow (2003). Jankowski assume inizialmente la modalità corale e collettiva dell’inchiesta, che sembra discendere dalla tradizione surrealista; ma, di tale tradizione, non recupera la pratica del cadavre exquis (il gioco consistente nella formazione di un disegno a più mani, prodotto dunque dall’interazione tra ‘artisti’ diversi): i suoi protagonisti sono esterni al mondo dell’arte, come gli anonimi passanti di Shame box (1992). In Telemistica (1999), protagonisti sono i chiromanti televisivi, interpellati in diretta dall’artista. In Commercial landscape (2003) quel ‘luogo ideale’ rappresentato dalla campagna toscana viene considerato come impresa di marketing, e se ne sottolinea l’aspetto moderno di ‘fuga dalla città’.
Il progetto I played this tomorrow si compone di due parti: un video che racconta il casting e un breve film girato in pellicola sul set di Francesco (2002), miniserie televisiva di Michele Soavi. Il cast si è formato attraverso incontri casuali, e dalle affermazioni delle persone scritturate è stato estrapolato il materiale su cui si è poi costruita la sceneggiatura di un vero e proprio film. Gli attori sono stati presi dalla strada come nel cinema neorealista, e di tale cinema Jankowski assume il linguaggio, come in altri casi aveva fatto con la pubblicità o con la televisione. Il titolo del progetto è tratto da El perseguidor (1959), un racconto di Julio Cortázar che ha per protagonista un personaggio ispirato a Charlie Parker e allude ai vari significati del verbo to play (e del suo corrispettivo in altre lingue, ma non in italiano): giocare, suonare, interpretare una parte. Paradossalmente, la fiction si rivela non completamente tale, poiché la messinscena riguarda fatti ripresi dalla vita reale, anche se Jankowski ricerca per essi uno spazio più astratto e meno diretto. La documentazione degli incontri per il casting è ambientata fuori dai cancelli di Cinecittà, dove sostano le comparse che sperano in un provino o i curiosi che attendono l’apparizione dei divi, una sorta di ‘sala d’attesa dei desideri’ all’aperto. La scena del film è invece quella di una piazza medioevale. L’irrealtà onirica che ne deriva evoca il nume tutelare dell’operazione, Federico Fellini, e l’ultima scena degli abbracci nel girotondo finale di 8 ½ (1963), un film che, partito dalla psicoanalisi, approda al suo opposto: non si tratta più di liberarsi di tutto, ma di accettare tutto.
La lentezza
«Mi interessano molto le cose che hanno perso la loro funzione, cose costruite in modo visionario, secondo idee che in seguito non hanno mai funzionato nella società e sono state abbandonate»; così afferma l’artista inglese Tacita Dean (n. 1965) e prosegue: «Cerco di fermarmi su qualcosa prima che scompaia» (Conversazione con Roland Groenenboom, in Tacita Dean, 2004, p. 62). Nota Emanuela De Cecco: «I film di Tacita Dean non sono fatti per essere mostrati al cinema. Vivono un rapporto particolare con lo spazio reale nel quale sono esposti, dove persino la presenza fisica del proiettore gioca un ruolo significativo» (Segnare il tempo, in Tacita Dean, 2004, p. 9). Il cinema è troppo grande, c’è sempre troppa luce; afferma ancora l’artista: «I miei film hanno una relazione con lo spazio e la scultura [...]. Al cinema non si può esercitare tutto il controllo di cui ho bisogno [...]. È molto interessante che non funzionino al cinema» (in Tacita Dean, 2004, p. 22). All’interno del fondamentale rapporto con il tempo, l’opera di Dean si dipana a partire da una serie di soggetti, rovine del moderno, architetture fallite, segni del disinganno e dell’illusione: il relitto di barca chiamata teignmouth electron; la bubble house (la casa a bolla); i sound mirrors posizionati per difendere la costa inglese, poi divenuti rapidamente obsoleti; il ristorante girevole Fernsehturm sulla torre televisiva di Berlino Est. Dean mira allo svelamento delle contraddizioni del pensiero moderno e del suo mito del progresso, ma al tempo stesso ribalta il tema del fallimento in una prospettiva positiva, in una dialettica tra nostalgia e speranza.
