CONTINUITA'
. Continuo e discontinuo fenomenico. - Consideriamo un gruppo di oggetti e le sensazioni che essi producono in noi: per semplicità limitiamoci a guardare gli oggetti stessi e a considerare quindi le sole sensazioni visive. Per fissare ancora meglio le idee, prendiamo un certo numero di monete, per esempio dieci, sparpagliate sul tavolo a una certa distanza l'una dall'altra. Guardiamo le dieci monete contemporaneamente, tenendo fissi gli occhi: allora esse impressionano parti diverse della retina del nostro occhio, sicché abbiamo la sensazione distinta di ciascuna: le dieci monete formano un aggregato discontinuo di oggetti.
Ma supponiamo che le dieci monete siano nuove di zecca ed eguali fra loro: collochiamole una sopra l'altra, formandone una pila e guardiamo questa pila da una certa distanza (tre o quattro metri). Noi non riusciamo più a separare nettamente la sensazione prodotta sulla nostra retina dalle diverse monete, cioè ora vediamo un oggetto unico, continuo (la pila delle dieci monete) anziché un aggregato discontinuo di dieci oggetti (le dieci monete). Soltanto se ci avviciniamo alquanto alla pila delle dieci monete, possiamo distinguere, sulla superficie cilindrica della pila, delle linee di divisione fra l'una e l'altra moneta; e riusciamo così a differenziare le sensazioni prodotte dalle singole monete, che di nuovo ci appariranno come un aggregato discontinuo di dieci elementi.
Un'altra semplice osservazione: quando guardiamo, in distanza, la pila delle dieci monete, noi possiamo distinguere nella pila una prima e un'ultima moneta; così pure la sensazione prodotta dalla seconda moneta implica parti della retina diverse da quelle relative alla sensazione dell'ottava moneta, e in questa accezione si può dire che la seconda e la ottava moneta dànno due sensazioni distinte; ma, se siamo a distanza sufficiente, non potremo in alcun modo distaccare le sensazioni prodotte da due monete consecutive. Se si vuole avere più certa questa impossibilità di distinzione, basta considerare anziché dieci monete, mille dischi metallici dello spessore d'un decimo di millimetro ciascuno.
Da ciò che si è detto scaturisce la distinzione fra continuo e discontinuo fenomenico: un gruppo di fenomeni costituisce un discontinuo, quando la sensazione complessa dell'insieme si lascia scindere in tante sensazioni elementari di oggetti distinguibili l'uno dall'altro; costituisce, per contrario, un continuo, se le sensazioni elementari delle parti del gruppo non si lasciano distinguere in tal guisa, essendo possibile intercalare fra due sensazioni siffatte una serie finita di sensazioni consecutive non differenziabili, cioè passare dall'una all'altra per gradi insensibili. In questa accezione dànno a noi l'impressione d'un continuo un pezzo di vetro uniformemente colorato o la superficie d'un triangolo.
Ma la nozione del continuo dà origine a un problema appena si cerca di pensare la realtà fenomenica, traducendola con un insieme logico di concetti. Le contradizioni a cui si perviene sono apparse fin dall'antichità e vengono ancora espresse dai famosi soriti dei filosofi megarici: la coda di cavallo, che resta tale per quanti crini se ne strappino; il mucchio di grano che resta sempre un mucchio, quando si tolgano l'un dopo l'altro tutti i chicchi, ecc.
Si pone dunque il problema se andando col pensiero di là dalle apparenze sensibili, la realtà, per es., la materia (anche quella che ci appare come omogenea) e lo spazio si rivelino discontinui ovvero siano proprio continui, sicché tali debbano manifestarsi sempre a un osservatore di sensi infinitamente sottili.
