contrapasso
Applicazione dantesca dell'antico principio giuridico-morale detto ‛ legge del taglione ' (se ne veda la formulazione biblica in Ex. 21, 23 ss.; Lev. 24, 17-20; Deut. 19, 21). La pena del c. è affermata direttamente da Bertrand de Born, punito tra i seminator di scandalo e di scisma nella nona bolgia: Perch'io parti' così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso! / ... Così s'osserva in me lo contrapasso (If XXVIII 139-142). Come in vita Bertrand de Born, con i suoi mali suggerimenti, aveva partito, aveva cioè fatto diventare nemici tra loro il giovane re Enrico III e il padre Enrico II d'Inghilterra, così ora egli si aggira nella bolgia infernale busto sanza capo; e 'l capo tronco tiene per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna (vv. 119-122). Mutilazione straordinaria e applicazione esemplare della legge del c., legge confermata da Umberto Aldobrandeschi, nella cornice dei superbi: E s'io non fossi impedito dal sasso / che la cervice mia superba doma, / onde portar convienmi il viso basso (Pg XI 52-54). In base a questi e a tanti altri esempi, il contrapasso, e non contrappasso (come ha dimostrato il D'Ovidio, Sette chiose), è apparso ai commentatori applicato o per analogia o per contrasto; ed è norma osservata generalmente per tutte le pene dell'Inferno e del Purgatorio, con un'applicazione non sempre perfettissima (il che viene giustificato per lo più riferendosi al peso che nel sistema punitivo hanno le ragioni fantastiche e poetiche), e non senza quelle diversificazioni che, pur nella conformità del metodo, comporta il diverso punto di vista con il quale il poeta guarda la materia peccaminosa nell'Inferno e nel Purgatorio, stanti le diverse ragioni analitiche dei due regni dell'oltretomba, in conseguenza delle loro diverse ragioni formali: nell'Inferno si tratta di porre in evidenza quel misero modo di esistere in cui si fissa chi resta avvinto al suo peccato: nel Purgatorio si tratta di eliminare talune deformazioni o scompensi, con una sorta di chirurgia estetica ridimensionatrice.
Fra gli altri, si è occupato del c. con particolare attenzione il D'Ovidio (Nuovi studi, cit. in bibl.). Egli ha osservato che " le pene infernali rimbeccano direttamente le colpe ", anche se talora in modo non preciso e chiaro, mentre nel Purgatorio " la corrispondenza è più costantemente chiara, precisa, felice, e talvolta, si direbbe, esatta, come per i golosi. Gli è che il numero delle pene è minore, onde il poeta ebbe a fare un minore sforzo di fantasia; le colpe generalmente più semplici comportarono una maggiore semplicità e proprietà d'escogitazione punitiva; le pene stesse, più che un carattere vendicativo avendo un non so che di pedagogico, o [come ha scritto il Porena] ortopedico, potevano più facilmente riuscir calzanti, rivolgendosi a un sentimento generico, radicale, anziché a uno speciale delitto o a un vizio molto particolare ". Sempre nel quadro generale di questa norma punitiva, si è osservato ancora che frequentemente essa si attua in un'analogia o antitesi del tutto allegorica, metaforica: gl'indovini, ad esempio, non avevano spinti troppo avanti gli occhi corporei, né Bertrand de Born aveva spiccato il capo da nessun busto col mettere discordia tra un padre e un figlio; così, è parso un concetto più da Inferno che da Purgatorio quello per cui la giustizia divina opera in modo che certi peccatori sopportino una pena analoga al peccato (vero è che la pena fisica nel Purgatorio contribuisce all'espiazione della colpa). Inoltre, è da osservare che un'altra cagione della pena e sofferenza nell'Inferno è rappresentata per le anime dall'impossibilità di essere altre da quel che furono in terra, anche se in tale impossibilità - secondo il Sansone - non si esprime in D. un rigido c., sibbene una condizione per un costante esito di poesia (M. Sansone, Il c. X dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 336). Non sempre, poi, il rapporto di c. tra peccato e pena risulta esplicito; ed è da tener presente - come annota il Pagliaro - che l'atteggiarsi delle pene nella rappresentazione dantesca spesso si riporta a elementi icastici, che il poeta ricava da una propria esperienza (A. Pagliaro, Il c. XX dell'Inferno, ibid. 636).
