Contraddizioni sociali
La fonte delle contraddizioni sociali
Prima di affrontare il tema delle contraddizioni sociali, si impone un discorso di premessa relativo alla distinzione tra malattie sociali e contraddizioni sociali. Parliamo di malattie sociali in quanto riferite a una definita e più o meno estesa aggregazione di individui. Anche nel caso di aggregati umani, società e mondo, la malattia è una condizione abnorme e insoli-ta che fa riferimento a una statica. La contraddizione sociale è, invece, una dinamica, il cui moto (l’originar-si e il propagarsi) avviene nella statica della malattia sociale. In questo senso, la contraddizione sociale ha, per definizione, un doppio effetto perverso: in primo luogo non incide positivamente sulla malattia, in secondo luogo la acuisce, incrementa ed esaspera. Inoltre, la malattia sociale non è mai microscopica; per converso, le contraddizioni sociali non sono mai macroscopiche. Facciamo un esempio: il cosiddetto e relativamente equivoco concetto di sviluppo. Per come lo abbiamo inteso e definito, almeno a partire dal 19° sec., lo sviluppo è passato da una (sedicente) condizione indispensabile dell’esistenza umana (non della convivenza umana, perché esso non è mai stato causa di convivenza e di rapporti pacifici tra gli uomini e i diversi aggregati umani) a vera e propria malattia planetaria, le cui ‘condizioni abnormi’ sono, come si vedrà in seguito, molteplici. Continuiamo nell’esempio prendendo il seguente caso: dal 2002 al 2005 il ‘parco-macchine’ in Italia è aumentato fino a raggiungere un totale di 12 milioni 233 mila 514 autoveicoli. Se decurtiamo tale numero del 40% di veicoli rottamati, secondo una stima molto ottimistica, i veicoli nuovi risultanti, sostitutivi dei vecchi, sono pari a 7 milioni 340 mila 109; nella considerazione di una lunghezza media di 2 m ciascuno, mediando anche qui in modo molto prudenziale la lunghezza di autovetture, autobus e motocicli, abbiamo un’ininterrotta fila di autoveicoli lunga 14 mila 680 km, pari a 12,5 volte la lunghezza dell’Italia e a più del doppio dell’intera rete autostradale. Questa è la malattia, la contraddizione sociale sta nelle dinamiche che o vengono proiettate sulla malattia, incrementandola, o ignorano la malattia con esiti prevedibilmente negativi, per es.: abbassamento dell’età di guida, incoraggiamento alla mobilità personale veicolare, facilitazioni finanziarie e fiscali finalizzate all’acquisto di autoveicoli nuovi, maggiore richiesta di carburante con esiti perversi sul prezzo dello stesso, maggiori costi assicurativi e così via. A livello macro, quindi, i segni delle malattie sociali sono molti ed evidenti.
Accanto alle malattie sociali, si devono anche prevedere le malattie ‘planetarie’, sulle quali si intersecano dinamicamente molteplici contraddizioni sociali, queste a loro volta sono circoscritte in territori, ambienti e società. Un esempio: un recente studio del Goddard space flight center della NASA (National Aeronautics and Space Administration), dal titolo NASA satellite measures pollution from East Asia to North America, pubblicato nel marzo 2008 sul «Journal of geophysical research. Atmospheres», rileva che dal 2002 al 2005 il 15% dell’inquinamento prodotto dagli Stati Uniti e dal Canada corrisponde all’inquinamento che, partito dalla Cina, si è trasferito nei territori statunitensi e canadesi.
Come nel caso di società, anche il sistema-mondo manifesta al momento peculiari e storicamente senza precedenti malattie planetarie, da cui – come già detto– discendono peculiari contraddizioni sociali, alcune delle quali verranno evidenziate nel paragrafo successivo. La prima, e forse più importante, malattia planetaria fa riferimento alle risorse alimentari, particolarmente per quanto concerne la produzione e il consumo di cereali. L’incremento del tasso demografico mondiale, combinato con una drastica e continua riduzione di superficie terrestre coltivabile, a loro volta combinati con l’inquinamento del suolo, delle acque e atmosferico in genere, fa ritenere che nei prossimi anni questa sia una delle priorità dei governi. Vale la pena ricordare che dal 1850 al 1970 le derrate alimentari, a livello globale, sono cresciute del 50%, per salire di 10 volte dal 1970 al 2005 e di 15 volte dal 2005 al 2008. Soltanto nel 2007 i prezzi mondiali dei prodotti lattiero-caseari sono aumentati dell’80%, quelli del frumento del 42%. Nel corso del Development committee del Fondo monetario internazionale, tenutosi a Washington a metà aprile 2008, il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ha fatto notare che la fascia più bisognosa dei Paesi poveri spende il 75% del proprio reddito per alimentarsi, mentre si registrano aumenti a livello globale, rispetto al 2007, del 75% del riso e del 120% del grano. Secondo i dati forniti da Zoellick, i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti del 48% dalla fine del 2006, a fronte di una diminuzione dell’8,4% degli aiuti da parte dei Paesi ricchi per il secondo anno consecutivo; in particolare il prezzo del grano è aumentato del 90% in Sudan, del 100% in Senegal, del 30% in Armenia; in Uganda il mais costa il 65% in più; in Nigeria il miglio il 50%.
L’aspetto contraddittorio di tutto ciò fa riferimento al modello sociale e di sviluppo del sistema-mondo. Anche qui accusiamo dei ritardi: stiamo ancora ragionando come se fossimo in un mondo caratterizzato da eccedenza alimentare e scarsità energetica. La realtà, invece, è che siamo precipitati in un mondo caratterizzato da scarsità alimentari e forte consumo energetico. La rincorsa al petrolio ha scatenato una, ancora sostanzialmente virtuale, ricerca delle cosiddette fonti energetiche alternative, con il risultato di utilizzare consistenti superfici della Terra a usi energetici piuttosto che a usi alimentari arrivando al paradosso di intaccare, in cerca di alternative, la produzione alimentare che, contrariamente al petrolio, non ha alternative. Il problema è come rendere incruento il progresso: è evidente che dobbiamo all’attuale modello di sviluppo il fatto che centinaia di milioni di individui stanno uscendo dalla ‘miseria alimentare’ (un cinese ha il diritto di mangiare 55,5 kg di carne l’anno, mentre ne mangiava 20 nel 1954), ma è anche evidente che se cambiano alcune variabili il sistema non può essere lo stesso, o quanto meno è congetturabile un punto di rottura, infatti il problema nasce dall’evidenza che per produrre un chilo di carne occorrono 8 kg di grano.
Un’ulteriore malattia planetaria riguarda la vexata quaestio delle materie prime energetiche, sulle quali si scatenano tre condizioni abnormi e insolite. La prima concerne alcune cosiddette nazioni emergenti, come Cina, India, America Latina, che avanzano pressanti e sempre maggiori richieste di risorse energetiche, in particolare di petrolio, con ripercussioni devastanti sulla domanda dei prezzi, quindi sullo stesso modello di sviluppo. La domanda di energia per investimenti è pari a 2,5 miliardi di dollari al giorno da qui al 2030, a seguito di alcune evidenze: al momento, le cosiddette energie rinnovabili riescono a malapena a soddisfare il consumo energetico mondiale di appena due giorni; per i prossimi 20-30 anni, nell’ipotesi ultraottimistica, non sono prevedibili alternative serie a petrolio, metano e carbone; 10 dollari di aumento del petrolio al barile costano all’economia mondiale 500 miliardi di dollari (è il caso di notare che dall’aprile 2001 all’aprile 2008 il costo al barile del petrolio è aumentato di 81,9 dollari e che dal dicembre 2007 all’aprile 2008 l’aumento è stato di 13,1 dollari); una previsione ponderata, relativamente allo scenario europeo, calcola per il 2030, rispetto al 2005, un aumento del consumo del petrolio dell’8%, del metano del 35% e del carbone del 12% con una dipendenza estera pari rispettivamente al 92%, all’81% e al 36%.