Nelle opere del 2002, Mario Merz e Baobab, e del 2003, Boots, l’artista lavora su vecchiaia, esperienza, saggezza, lentezza. I baobab sono alberi che portano nella loro struttura le tracce dell’età e questo li rende affini alle figure umane; così ne parla Dean, che anche quando opera sul contesto urbano lo immerge nella natura: «Non appena li ho visti mi sono risultati immediatamente affascinanti anche dal punto di vista fisico. Anche in virtù di alcune piccole connessioni come quella con Antoine de Saint-Exupéry che ne aveva scritto nel Piccolo principe e perché mi ricordavano chiaramente una versione organica dei sound mirrors. Di cose che sono lì da molti secoli; sono molto vecchi. E sono diventati antropomorfi, possono assumere delle caratteristiche incredibili. Intendo dire che somigliano ad esseri umani grassi» (p. 63). Il mondo animale è rappresentato in quest’opera da mucche (vere), che con le loro lente movenze segnano il passaggio del tempo, e da mosche (finte), che alludono al clima caldo. Le riprese sono lunghe e immote, l’artista lascia che tutto accada all’interno di inquadrature fisse. E gli accadimenti sono spesso eventi naturali come una tempesta (Bubble house, 1999), un’eclisse, i riflessi delle nuvole sulla terra (Totality, 2000, girato verso il cielo, e Banewl, 1999, le ombre e le reazioni degli animali all’oscuramento). L’effetto lentezza è causato dalle «riprese statiche, perché non si è distratti dai movimenti di macchina» (p. 32), e consente l’instaurarsi di un tempo differente. Dean, che spesso assembla disegni, foto e video, ha studiato pittura, e molti suoi film contengono riferimenti alla storia dell’arte. In Banewl il riferimento è il paesaggio inglese filtrato attraverso i quadri di John Constable; Totality è un film sul cielo, ma è anche un quadro con campiture astratte; un’inquadratura di Fernsehturm (2001), video basato sull’analogia quadro/finestra, è molto simile ai quadri di Edward Hopper. Accanto ai lavori ci sono i testi che l’artista chiama asides, un termine preso a prestito dal teatro shakespeariano che indica qualcosa che l’attore dice ‘a parte’ al pubblico.
Il cinema e noi
L’italiana Carola Spadoni (n. 1969) è tornata nella sua città natale, Roma, dopo aver studiato cinema al Brooklyn college di New York e aver lavorato come assistente operatore in molte produzioni indipendenti, e in seguito come direttore della fotografia per alcuni cortometraggi. La sua produzione guarda alle arti visive, alla tradizione sperimentale americana e alla New Hollywood dei primi anni Settanta, con le prime prove, tra gli altri, di Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Steven Spielberg, ma la riflessione sul cinema e la sua intera storia attraversa tutto il suo lavoro di filmmaker. Neighbors (1996) è un cortometraggio in cui, attraverso le finestre, si possono spiare momenti di intimità di alcuni vicini di casa a New York: è il tema classico di Rear window di Hitchcock, ma anche un motivo tipicamente americano, presente in molta pittura e molto cinema.
Victor Cavallo, già protagonista di un videofilm dal titolo emblematico, Al confine tra il Missouri e la Garbatella (1997), torna nel successivo Giravolte (completato nel 2001), quasi un sequel, una passeggiata in città a bordo di uno sgangherato motorino attraverso le tappe di tre luoghi fuori dalla vita regolare: accampamenti sotto un ponte, il souk di Porta Portese, il bar di notte dei Mercati generali. Ogni location è teatro di uno spunto narrativo: il tentativo di suicidio durante una spaghettata sul greto del Tevere, la strampalata campagna elettorale di un aspirante sindaco, l’irruzione di una coppia di americani, interpretati da Raz Degan e Drena De Niro. Non c’è una trama unitaria, così come non c’è unità di tempo e spazio. Oltre alle errabonde avventure della passeggiata, il titolo, Giravolte, può riferirsi al modo di girare, alle evoluzioni della macchina da presa, ma anche a una concezione del tempo che non rispetta una sequenza lineare, nemmeno all’interno della stessa tranche de vie. Il poema, declamato come sottofondo all’inizio della scena del bar, è un vero e proprio inno d’amore nei confronti di una Roma contemporanea, antieroica, antimonumentale, multietnica, postfelliniana e postpasoliniana. Alla surreale presenza di una trota, Cavallo racconta al bar di aver conosciuto la figlia diciannovenne, fatto che connota il film come possibile seguito di Al confine tra il Missouri e la Garbatella. Se questo piccolo film è un ‘fuori genere’, il successivo Dio è morto (2003), presentato alla Biennale di Venezia, è un lavoro sul genere western che Spadoni fa deragliare. Protagonista è una cow girl, una sorta di Calamity Jane, che cammina, ferita, e mentre procede tenta invano di liberarsi dagli abiti. I modelli sono individuabili fra i western più atipici: The Missouri breaks (1976; Missouri) di Arthur Penn, Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, dove lo scontro è tra la proprietaria del saloon Joan Crawford e la regina del bestiame Mercedes McCambridge, e Giù la testa (1971) di Sergio Leone, un falso spaghetti-western a sfondo politico. La fisicità è data dal sonoro, dal respiro che sembra sfiorare lo spettatore, dal rumore dei passi. È il suo primo lavoro installativo, e l’artista cerca una spazialità, una mise en espace del cinema. Spadoni gira in pellicola super 35 mm, poi riversa in digitale e divide a metà la pellicola per ottenere una fascia orizzontale più estesa del cinemascope: la divisione della pellicola modifica il formato e ha la funzione di trasformare lo spazio dell’installazione.
