Abstract
Viene esaminata l’evoluzione normativa e la disciplina applicabile dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 15.6.2015, n. 81, in un quadro tenuto insieme da normative di rango costituzionale (art. 97 Cost.) ed europeo (dir. 99/70/CE). Ampio spazio è dedicato all’esame dell’art. 36, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, con particolare riferimento al divieto di costituzione a tempo indeterminato del rapporto ed alle questioni della qualificazione e della quantificazione del danno risarcibile, fonte di vivaci contrasti giurisprudenziali di recente composti da una pronuncia a sezioni unite della Suprema Corte. Una breve riflessione è dedicata, infine, alla cd. questione del “precariato scolastico”.
Il d.lgs. 30.3.2001, n. 165, sancisce la diretta applicabilità delle norme del codice civile e delle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa al rapporto di lavoro pubblico (art. 2, co. 2). Sono però fatte salve le «diverse disposizioni» contenute nel medesimo decreto, tra cui compare l’art. 36, concernente le forme contrattuali flessibili di assunzione (cfr. Fiorillo, L., Flessibilità e lavoro pubblico. Le forme contrattuali, Torino, 2003; Carabelli, U., Introduzione, Lavoro flessibile e interessi pubblici differenziati nell’attività delle pubbliche amministrazioni, in www.flessibilitaelavoropubblico.it, 2005).
L’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, è il prodotto di una serie di interventi legislativi.
Nella versione originaria, si limitava a sancire la facoltà di utilizzare le forme contrattuali flessibili (Flessibilità [dir. lav.]) previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa.
Il legislatore, nel 2006, è perciò intervenuto per limitare tale facoltà solo qualora fossero ricorse «esigenze temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure di assegnazione anche temporanea di personale. nonché previa valutazione circa l’opportunità di attivazione di contratti di somministrazione a tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi» (cfr. art. 4, d.l. 10.1.2006, n. 4, conv. con mod. dalla l. 9.3.2006, n. 80). A distanza di un anno, l’art. 3, co. 79, l. 24.12.2007, n. 244, riscriveva l’art. 36, d.lgs. n. 165/2015, prevedendo che le p.a. potessero assumere esclusivamente con contratti a tempo indeterminato. Restava legittima l’apposizione del termine nel limite di durata massima di tre mesi in presenza di ragioni oggettive. fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali. Facevano eccezione solo le esigenze legate alla stagionalità, con rinvio alle ipotesi – prevalentemente nel settore agricolo e quindi di difficile riscontro nel pubblico impiego – contemplate dal d.P.R. 7.10.1963, n. 1525.
Dopo appena sei mesi, l’art. 36 veniva nuovamente rielaborato, con alleggerimento dei preesistenti vincoli (d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con mod. dalla l. 6.8.2008, n. 133; Caruso, B., La flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. n. 133/08 (quando le oscillazioni del pendolo si fanno frenetiche), in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 79/2008, 10). Si stabiliva, infatti, che sempre nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti, per le «esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Mentre, in presenza di «esigenze temporanee ed eccezionali» si stabiliva che potessero avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (Zoppoli, L., La flessibilità nel lavoro pubblico, in Contratto a termine tra pubblico e privato, a cura di M., D’Onghia-M.,- Ricci Milano, 2009, 135 ss.).
Il legislatore del 2008 individuava un ulteriore limite, fissando periodi di servizio non superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio, un limite poi eliminato dall’art. 17, co. 26, lett. b), d.l. 1.7.2009, n. 78, conv. con mod. dalla l. 3.8.2009, n. 102) e sostituito con un meccanismo interno di valutazione e controllo. Si restituiva inoltre alla contrattazione collettiva la possibilità di disciplinare la materia della flessibilità d’impiego.
Tale assetto è stato in ultimo corroborato dall’art. 4, co. 1, d.l. 31.8.2013, n. 101, conv. con mod. dalla l. 30.10.2013, n. 125, nella misura in cui – sulla falsariga della riforma del 2006 (v. supra) – ha sostituito l’inciso «per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali» con quello «per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale», laddove l’avverbio «esclusivamente» fa risaltare la regola del contratto a tempo indeterminato come contratto dominante (circ. D.F.P. 21.11.2013, n. 5). E tuttavia la sostituzione della congiuntiva «e» con la disgiuntiva «o» sembra avere ampliato, sia pure in modo contenuto, la facoltà di ricorso alle forme di lavoro flessibili potendo i requisiti della temporaneità ed eccezionalità ora sussistere anche in via alternativa tra loro (Russo, M., Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego, in Jobs Act e contratto a tempo determinato, Santoro-Passarelli, G., a cura di, Torino, 2014, 130).