La continuità dello spazio per i Greci. - Il problema della continuità o discontinuità è posto insieme per la materia e per lo spazio (concepito come un "pieno" di materia senza differenze qualitative) dai Pitagorici, verso il 500 a. C. Questi filosofi si fermarono a un'ipotesi di discontinuità: la materia e lo spazio sono formati da punti solidi o monadi, che si pensano quali elementi o minimi d'estensione, cioè in qualche modo, come infinitesimi attuali (v. infinito). Questa ipotesi conduceva nel campo della geometria al facile sviluppo d'una teoria delle proporzioni e della misura, ma presto anche s'imbatteva in conseguenze assurde: poiché la scoperta dell'incommensurabile (impossibilità di trovare una parte aliquota comune al cateto e all'ipotenusa del triangolo rettangolo isoscele) costituiva qualcosa d'incompatibile con l'ipotesi stessa.
Allora, per opera degli Eleati (Parmenide e Zenone), si stabilì la teoria che la materia costituisce un continuo, e si riconobbe in pari tempo che il "punto" matematico deve essere concepito in modo puramente razionale, come privo d'estensione. I famosi argomenti di Zenone d'Elea sono stati spiegati in questo senso, come una riduzione all'assurdo della tesi pitagorica.
Nello sviluppo ulteriore del pensiero greco, Leucippo e Democrito ritornarono alla veduta d'una materia discontinua, formata di parti estese (non più minimi geometrici) indivisibili per la loro solidità (v. democrito); mentre lo spazio della geometria restava quel continuo formato di punti inestesi, che costituisce l'oggetto della geometria euclidea. "Il punto è ciò che non ha parti", dice Euclide; e questa definizione secondo Proclo è conforme al criterio di Parmenide (cfr. F. Enriques, La polemica eleatica per il concetto razionale della geometria, in Periodico di Matematiche, serie IV, vol. III, 2, pp. 73-88, Bologna 1923).
Tuttavia i Greci non hanno fatto uso della continuità della linea o dello spazio, nel significato moderno. In tutti i casi in cui un'intuizione di continuità ci avverte che per passare da un più piccolo ad un più grande, rispetto a qualche cosa, si deve passare per un eguale, essi cercarono di riconoscere l'esistenza della soluzione del problema proposto mediante una costruzione. Ciò vien fatto sistematicamente in Euclide, per mezzo della riga e del compasso, e perciò appunto egli evita di parlare, per es., della parte aliquota d'un angolo, come di qualsiasi grandezza, che non sappia effettivamente costruire coi detti strumenti.
Vero è che l'idea della continuità dello spazio figura, per altri aspetti, nella geometria greca: poiché in essa la lunghezza d'una linea, ovvero l'area contenuta entro una linea chiusa vengono pur calcolate (almeno per il cerchio e per altre linee particolari) come se la linea stessa fosse una poligonale o un poligono con infiniti lati infinitamente piccoli; e analogamente si dica per le superficie e per i volumi del cilindro, del cono e della sfera. Di fatto, l'idea della continuità si riconosce qui anche attraverso la forma rigorosa del procedimento d'esaustione (v. integrale, calcolo) d'Eudosso, che evita o dissimula il procedimento infinito con una riduzione all'assurdo. Ma la lunghezza, la superficie, e il volume che si tratta di misurare, sono sempre supposti dai Greci come grandezze, naturalmente date, non come enti, la cui esistenza venga definita e provata per mezzo della continuità, come invece accade nelle moderne definizioni di esse con un passaggio al limite.
La continuità della linea come criterio d'esistenza da Cardano a Dedekind. - La visione più larga della continuità dello spazio e quindi degli enti geometrici costituisce un carattere proprio del pensiero matematico moderno di fronte all'antico. E qui, fin da principio, la continuità appare come criterio d'esistenza. G. Cardano, per riconoscere l'esistenza di radici dell'equazione cubica, specie nel caso irreducibile, invoca appunto la continuità sotto la forma che è implicita nel cosiddetto criterio dei valori intermedî (passando da un valore ad un altro la funzione cubica deve prendere tutti i valori intermedî). R. Bombelli rileva che l'argomento di Cardano si giustifica con la continuità del movimento, poiché un punto variando su una retta da un suo punto O all'infinito deve passare per tutte le posizioni intermedie. Il principio di Cardano viene quindi adoperato in generale nelle ricerche sulle equazioni algebriche da Stevin, Viète, ecc., finché Rolle ne dà la formulazione generale deducendone in particolare che ogni equazione di grado dispari ha almeno una radice (reale).