Da ciò deriva la seconda condizione, cioè che le società occidentali dovranno rivedere le entrate garantite dal carico fiscale, in un terreno già fortemente provato dalla crisi fiscale. Infine, la terza condizione, conseguenza di quanto detto sopra, è che il mercato delle materie prime dovrà prevedere l’estromissione di operatori puramente finanziari, al fine di introdurre elementi di stabilità con un risparmio fino al 20% del costo del greggio.
Contraddizioni: una distinzione
Per contraddizione sociale possiamo intendere tutti i dinamismi prodotti o dagli effetti negativi della statica sociale (la statica sociale, a sua volta, è sostenuta e bloccata dalle cosiddette malattie sociali), oppure dalla ritardata o nulla percezione degli stessi effetti perversi, ovvero da contromisure non risolutive. Distinguiamo, quindi: a) contraddizioni sociali vere e proprie – la cosiddetta società del facsimile; b) un particolare tipo di contraddizioni sociali, ovvero della e nella vita quotidiana – la destrutturazione del tempo e dello spazio; c) contraddizioni strutturali – la società giovanilisticamente anziana; d) contraddizioni socioeconomiche imputabili allo stesso sviluppo; e) contraddizioni geopolitiche – la rivolta dei localismi e l’effetto serra.
La società del facsimile
È la società fondata sulla finzione totale e generalizzata, consistente nel presupporre al centro del sistema sociale l’individuo – anzi, l’individualizzazione è il sistema – e parallelamente nel definire, e perfino enfatizzare, l’individualizzazione attraverso processi di desertificazione di ciò che è autenticamente ‘individuale’ o che realizza e rende evidente la stessa individualità. Ne consegue una struttura della personalità dell’individuo contemporaneo, considerata da un punto di vista derivato dall’analisi sociale, caratterizzata dal nec tecum nec sine te; né con te né senza di te, sembra dire l’individuo alla propria individualità.
La società del facsimile è la società nella quale ogni cosa rinvia il proprio fondamento a un’altra, e a ogni passaggio c’è un costante venir meno della realtà in un continuo gioco di esaltazione della realtà irreale. L’origine di ciò è rinvenibile nello stesso processo di formazione e consolidamento della sfera pubblica: dalla trasmissione delle funzioni private alle funzioni pubbliche (la socializzazione, l’istruzione, la formazione professionale e così via), dalla famiglia allo Stato, è conseguito un concetto di pubblico, di potere pubblico, che nel susseguirsi delle trasformazioni della sfera pubblica – vale a dire della società occidentale – ha dapprima rivitalizzato l’individuo, come membro attivo della comunità, mentre in secondo tempo, a causa del venir meno del pubblico, ha lasciato all’individuo un’idea di centralità priva di confini e quindi, nello stesso tempo, centro e periferia insieme. Risultano particolarmente interessanti le riflessioni dei teorici critici (Max Horkheimer, Theodor Adorno, Erich Fromm, Herbert Marcuse e altri) circa l’opera di colonizzazione del privato da parte del pubblico e il rifiuto, tra l’altro, del sistema scolastico come sistema ottundente e irrigimentante, buono forse al più a creare l’Hitlerjugend (gioventù hitleriana). Il costante venir meno del pubblico, come potere pubblico, ha capovolto la situazione; per restare nell’esempio della scuola, non si ha più un sistema ottundente a causa della prevalenza del pubblico sul privato, del sistema sull’individuo, bensì un sistema indifferente, pressoché vuoto, a cui si contrappongono presunte (facsimili) individualità indifferenti non solo al sistema scolastico e all’istruzione, ma perfino a sé stessi.
La radice del facsimile sta nell’evidenza che, oggi, tutto si riduce all’individuo, a sua volta ridotto in uno stato di incompletezza e indeterminazione. Contrariamente al passato, oggi, è il privato che colonizza il pubblico, senza, tuttavia, riempire lo spazio pubblico di alcunché: è come una stanza piena d’aria e vuota di ogni determinazione. Radice e motore di tutto ciò è la contraddizione tra individuo de iure e individuo de facto. La società, se da un lato postula e legalizza de iure l’individuo, lo esalta come non mai mettendo sé stessa totalmente a sua disposizione, dall’altro non lo ancora de facto a nessun fissaggio pubblico e/o collettivo; se lo incoraggia a diventare veramente padrone di sé stesso e a compiere fino in fondo le scelte desiderate, de facto non gli consente alcuna originalità se non quella di essere copia conforme a chi sa quale originale. L’individuo vive un’oscillazione costante tra la vuota e formale esaltazione del Sé (Albert Camus: «Tutti cercano di rendere la propria vita un’opera d’arte») e uno stato di (un esserci in) insicurezza totale (Zygmunt Bauman: «L’articolo prodotto in massa è lo strumento della differenziazione dell’individuo», Bauman 2000; trad. it. 2002, p. 89; v. anche Sennett 2006).
Ci sono due evidenze, tra le numerose altre, che possiamo segnalare come ricadute sociali del tema dell’insicurezza individuale; entrambe sul piano sanitario. La prima fa riferimento alla chirurgia estetica, quale miracolosa garanzia del primato dell’apparire (giovani) sull’essere (vecchi). Qui, basta citare Umberto Galimberti: «A sostegno del mito della giovinezza ci sono due idee malate che regolano la cultura occidentale, rendendo l’età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico che, gettando sullo sfondo tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia all’inutilità, e l’inutilità all’attesa della morte. Eppure non è da poco il danno che si produce quando le facce che invecchiano hanno scarsa visibilità, quando esposte alla pubblica vista sono soltanto facce depilate, truccate e rese telegeniche per garantire un prodotto, sia esso mercantile e politico, perché anche la politica oggi vuole la sua telegenia. La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto trattato con la chirurgia è una falsificazione che lascia trasparire l’insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi con la propria faccia» (Quando essere vecchi significava saggezza, «La Repubblica», 29 febbraio 2008, p. 52). La seconda evidenza fa riferimento alle cosiddette epidemie mancate. Il 21° sec. si è aperto sul tema dell’insicurezza totale, quale ancoraggio all’insicurezza individuale. Dal 2001 al 2007 si sono susseguite la cosiddetta BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy, secondo la variante Creutzfeldt-Jakob), quindi la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) e infine l’aviaria. La BSE ha interessato 163 casi in Gran Bretagna, 22 in Francia, 5 in Spagna (di cui 2 morti recentemente a causa del contagio avvenuto 8 anni fa), 1 in Italia, Irlanda, Canada e Stati Uniti. Al fine di garantire la popolazione italiana da questa terribile epidemia abbiamo speso 443 milioni di euro, di cui 164 per laboratori diagnostici e test, 37 per sostenere il mercato e ricomprare le vacche abbattute, 233,5 per la distruzione delle carcasse bovine e 8,5 per il Centro nazionale per le encefalopatie spongiformi. A ciò bisogna aggiungere la contrazione dei consumi che, a parere della Coldiretti, è stata pari a 2 miliardi di euro. I 9 mesi della SARS (dal 1 novembre 2002 al 31 luglio 2003) hanno visto spese per 60 milioni di euro, di cui 15 destinati all’acquisto di 25 stazioni di decontaminazione, 30 agli ospedali Sacco e Spallanzani per la creazione di laboratori ad hoc e 15 all’acquisto di antidoti per l’allarme terroristico dovuto ad agenti chimici. Tutto ciò a causa di 4 casi in Italia, tutti da importazione. Non ci sono stati, invece, casi di aviaria in Italia, nondimeno abbiamo speso 53,8 milioni di euro, di cui 31 milioni per gli aiuti agli allevatori da parte delle Regioni e 16,7 da parte dello Stato, 5,5 per la prenotazione di 38 milioni di vaccini e 602 mila per l’acquisto di 150 mila dosi di prevaccino. La spesa totale contro BSE, SARS e aviaria è stata di 556,8 milioni di euro.