Chiarito il quadro normativo attuale, è bene scendere più nel dettaglio della disciplina del contratto a tempo determinato.
Il lavoro a tempo determinato è assoggettato alla dir. 99/70/CE anche nel settore pubblico (C. giust., 26.11.2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri c. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca). La normativa in esame si informa pertanto al principio secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato è la forma comune dei rapporti di lavoro, principio che va però contemperato con le esigenze pubbliche coinvolte. Questo contemperamento è alla base della valutazione di conformità della normativa speciale.
Come già accennato, al contratto tempo determinato stipulato dalle p.a. trovano applicazione, se non sia diversamente disposto, le stesse norme del settore privato (cfr. art. 2 co. 2, e art. 36, d.lgs. n. 165/2001). Non può quindi essere dubbia l’applicabilità ai datori pubblici del d.lgs. 15.6.2015, n. 81 (Menghini, L., Lavoro a tempo determinato (artt. 1, 19-29, 51 e 55), in Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, a cura di F., Carinci, Adapt, 2015, n. 48, 184) provvedimento all’interno del quale si riscontrano infatti singolari specifiche esclusioni (cfr. art. 23, co. 3, e art. 29, co. 2, lett. c.) la cui presenza non avrebbe senso se il decreto fosse già integralmente inapplicabile.
L’impianto normativo vigente impone però all’interprete di coordinare le disposizioni del decreto citato con quelle contenute nell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, da considerarsi norma speciale e comunque norma espressamente richiamata e fatta salva dal legislatore del 2015 (art. 29, co. 4).
In primo luogo trova universale applicazione il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4 dell’accordo quadro della dir. 99/70/CE, munito di efficacia orizzontale (C. giust., 15.4.2008, C-268/06, Impact, c. Minister for Agriculture and Food, punti 62 e 68 della motivazione) e trasposto nell’art. 25, d.lgs. n. 81/2015, di talché il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata in forza dei contratti a termine comporta la violazione tanto della clausola 4, quanto dell’art. 25 (già art. 6, d.lgs. 6.9.2001, n. 368: cfr. Cass., 17.11.2015, n. 23487). Alla medesima stregua contrasta con il diritto europeo una normativa nazionale che escluda i periodi di servizio svolti da un lavoratore a tempo determinato del pubblico impiego dal computo dell’anzianità al momento della sua stabilizzazione (C. giust., 4.9.2014, C152/14, Bertazzi C. Autorità per l’energia elettrica e il gas).
Quanto alle ulteriori regole, il contratto di lavoro a termine sarà legittimo solo a fronte di esigenze temporanee o eccezionali (art. 36, co. 2, d.lgs. n. 165/2001) e non semplicemente nel rispetto del d.lgs. n. 81/2015, ergo nel rispetto di specifici divieti (art. 20), della forma scritta (art. 19, co. 4), della durata massima di 36 mesi (art. 19, co. 1 e 2). Allora, anche dopo la riforma del 2015, il lavoro a termine nella p.a. rimane ipotesi eccezionale, da interpretare restrittivamente e con conseguente inapplicabilità delle norme incompatibili, prima fra tutte la “acausalità” del termine (cfr. art.19, co. 1, e per il passato art. 1, co. 1-bis, d.lgs. n. 368/2001; cfr. Ricci, M., Lavoro privato e lavoro pubblico: rapporti tra le due ipotesi di riforma, estensione delle regole e modelli, in Lav. pub. amm., III, 2014, 472).
L’art. 36, d.lgs. n. 165/2015, nulla dispone in ordine a ciascuna ipotesi di divieto di apposizione del termine, pertanto operativo anche nel settore pubblico nel caso di sciopero e non operativo in caso di trattamenti di integrazione salariale dei dipendenti, istituto inaccessibile nel settore pubblico. Sorge un dubbio sull’ipotesi del divieto di assunzione a termine nelle unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi della l. 23.7.1991, n. 223. Se a rigore questa ipotesi non riguarda i lavoratori pubblici, non è da escludere che il divieto operi analogicamente nel caso l’amministrazione esperisca procedure di dichiarazione degli esuberi di personale e di collocamento in disponibilità (artt. 33 ss., d.lgs. n. 165/2001), aventi una ratio tutto sommato analoga alle procedure.