Frattanto negli scrittori inglesi del sec. XVII, Gregory e Wallis, s'introduce il concetto del limite d'una successione d'infiniti termini; un numero è limite d'una successione, quando i termini di questa gli si avvicinano indefinitamente per modo che, da un certo punto in poi, la differenza diventi e si mantenga inferiore a ogni numero prefissato ad arbitrio, sia pure piccolo. L'intuizione geometrica della continuità porta già Descartes a riconoscere il più semplice criterio che vale ad assicurare la convergenza d'una successione a un limite, cioè che ogni successione crescente e limitata di segmenti tende a un limite.
Ma presto la stessa intuizione doveva condurre ad un uso più largo dei processi infiniti e in specie delle serie o somme d'infiniti termini, quali si introducono con Gregorio di S. Vincenzo, con Mercator e Leibniz, e soprattutto con la scuola di Newton. L'uso delle serie si estende, e gli analisti del sec. XVIII le adoperano supponendo a priori la loro convergenza e trascurando di porgerne la dimostrazione. Anzi la fiducia che ogni serie, qualunque essa sia, debba avere un valore determinato è espressa esplicitamente da Eulero in una lettera a Goldbach del 1745 (v. infinito). La continuità delle espressioni analitiche (pure costruite ad arbitrio) assumeva così un valore incondizionato.
Con gl'inizî del sec. XIX (seguendo l'indirizzo di rigore di Lagrange) Cauchy e Abel criticavano tali vedute e ponevano i primi criterî precisi della convergenza della serie. B. Bolzano tentava quindi di dimostrarne il principio, liberando il teorema dei valori intermedî dalle intuizioni geometriche con cui si soleva giustificarle, tentativo rinnovato poi da H. Hankel. Ma la vanità di questi sforzi doveva apparire dalla critica definitiva di R. Dedekind (1872).
La dimostrazione cercata da Bolzano e da Hankel non si può dare ove non si assuma, come fondamento, un postulato che valga a precisare la nostra intuizione della continuità della linea retta (al quale tuttavia si può far corrispondere una convenzione o definizione dei numeri irrazionali: v. numero). Il postulato della continuità della retta, secondo Dedekind, si può formulare come segue: se i punti d'un segmento sono distribuiti in due classi (non vuote) H e K, per modo che: 1. ogni punto appartenga a una e a una sola delle due classi; 2. ogni punto H preceda tutti i punti K in un ordine del segmento; esiste un punto di separazione (che potrà essere un H o un K) tale che tutti i punti che lo precedono appartengono alla classe H, e tutti quelli che lo seguono alla K.
G. Cantor è riuscito a formulare la continuità della retta in un altro modo, cioè postulando che una successione di punti X1, X2, X3, ... tende a un limite se, comunque si prefissi un numero positivo ε, per quanto piccolo, si possa determinare un intero n, tale che per ogni m > n e ogni p > 0, la distanza Xm X+p risulti minore di ε.
E questo postulato, di solito, si riduce all'assunzione d'un puntolimite comune a due successioni di punti (numeri) X1, X2, X3,... Y1, Y2, Y3,..., la prima crescente e la seconda decrescente, nell'ipotesi che la distanza diventi indefinitamente piccola.
Il postulato di Cantor equivale a quello di Dedekind, quando gli si aggiunga il postulato d'Eudosso-Archimede (esiste sempre un multiplo d'una grandezza data maggiore d'un'altra). Ma la distinzione ha acquistato importanza per riguardo alla costruzione di continui non archimedei di G. Veronese (v. infinito; numero).
