Contratti del mercato finanziario
Prendendo spunto da un documento di consultazione messo in circolazione dalla Commissione europea sul finire dello scorso anno, in vista di possibili modifiche da apportare alla vigente normativa in materia di mercati ed intermediazione finanziaria, si esamina l’evoluzione che tale normativa ha avuto in ambito nazionale, anche sotto la spinta dell’apertura dei mercati a forme di confronto internazionale, che, per alcuni aspetti, hanno posto gli ordinamenti dei singoli Paesi in competizione tra loro. Viene in particolare evidenziato il ruolo degli intermediari finanziari nella tutela del risparmio e la conseguente attenzione dedicata dal legislatore sia ai moduli organizzativi interni delle imprese d’intermediazione finanziaria sia alla disciplina dei contratti relativi alla prestazione di servizi d’investimento. Particolare attenzione viene dedicata ad alcuni aspetti problematici sui quali la giurisprudenza ha avuto più spesso occasione di esercitarsi: i requisiti di forma, la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento e la responsabilità derivante dall’inadempimento o dal non perfetto adempimento.
Nell’anno 2011 i mercati finanziari del mondo intero hanno conosciuto drammatiche fibrillazioni, che hanno messo a repentaglio l’assetto economico complessivo di interi Stati, e non dei meno importanti sulla scala planetaria. Non sorprende certo che le preoccupazioni scaturite da simili eventi e le riflessioni che ne sono seguite abbiano soprattutto interessato la dinamica economica di tali fenomeni e che anche i possibili rimedi siano stati affannosamente ricercati principalmente sul piano economico, mentre i profili giuridici della regolamentazione dei mercati sono stati investiti dalla discussione solo di riflesso, nella misura in cui si è ritenuto che questo o quell’intervento regolatorio potesse eventualmente favorire l’effetto economico desiderato. Anche in epoca di dilagante analisi economica del diritto, del resto, i rapporti tra giuristi ed economisti non sono mai stati del tutto agevoli. Pur in questa complicata temperie, val forse la pena di volgere l’attenzione ad alcuni aspetti dell’assetto regolamentare del mercato, solo apparentemente meno attuali, per riflettere sulle loro prospettive di cambiamento, prendendo spunto da un articolato documento di lavoro che, verso la fine dello scorso anno, l’8.12.2010, la Commissione europea ha offerto alla pubblica consultazione1. Vi si prefigurano le linee di una possibile revisione della direttiva 2004/39/CE del 21.4.2004 (cd. direttiva MiFid)2 ed, anche se il preambolo avverte che quanto indicato nel documento non è espressione di un intento riformatore già definito, è ragionevole prevedere che, in un futuro abbastanza prossimo, la citata direttiva – che già aveva modificato le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, abrogando la precedente direttiva 93/22/CEE del Consiglio – sarà a propria volta modificata. Si ripete spesso che la dinamicità è una caratteristica connaturata al modo di essere dei mercati finanziari. La rapidità delle contrattazioni e l’incorporeità dei beni scambiati, specialmente in un’epoca nella quale la circolazione dei capitali quasi non conosce frontiere e gli strumenti telematici consentono agli operatori d’impartire e ricevere ordini pressoché in ogni angolo del mondo nell’arco di frazioni di secondo, hanno vieppiù contribuito ad accentuare tale caratteristica e, con essa, il grado di relativa instabilità che in quei mercati sempre serpeggia. Ma l’instabilità cui generalmente si allude riguarda, ovviamente, l’andamento delle quotazioni dei titoli trattati, mentre negli ultimi tempi s’è andata diffondendo nei mercati finanziari anche un’instabilità di altro genere. Intendo riferirmi all’instabilità delle regole: regole di varia fonte e di diverso livello, ora sovranazionali, ora dettate dai legislatori dei singoli Stati, talvolta promananti da organismi o da autorità amministrative a ciò delegate, altre volte frutto di autoregolamentazione più o meno vigilata da quelle medesime autorità. Che il mercato sia un locus artificialis, la cui stessa esistenza non può prescindere dalla regolazione giuridica, è affermazione largamente condivisa3. Quel che però oggi impressiona è il