Live through this (2006) nasce da riprese sul pubblico effettuate durante un concerto e associate alle famose scene di lovemaking contenute in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, su cui l’artista proietta il suo sguardo. Grande importanza riveste la musica che il gruppo degli Zu ha composto sulle immagini. L’installazione Collateral: quando l’arte guarda il cinema all’Hangar Bicocca (Milano, 2007) è composta da uno schermo centrale e due laterali: lo spettatore non deve cercare un centro rispetto alle immagini, ma entrare dentro di esse con il proprio corpo, guardarle a una distanza ‘non di sicurezza’. Altra installazione video è Ossi d’eco (2007) che, presentata all’Auditorium Parco della musica di Roma, apre una finestra su spazi opposti rispetto all’architettura che lo ospita. Le locations sono due: il grande cretto di Alberto Burri a Gibellina e una balera abbandonata in Sardegna, su cui campeggia la scritta «kill time».
Cowboy su Marte
L’italiana Rä Di Martino (n. 1975), stabilitasi a Londra e poi a New York, pur lavorando essenzialmente come filmmaker, utilizza anche la fotografia e combina il video con l’installazione. Not360 (2002) è un video girato nella campagna inglese e costituito da iterazioni e variazioni. Si tratta di un lavoro, condotto con intelligenza e originalità, sugli stereotipi della cultura anglosassone, dall’analisi del paesaggio inglese a quella della tipica recitazione da commedia britannica. La caratteristica formale del video diventa la struttura del lavoro: la macchina da presa gira e disegna il proprio orizzonte in una panoramica a 360°. Untitled (Rambo) del 2003 è un breve film muto in cui si crea un corto circuito tra il celebre film con Sylvester Stallone (First blood, 1982, Rambo, di Ted Kotcheff) e il cinema di Buster Keaton: l’eroe si trasforma in un antieroe perdente. Nel video CanCan (2004) un uomo in cucina si traveste da anziana signora e balla in modo travolgente e sfrenato il can can di Jacques Offenbach. Vi è quindi un doppio travestimento, perché sotto gli abiti da anziana signora appaiono le vesti tipiche delle scatenate ballerine francesi.
The dancing kid (2005) è una doppia proiezione video di cui è stata fatta una nuova versione nel 2008: il video è stato completamente rimontato e ridotto a meno della metà, divenendo così un prodotto più scarno e astratto, e le due proiezioni sono state poste specularmente l’una rispetto all’altra invece che una accanto all’altra, dimostrando l’importanza della modalità di installazione. Girato in California, nella Death Valley, dove Di Martino si era recata con l’attore e il cameraman alla ricerca di un deserto che avesse un aspetto ‘marziano’, si tratta di un ibrido tra due generi classici del cinema, il western e la fantascienza. La prima idea dell’artista era di ambientare il video su Marte, mentre l’attore doveva ri-recitare a memoria un monologo femminile estratto da un film. Dopo una iniziale incertezza tra Gilda (1946; di Charles Vidor, con Rita Hayworth) e il citato Johnny Guitar, Di Martino ha optato per quest’ultimo perché il monologo prescelto verte sul tema degli stranieri (all’origine della contesa tra le due protagoniste). Questi momenti si alternano con la visione delle attività quotidiane dell’uomo mentre il deserto viene ‘arredato’, quasi addomesticato, da grucce e giacche.
La camera (2006) è un progetto che nasce dalla richiesta di interagire con l’Archivio Luce (l’istituto che raccoglie i cinegiornali dagli anni Trenta agli anni Sessanta). Il lavoro si riferisce alla fase in cui il televisore si stava trasformando in un comune elettrodomestico, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, periodo cui si allude anche con l’utilizzo del bianco e nero. L’artista, non volendo riutilizzare il footage, ha scelto di prelevare solo l’audio dai filmati risalenti all’anno in cui la televisione è arrivata in Italia. Un attore e un’attrice, vestiti nella foggia dell’epoca, sono collocati su una collina e inquadrati da una finta stanza come in un disegno: ri-recitano interviste che hanno per argomento le memorie televisive.