Continuità delle leggi naturali. - Il movimento di idee, che si conclude con la formulazione del postulato di Dedekind, riesce a determinare in forma precisa il contenuto della nostra intuizione della continuità della linea retta (e quindi dello spazio). Ma, nel pensiero dei creatori delle matematiche moderne, la visione della continuità ha un significato più largo. Essa è anzitutto visione della continuità del moto nei fenomeni naturali e poi della continuità delle leggi di natura, che implica, in due sensi, la continuità degli enti matematici (linee e figure geometriche, funzioni, ecc.) per cui codeste leggi vengono espresse, cioè che: 1. tali enti godano in sé d'ogni specie di continuità; 2. si presentino anche in serie o sistemi (continui), entro ai quali si passi sempre con continuità dall'uno all'altro. Ripigliando l'adagio scolastico natura non facit saltus e dandogli un significato matematico, Leibniz enuncia il principio metafisico che traduce per lui la bella legge di continuità dell'universo: "lorsque la difference de deux cas peut être diminuée au-dessus de toute grandeur donnée in datis, ou dans ce qui est posé, il faut qu'elle se puisse trouver aussi diminuée au-dessus de toute grandeur in quaesitis, ou dans ce qui en résulte; ou, pour parler plus familièrement, lorsque les cas (ou ce qui est donné) s'approchent continuellement et se perdent enfin l'un dans l'autre, il faut que la suite des événements (ou ce qui est demandé) le fassent aussi". Lo stesso spirito dominava anche i creatori della fisica. Galileo aveva dedotto la legge d'inerzia come caso limite della legge di caduta dei gravi sopra un piano inclinato, quando il piano diventa orizzontale. Newton arrivò al suo principio di gravitazione universale, comprendente in sé la legge del peso, con una grandiosa extrapolazione che implica un'applicazione della legge di continuità: cioè, immaginando che un grave sia portato lontano dalla Terra, alla distanza della Luna. Ma l'idea della continuità, così come l'abbiamo formulata prima e come si esprime nell'enunciato di Leibniz, nonostante il suo valore euristico, è lungi dall'avere un significato preciso. Essa suppone un razionalismo o realismo metafisico, per cui le funzioni e le leggi matematiche sono date, fuori della mente del matematico, come semplici leggi della natura. Quando si riconosca in esse un lavoro d'idealizzazione dei fatti fisicamente osservati, in cui s' introduce anche un momento arbitrario (ipotesi, definizioni), la pretesa di dare alla continuità un significato naturale si rivela vuota di senso. Si può riconoscere in essa un'esigenza della mente umana, che avrà un certo valore per i concetti storicamente foggiati dai matematici, ma che dovrà essere investigata mercé un'analisi appropriata e precisa.
La continuità nel calcolo infinitesimale. - Tutto lo sviluppo del calcolo infinitesimale (v. differenziale, calcolo; integrale, calcolo), è dominato dall'idea della continuità, intesa nel senso più largo. Le curve vengono considerate come poligonali con un numero infinito di lati infinitamente piccoli, cioè come limiti di poligonali variabili; ma, per i fini della determinazione delle tangenti, lunghezze, aree, ecc., che formano appunto l'oggetto del calcolo, basta ammettere la convergenza al limite di certe successioni. Si assuma, per es., la linea y = f(x). Si ammette anzitutto che essa sia una linea continua ovvero che la funzione f sia continua in ogni punto; cioè, data (nell'intervallo in cui la f è definita) una successione di valori x1, x2, x3,..., tendente al limite a, la successione f(x1), f(x2), f(x3),..., deve tendere al limite f(a).
Questa condizione supponendosi verificata per ogni punto d'un intervallo (c, d), estremi inclusi, si dimostra (con Heine) che la funzione f è uniformemente continua nel detto intervallo, cioè: per ogni ε > 0, prefissato ad arbitrio, per quanto piccolo, si può trovare un tale che ogni qual volta sia ∣ x − x′ ∣ 〈 δ si abbia ∣f(x) − f(x′)∣ 〈 ε.