Accanto alle epidemie mancate dobbiamo registrare un’ulteriore connotazione della società contemporanea ascrivibile alla società del facsimile ed evidenziabile come contraddizione sociale: si tratta di un particolare tipo di ‘identità mancate’, vale a dire le cosiddette identità connettive. La perdita di identità, qui, si fa tanto acuta quanto estesa. In una società dominata da una destrutturazione dell’individualità, associata a un’esaltazione di idealtipi individuali; in una società dominata da una comunicazione essenziale, vale a dire priva di convivialità, sia in quanto ridotta a comunicazione di ruolo e sia in quanto deprivata nel lessico e nella descrizione di modi di vita; in questa società assistiamo all’esplosione di universi comunicativi privi di identità, mondi vitali e lessico. È come se tutti gli individui convergessero (non spontaneamente) in un ego, che nello stesso tempo è alter (non sfugga, a latere, un ulteriore aspetto contraddit-torio: gli esiti di questa società o sono imprevedibili, perché tale è la miscela di ego/alter; ovvero autoritari, anche nella direzione di carattere più neutrale del paternalismo, in quanto ego/alter ha bisogno di essere sorretto da forze che lui non ha; Bernardini 2001). Per identità connettive intendo (contrariamente a quanto sostiene Derrick de Kerckhove nel suo intervento al convegno internazionale Mondo cablato del 2002), identità dis-connesse; vale a dire, che l’identità connettiva consente di far parte di un gruppo al verificarsi di tre condizioni: non avere idee precise circa il gruppo, far parte del gruppo in attesa di una definita identità, definire la propria identità nei ristretti termini di appartenenza al gruppo.
La destrutturazione del tempo e dello spazio
Il secondo tipo di contraddizioni sociali, come già detto, fa riferimento ad alcuni particolari aspetti della vita quotidiana. Dire aspetti, tuttavia, non è esatto; ciò che cade in contraddizione è la stessa struttura della vita quotidiana di cui lo spazio e il tempo ne costituiscono, in senso kantiano, la possibilità e la rappresentazione. L’esempio paradigmatico di ciò, per restare ancorati alle tematiche di chiusura della trattazione precedente, è costituito dalla cosiddetta Second life, una recente riconfigurazione dell’irrealtà, quale mix di non-identità, non-luoghi e non-spazi, in cui ego/alter si proietta in una rappresentazione del mondo (non quindi semplicemente e realmente nel mondo) che è, nel contempo, irreale e dissociata. Second life descrive nel profondo l’uomo del 21° sec., o almeno di questa prima parte del 21° sec., il quale sembra appagarsi dell’esperienza estetica della sensazione e del ludico. Non è più Homo faber (l’uomo del lavoro), è Homo ludens (l’uomo per cui soltanto il desiderio è desiderabile, quasi mai il suo appagamento); non è più uomo raziocinante e lettore, bensì uomo osservante, che sostituisce la lettura con l’audiovisivo.
Questo uomo vive in forte contraddizione con il e nel proprio tempo. Anzi, la categoria tempo costituisce essa stessa una contraddizione sociale: da un lato, viene riconosciuta quale elemento-risorsa di ogni vita individuale, dall’altro, viene depotenziata a puro accidens; da un lato, si esalta il tempo in tutte le possibili connotazioni e la vita stessa costituisce (viene ridotta a) una furiosa ricerca del tempo (di lavoro, ludico, delle responsabilità familiari, di riposo e così via), dall’altro, si nega, del tempo, la sua stessa essenza: quella d’essere-in-successione, un prima, un adesso, un poi; un passato, un presente, un futuro. Niente più passato, niente più futuro e, qui sta la contraddizione, niente più presente: questo vive in quanto segmentato a tal punto che, come solo il desiderio è desiderabile, il presente è tale non negli attimi, ma nella loro successione. Vi è un’analogia con un’altra contraddizione sociale: così come la società fondata sulla conoscenza banalizza la conoscenza, allo stesso modo la società fondata sul tempo come risorsa banalizza tale risorsa negando tempo al tempo. Quasi sul finire del 20° sec. Odo Marquard ha evidenziato quattro indicatori dell’asimmetria del rapporto uomo-tempo (Apologie des Zufälligen, 1986; trad. it. 1991): l’invecchiamento accelerato dell’esperienza; l’affermazione del ‘sentito dire’; l’elevazione a evidenza del fittizio e della finzione; la disponibilità all’illusione. Aiutato dalla sua lucidità creativa, Javier Marías, raggiunge una rimarchevole sintesi teoretica esponendo in tal modo il concetto di destrutturazione della categoria tempo nella vita quotidiana: «Galleggiamo in un’epoca in cui, paradossalmente, sembra essere presente solo quello che non lo è ancora ma è annunciato come imminente e, al contrario, quello che è veramente presente, per il semplice fatto di esistere o di essere avvenuto, si trasforma istantaneamente in passato» (Se il mio romanzo dopo un mese è già vecchio, «La Repubblica», 5 marzo 2008, p. 29).
Se facciamo un passo indietro e tentiamo di collegare la società del facsimile alla destrutturazione della categoria tempo aggiungiamo un ulteriore elemento di chiarificazione circa l’asimmetria individuo-sistema sociale. Il sistema sociale, per definizione, è un sistema interindividuale fondato su un particolare tipo di azione individuale, l’azione sociale. Questa, a sua volta, per definizione, è ‘intenzionale’ (il discorso sugli effetti non può toccare l’intenzionalità) e ‘intersoggettiva’. L’intenzionalità e l’intersoggettività, a loro volta, devono presupporre la consapevolezza dell’esserci; in assenza, l’azione sociale perde i suoi requisiti strutturanti e diviene, come è il caso, ‘azione minima’ dentro la quale rinveniamo una sommatoria, non un aggregato, di tanti ‘io minimo’ – di cui già Christopher Lasch ha parlato sul finire del 20° sec. (The minimal self. Psychic survival in troubled times, 1984; trad. it. 1985).
Accanto al tempo, anche lo spazio diviene oggetto di contraddizione sociale. Ripartiamo dall’azione sociale; oltre che intenzionale e intersoggettiva, e proprio in quanto ciò, l’azione sociale deve (intenzionalmente e intersoggettivamente) accadere, avvenire, strutturarsi e così via, ovvero manifestarsi. È qui che entra in gioco lo spazio, vale a dire la spazialità dell’azione. Contrariamente all’azione individuale, l’azione sociale o è o non è, non può essere sognata, immaginata, pensata e così via. L’azione sociale è tale quando è reificata, quando accade, oltre che in un tempo, in uno spazio definito; per es., i cosiddetti incontri, o spettacoli, o manifestazioni di massa, o anche di gruppo, o avvengono (intenzionalmente e intersoggettivamente) in un tempo e in un luogo definito, o non avvengono.