The red shoes (2007) ruba il titolo al celebre film sulla danza (1948; Scarpette rosse) di Michael Powell ed Emeric Pressburger, come già il regista sudcoreano Yong-gyun Kim aveva fatto per l’horror Bunhongsin (2005). Il video (trasferito da pellicola), che appare come un finto film ritrovato, è una sorta di déjà-vu, un sogno già sognato da molti. In un artificioso paesaggio azzurro, l’acqua di una cascata sale invece di cadere. È, in ‘effetto notte’, un universo reversibile, incarnato nel procedimento del loop. Il titolo è evocativo quanto il bacio sotto la cascata, scena romantica e un po’ kitsch che si ripete, apparentemente uguale, in realtà con particolari sempre diversi. The night walk-er (2008) riprende il titolo dell’omonimo b-movie americano di William Castle (1954; Passi nella notte). Il lavoro, scrive Jenny Dogliani, «è incentrato sull’analisi del linguaggio cinematografico e sui processi mentali a esso correlati, processi attraverso cui l’individuo-spettatore costruisce il proprio io ed elabora le proprie paure, in primo luogo la paura della morte» (2008, p. 146). La serie fotografica Untitled (Marilyn), opera intensa e struggente, ha avuto inizio nel 2004: ogni anno Di Martino si reca al Westwood Memorial Park di Los Angeles a fotografare la tomba di Marilyn Monroe. Sottolineando l’assurdo scarto tra il più grande mito femminile della seconda metà del Novecento e la povera, piccola e comune tomba, uno squallido antimonumento, l’artista registra tutti i cambiamenti, l’appassire dei fiori, il mutare della luce, e compare nelle fotografie vicino alla tomba soltanto a partire dal 2008, ossia una volta raggiunta un’età maggiore rispetto a quella dell’attrice nell’anno della sua morte.
Tecnologie dell’obsolescenza
«Se la proliferazione caotica della produzione portò gli artisti concettuali alla dematerializzazione dell’opera, nel caso degli artisti della postproduzione li spinge a mixare e combinare i prodotti», scrive Nicolas Bourriaud (2002; trad. it. 2004, p. 43). Le eterogenee pratiche artistiche che sono state analizzate hanno in comune il fatto di usare come base non solo ciò che è già prodotto, ma anche ciò che è già riprodotto. Una delle conseguenze che ne derivano è la messa in crisi non solo del concetto di autore, ma anche dell’idea stessa della creazione.
Nella vertiginosa sperimentazione e combinazione di nuove tecnologie colpisce un aspetto paradossale: molti artisti che in qualche modo praticano le vie della cosiddetta multimedialità, soprattutto quelli più avvertiti, sembrano mostrare un’intensa nostalgia per quanto è obsoleto, abbandonato, negletto nel campo della tecnica. Dean, per es., nel suo Kodak (2006) ha usato gli ultimi rulli di pellicola 16 mm ottenuti da una fabbrica in procinto di chiudere. Emblematico, in questo senso, Rheinmetall/Victoria 8 (2003) del canadese Rodney Graham (n. 1949), che opera attraverso performances, installazioni, foto, film e video. In questa sua opera utilizza principalmente due macchine: il proiettore, un 35 mm italiano degli anni Cinquanta, e una vecchia macchina da scrivere tedesca, quest’ultima protagonista silenziosa dell’opera. Su di essa cade farina simile a neve, fino a trasformarla in un paesaggio di montagna. Questo faccia a faccia tra due macchine il cui tempo è ormai passato «incarna la poesia dell’obsoleto» (Gordon 2000, p. 54).