D. non inventò dunque la formula del c., ma la ereditò e se ne impose l'obbligo. Nella Summa theol. (I II 87 6 ad 3) è detto che il disordine che il peccato ha prodotto nelle potenze inferiori dell'anima dev'essere curato mediante pene in senso opposto: " per contraria ". Ciò nel Purgatorio. Per il c. infernale cfr. Sum. theol. II II 61 4 " Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit, patiatur: secundum illud Matth. VII 2: In quo iudicio iudicaveritis, iudicabimini: et in qua mensura mensi fueritis, remetietur vobis. Ergo iustum est simpliciter idem quod contrapassum ". Se dalla scolastica D. aveva il c. come formula, nella letteratura affine al suo poema lo ritrovava applicato all'aldilà. Ma prima che dalle Visioni medievali, D. poté avere già qualche generico suggerimento dai rapidi cenni virgiliani sui modi vari di purgazione. Il D'Ovidio rileva che delle tre pene indicate da Anchise (Aen. VI 735-751) per le anime della valle bagnata dal Lete - quali sospese al vento, quali sommerse in vasto gorgo che lava l'infezione della colpa, quali poste nel fuoco che brucia essa infezione -, l'una avrà contribuito a suggerire la bufera infernale dei lussuriosi, l'altra l'immersione dei violenti nel sangue e dei barattieri nella pece e altre immersioni infernali, la terza soltanto può essere entrata per qualcosa nel Purgatorio, nella settima cornice, anche se l'azione purgatrice del fuoco è cosa tanto biblica e teologica, tanto indipendente dalla tradizione classica, che il poeta l'avrebbe dovuta mettere in campo pur se l'Eneide ne avesse taciuto. Inoltre con il c. D. applicò a suo modo e raffinò un metodo che il Medioevo gl'insegnava con molteplici esempi: si pensi alla Visio Pauli, alla Visio Alberici, alla Visio Tungdali. In particolare quest'ultima spiega di ciascuna delle dodici pene infernali (che per altri trattatisti solevano essere sette o nove, oppure quattro od otto o quattordici) la convenienza o con singoli peccati o col peccato in genere, affermando sinteticamente che i dannati " hano tuto lo contrario de quilli delectamenti / donde elli al mondo usaveno con falzi adoperamenti " (vv. 290 ss.). Vi si trova anche il termine tecnico per i vari contrapassi, ed è contrapeiso, cioè contrappeso (v. 165). Così - sempre secondo il D'Ovidio - D. non fece che attenersi a una norma già esplicita nella Visio Alberici (XII) quando pose che la 'sofferenza della stessa pena, non la durata soltanto, fosse proporzionata al grado della stessa colpa. Un'altra possibile fonte delle pene e del relativo c. dantesco può essere stato il poema di Matilde da Magdeburgo, tradotto in prosa latina dal domenicano Enrico di Halle: Lux divinitatis (titolo originario: Fliessende Licht der Gottheit).
Occorre ora precisare che la pena del c. non è l'unica cui sono sottoposte le anime dell'Inferno e quelle del Purgatorio, anzi non è neanche la principale, nonostante sia la più appariscente. La teologia, compresa quella del tempo di D., distingue per tali anime la poena sensus e la poena damni. Quest'ultima consiste nella privazione di Dio, ch'è l'oggetto cui aspira necessariamente e perpetuamente, in forza della ‛ sinderesi ', ogni creatura razionale: sicché essa, quando con il suo libero arbitrio abbia rifiutato tale oggetto o rimanga legata ad abiti che, sia pure provvisoriamente, le impediscono di attingerlo, si trova, per così dire, spaccata in due da un'interna tragica contraddizione. Non v'è dubbio essere tale poena damni oggettivamente di gran lunga più grave della poena sensus (così come, nell'analogia degli opposti, l'aurea dei beati è la sostanza della loro beatitudine, mentre la loro aureola è soltanto accidentale alla beatitudine medesima: cfr. S. Pasquazi, All'eterno dal tempo, Firenze 1966, 244-252). Tuttavia può accadere che la poena damni sia subbiettivamente meno avvertita, o meglio, avvertita quasi in un sottofondo di coscienza, come in una sorta di catalessi intellettuale: onde avviene che le anime del Purgatorio mostrano di soffrire, soggettivamente, per la poena damni molto più che le anime dell'Inferno (per quelle del Limbo, poi, come diremo, occorre dar luogo ad altre e particolari considerazioni). La poena sensus, invece, è quella specificamente connessa con i vari peccati e che determina le diverse condizioni in cui D. vede le anime; ed è alla poena sensus che devesi ricondurre la legge del c., la quale non deve intendersi come ritorsione vendicativa, bensì come proseguimento di decisioni operate nella vita terrena, e tale proseguimento è fissità ontica nei dannati e abito accidentale nel Purgatorio.