Mentre l’incidenza del tempo sull’azione sociale grava sull’aspetto individuale, l’incidenza dello spazio grava sul collettivo. Al di là di tali differenze, tanto lo spazio quanto il tempo sono oggetto della stessa azione destrutturante, l’una relativa all’individuo, l’altra relativa al collettivo. Così come il tempo viene contratto e determinato soltanto in quanto ‘intervalli di tempo’, allo stesso modo lo spazio viene contratto, anche dilatandolo a dismisura. Ma non è solo questa la contraddizione sociale che riguarda lo spazio (contrazione-dilatazione); la contraddizione sociale vera e propria sta nel deprivare l’individuo di spazi di rappresentazione e di azione intersoggettive.
Una volta si diceva «l’aria della città rende liberi»; liberi di esprimere le proprie capacità, volontà e così via per occupare gli spazi urbani in quanto cittadino, venditore, compratore, argomentante. Oggi possiamo dire che «l’aria della città rende soli». Soli nel proprio monolocale; soli nella metropolitana superaffollata; soli, questo è il punto, negli infiniti spazi urbani (tanto in estensione quanto in altezza), in cui l’interrelazione non soltanto è inopportuna, ma perfino vietata. Si pensi a La Défense parigina o alla piazza Tian An Men di Pechino o alla Piazza Rossa di Mosca e contrapponiamole a piazze feudali come piazza del Municipio, del Tribunale, della Borsa, del Teatro, piazza delle Erbe a Verona, Campo de’ Fiori a Roma, la Grand Place a Bruxelles e così via: si nota con evidenza ciò che l’analisi articola distinguendo tra spazi pubblici e spazi pubblici ‘non civili’. Come in precedenza si è distinto tra individuo de iure e individuo de facto, allo stesso modo, ora, distinguiamo tra spazi pubblici ovvero quegli spazi (dal salone di casa, ora diventato soggiorno con angolo cottura, a piazza delle Erbe) deputati all’incontro, alla conoscenza e alla interrelazione nella vita quotidiana, e spazi pubblici non civili, ovvero quegli spazi che non appartengono a nessuno, in cui si può transitare e fare tutto ciò che si vuole a condizione di essere, consapevolmente, in compagnia di sé stessi, in cui si è autorizzati a essere individui, non cives. Sono questi i «non luoghi» di Marc Augé (Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la sur-modernité, 1992; trad. it. 1996); i luoghi del «mito della solidarietà comunitaria» di Richard Sennett (The uses of disorder. Personal identity and city life, 1996; trad. it. 1999); i luoghi «emici», «fagici» e gli «spazi vuoti» di Zygmunt Bauman (2000).
La società giovanilisticamente anziana
All’inizio di questo saggio, la contraddizione sociale relativa alla società anziana è stata definita contraddizione strutturale. Ovviamente, ogni contraddizione sociale, in quanto sistemica, è strutturale; qui, però, il riferimento è doppiamente calzante non solo per quanto appena detto, ma anche perché esso riguarda la struttura della popolazione, che costituisce la struttura di qualunque struttura o sistema sociali. Da questo punto di vista, si nota una contraddizione già a partire dal sistema-mondo, asimmetricamente suddiviso in due, il mondo della crescita demografica (con povertà assoluta, mancanza di igiene e di istruzione, assenza di sviluppo, mancanza di occupazione) e il mondo dell’invecchiamento (con appesantimento del welfare, assenza di ricambio generazionale e tutto quanto è immaginabile in una società dinamica, altamente industriale, dal motore statico, dovuto, strutturalmente, al combinato disposto del numero medio di figli per donna in età feconda, della speranza di vita alla nascita, infine degli ultrasessantacinquenni e degli 0-14enni).
Si veda, ora, la società italiana. Che questo sia un Paese di vecchi non è dimostrabile, è evidente; come è evidente che pur essendo un Paese fatto da vecchi, non è un Paese per vecchi in quanto le pratiche sociali per nascondere la vecchiaia sono totali, ricorrenti e quotidiane. Alcuni indici relativi all’invecchiamento della società italiana sono l’indice di vecchiaia (rapporto percentuale tra la popolazione ultrasessantacinquenne e la popolazione infraquattordicenne), quello della dipendenza strutturale (rapporto percentuale tra la popolazione non attiva, 0-14 anni e 65 e oltre, e attiva, 15-64 anni), quello della dipendenza degli anziani (rapporto percentuale tra la popolazione ultrasessantacinquenne e la popolazione di 15-64 anni) e, infine, quello dell’età media: seguendo i dati dell’Annuario statistico italiano (ISTAT 2007a), si nota che, al 31 dicembre 2006, vi erano 140 ultrasessantacinquenni ogni 100 infraquattordicenni; che la metà della popolazione non è in condizioni di lavoro; che si contano 30 ultrasessantacinquenni ogni 100 individui in età di lavoro, non necessariamente occupati; che 42,6 anni corrisponde all’età dell’italiano medio, a un ritmo incrementale medio di quattro mesi ogni tre anni. Da questo quadro strutturale consegue una molteplicità di contraddizioni sociali che si fa fatica anche semplicemente a enucleare. Ne indichiamo alcune, a nostro avviso quelle più rimarchevoli.
Il gioco del nascondino. Tra gli effetti perversi della società anziana dobbiamo annoverare il cosiddetto gioco del nascondino consistente in una finzione (d’altronde siamo in una società del facsimile) circa la non visibilità, e quindi non esistenza, della vecchiaia. Il gioco consiste in questo: nell’evidenza che «senectus ipsa est morbus» (P. Terenzio Afro, Phormio, atto IV, verso 575); nell’evidenza che il legame vecchiaia-morte è un dato naturale; nella convinzione che la società occidentale è il migliore dei mondi vivibili, naturalmente orientata verso «le magnifiche sorti e progressive» (Giacomo Leopardi, La ginestra) della salute, del benessere, della bellezza e così via; posto tutto ciò, la vecchiaia non esiste, e se esiste non si deve vedere. Tale finzione, ovviamente, per essere credibile deve sembrare reale, ed ecco allora le varie pratiche sociali relative al nascondimento della vecchiaia. In primo luogo a livello lessicale: i ‘vecchi’ non ci sono più, rimangono i non autosufficienti, allontanati dal pubblico guardare e rinchiusi in istituzioni (totali) ad hoc. In secondo luogo si ridisegnano le ‘tappe della vita’: vi è un’età della dipendenza (la dipendenza dei minori e dei non autosufficienti) e un’età della non dipendenza, in cui ci sono tutti gli altri, tutti egualmente adulti (Bernardini 2001); in terzo luogo si ridisegna la realtà sociale a immagine e somiglianza di un mondo ‘così come è stato’: l’autentico guardare in avanti dell’attuale società è un voltarsi indietro.
Un brillante futuro dietro le spalle. Un ipotetico osservatore posto sulla Luna mentre guarda, con un solo colpo d’occhio, la società italiana, per es. popolata da 100 individui, vedrebbe 39 giovani (da 0 a 39 anni) e 61, come chiamarli?, ‘non giovani’. Dei primi 39, 5 hanno fino a 4 anni, 19 da 5 a 24, e 15 da 25 a 39 anni. Dei restanti 61, 20 sono ultrasessantacinquenni. Lasciamo stare gli infraquattrenni per ovvi motivi. I 19 giovani tra 5 e 24 anni vivono una condizione – immaginiamo la migliore delle ipotesi – di totale occupazione studentesca, tanto in quanto istruzione inferiore tanto in quanto superiore. Sono all’interno di un sistema (scolastico o universitario) la cui crisi è talmente evidente che non sembra azzardato affermare che è completamente fuori del sistema sociale, vale a dire che non vi è ‘legame’ e neppure ‘assonanza’ tra i talenti insegnati e quelli realmente occorrenti nella società extrascolastica (università compresa). Da qui la pratica sociale di una vera e propria distruzione dei giovani, che, in onore a Claude Lévi-Strauss, possiamo definire una «pratica di strategia fagica». Da qui il sentimento di estraneità dei giovani, che per sentirsi ‘dentro’ il sistema devono recitare il ruolo di estranei, la cui unica possibilità di farsi notare è la diversità e la cui unica voce è l’urlo.