numero delle regole, la varietà dei profili da esse disciplinati e, soprattutto negli ultimi tempi, la rapidità con cui quelle regole variano: donde, appunto, l’instabilità normativa alla quale prima si accennava e che, come lascia presagire il citato documento della Commissione comunemente ormai denominato Mifid review, sembra destinata ancora a protrarsi nel futuro. Non sempre è stato così nel nostro Paese. Fin circa alla metà degli anni settanta del secolo passato la disciplina del mercato borsistico italiano, di dimensioni alquanto contenute ed assai inferiori a quelle dei più importanti mercati europei ed americani, era prevalentemente affidata ad usi da gran tempo invalsi nel settore, ben conosciuti solo da una ristretta cerchia di operatori del ramo e dei quali assai raramente capitava di dover discutere in un’aula di giustizia. Negli anni successivi il legislatore ha gradualmente preso maggiore coscienza di questo mondo, da principio quasi con una certa diffidenza, ma si è dovuto attendere la l. 2.1.1991, n. 1 per avere una prima disciplina (relativamente) organica delle società d’investimento mobiliare (Sim) e, più in generale, del fenomeno dell’intermediazione mobiliare, che vedeva ormai rapidamente tramontare la vecchia figura dell’agente di cambio. Già nuove direttive europee erano però alle porte, e tra esse la citata direttiva 93/22/CEE, relativa ai servizi d’investimento nel settore dei valori mobiliari, e la direttiva 93/6/CEE sull’adeguatezza patrimoniale delle imprese d’investimento e degli enti creditizi, per recepire le quali fu emanato in Italia il d.lgs. 23.7.1996, n. 415, che, oltre a rivisitare la disciplina degli intermediari, innovò radicalmente quella dei mercati finanziari, che furono privatizzati4. Ma ormai il movimento era divenuto inarrestabile: solo due anni dopo fu infatti realizzato un progetto normativo ancor più ambizioso, con l’emanazione del cd. testo unico della finanza (d. lgs. 24.2.1998, n. 58: t.u.f.)5, che intese rimettere ordine nel triplice settore dell’organizzazione e gestione dei mercati finanziari regolamentati, della prestazione dei servizi d’investimento e dell’operatività degli emittenti strumenti finanziari quotati (le cd. società quotate), dettando al tempo stesso disposizioni rilevanti sul piano del diritto amministrativo6, del diritto commerciale7 e del diritto penale8. Fu anche molto ampliata, in quel contesto, l’area della regolamentazione secondaria, affidata alle autorità di vigilanza, cui venne demandato il compito di formulare in molti settori una disciplina di maggior dettaglio, al tempo stesso più flessibile ed, alla bisogna, più agevolmente modificabile. Il testo unico, nelle intenzioni dei redattori, avrebbe dovuto costituire, probabilmente, un punto fermo ed, in qualche modo, lo è stato: perché tuttora esso costituisce la principale base normativa dei mercati finanziari e delle operazioni che vi si compiono. Tuttavia, anche sulla spinta degli scandali e delle crisi finanziarie che hanno punteggiato il primo decennio di questo secolo, l’irrequietezza del legislatore – sia quello comunitario, sia quello nazionale – non è affatto cessata. Della direttiva MiFid e delle sue successive integrazioni s’è già detto9 e, quanto alla normativa nazionale, sarebbe lungo e noioso fare l’inventario degli interventi legislativi che si sono succeduti: basta porre mente a quanti articoli del testo unico recano la numerazione bis, ter, quater ecc., per rendersi conto di come anche quel testo sia stato interessato da ripetute e frequenti modifiche. Certo, non è più tempo di leggi scolpite nel bronzo, e ciò vale per tutti i settori del diritto, ma è difficile allontanare l’impressione che, nell’ambito specifico dei mercati finanziari, la velocità di ricambio delle regole (europee e nazionali, primarie e secondarie) negli ultimi tempi sia stata davvero eccessiva. Testimonianza, forse, di una qualche intrinseca difficoltà che i legislatori10 incontrano nel disciplinare realtà per molti versi sfuggenti, dinamiche e rischiose al tempo stesso, rispetto alle quali risulta assai problematico definire il giusto punto di equilibrio tra la preoccupazione di non incepparne gli intrinseci meccanismi di sviluppo e l’esigenza di tutelare il risparmio impedendo che se ne abusi.