In secondo luogo occorre ammettere che tenda a un limite determinato anche la successione delle rette PP′ congiungenti un punto P della curva con un punto P′ vicino, quando P′ si avvicini indefinitamente a P (fig.1); questa retta limite è la tangente alla curva in P, e il suo coefficiente angolare dà la derivata della funzione f nel punto stesso.
Queste e altre simili ammissioni (per le curve, per le superficie, per i moti, ecc.) vengono date dalla intuizione comune delle linee, delle superficie, ecc., in quanto queste si pensino naturalmente definite. Ma che cosa vuol dire "naturalmente definite"? Il matematico può anche credere di vedere con l'occhio della mente un mondo di enti intelligibili, che rispondano più o meno alla descrizione dei fenomeni fisici e siano pensati costituirne la vera realtà. Resta sempre che, per svolgere la trattazione matematica di tali enti, occorre precisare quali proprietà si assumano, come definizione, e quindi dimostrare le altre proprietà, che comunque crediamo accompagnarsi a quelle prime.
Così, per esempio, può sembrare a prima vista (ed è sembrato difatti nel periodo eroico dell'analisi infinitesimale) che la semplice continuità di una funzione y = f(x) debba bastare per assicurare al suo diagramma tutti i caratteri d'una linea intuitiva e quindi, in particolare, per implicare l'esistenza (almeno in generale) della tangente, ossia della derivata di f. Ma quando si è cercato di dimostrare questo supposto teorema, è apparso invece che la esistenza della derivata costituisce un postulato nuovo, da aggiungere alla continuità per definire le linee intuitive.
In conclusione tutte le proprietà che colleghiamo, nella nostra mente, all'intuizione della continuità delle figure o dei moti, piuttosto che verità naturali, scoperte in un mondo esteriore, si rivelano come requisiti degli enti che la mente stessa del matematico costruisce per rappresentare codesto mondo, in una maniera che è logicamente arbitraria. Esse si traducono quindi in definizioni dei concetti matematici: cioè della funzione continua, derivabile, ecc.
Mercé queste definizioni si riesce a precisare quali proprietà dipendano, per es., per il concetto di curva, dalla considerazione di essa come limite d'una poligonale, ecc.
Secondo G. Cantor, la definizione più generale d'un insieme continuo di punti, nel piano o nello spazio, si può dare come segue. Premettiamo che essendo dato un insieme o gruppo G di punti, si dice punto-limite o di accumulazione di esso ogni punto P (appartenente o no a G) tale che in ogni intorno di esso per quanto piccolo (cerchio o sfera contenente P) cadano punti di G, diversi da P. Si dice perfetto un insieme G quando: 1. contiene tutti i suoi punti-limiti; 2. ogni punto di G è punto-limite dell'insieme.
Ciò premesso, si dirà continuo un insieme di punti, quando è perfetto e ben concatenato, ossia tale che, dati due punti A e B di esso e prefissato ad arbitrio un numero ε > 0, per quanto piccolo, si possa trovare, nell'insieme stesso, una successione d'un numero finito di punti C1, C2..., Cn per modo che tutte le distanze AC1, C1C2,C2 C3..., Cn-1 Cn, CnB siano minori di ε.
Concetto più esteso della continuità. - Ma l'idea della continuità ha un valore (euristico) che non si esaurisce nella pura definizione degli enti matematici, a cui è applicabile il calcolo differenziale e integrale. Soprattutto i grandi matematici ne hanno tratto le più ardite e feconde intuizioni. Ricordiamo, per es., che Eulero giunse a scoprire le infinite determinazioni del logaritmo nel campo complesso (differenti per multipli interi arbitrarî del periodo 2πi) ritenendo il logaritmo come una radice d'ordine infinito.