Tutte le anime, anche quelle del Paradiso, sono quel che optarono di essere, o meglio, quel che riuscirono a essere nella loro esistenza storica quale risultò dalle condizioni in cui fu dato loro di vivere e dalle libere scelte che, dentro quelle condizioni, vollero fare. Così avviene che i beati godono, oltre che dell'aurea, come si diceva, anche dell'aureola (che è una specie di c. paradisiaco, in cui la specifica virtù è specifico premio a sé stessa). Così avviene che le anime purganti soffrono, costruttivamente e amorosamente, della contraddizione fra la loro sostanziale volontà buona e i residui degli abiti peccaminosi ripudiati ma non ‛ scontati ' (usiamo il termine ‛ scontare ' non nel senso di punizione grettamente e legalisticamente computistica, del tutto estrinseca rispetto alla colpa, ma nel senso oggi abbastanza corrente di capire e valutare per diretta e personale esperienza la portata negativa, il disvalore, l'autodistruzione, il fallimento umano, che sono impliciti ma pur realmente e necessariamente presenti in un atteggiamento interiore cattivo o in una mala azione). E così avviene, infine, che i dannati soffrono in forza di quella stessa specifica condizione che hanno bramata e perseguita nella terra, e in cui sono rimasti fissati per l'eternità; essi però non ‛ scontano ' i loro peccati (nel senso predetto; se mai, chi li ‛ sconta ' è il poeta-viatore, con la sua lunga meditazione catartica e metanoica), perché si sono indissolubilmente ‛ integrati ' con i peccati stessi, per la loro definitiva " aversio a Deo per conversionem ad creaturas ". Il dilaniarsi interiore delle anime dannate, in cui si è detto consistere la poena damni, determinato dalle due trazioni contraddittorie verso Dio (per la inestinguibile sinderesi) e verso i piccoli beni del peccato (per la loro scelta onticamente acquisita), porta le anime dannate ad amare-odiare i piccoli beni del peccato, e ciò non in superficie o inconsciamente, ma con tutto intero il loro essere, che viene così a identificarsi con siffatto amore-odio, e dunque assume la condizione di essere orribilmente la concretizzazione visibile del peccato stesso: e questa è appunto, nell'essenza, la poena sensus (cfr. Sum. theol. I II 87 4). In tal modo dalla poena damni, che può essere meno avvertita ma è pur sempre la profonda sostanza dell'Inferno, discende la poena sensus, la cui reale tragicità nasce dunque dalla condizione di verità, che in essa insieme si nasconde e si manifesta. È per questo che non sarebbe giusta interpretazione quella che scambiasse per superficiale ‛ medievale ' truculenza ciò che, al contrario, è il vivo realismo dovuto a quella condizione di verità.
Nell'Inferno, per fare qualche esempio concreto, i pusillanimi del vestibolo conservano il loro atteggiamento interiore; cioè, anche per loro, il c. infernale consiste formalmente e propriamente nella fissità ontica delle scelte operate durante la vita terrena. È vero che costoro vollero non operare scelte: scelsero di non scegliere, senza avvedersi che anche questa è una scelta: e da essa furono indotti a un'esistenza inautentica, dispersa nel polverio della vita banale quotidiana. Prevenendo l'analisi esistenzialistica, D. ha scoperto che la vita banale priva d'impegno nel presente e d'intenti verso il futuro, legata al passato non per profondità di convincimenti ma solo per gli schemi estrinseci del conformismo e dell'abitudine, comporta la banalità del rinvio lungo una catena incessante di stimoli senza scopo, che gettano l'uomo in preda a una continua ansietà. Così, queste anime, che non vollero avere alcune sollecitudini, sono, proprio in forza di questo loro rifiuto, travolte nella sollecitudine più tormentosa. L'insegna che quelle anime rincorrono, e che non si lascia neanche identificare, somiglia molto al ‛ rinvio '; e quella corsa senza fine e senza scopo è appunto tormentosa sollecitudine, così come le punture degl'insetti esprimono bene gli stimoli della vita banale; e altresì, gli animali immondi, che si nutrono con il sangue e le lacrime di quei miserabili, mostrano come tal vita banale sia solitamente sfruttata da chi bada ad arricchirsi o potenziarsi sull'altrui meschinità morale, secondo un metodo commerciale e politico che non appartiene soltanto ai tempi di Dante.