Per quanto concerne le condizioni legittimanti la proroga si può fare riferimento all’art. 21, d.lgs. n. 81/2015, ma la proroga dovrà rispondere alle stesse esigenze esclusivamente temporanee o eccezionali del termine originario. Si aggiunga però che, per espressa previsione di legge (cfr. art. 4, co. 9, d.l. n. 101/2013), è concesso alle amministrazioni che prevedono di effettuare procedure concorsuali (art. 35, co. 3-bis, lett. a, d.lgs. n. 165/2001) di prorogare, fino al completamento delle medesime procedure e comunque non oltre il 31 dicembre 2016 per determinate ragioni (art. 1, co. 426, l. 23.12.2014, n. 190; e per le provincie v. art. 1, co. 6, d.l. 31.12.2014, n. 192, conv. con dalla l. 27.2.2015, n. 11) i contratti a termine dei soggetti che hanno maturato, al 1° settembre 2013, almeno tre anni di servizio alle proprie dipendenze.
Una riflessione a parte merita il tema dei limiti quantitativi. I datori privati non possono assumere lavoratori a termine in misura superiore al 20 per cento del numero dei dipendenti a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione (art. 23, d.lgs. n. 81/2015). C’è da chiedersi se tale limite legale si applichi o no anche alle p.a.
Fermo che i contratti collettivi nazionali sono comunque abilitati a individuare i contingenti di personale utilizzabile (ex art. 36 co. 2, d.lgs. n. 165/2001), per dare risposta al quesito si deve verificare la compatibilità del limite quantitativo vigente nel settore privato con la previsione del testo unico. Ebbene la risposta negativa si concilia con l’obbligo delle p.a. di predisporre la programmazione triennale del fabbisogno di personale secondo le disponibilità finanziarie e di bilancio (art. 39, l. 27.12.1997, n. 449, e art. 35, co. 4, d.lgs. n. 165/2001; cfr. inoltre Menghini, L., Il contratto a termine a-causale e il lavoro pubblico, in La politica del lavoro del Governo Renzi, a cura di F., Carinci, ADAPT, n. 40, 2015, 204). Viceversa, la ricostruzione di segno opposto, che consentirebbe di ritenere operativo quel limite legale, meglio si concilia tanto con le ultime riforme del settore pubblico finalizzate ad arginare il dilagante ricorso a rapporti temporanei, quanto con le esenzioni dai medesimi limiti quantitativi espressamente previste dall’art. 23, co. 3, riguardanti anche datori pubblici (v. ad esempio gli istituti pubblici di ricerca), che risulterebbero un fuor d’opera se tale settore fosse già automaticamente escluso dal limite legale del 20 per cento.
Nulla osta poi alla piena applicabilità dell’art. 22, co. 1, in tema di prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine inizialmente fissato ovvero prorogato, con diritto a maggiorazioni retributive via via crescenti col trascorrere del tempo.
Venendo alla disciplina della successione dei rapporti, si può ritenere in vigore la regola generale sancita dal co. 2 dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015, per cui il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale non può superare i trentasei mesi comprensivi di proroghe, rinnovi e, dopo la novella del 2012, anche degli eventuali rapporti di lavoro in somministrazione.
Parimenti risulteranno applicabili le regole sugli intervalli minimi ai fini del rinnovo contrattuale (art. 21, co. 2).
Viceversa, per espressa previsione legislativa (cfr. art. 36, co. 5-bis, d.lgs. n. 165/2015), non sono generalmente applicabili al settore pubblico le disposizioni relative al diritto di precedenza (oggi contenute nell’art. 24, d.lgs. n. 81), se non al personale reclutato secondo le procedure di cui all’art. 35, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 165/2015.