Ci sono, poi, 15 su 100, 25-39enni, che dovrebbero costituire la direzione, la forza, l’innovazione e il futuro della società. In realtà sono ‘fuori dal mondo’. Il 51,7% delle ragazze e il 70,5% dei ragazzi 25-29enni vivono ancora con papà e mamma; il 21,4% delle 30-34enni e il 37,4% dei pari età fanno altrettanto – e non si dica che questa è una scelta personale. Per quanto concerne l’occupazione è sufficiente citare una recente relazione dell’ISTAT sulle dinamiche occupazionali: «L’aumento complessivo dell’occupazione sintetizza andamenti diversificati per età. Nella classe di età più giovane (15-19 anni) l’occupazione registra una flessione su base annua dell’1,0% (–40 mila unità), presumibilmente dovuta alla maggiore permanenza nel sistema di istruzione-formazione dei giovani. Nella classe di età centrale (30-54 anni) gli occupati manifestano un incremento tendenziale del 2,3% (+361 mila unità). In tale fascia d’età si concentra la crescita dell’occupazione straniera. Nella classe d’età più anziana (55-64 anni) l’incremento è pari al 4,1% (+104 mila unità). […]. Nella media del 2006 il contributo all’ampliamento della base occupazionale riguarda sia le posizioni lavorative a tempo pieno sia quelle a tempo parziale. L’occupazione a tempo pieno registra una crescita dell’1,4% (+268 mila unità), in aumento di 9/10 di punto rispetto al 2005. Le posizioni lavorative a tempo parziale, accentuando la tendenza emersa nel 2005 (+1,9%), segnalano un incremento particolarmente sostenuto, pari al 5,4% (+157 mila unità)». (ISTAT 2007a, pp. 230 e 233).
Se si considera, poi, che i salari netti mensili, rivalutati in base agli indici dei prezzi al consumo, a 3 mesi dalla laurea sono passati (dati AlmaLaurea, Condizione occupazionale dei laureati, indagine 2007) da oltre 1200 euro (nel 2000) a 1200 (nel 2002) a 1150 (nel 2004) a 1050 (nel 2006), il discorso si fa chiaro, manifestando un circolo non certo virtuoso per il futuro della società: a) l’Italia è il Paese europeo in cui i giovani contano meno dal punto di vista sociale, economico, demografico e politico (due esempi: il nostro bicameralismo, pur essendo un ‘bicameralismo perfetto’, limita l’elettorato attivo e passivo del Senato, rispettivamente, a 25 e 40 anni); b) il nostro sistema di welfare si rivolge pressoché esclusivamente a chi ha un posto fisso o è in pensione.
Da ciò consegue la contraddizione che dà titolo alla presente sezione: in una società che si definisce ‘nel futuro’, togliamo il futuro ai giovani (anzi, considerando la contrazione della natalità, letteralmente ‘togliamo i giovani’) ritenendo che a questo (il futuro) basti e avanzi l’incedere per ricordo, che sembra essere l’unico incedere della società anziana. Dall’analisi consegue la probabilità che ci stiamo giocando, insieme al futuro, il progresso. Pierre Bourdieu (v. oltre) ha affermato che per prospettare il futuro bisogna avere in pugno il presente. È quest’idea della ‘volontà di potenza’ che sembra venire meno: la fiducia in sé del presente connessa alla fondata aspirazione che noi siamo quelli che fanno accadere le cose.
Due altre appendici di rilevante contraddizione. L’analisi della struttura demografica, centrata sulla contraddizione sociale di una società anziana che legittima pratiche ‘giovanilistiche’, evidenzia due situazioni demografiche, nelle quali incide in senso negativo l’organizzazione sociale tanto da creare ulteriori contraddizioni sociali. La prima, per restare nell’ambito dell’invecchiamento, fa riferimento a due aspetti, connaturati e connessi allo stesso invecchiamento della popolazione: la non autosufficienza e la solitudine dei ‘vecchi-vecchi’ vedovi. La seconda fa riferimento ai cosiddetti singles.
Per quanto concerne la prima situazione, l’analisi prende avvio dalla considerazione che una società, come quella occidentale, fondata sul primato della conoscenza e, in particolare, della conoscenza scientifica, doveva arrivare all’allontanamento della vecchiaia dal margine estremo del segmento ideale della vita umana, ma non all’eliminazione di questa. Cammin facendo ci siamo accorti di un peculiare, non prevedibile né desiderabile, effetto perverso: è vero che spostiamo la vecchiaia sempre più lontano ed è vero che spostiamo la vita da vivere negli anni sempre più vicini ai 100, è anche vero, però, che in tal modo ci esponiamo a diversi anni di non autosufficienza. A causa del fatto che la società fa ancora fatica a ragionare in termini sociali abbiamo creduto per molti decenni (diciamo dagli anni Settanta a oggi) di essere arrivati al traguardo di ‘morire giovani di vecchiaia’. La contraddizione, come già detto, sta non tanto in questo errore (un errore, non una contraddizione), bensì nelle pratiche sociali che o negano o non tengono conto dell’evidenza. Al 31 dicembre 2006 vi erano 561.548 nati vivi (come sommatoria dei nati vivi nei 12 mesi precedenti) e 509.527 ultranovantenni. Immaginiamo l’opposto: come considerare una società che fa tanto per far nascere i bambini per poi lasciarli a sé stessi non essendo in grado di provvedere loro?
Per quanto riguarda la solitudine, la contraddizione consiste nel fatto che nell’attuale società, fondata sulla comunicazione e sul popolamento di piazze sterminate, si legittimano pratiche sociali orientate all’assenza di comunicazione, ovvero delimitando la comunicazione alla sola comunicazione conseguente agli esercizi di ruolo; una comunicazione, quindi, impersonale. A ciò, come è naturale, si contrappone la relazione interfamiliare e interamicale, là dove questo tipo di relazione esiste e, là dove esiste, accade. Per 4,5 milioni di individui questo non esiste, e ovviamente non accade. Siamo in presenza di un ennesimo effetto perverso dell’invecchiamento della popolazione. La gioia con la quale apprendiamo che la speranza media di vita, nel 2007, è di 77,8 anni per gli uomini e di 83,5 anni per le donne, lasciandoci soltanto intuire un delta di 5,7 anni, ci distrae dal farci cogliere alcuni aspetti che l’analisi sociale evidenzia anche intuitivamente. Dove si collocano i 5,7 anni di sopravvivenza delle donne rispetto agli uomini? Si collocano in 5,7 anni di vedovanza – ed ecco, allora, che oggi in Italia abbiamo 700.072 vedovi e 3.803.414 vedove. In prospettiva (vale a dire da oggi ai prossimi 10-20 anni) la situazione dell’esclusione sociale di circa il 10% della popolazione sarà drasticamente più radicale con ripercussioni facilmente immaginabili sul quadro sociale complessivo. Quest’analisi, pur se sommaria, mostra interessanti spunti di riflessione. La contrazione delle nascite, ovviamente, significa che si fanno meno figli; le dinamiche socioccupazionali comportano una mobilità del lavoro che dal quadro nazionale è passata, quanto meno, a livello europeo; in sostanza chi è solo, sarà solo (vedovo o no), chi ha figli, non ne ha più di uno e probabilmente non residente nella stessa città. Questo è lo stato degli attuali 4,5 milioni di vedovi, a cui si devono aggiungere coloro i quali – e in futuro non saranno pochi – evitano il dolore della perdita del proprio coniuge: i singles, ovvero separati e divorziati.