Nel secondo cerchio, al tormento della bufera infernal, che mai non resta sono sottoposti coloro che sottomisero la ragione al talento, i lussuriosi. È chiaro lo stretto legame che allaccia tra loro indissolubilmente la passione carnale, il peccato e l'eterno tormento della bufera. Nel turbine infernale che non ha mai tregua e che travolge seco con la violenza le anime dei lussuriosi, rivoltandoli in tutti i sensi e percotendoli l'un contro l'altro, il c. per analogia rappresenta il persistere della passione amorosa da cui in terra quelle anime vennero travolte nel peccato. I golosi che vollero saziarsi di tutti i prodotti vegetali e animali, ora, nel terzo cerchio, posseggono come oggetto di manducazione la materia prima, per così dire, di tali prodotti (c. per analogia), e insieme scoprono la miseria del loro comportamento nella rabbiosa voracità del mostruoso custode Cerbero. Gli avari e prodighi che hanno impegnata tutta la loro anima nell'acquisto e nella dissipazione dei beni terreni, seguitano identicamente ad accumulare e a disperdere nel quarto cerchio infernale. Il c. si evidenzia qui anche sul piano morale: la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogni conoscenza or li fa bruni (If VII 53-54). L'espressione la sconoscente vita parrebbe voler esprimere quella caratteristica dell'uomo di affari che, quasi per definizione, ignora ogni valore che non sia quello economico.
Circa le anime del Limbo va fatto un discorso particolare. Sul Limbo, la dottrina teologica insegnava a D. ivi sussistere la sola poena damni senza alcuna poena sensus: il che equivale, posto quanto abbiamo detto in tema di c., a escludere che le anime del Limbo patiscano un c., né di tipo infernale né di tipo purgatoriale. Resta valido anche per esse, tuttavia, il principio su cui il c. si fonda (così com'esso vale anche per i beati): l'anima seguita a essere quel che è divenuta al termine della sua esistenza storica, quale questa risultò e dalle condizioni obbiettive in cui si svolse e dalle libere scelte che, dentro quelle condizioni, furono operate. È abbastanza chiaro che alle turbe... d'infanti e di femmine e di viri non fu dato di operare tali libere scelte, almeno in grado tale da definirli salvati o dannati: e questo, proprio perché Dio non si è rivelato ad essi, o al più essi lo hanno conosciuto in modo così impreciso e generico da non poter scegliere né per lui né contro di lui (senza colpa alcuna, diversamente dagl'ignavi che avrebbero potuto scegliere e vi si sono rifiutati): e allora, le anime del Limbo sono rimaste in tal condizione, caratterizzata da un profondo senso di carenza e insieme dal non sapere se non confusamente che cosa è che manca. È una sorta di ‛ scacco ' esistenziale. Le grandi anime del nobile castello differiscono, sotto questo aspetto, dagli altri abitatori del Limbo, in grado e non in qualità: esse hanno meglio cercato il divino (pur sempre anch'esse intravedendolo in modo impreciso e generico), e perciò godono di una posizione privilegiata; hanno realizzata l'atarassia del saggio, e perciò conversano e non sospirano; ma nello stesso tempo, e attraverso le stesse operazioni, hanno dovuto subire uno ‛ scacco ' esistenziale altrettanto più cosciente e più duro, ‛ scacco ' che in esse permane come un'ipostasi permanente, e che traspare non di rado nelle parole di Virgilio in tutta la sua drammatica durezza.
Bibl. - P. Perez, I sette cerchi del Purgatorio di D., Verona 1867; F. Flamini, I significati reconditi della " Commedia " e il suo fine supremo, Livorno 1903-1904 (2a ediz. rifatta e intitolata Il significato e il fine della D.C., ibid. 1916); F. D'ovidio, Nuovi studi danteschi. Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906; ID., Sette chiose alla Commedia, in " Studi d. " VII (1923) 27; G. Busnelli, L'ordinamento morale del " Purgatorio " dantesco, Roma 1908; L. Filomusi Guelfi, Studi su D., Città di Castello 1908; ID., Nuovi studi sulla D.C., ibid. 1911; M. Baldini, La costruzione morale dell'" Inferno " di D., ibid. 1914; G. Santi, L'ordinamento morale e l'allegoria della D.C., Palermo 1923; L. Pietrobono, Il poema sacro, Bologna 1925; S. Vazzana, Il c. nella D.C. (Studio sull'unità del poema), Roma 1959; G. Maino, Umanità e libertà nel Paradiso di D., in Atti Convegno Umanesimo in D., Firenze 1967, 121-123; A. Pagliaro, Il c. XIX dell'Inf., in Lect. Scaligera I 635-636; D. Mattalia, Il C. XXV dell'Inf., ibid. 924-928.