Quest'ordine di suggestioni deriva dalla veduta generale che i nostri enti matematici si presentino in famiglie o sistemi (continui), entro i quali si passi con continuità dall'uno all'altro: veduta che rimane forzatamente vaga nella sua astratta generalità, ma che trova. per es., una feconda applicazione nei cosiddetti problemi isoperimetrici (determinazione di curve di data lunghezza, che soddisfano a date proprietà di massimo e minimo) e quindi nel calcolo delle variazioni; anche più larga nella recente teoria delle funzioni di linee (v. funzionali).
Continuità geometrica: principio di Poncelet. - Ora la concezione che gli enti geometrici si presentino naturalmente in sistemi continui si è concretata in un principio più preciso per quel che riguarda le figure della geometria elementare e poi della geometria proiettiva e algebrica.
Diciamo anzitutto del suo aspetto elementare. La geometria d'Euclide non pone alcun legame fra figure diverse che si lasciano dedurre l'una dall'altra con una variazione continua dei dati. Per esempio: l'angolo iscritto in un arco di cerchio è costante (Euclide, III, 27), ed è uguale (fig. 2) all'angolo della corda con la tangente in uno degli estremi (III, 32). La seconda proprietà si deduce dalla prima come caso particolare (caso limite), ma per Euclide costituisce un caso affatto nuovo.
L'atteggiamento di Euclide a tale riguardo non deriva soltanto da scrupoli di rigore, bensì anche dalla circostanza che, per effetto d'una variazione continua dei dati, le proprietà delle figure subiscono talvolta una modificazione apparentemente discontinua. Per es., dato nel piano un punto P in relazione a due rette parallele a e b, se P è interno alla striscia ab sarà costante la somma delle sue distanze da a e o, se diventa esterno risulta costante la differenza (fig. 3). In modo analogo cambiano le proprietà metriche delle coniche, quando si passa dall'ellisse alla parabola e all'iperbole, sebbene il passaggio si possa fare in modo continuo.
Però un'intuizione geometrica più sviluppata riesce a scoprire, anche in questi casi, qualche cosa che rimane costante nell'apparente cambiamento, spiegando altresì come le somme si scambino con le differenze in virtù della polidromia della funzione
che esprime la distanza nello spazio di due punti di coordinate x, y, z e x′, y′, z′.
Uno dei primi che abbiano riflettuto su questo aspetto della continuità geometrica è Keplero, nei Paralipomena ad Vitellionem (1572). Qui si trovano osservazioni sul passaggio dall'una all'altra specie di coniche e sul fuoco "cieco" (cioè all'infinito) della parabola; e si parla d'un'analogia fra le varie coniche, che può servire di guida alla scoperta delle loro proprietà o meglio all'estensione delle proprietà dall'uno all'altro caso: "plurimum namque amo analogias, fidelissimos meos magistros, omnium naturae arcanorum conscios".
Questo principio di analogia o di continuità (intorno a cui meditò, fra gli altri, il Boscovich) ha ricevuto il massimo sviluppo agl'inizî del sec. XIX, con la fondazione della geometria proiettiva da Monge a Poncelet.
Monge ha espresso la felice intuizione che certe proprietà delle figure, dimostrate nell'ipotesi dell'esistenza di alcuni elementi (per es., dei punti intersezioni di date linee e superficie), si estendono al caso in cui questi vengano a mancare, diventando immaginarî. Così egli dimostrava la proprietà fondamentale della polare d'una retta rispetto ad una quadrica, riferendosi al caso in cui per la retta data passino due piani tangenti alla quadrica.