Sono categoricamente esclusi dall’applicazione del d.lgs. n. 81/2015: a) i contratti stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA (art. 29, co. 2, lett. c, d.lgs. n. 81/2015), almeno dalla data di entrata in vigore del co. 18 dell’art. 9, d.l. 13.5.2011, n. 70, conv. con mod. dalla l. 12.7.2011, n. 106; b) i contratti del personale sanitario del Servizio sanitario nazionale (art. 29, co. 2, lett. c), dalla data di entrata in vigore del co. 5 dell’art. 4, d.l. 13.9.2012, n. 158, conv. con mod. dalla l. 8.11.2012, n. 189; c) i contratti stipulati ai sensi della l. 30.12.2010, n. 240 (art. 29, co. 2, lett. d).
I rischi economici e di sistema, legati anche al contenzioso cagionato dal ponderoso utilizzo nel tempo di forme contrattuali diverse da quella comune, hanno portato il legislatore all’introduzione di procedure derogatorie di stabilizzazione dei rapporti temporanei, nelle quali è stata primariamente valorizzata l’esperienza professionale acquisita (l. 27.12.2006, n. 296, l. 24.12.2007, n. 244 e d.l. 1.7.2009, n. 7, conv. con mod. dalla l. 3.8.2009, n. 102; sul tema Pizzoferrato, A., La stabilizzazione dei posti di lavoro nella finanziaria 2007, in Lav. giur., 2007, 221 ss.).
Significativa a tal proposito è la previsione contenuta nel co. 3-bis dell’art. 35, d.lgs. n. 165/2001 nella misura in cui si permette alle p.a., nel rispetto della programmazione triennale del fabbisogno, nonché del limite massimo complessivo del 50 per cento delle risorse finanziarie disponibili, di avviare procedure di reclutamento mediante concorso pubblico riservando i posti – nel limite del 40 per cento – a lavoratori già titolari di rapporti instabili con l’amministrazione.
Sulla stessa scia si inseriscono l’art. 4, co. 6, d.l. n. 101/2013, e l’art. 1 co. 426, l. n. 190/2014 che dispongono la proroga al 31.12.2018 dell’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, vigenti alla data del 31.8.2013 e l’apertura di bandi, anche in alternativa alle procedure ex art. 35, co. 3-bis citato, riservati ai titolari di rapporti a termine di lungo periodo dotati di determinati requisiti (cfr. art. 1, co. 519 e 558, l. n. 296/2006 e art. 3, co. 90, l. n. 244/2007).
Da ultimo, è andata nella medesima direzione anche la l. 7.8.2015, n. 124, contenente la delega al Governo in materia di riorganizzazione delle p.a. (cfr., in particolare, l’art. 17).
Analogo favor verso la stabilizzazione viene riservato a soggetti impegnati in progetti di lavori socialmente utili o di pubblica utilità (cfr. art. 4, co. 8, d.l. n. 101/2013) e ai precari della scuola statale (cfr. l. 13.7. 2015, n. 107).
I contratti a termine stipulati in violazione dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, sono nulli (cfr. co. 5-quater).
Preme sottolineare che l’azione per l’accertamento dell’illegittimità del termine è soggetta ai termini di decadenza indicati all’art. 28, d.lgs. n. 81/2015 (Mainardi, S., Il pubblico impiego nel “Collegato lavoro”, in Giur. it., 2011, 11, 2447) in ragione della formula omnicomprensiva usata dal legislatore («l’impugnazione del contratto»). È quindi necessario impugnare il contratto entro centoventi giorni dalla cessazione del singolo rapporto, ma l’impugnazione diviene inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Ai sensi del co. 5 dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 «la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte di pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato». Rafforza il divieto l’art. 4, co. 1, d.l. n. 101/2013, il quale, ha aggiunto all’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, i co. 5-ter e 5-quater, e stabilito che i contratti a termine posti in essere in violazione di legge sono nulli e determinano responsabilità erariale, responsabilità dirigenziale, nonché l’impossibilità di erogare al dirigente responsabile la retribuzione di risultato.
Ne consegue pertanto che l’unica tutela del lavoratore a termine è rappresentata dal risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.
Sul punto è stata sollevata questione di costituzionalità per violazione del principio di uguaglianza rispetto ai lavoratori del settore privato. La Consulta ha rigettato (C. cost., 27.3.2003, n. 89) per via della diversità delle situazioni messe in relazione, dato che la selezione del pubblico impiego è imperniata sull’art. 97 Cost., norma che – salvo eccezioni – impone il ricorso alla procedura concorsuale (Mezzacapo, D., Profili problematici della flessibilità nel lavoro pubblico: il contratto a tempo determinato, in Lav. pub. amm., 3-4, 2003, 514; cfr. Cass., 26.4.2013, n. 10070).