La seconda situazione demografica alla quale accennavamo e che genera una contraddizione sociale degna di nota, la rinveniamo nell’analisi dello stato civile. Al censimento del 2001 si contavano 22.662.052 celi-bi/nubili; se a questi togliamo i 14.491.164 infraventicinquenni e i 401.723 conviventi vari (dagli alberghi agli ospizi, dai conventi agli istituti penitenziari e così via) e aggiungiamo gli 831.481 separati legalmente, i 263.860 separati di fatto, i 699.062 divorziati e i 4.503.486 vedovi, arriviamo a 14.067.054 individui anagraficamente soli. In sostanza, al censimento 2001 un quarto della popolazione nazionale, per l’esattezza il 24,6%, era single, di cui una modesta percentuale conviveva con persone con cui non si hanno né relazioni di parentela né condizione di coppia. La società di oggi (e quella dell’immediato futuro) è una società la cui struttura demografica appare socialmente definibile come una ‘società di vecchi e di soli’. Questo fenomeno, ovviamente, non nasce oggi; già al censimento del 1980, San Francisco era popolata per il 53% da singles. Nello stesso anno, Seattle era al 48%, Washington al 45, Oakland al 44, Los Angeles al 39 e New York al 37. L’effetto perverso causato dall’aumento dei singles, che si scarica sulla comunità mondiale, riguarda l’inquinamento ambientale. Sembra assurdo ma è così. Una persona su quattro ‘fa la spesa’ esclusivamente per sé. È noto come sia cambiata la commercializzazione degli alimenti dal 1980 a oggi proprio in conseguenza dell’aumento dei singles: prodotti precotti, monodose e così via. Tale cambiamento ha fatto nascere una sottospecie dell’industria degli imballaggi, quella cosiddetta delle confezioni monodose e packing. Tanto per avere un’idea stiamo parlando, per la realtà italiana, di 25 miliardi di euro di fatturato l’anno, di 7 mila imprese e 106 mila addetti; stiamo anche parlando di un aumento del costo del prodotto che oscilla dal 20 al 60%; del fatto che in ciascuna ideale ‘borsa della spesa’ il 5% è di imballaggi e che questi crescono a un ritmo del 2,3% l’anno (dal 2002 al 2006 la produzione di imballaggi è cresciuta del 9% pari a 1 milione di tonnellate). Se ora si considera che gli imballaggi sono prevalentemente di plastica e si prende in esame il combinato disposto del tendenziale aumento del packing monodose e del fatto che occorrono 1000 anni per distruggere un sacchetto di plastica, non potendo vietare ai singles di mangiare né impedirgli questo stato civile, è facile concludere che è arrivato il momento di rivedere il modello di sviluppo.
Le contraddizioni dello sviluppo
Fermare l’attuale tipo di sviluppo sarebbe, al momento, il più grande passo in avanti che possiamo fare. Il discorso, nel nostro contesto, non sta in una critica della società industriale in favore di una società agropastorale, né in una critica della società capitalistica in favore di una società cosiddetta comunista o collettivistica, e viceversa. Il nostro discorso si limita a evidenziare l’attuale livello di sviluppo economico, prendendo atto di effetti negativi e perversi di tale natura e portata che, essi stessi, impongono una riflessione su questo modello. Ciò che fa emergere le contraddizioni dello sviluppo consiste, detto nell’essenziale, in una asimmetria di fondo tra il concetto di pubblico riferibile alla società democratica industrialmente avanzata, e il concetto di pubblico inteso come tutti i componenti di detta società. Allo sviluppo industriale, nella direzione capitalistica, è mancata una sorta di dimensione etica della società democratica – almeno come è stata disegnata dai padri illuministi della democrazia (Bernardini 2006, cap.2) – consistente nella preminenza dell’interesse pubblico, il cui perseguimento fa diventare pubbliche virtù perfino i vizi privati. Questo è mancato allo sviluppo e alla connotazione della società industriale: lo slancio e la determinazione (etici) con cui l’interesse generale connota, preforma, garantisce, ammette e giustifica l’azione individuale. La storia, come è noto, è andata diversamente; la perdita di centralità della categoria del pubblico a vantaggio di ogni possibile ‘appetito’ individuale (tanto in quanto dell’individuo, tanto in quanto di gruppi nazionali e multinazionali) sta pregiudicando lo sviluppo in modo tale che si sta arrivando a un punto in cui lo stesso sviluppo è causa di involuzione e degrado. Da un punto di vista generale sono tre gli effetti inquinanti l’attuale modello occidentale di sviluppo: a) costante disequilibrio tra ricchezza e povertà: il sistema in questione è finalizzato (deve la sua superiorità) alla produzione di ricchezza; tale produzione, tuttavia, è correlata a un costante aumento della povertà; b) tanto più il sistema ‘avanza’, quanto più produce insicurezza e vulnerabilità (Putnam 2000); c) l’insicurezza e la vulnerabilità arrivano fino al ‘cuore del modello’, alle fonti energetiche, in modo talmente acuto da rendere impro;crastinabile una drastica trasformazione del consumo energetico.
L’attuale modello di sviluppo è finalizzato a un tendenziale e costante aumento della ricchezza che è garantito dal realizzarsi di un analogo e tendenziale aumento della povertà. Questa è la rilevante contraddizione sociale del modello di sviluppo delle società avanzate: tanto più queste ‘avanzano’, quanto più ‘producono’ disuguaglianze; mentre lasciano inalterata la sostantività della ricchezza, mutano la sostantività della povertà; quanto più il modello si consolida e ‘progredisce’, tanto più produce tipologie diverse di ineguaglianze e povertà. Nella tabella vengono riportati i dati relativi ad alcuni dei 180 Stati del mondo ordinati secondo il PIL pro capite al giorno (in euro) e adeguati alla parità dei poteri di acquisto tenendo conto del diverso costo della vita nei vari Paesi; di questi 180 Stati (dei quali solo alcuni in tabella), 34 superano i 40 euro pro capite al giorno, 117 si collocano al di sotto di 20 euro, 54 sotto i 5 euro. Si consideri che in Italia, al 2007, si raggiungeva la soglia di povertà con un reddito pro capite al giorno di 16,17 euro; traslato questo dato, con il dovuto adeguamento, alle diverse realtà locali dei 180 Paesi registrati dal Fondo monetario internazionale, risulta che il 66% della popolazione mondiale vive al di sotto della soglia di povertà con ripercussioni oggi appena calcolabili se a ciò si associa l’incremento della popolazione e il drastico aumento del prezzo del frumento, del grano e dei generi alimentari. A questo riguardo, quanto accaduto in occasione delle elezioni amministrative in Egitto (8 aprile 2008) è significativo. Al voto ha partecipato una bassissima percentuale di elettori per protestare contro il massiccio aumento dei generi alimentari (si parla di circa il 50% nel primo trimestre 2008) a fronte di un PIL pro capite giornaliero di 8,47 euro, di una crescita economica che per il quarto anno consecutivo segna un +7%, di una paga media per gli operai pari a 2 euro al giorno e del 50% della popolazione sotto la soglia di povertà. Il caso dell’Egitto non è il solo ma riguarda molti altri Stati: Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine, Haiti e altri ancora. Recentemente, in Pakistan, Thailandia, Etiopia e Madagascar è dovuto intervenire l’esercito per impedire assalti ai generi alimentari nei campi e nei magazzini.