Del metodo così introdotto vuol fornire una giustificazione L. Carnot, De la corrélation des figures de Géométrie e Géométrie de position (Parigi 1801,1804). Poncelet riprende queste speculazioni e afferma più nettamente la visione unificata che si ottiene per ciascuna famiglia o sistema di figure variabili con continuità, affrancandosi dalle diseguaglianze fra i loro elementi. In una lettera a Terquem del 23 novembre 1818 egli scrive di avere riconosciuto un assioma primitivo, comune all'algebra e alla geometria, nel "principe de permanence ou de continuité indéfinie des lois mathématiques des grandeurs variables par succession insensible". E di questo principio svolge poi diverse applicazioni importanti; soprattutto se ne vale per giustificare la veduta che i punti all'infinito nel piano formano una retta e nello spazio un piano, mettendola così alla base dell'edificio della geometria proiettiva.
Poncelet non si è preoccupato di dimostrare il suo principio: "une de ces véritées premières qu'il est impossible de ramener à des idées plus simples parce qu'elles ont leur source et leur certitude immédiates dans notre manière de voir autant que dans les faits, dans la nature des choses". Perciò egli incorreva nella critica di Cauchy, che, riferendo sopra una memoria di Poncelet all'Accademia delle scienze di Parigi (il 5 giugno 1820), formulava delle riserve sull'applicazione illimitata di quel principio.
Ma le applicazioni fattene da Poncelet erano tutte esatte, perché egli le limitava implicitamente agli enti algebrici, per cui riesce sempre valido. E proprio da codeste applicazioni si può desumerne il vero significato.
Il progresso della geometria proiettiva e algebrica ha giustificato, e liberato da ogni veduta di continuità, molte teorie che ne dipendevano nel concetto di Poncelet: per es., la teoria geometrica degli immaginarî, fondata rigorosamente da Staudt.
Nondimeno quella veduta porge un criterio unificativo di dottrine diverse, e in pari tempo ne svela il vero significato, chiarendone la genesi. Il principio di continuità di Poncelet resta principio vivo di costruzione e di scoperta, nella nostra geometria algebrica. E d'altronde il suo valore può essere definito con un'analisi rigorosa. La quale riconosce in esso un metodo generale di dimostrazione che si può dividere in tre principî, logicamente concatenati e successivamente dimostrabili. Anzitutto un principio di passaggio al limite. Si può enunciare come segue: se Y1, Y2,..., Yn sono elementi d'una figura variabile, dipendenti analiticamente da più parametri x1, x2, ..., xn, ogni relazione analitica
che venga verificata nell'intorno di un gruppo di valori x1, x2,..., ùn dei parametri x, risulta verificata anche al limite quando le diverse x tendono alle omonime ù.
Oltre all'esempio elementarissimo dell'angolo iscritto in un arco di cerchio (Euclide, III, 27,32) cui si è accennato innanzi, si possono citare come applicazioni di questo principio i casi particolari del teorema di Pascal sull'esagono iscritto in una conica, dove all'esagono si sostituisce il pentagono derivante dall'avvicinare indefinitamente due vertici, ecc. (v. coniche). Quest'applicazione si trova già indicata nel trattato di Simson (libro V, prop. 48).
In secondo luogo si ha un principio di estensione delle proprietà geometriche. Esso si può enunciare come segue: ogni relazione analitica:
relativa agli elementi d'una figura variabile, la quale sia verificata nell'intorno di un gruppo di valori ù1, ù2,..., ùn dei parametri x, risulta verificata anche per qualsiasi altro gruppo di valori dei parametri x stessi.
Questo principio permette di assumere come valide in tutti i casi quelle relazioni che siano state dimostrate in base a figure in un certo senso particolari, dove si presentino come reali certi elementi (o coppie di elementi) che possano anche riuscire immaginarî.
Nel campo della geometria elementare si può dare il seguente esempio (fig. 4). Si considerino due cerchi C1 e C2 tagliantisi in due punti A e B. La retta A B = a è il luogo dei punti P per cui sono uguali le tangenti PT1 e PT2 condotte ai due cerchi. Ciò usualmente si riconosce osservando che è ad un tempo
Si conduca ora un qualsiasi cerchio C a tagliare C1 in A1 e B1 e C2 in A2 e B2. Le due rette A1B1 e A2B2 concorrono in un punto O della retta a. La qual cosa segue osservando che le tangenti condotte da O a C1 e C e a C2 e C sono eguali, quindi in particolare eguali quelle condotte a C1 e C2.