È stata anche più volte sollevata una questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia, per non conformità all’ordinamento europeo ex art. 267 del Trattato, relativa alla interpretazione delle clausole dell’accordo quadro recepito dalla dir. n. 99/70/CE (cl. 1, lett. b, e 5) sul divieto di abuso in materia di successione di contratti a termine.
Si tratta di verificare se il divieto in esame renda ineffettiva, perché non sufficientemente energica e dissuasiva, la protezione offerta dalla direttiva.
La Corte di giustizia ha in effetti ammesso sanzioni alternative come il risarcimento del danno, purché in grado di perseguire gli obiettivi imposti dalla direttiva (C. giust., 7.9.2006, C-180/2004, Vassallo c. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate; C. giust., 1.10.2010, C-3/10, Affatato c. Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza); ma ha precisato che non rappresenterebbe una tutela effettiva un risarcimento del danno il cui onere della prova gravi integralmente sul lavoratore poiché le difficoltà insite nella dimostrazione renderebbero praticamente impossibile l’esercizio dei diritti di fonte euro-unitaria (C. giust., 12.12.2013, C-50/13, Papalia c. Comune di Aosta).
Chiarito ciò, ogni altra valutazione deve essere rimessa al legislatore nazionale e, in assenza di una chiara previsione, al sistema e ai giudici (Gottardi, D., La giurisprudenza della Corte di Giustizia sui contratti di lavoro a termine e il suo rilievo per l’ordinamento italiano, in Riv. giur. lav., 2012, 4, 724 ss.).
La giurisprudenza maggioritaria è stata concorde nel ritenere che la disciplina di cui all’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, pur escludendo, in caso di violazione di norme imperative, la conversione in contratto a tempo indeterminato, introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore. Pertanto è speciale e alternativa rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001 (ora n. 81/2015), ma pur sempre adeguata alla direttiva europea, in quanto idonea a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della p.a. (Cass., 20.3.2012, n. 4417; Ales, E., Contratti a termine e pubbliche amministrazioni: Quousque tandem…, in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 93 ss.).
Alla base del divieto di conversione si trova il principio del concorso ex art. 97, co. 3, Cost., invocando il quale la giurisprudenza continua a negare la conversione nei confronti degli idonei – di una procedura selettiva per un impiego temporaneo – che abbiano, successivamente, stipulato con l’amministrazione un contratto di lavoro a termine fuori dei casi consentiti (Cass., 7.7.2008, n. 11161). E una dottrina nega la conversione anche in caso di procedure rispettose dell’art. 97 co. 3 Cost., in quanto non si darebbe la possibilità di concorrere a tutti gli interessati, con conseguente violazione dei principi di pubblicità e imparzialità della procedura selettiva (Ciucciovino, S., L’idoneità dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 a prevenire l’abuso del contratto a termine da parte della pubblica amministrazione, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 147).
A diverso risultato si giungerebbe prendendo in considerazione gli idonei a seguito di bando riguardante assunzioni a tempo indeterminato, ipotesi peraltro contemplata dal co. 2 dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, come novellato dalla l. n. 125/2013 (Preteroti, A., Forme di impiego flessibile nel lavoro pubblico, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, a cura di G. Santoro-Passarelli, Assago, 2014, 2772, nt. 26). In tal caso la mancata assunzione dipende dalla contingente insufficienza dei posti banditi. Venuto meno tale limite non vi sarebbe alcun ostacolo all’assunzione, sempre che la graduatoria sia ancora efficace (Cons. St., sez. VI, 4.7.2014, n. 3407).
Ad ogni buon conto, di certo non è impedita la conversione qualora le regole sull’accesso all’impiego non prevedano l’obbligo del concorso, non consumandosi in tal caso una violazione dell’art. 97, co. 3, Cost. (Cass., 22.4.2010, n. 9555, con nt. di De Michele, V., L’insostenibile leggerezza della conversione del contratto a termine nel lavoro pubblico, in Lav. giur., 2010, 11, 1107), norma suscettibile di, sia pur limitate, deroghe (Cass. S.U., 9.1.2013, n. 299).
Alla luce di quanto detto è necessario comprendere quale risarcimento possa essere considerato misura proporzionale ed energicamente dissuasiva. Sulla natura del danno subito dal lavoratore è sorto un vivace contrasto giurisprudenziale.