Lost cinema lost (2008), la mostra dello sloveno Tobias Putrih (n. 1972) e dell’inglese di origine bengalese Runa Islam (n. 1970) alla Galleria civica di Modena (cfr. Runa Islam, Tobias Putrih, 2008), verte esattamente su questa nostalgia: della sala cinematografica per Putrih, che appronta i contenitori, della magia della pellicola per Islam, che gira nel vecchio 16 mm. La nostalgia della sala alberga anche nei set della nederlandese Saskia Olde Wolbers (n. 1971) costituiti da modellini meticolosamente costruiti a mano, con oggetti trovati e dipinti a olio. In Trailer (2005) si vaga in una fatiscente sala cinematografica, dove si proiettano solo sbiaditi film hollywoodiani. Lo sconosciuto spettatore guarda appunto il trailer di un film vintage. L’artista si è ispirata a un documentario televisivo su Judy Lewis, la figlia di Clark Gable e Loretta Young, che aveva conosciuto il celebre padre solo sullo schermo. Riprendendo il Kinemacolor, un vecchio sistema anteriore al cinema a colori e basato sull’alternanza di due filtri (a dominante rosso-arancio e blu-verde), l’artista stabilisce un’analogia tra cinema e giungla e fonde la loro storia: «La metafora del cinema come giungla può, infine, essere una previsione di cose che dovranno accadere, che dopotutto è il compito di ogni buon trailer» (Gordon 2000, p. 74). Allo spazio del cinema è dedicato anche Bamboo cinema (2001) della statunitense Teresita Fernández (n. 1968): una struttura circolare che impegna lo spettatore dal punto di vista interattivo e lo coinvolge fino a fondere i ruoli tra performer e pubblico.
Nel 2008, alla Fiera dell’arte di Basilea (che propone un valido panorama dell’attualità), non erano pochi gli artisti che usavano una tecnologia proveniente da un passato prossimo, il bianco e nero: Apichatpong Weerasethakul, Johan Grimonprez e Adrià Julià; quest’ultimo lavora in pellicola (A means of passing the time, 2007), come anche Damien Ortega (Nine typers of terrain, 2007), Pietro Roccasalva (A good man is hard to find, 2008, una work situation composta da un quadro, un film 16 mm e una scultura), Joachim Koester, João Maria Gusmão e Pedro Paiva (Eclipse oculaire, 2007), e il citato Rodney Graham (Torqued chandier release, 2004). In un mondo in cui le tecnologie mutano a ritmo vertiginoso, gli artisti ci ricordano il fascino di ciò che è stato appena dismesso e fanno squillare un campanello d’allarme. Quello che ci interessa non è tanto, genericamente, la trasformazione tecnologica, ma in quale modo l’arte abbia proposto una sua soluzione e come gli artisti più validi e incisivi abbiano predisposto i loro mixed media.
Bibliografia
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Il cinema italiano del III millennio. I protagonisti della rinascita, a cura di F. Montini, Torino 2002.
Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio, a cura di A. Balzola, A.M. Monteverdi, Milano 2004.
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Saggi e dialoghi sul cinema, a cura di M.G. Di Monte, A. Barbuto, G. Nisini, Roma 2006.
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Si vedano inoltre i cataloghi di mostre:
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Pierre Huyghe. The third memory, ed. Ch. van Assche, J.-Ch. Masséra, Centre Georges Pompidou, Paris 2000.
Stan Douglas and Douglas Gordon. Double vision, ed. L. Cooke, Dia Art Foundation, New York 2000.
Hollywood revisited, ed. A. Krog, G. Orskou, Kunstmuseum, Aarhus 2002.
Christian Jankowski, a cura di G. Maraniello, Roma, MACRO, Milano 2003.
Pierre Huyghe, a cura di C. Christov-Bakargiev, Torino, Castello di Rivoli, Milano 2004.
Tacita Dean, a cura di E. De Cecco, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2004.
Candice Breitz, a cura di M. Beccaria, Torino, Castello di Rivoli, Milano 2005.
La Biennale di Venezia. 51a Esposizione internazionale d’arte: l’esperienza dell’arte, a cura di M. de Corral, R. Martínez, 2° vol., Partecipazioni nazionali, Venezia 2005.
Muntadas. On translation: i giardini, a cura di B. Marí, Biennale di Venezia, padiglione spagnolo, Venezia 2005.
Cerith Wyn Evans… In which something happens all over again for the very first time, ed. I. Heres, Musée d’art moderne de la ville de Paris, Paris 2006.
Douglas Gordon. Prettymucheverywordwritten, spoken, heard, overheard from 1989…: voyage in Italy, a cura di M. D’Argenzio, G. Verzotti, Rovereto, MART, Milano 2006.
Cerith Wyn Evans. Bubble peddler, ed. P. Pakesch, Graz, Kunsthaus, Köln 2007.
Tacita Dean. Film works, ed. R. Carvajal, Miami, Miami Art Central, Milano-New York 2007.
Runa Islam, Tobias Putrih. Lost cinema lost, a cura di M. Farronato, Galleria civica, Modena 2008.
The cinema effect. Illusion, reality, and the moving image, ed. K. Brougher, A. Ellegood, K. Gordon, K. Hileman, Washington D.C., Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Washington D.C.-London 2008.