Fin qui niente di nuovo, a eccezione del fatto che vi è evidenza che l’attuale modello di sviluppo, pur essendo tarato per esprimersi con il segno +, produce povertà e ineguaglianze; il fatto che il sistema-mondo si regge su ineguaglianze strutturali, quali per es. incremento/decremento demografico, ricchez-za/povertà assoluta, è noto e risaputo quanto meno da decenni. La novità, che corrisponde a una sorta di megacontraddizione sociale del sistema-mondo, è che, contrariamente al passato, oggi il sistema-mondo è talmente correlato che non riesce più a territorializzare (ovvero a tenere circoscritte e nascoste) tali disuguaglianze, con evidenti ricadute, in termini di molteplici contraddizioni sociali, nelle stesse società avanzate.
Se, ora, passiamo ad analizzare la società italiana contemporanea abbiamo una conferma del cosiddetto ampliamento della sostantività del concetto di povertà. Contrariamente ai Paesi in via di sviluppo, in Italia – come negli altri Paesi sviluppati, seppure in misura diversa – dobbiamo registrare tanto il macroconcetto di povertà, anche denominato povertà assoluta, quanto un nuovo e articolato registro-gradiente della povertà, anche denominato povertà relativa o meglio ‘le’ povertà e ‘le’ disuguaglianze. Il concetto è il seguente: il modello di sviluppo attuale (‘attuale’ significa prodotto dall’industrializzazione) innalza, senza ombra di dubbio, il benessere sociale, vale a dire la qualità della vita (a eccezione, in questi ultimi decenni, di quella alimentare e ambientale) di tutta la società, il cui effetto negativo, tuttavia, è di non garantire de facto a porzioni più o meno consistenti di popolazione il godimento di tale benessere, con l’esito di far precipitare tali porzioni di popolazione in un gradiente di povertà. È il caso, per es., dei cosiddetti pensionati. Secondo l’ultima rilevazione generale dell’ISTAT (dati relativi al 2005, in ISTAT 2007a, p. 121) abbiamo erogato 23 milioni 257 mila 480 pensioni per un importo medio di 9 mila 239 euro l’anno, pari a 25,31 euro al giorno, ovvero 9,31 euro sopra la soglia di povertà. Ulteriori esempi: a) è allarmante il divario del tenore di vita tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud (Isole comprese), pari a un –30% (ISTAT 2008, p. 6). Dei 2 milioni 623 mila di famiglie che vivono in condizioni di povertà (l’11,1% di tutte le famiglie residenti; ISTAT 2007b), il 22,6% vive al Sud; b) se consideriamo il reddito medio annuo (del 2006) al netto delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali e assistenziali (Banca d’Italia 2008), si nota che quello derivato dal lavoro dipendente è aumentato dal 2000 al 2006 dello 0,96% a fronte di un aumento del 13,86% del reddito derivato dal lavoro indipendente e del 29% di quello dei 50 manager più pagati in Italia; c) limitatamente alla concentrazione della ricchezza e alla sua redistribuzione (Banca d’Italia 2008), il 44,6% della ricchezza nazionale è posseduta dal 10% delle famiglie più ricche. Di tutti i redditi prodotti, il 2,6% va al 10% delle famiglie con reddito più basso e il 26,4% a famiglie con reddito più elevato; d) il combinato disposto dell’allungamento della vita e della disoccupazione giovanile produce, oltre al già notato fenomeno della permanenza nella famiglia d’origine dei ‘non più giovani’ (un altro dato: nel 1993 i 35-44enni che vivevano con i genitori erano il 4%, nel 2003 sono saliti all’8%), una esposizione alla povertà delle famiglie con capofamiglia anziano e con uno o più figli a carico: dal 13,5% (1997) al 16,1% (2005) per le famiglie con un figlio a carico; dal 18,9% al 22,8% per le famiglie con due figli a carico (ISTAT 2007c); e) le cosiddette nuove povertà (modo neutrale, ma non elegante, per sottacere l’autocontraddizione della società avanzata, determinata dal tendenziale, e positivo, innalzamento del benessere sociale, connesso all’impossibilità di continuare a toccare tale benessere sociale da parte di frange consistenti della popolazione) fanno anche riferimento al cambiamento delle strutture familiari. È questo il caso del modello familiare cosiddetto monoreddito, generalmente composto da un capofamiglia maschio e dipendente, una casalinga e uno o (raramente) più figli, la cui spesa mensile media (ISTAT 2007a, p. 284, anno di riferimento 2006) è di 2.962,56 euro (+2,6% rispetto all’anno precedente), se si tratta di una coppia con un figlio; di 3.204,69 euro (+3,5%) se una coppia con due figli.
Le conseguenze sociali sono allarmanti: vanno dall’aumento del 40% (dal 2006 al 2007) dei microfurti di generi alimentari (e quelli, poi, che costano meno) nei supermercati da parte degli anziani, al milione 502 mila 508 persone assistite dal Banco alimentare, più 451.878 rispetto al 2001, molti dei quali nella condizione di ‘non disoccupati’. Un altro esito devastante per le ripercussioni sul reddito disponibile delle famiglie riguarda i prestiti. Secondo i dati di Prestitionline dal 2° semestre 2002 al gennaio 2008 l’importo medio dei prestiti è aumentato del 118% passando da 7.880 a 17.070 euro, da un indebitamento da 18 a 60 mesi (2° semestre 2002) a un indebitamento che per il 65% dei casi va da 60 a 120 mesi (gennaio 2008) e dal 22,8% delle erogazioni con importo superiore a 10.000 euro al 58,0% (il 16,1% riguarda un importo superiore a 25.000 euro; è da notare anche che nel Sud-Isole i prestiti sono passati dal 32,7% del 2006 al 46,6% del gennaio 2008).
Il secondo effetto perverso prodotto dall’attuale modello di sviluppo e fonte di ricorrenti contraddizioni sociali riguarda l’insicurezza e la vulnerabilità (ricordiamo, a tal proposito, l’analisi di P. Bourdieu esposta in un saggio del 1977 dal titolo Le précarité est aujourd’hui partout). In termini generali si ritiene che l’insicurezza e la vulnerabilità della vita quotidiana facciano riferimento alle cosiddette frange deboli della popolazione, come giovani, donne, anziani, e ciò è senz’altro vero, vi è, tuttavia, un ulteriore elemento sociale che va considerato quando si parla di insicurezza e vulnerabilità: è il mondo del lavoro. Al riguardo c’è da notare che esso è diventato fonte di incertezze. Se ne rilevano due. La prima fa riferimento all’insicurezza circa l’associazione individuo-lavoro: gli occupati nel 2007, rispetto al 2006, sono aumentati di 425 mila unità, ma soltanto in quanto lavoratori cosiddetti precari o atipici; i lavoratori stabili, invece, sono passati dal 77,3% al 76,1%, con una contrazione dell’1,2% in dodici mesi. La seconda incertezza fa riferimento a un aspetto del tutto contraddittorio del concetto stesso di lavoro, che perde il suo lato autenticamente positivo di ancoraggio dell’individuo all’aggregato umano: si parla delle cosiddette morti bianche. Nel secondo Rapporto (febbraio 2008, dati al 2007) dell’Associazione nazionale mu-tilati ed invalidi del lavoro, viene evidenziato che nel 2007, alla fine dell’ideale giornata lavorativa annuale, non sono tornati a casa 4.286 lavoratori di cui 1.260 perché morti e 3.026 perché ricoverati in ospedale: tra questi 2.139 hanno riportato un’invalidità che va dall’11% al 33%, 760 un’invalidità oscillante dal 34% al 66%, 100 dal 67% al 99% e 27 un’invalidità totale. C’è dell’altro: l’attuale personale impegnato nella prevenzione infortuni è in condizione di controllare le aziende italiane al ritmo di un controllo ogni 23 anni.