Secondo un primo indirizzo (Cass., 13.1.2012, n. 392; Cass., 8.9.2014, n. 18855) non può parlarsi a rigore di danno in re ipsa, data la non risarcibilità di un diritto “al rapporto” che la legge stessa nega tramite un espresso divieto. Ne deriva che il dipendente non può ritenersi esentato dall’onere probatorio, salva la prova per presunzioni basata su elementi da sottoporre al prudente apprezzamento del giudice (Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972).
Questa ricostruzione sembra però scontrarsi tanto con un solido assunto della Consulta (C. cost., 27.3.2003, n. 89) secondo cui il risarcimento si pone “in luogo” della conversione, quanto con l’esigenza, ribadita spesso dalla Corte di giustizia, che la “misura alternativa” sia effettiva e non renda troppo difficile l’esercizio del diritto, qualità non riscontrabili in presenza un onere di allegazione e prova dei danni (C. giust., 12.12.2013, cit.).
La successiva giurisprudenza di legittimità, facendo proprie tali obiezioni, ha riconosciuto nel risarcimento del danno nominato dall’art. 36 una sorta di sanzione ex lege a carico del datore, nella forma del cd. «un danno comunitario» (Cass., 30.12.2014, n. 27481; Cass., 23.1.2015, n. 1260).
Maggiori divergenze si sono registrate sui criteri di riferimento ai fini della quantificazione (Preteroti, A., Il contratto a termine nel settore pubblico tra novità legislative, primi riscontri giurisprudenziali e nuovi orizzonti, in Lav. pub. amm., 2009, 1089 ss.).
Per la liquidazione di un simile danno è stato individuato come «criterio tendenziale da utilizzare», da alcune sentenze, il parametro indicato dall’art. 8, l. 15.7.1966, n. 604 (Cass., n. 27481/2014; Cass., n. 1260/2015; Cass., 3.7.2015, n. 13655), da altre quello previsto dall’art. 32, co. 5, l. 4.11.2010, n. 183 (Cass., 21.8.2013, n. 19371). Simili misure sono state talvolta ritenute entrambe inadeguate sia a riparare il pregiudizio sofferto, sia a sanzionare debitamente l’amministrazione per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti. Non sono infatti mancate pronunce che hanno riconosciuto validità alle indicazioni dell’art. 18, l. 20.5.1970, n. 300, quantificando il risarcimento in misura pari a 15 mensilità (Trib. Torino, 4.12.2014, a quanto consta inedita).
Ritenute le questioni della qualificazione del danno e del quantum del risarcimento di massima rilevanza e ancora irrisolte si è deciso (Cass., 4.8.2015, n. 16363) di rimetterle alle Sezioni Unite, che hanno definitivamente optato per il sistema indennitario ex art. 32, co. 5 citato (ora art. 28, d.lgs. n. 81/2015), considerando sussistente un danno in re ipsa ancorché non identificabile nella perdita del posto di lavoro (Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5072). Resta ferma però – di qui l’approccio eclettico che caratterizza questa pronuncia – la possibilità di provare il danno ulteriore ai sensi dell'art. 1223 c.c., derivante da una prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della p.a. e configurabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova integralmente a carico del lavoratore.
Orbene, la posizione della Cassazione risulta senz’altro condivisibile nella misura in cui si esprime a favore del danno in re ipsa, mentre appare meno condivisibile con riferimento al criterio di quantificazione. Difatti, se per un verso tale indirizzo porta il merito di fissare l’ammontare del risarcimento entro parametri determinati, dall’altro finisce per accordare una tutela ancorata ad una norma (art. 32, l. n. 183, ed ora art. 28, d.lgs. n. 81) che presuppone la conversione, sanzione invece espressamente esclusa nel settore pubblico dall’art. 36, d.lgs. n. 165.
Sarebbe perciò auspicabile un intervento legislativo di determinazione del danno cd. comunitario. Una disposizione che, riproducendo quella timidamente apparsa in una delle ultime bozze dell’art. 23, co. 4, d. lgs. n. 81 (sebbene in quel caso riguardasse la sola ipotesi della violazione dei limiti quantitativi), preveda ad esempio una indennità in favore del lavoratore di importo pari al 50 per cento della retribuzione (Retribuzione 1. Rapporto privato) di riferimento per il calcolo del TFR (Trattamento di fine rapporto), per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata dell’illegittimo rapporto di lavoro, e comunque di misura non inferiore al 50 per cento di una mensilità; e ferma restando la possibilità di provare l’eventuale ed ulteriore danno subito così come chiarito dalle Sezioni Unite.