Così nel caso della figura, possiamo enunciare che presi due cerchi C1 e C2, ogni altro cerchio del piano taglia questi due in due coppie di punti A1, B1 e A2, B2, tali che le rette A1B1 e A2B2 s'incontrano sempre in punti di una retta a (qualunque sia il terzo cerchio secante). In realtà questa deduzione è fondata sull'esistenza dei due punti reali A e B, comuni ai due cerchi C1 e C2. Ora il principio di continuità permette di affermare che l'enunciato si avvera comunque si prendano i cerchi C1 e C2, anche non secantisi, come nel caso della fig. 5.
In terzo luogo si ha il principio di induzione dal caso limite al caso generale. Il fatto che le proprietà analitiche delle figure variabili per continuità si conservano attraverso a un passaggio al limite, può essere utilizzato in senso inverso a quello dato dal primo principio, cioè desumendo le proprietà d'una figura variabile da quelle d'un suo caso limite. In particolare rientra in questo principio la cosiddetta conservazione del numero, ampliamente applicata alle questioni di Geometria numerativa.
Si cerchi, ad es., il numero delle intersezioni di due curve algebriche di ordini m e n rappresentate (in coordinate cartesiane) rispettivamente dalle due equazioni:
(dei gradi rispettivi m e n). Questo numero è dato dal grado della risultante R (x) = 0, ottenuta eliminando la y fra le due equazioni precedenti (v. algebra, n. 46). Poiché al variare per continuità delle due curve f e ϕ non varia il grado di R (purché si evitino particolari posizioni rispetto agli assi di riferimento), così il problema posto si potrà risolvere considerando due particolari curve f e ϕ, degli ordini m e n. Si assuma precisamente la f degenere in m rette e la ϕ degenere in n rette; si trovano così mn punti di intersezione, onde si deduce che in generale le due curve f e ϕ hanno mn punti in comune.
Quando si voglia applicare questo tipo di procedimento a casi più generali, occorre tener presenti due ordini di complicazioni: il risultante R, il cui grado dà il numero richiesto, può acquistare delle radici infinite o multiple, oppure può diventare identicamente nullo. Convenienti avvedimenti tecnici, che qui non è possibile indicare, permettono di applicare il principio della conservazione del numero nel modo più largo.
Un altro metodo assai notevole, e di portata generale, che rientra in questo terzo principio, è il cosiddetto metodo di piccola variazione. Esso si applica principalmente allo studio della forma delle curve piane, algebriche e reali, e consiste nel far variare per continuità una curva per modo che essa acquisti dei punti doppî o anche si spezzi: dall'esame del caso limite si deducono poi le proprietà di forma della curva, fuori del limite.
Ma non si deve ritenere che queste osservazioni esauriscano il valore della veduta di continuità come criterio di ricerca. Il criterio che abbiamo visto dominare lo sviluppo storico dell'analisi infinitesimale, e poi (con l'introduzione dei punti all'infinito e degli immaginarî) informare nel secolo scorso la Geometria proiettiva e algebrica, resterà - anche per l'avvenire - come principio costruttivo della scienza.
Bibl.: F. Enriques-O. Chisini, Lezioni sulla teoria geometrica delle funzioni e delle equazioni algebriche, II, ii, cap. III, Bologna 1918; articoli di F. Enriques (sui numeri reali), G. Vitali, E. Bompiani, in Questioni riguardanti le matematiche elementari, I, II, Bologna 1924-25; E. Rufini, Il "metodo di Archimede e le origini dell'analisi infinitesimale nell'antichità, Roma 1926; R. Dedekind, Essenza e significato dei numeri. Continuità e numeri irrazionali, con note storico-critiche di O. Zariski, Roma 1926.