Accanto al mondo del lavoro, un altro effetto perverso riguarda una sorta di deriva del dinamismo che, così abbiamo sempre ritenuto, dovrebbe caratterizzare l’idea stessa di società avanzata. Il riferimento, qui, non è tanto alla discussa ‘società politicamente bloccata’, quanto a una società socialmente statica e non solo a causa della sua struttura demografica. In breve si può affermare che la nostra società rinuncia al futuro e si ritrova più indietro rispetto al passato, diciamo agli anni Settanta. La rinuncia al futuro viene realizzata su vasta scala. Stiamo allontanando tutto ciò che è, anche lontanamente, coniugabile con l’idea e la costruzione del/di un futuro: dai brevetti industriali all’interesse verso studi scientifici, dalla centralità di una pedagogia del futuro nella formazione delle giovani generazioni alle stesse giovani generazioni, lasciate senza cultura, senza formazione, senza lavoro, ovvero senza una linea di certezza che congiunga ‘ieri’ a ‘domani’. Siamo una società che non si rende conto della propria debolezza se non quando viene statisticamente paragonata ad altre società formalmente omogenee alla nostra. Ma si sa, i numeri non arrivano né alla coscienza né al cuore…e tutto viene immediatamente assorbito dalla convinzione che ciò che ci riguarda, se negativo, è senz’altro transitorio.
Al riguardo consideriamo alcuni dati contenuti in una recente pubblicazione dell’OECD (Organi;zation for Economic Cooperation and Development), il Factbook 2008 (dati al 2006); tra i 30 Paesi costituenti tale organizzazione, l’Italia occupa i seguenti posti: 2° per numero di giovani inattivi; 26° per investimenti nella conoscenza; 24° per numero di ricercatori; 27° per spese nella cultura e nel tempo libero; 27° per preparazione scientifica degli studenti; 30° per produttività nel lavoro (2001-2006); 30° per produttività in generale (2001-2006); 30° per PIL pro capite (2001-2006); 29° per crescita del PIL (2001-2006); 2° per debito pubblico; 6° per disparità di reddito; 1° per disparità regionali nell’occupazione; 27° per tasso di fertilità; 2° per rapporto anziani-forza lavoro.
La rivolta dei localismi e l’effetto serra
Le ultime due contraddizioni sociali che il 20° sec. ha consegnato al 21° fanno riferimento al sistema-Mondo, non soltanto alle società avanzate e/o a quelle in via di sviluppo. La prima riguarda la semplicità con la quale vari territori e società si espongono a guerre e conflitti pur in un’epoca non solo contrassegnata, per la prima volta, dalla presenza di istituzioni sovranazionali deputate a disinnescare tensioni e conflitti attraverso vie e metodi pacifici, ma definita anche con l’universale, individuale consapevolezza dell’orrore delle guerre e dei conflitti. Nonostante ciò, assistiamo sempre più spesso a rappresentazioni nelle quali in un mondo indifferenziato la differenziazione e la frammentazione culturale impongono qualunque determinazione con il risultato che dalla seconda metà del 20° sec. abbiamo caparbiamente lavorato per ricacciare, per es., l’intendimento kantiano per la pace perpetua da registro de facto a un registro, quando va bene, de iure, tanto da riproporre il problema della democrazia e della sua capacità di risolvere i conflitti sociali generati sia dalla vita economica sia da tensioni interetniche.
Sono innumerevoli, oggi, anche se variamente aggettivabili, i conflitti dietro i quali ci sono armi spaventose, se non le cosiddette armi di sterminio di massa, che devastano il sistema-Mondo. Se soltanto consideriamo l’Europa attuale, senz’altro il territorio con la maggiore densità democratica del Mondo, sono pochi gli Stati scevri da smottamenti etnici, tensioni e conflitti. Pur tralasciando il cosiddetto mosaico balcanico, tensioni e conflitti riguardano, in Gran Bretagna, la Scozia, l’Irlanda del Nord e il Galles; in Francia, la Bretagna, l’Alsazia, la Corsica e la Nuova Caledonia; in Spagna, i Paesi Baschi, la Catalogna e l’Aragona; in Finlandia, le isole Åland; in Romania, la Transilvania; in Moldavia, la Transnistria; in Russia, la Cecenia e l’Inguscezia; in Turchia, il Kurdistan e la minoranza armena; in Belgio, le Fiandre e la Vallonia. Per non parlare dell’Italia, dove la parola secessione è scritta nei programmi politici di decine e decine di rappresentanti al Parlamento.
Se la rivolta dei localismi mina i territori del sistema-Mondo, il cosiddetto effetto-serra, che può essere definito il figlio unico del modello di sviluppo occidentale, mina indifferenziatamente il sistema-Mondo nel suo complesso. Non è questa la sede per una disamina della tendenziale esposizione del Pianeta all’abnorme concentrazione di gas serra sopra i limiti di rischio accettabile; qui è opportuno notare conseguenze sociali non di poco conto. In un recente studio (novembre 2007) sponsorizzato dal Center for strategic and international studies di Washington dal titolo The age of consequences e firmato, tra gli altri, da John Podesta, ex consigliere di Clinton alla Casa Bianca, e da James Woolsey, ex capo della CIA (Central Intelligence Agency), si è proceduto a delineare diversi scenari per i prossimi trent’anni, relativamente al clima e alle sue conseguenze. Nella prospettiva di uno scenario intermedio, né troppo pessimistico né troppo ottimistico, la temperatura aumenterà di 2,6 gradi e il livello dei mari si alzerà di circa 50 cm con evidenti effetti negativi nell’approvvigionamento idrico e nella produzione agricola, con conseguenze che nelle pagine precedenti abbiamo visto essere devastanti dal punto di vista sociale. Non solo, ma come sta già accadendo, assisteremo a un andamento imprevedibile dei cambiamenti climatici; non avremo, in sostanza, un peggioramento graduale tale da poterci consentire una risposta organizzata, bensì un andamento caratterizzato da brusche crisi e momenti di instabilità, tanto da rendere incerte e non coerenti le risposte organizzate. Da questo scenario potrebbe conseguire un sistema-mondo soffocato, rinchiuso ancora di più nei localismi, nell’individualizzazione e nell’esasperata differenziazione, le cui ricadute sociali potrebbero mettere a dura prova le strutture economiche, politiche e giuridiche della società – una società, quindi, meno aperta, meno liberale, meno democratica e meno illuminata.
Da questo scenario, tuttavia, emerge anche un’altra considerazione: la consapevolezza che il problema ambientale non è più argomento da dilettanti, ma appartiene alla politica, con la P maiuscola. E questo è già uno spiraglio per il futuro; anzi è il primo passo nella direzione di una società il cui modello di sviluppo, non esclusivamente centrato sul lavoro, sia finalizzato a produrre meno ricchezza, meno povertà, più convivialità e socievolezza, più responsabilità nell’esercizio dei ruoli privati e pubblici.
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