Il settore scolastico è destinatario di una disciplina speciale (cfr. art. 4, l. 3.5.1999, n. 124; art. 70, co. 8, d.lgs. n. 165/2001 e, con riferimento al reclutamento, d.lgs. 16.4.1994, n. 297), in ragione della peculiare esigenza di garantire il diritto all’istruzione.
La normativa nazionale (art. 4, l. n. 124/1999 e art. 1, decreto del Ministero della pubblica istruzione 13.6.2007, n. 131) prevede tre tipologie di contratti a termine: supplenze annuali su organico “di diritto”, riguardanti posti disponibili e vacanti, cioè privi di titolare, con scadenza al termine dell’anno scolastico (31 agosto) in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo; supplenze temporanee su organico “di fatto”, relative a posti non vacanti ma comunque disponibili, con scadenza al termine delle attività didattiche (30 giugno); supplenze temporanee, ossia brevi.
Al settore in questione, al pari di quello ospedaliero del Servizio sanitario nazionale, non si applica il d.lgs. n. 81/2015 (art. 29, co. 2, lett. c). In particolare non vige la regola di durata massima di 36 mesi in caso di successione di rapporti, cosicché il risarcimento del danno sarebbe a monte inibito in quanto i contratti a termine sarebbero legittimi anche in caso di superamento dei 36 mesi (Cass., 20.6.2012, n. 10127).
Occorre quindi domandarsi se le esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano costituiscano o no ragioni obiettive, ai sensi della clausola 5, punto 1, della dir. n. 99/70/CE, tali da rendere compatibile con il diritto europeo una normativa che non prevede il diritto al risarcimento del danno.
Sulla questione delle supplenze annuali su organico “di diritto” (art. 4 co. 1, l. n. 124/1999), fonte per anni di un contenzioso alluvionale, si è pronunciata la Corte di giustizia (C. giust., 26.11.2014, cit.), su un rinvio pregiudiziale sollevato in modo inedito dalla nostra Corte costituzionale (C. cost., ord., 18.7.2013, n. 207), chiarendo che nel suddetto settore la normativa non contempla alcuna misura di prevenzione (Aimo, M., I precari della scuola tra vincoli europei e mancanze del legislatore domestico, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 240/2015; Garzia, A.G., Il precariato scolastico: diritti risarcitori e novità legislative, in Lav. prev. oggi, 2015, 9-10, 535).
Non consente infatti di verificare concretamente, in modo obiettivo e trasparente, l’esistenza di una reale esigenza temporanea, né prevede un limite massimo alla durata dei contratti, né l’indicazione di un numero massimo di rinnovi. Né, infine, contempla una sanzione sufficientemente effettiva e dissuasiva vista l’impossibilità di richiedere il risarcimento dei danni e la possibilità alquanto aleatoria dell’immissione in ruolo del supplente per effetto dell’avanzamento in graduatoria (De Luca, M., Un grand arrêt della Corte di giustizia dell’Unione europea sul nostro precariato scolastico statale: il contrasto con il diritto dell’Unione, che ne risulta, non comporta l’espunzione dal nostro ordinamento, né la non applicazione della normativa interna confliggente (prime note in attesa dei seguiti), in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 237/2015, 20).
Parallelamente, la Corte costituzionale (C. cost., 20.7.2016, n. 187) ha recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale normativa, per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in relazione alla clausola 5 dell’accordo quadro, precisando tuttavia che, a seguito dei vari interventi – anche transitori – effettuati dal legislatore nel 2015, emerge ormai l’esistenza di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di giustizia.
La l. n. 107/2015 ha infatti attivato procedure di “stabilizzazione” su larga scala dei precari della scuola statale (cfr. d.P.R. del 14.9.2015; e d.P.C.m. 24.12.2015) e previsto che, a decorrere dal 1.9.2016, i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente, educativo, amministrativo, tecnico e ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali (v. circ. Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 3/2015), per la copertura di posti vacanti e disponibili non possono superare la durata complessiva di trentasei mesi anche non continuativi (art. 1, co. 131).
Vero è, però, che la stabilizzazione non riguarda il personale tecnico-amministrativo (De Marco, C., Il precariato pubblico tra normativa italiana e bacchettate dall’Europa (considerazioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia 26 novembre 2014), in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 243/2015, 16); non è garantita a tutti i docenti; e comunque non “cancella” il diritto al risarcimento del danno derivante dall’illegittima successione di contratti a termine (App. Roma, 16.12.2015, n. 7934, a quanto consta inedita; contra Trib. Roma, 15.9.2015, in Lav. prev. oggi, 2015, 9-10, 526 ss.).
D’altro canto, il pronunciamento citato della Corte di Giustizia così come, del resto, la novella del 2015 sulla durata massima dei 36 mesi e la decisione della Corte costituzionale, concernono le sole supplenze annuali a copertura di organico vacante e disponibile, mentre le altre supplenze “temporanee” ex art. 4 co. 2 e ss., l. n. 124/1999 sarebbero, almeno secondo una parte della giurisprudenza, sempre legittime (App. Roma, 15.2.2016, n. 8798 e 22.4.2016, n. 1528, a quanto costa inedite; sulla scia di C. giust., 23.4.2009, C-378/07 a C-380/07, Angelidaki e altri c. Organismos Nomarchiakis Autodioikisis Rethymnis, punti 101 e 102, nonché 26.1.2012, C‑586/10, Kücük c. Land Nordrhein-Westfalen, punti 30 ss.) nel senso che ragioni oggettive e contingenti (co. 3) o un intrinseco connotato di temporaneità (co. 2) escluderebbero la configurabilità di abusi nella reiterazione degli incarichi temporanei.
E tuttavia tale automatismo non è affatto scontato, in quanto non può escludersi che il rilievo paradigmatico attribuito al requisito della temporaneità (C. giust. Kücük, cit, punto 40; Cass. 16.12.2015, n. 25301) consenta di ritenere parimenti illegittime anche quelle supplenze che, seppur non destinate a coprire posti stabilmente vacanti, siano comunque dirette, di fatto, a soddisfare esigenze durevoli del datore (Leccese, V., La compatibilità della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato con la direttiva n. 99/70, in Riv. giur. lav., 4, 2014, 726).
Ciò vuol dire che il requisito della temporaneità delle esigenze può considerarsi insito, di regola, nel termine di durata massima ma, se non v’è tale limite, il giudice sarà chiamato ad accertare la sussistenza o meno della temporaneità delle esigenze sottese alla stipula dei contratti a termine (C. giust. 13.3.2014, C-190/13, Márquez Samohano c. Universitat Pompeu Fabra, punto 60; Santoro-Passarelli, G., Contratto a termine e temporaneità delle esigenze sottostanti, in Argomenti dir. lav., 1, 2015, 191 ss.).
Ragion per cui, una volta accertato che, in concreto, quelle esigenze non hanno natura temporanea o eccezionale e siano pertanto destinate a soddisfare bisogni durevoli, il giudice nazionale, in modo conforme al diritto europeo, dovrà dichiarare la nullità dei contratti e condannare al risarcimento del danno (v. supra, § 5): del resto, la normativa speciale del settore scuola non è incompatibile con quella contenuta nell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, ma si pone nel solco di quest’ultima, come conferma l’art. 70, co. 8, del medesimo decreto.
Non può escludersi altrimenti che possa trovare ulteriori spazi quella isolata giurisprudenza secondo la quale, in assenza di sanzioni efficaci, occorre dare luogo alla conversione (Trib. Livorno, 26.11.2010, in Dir. rel. ind., 2011, 470; Trib. Siena, 27.9.2010, in Lav. pubbl. amm., 2010, 885 ss., con nt. di A. Preteroti; Trib. Napoli, 21.1.2015, n. 528; Trib. Crotone, 10.2.2015, n. 116 e Trib. Locri, 15.4.2015, n. 808, a quanto consta inedite).
Art. 97 Cost., dir. n. 70/1999/CE; art. 4, l. 3.5.1999, n. 124; artt. 2, co. 2, 36 e 70 co. 8, d.lgs. 30.3.2001, n. 165; artt. 19-29, d.lgs. 15.6.2015, n. 81; l. 13.7. 2015, n. 107.
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