Lo sviluppo economico del Paese e la tutela del risparmio (valore, quest’ultimo, di livello costituzionale perché richiamato dall’art. 47 della Carta), ai quali la disciplina dei mercati finanziari dovrebbe tendere, a prima vista non paiono certo obiettivi antitetici. Un mercato efficiente, in cui siano adeguatamente garantiti la correttezza e la trasparenza dei comportamenti, al pari della solidità e dell’affidabilità patrimoniale degli investitori istituzionali e degli intermediari, dovrebbe poter costituire una valida opzione d’investimento per i risparmiatori e, per ciò stesso, un utile bacino di finanziamento per le imprese manifatturiere. Una delle molle che, sul finire dello scorso secolo, hanno spinto il legislatore italiano a tentare di meglio conformare la disciplina del nostro mercato di borsa è stata proprio questa: la convinzione che occorresse dotare il Paese di uno strumento di finanziamento delle imprese alternativo a quello bancario, più simile al modello anglosassone della public company, con un approccio che, come spesso si è ripetuto, fosse più market oriented. A distanza di oltre un decennio, dopo che i mercati finanziari sono stati attraversati da terribili crisi, che sembrano ancora ben lungi dall’essere esaurite, è lecito dubitare del raggiungimento di un simile obiettivo. Non ho l’ambizione d’indagare le cause di fenomeni così complessi, ma mi pare si possa con qualche ragione affermare che l’idea secondo la quale l’efficienza allocativa dei mercati avrebbe necessariamente premiato quelli nei quali il risparmio fosse risultato meglio tutelato si è mostrata almeno in parte fallace. In un mondo di capitali senza frontiere e di prevalenza dell’economia finanziaria su quella manifatturiera, si è diffusa l’idea che gli ordinamenti debbano competere tra loro11 e non si è esitato a parlare di un mercato delle regole12; ma lo stimolo a competere è consistito spesso non tanto nel più elevato livello di tutela garantito al risparmio affluente sui mercati, secondo una logica di lungo o medio periodo, quanto, viceversa, nella maggiore libertà consentita ad operazioni speculative ad alto rischio, incentivate dalla prospettiva di forti guadagni nel breve periodo anche per gli intermediari finanziari. Se tutto questo ha provocato quel senso ben palpabile di delusione che oggi serpeggia nei mercati finanziari, appare nondimeno tuttora assai forte, nel mondo del diritto, l’impronta prodotta dall’orientamento «mercatista» degli ultimi decenni. È un’impronta che, ovviamente, discende anche dalla matrice comunitaria, presente ormai in moltissime disposizioni dell’ordinamento nazionale, e quindi dal fatto che il mercato ha storicamente rappresentato il perno intorno al quale si è costruita la Comunità europea, tuttora costituendo uno dei pilastri fondamentali dell’Unione. La collocazione nell’ottica del mercato continua perciò a condizionare in modo significativo l’approccio giuridico sia ai temi dell’impresa sia a quelli dei contratti: in generale e con particolare evidenza nel settore dei mercati finanziari.
La collocazione in un mercato finanziario influenza indubbiamente la disciplina giuridica di ogni impresa che, a vario titolo, a quel mercato stabilmente si rapporti; ed è significativo come, soprattutto a partire dall’entrata in vigore del citato testo unico del 1998, lo statuto legale delle società che emettono strumenti finanziari quotati sia andato assumendo un grado di specialità assai più pronunciato, che si riflette sulla stessa tassonomia dei tipi e sottotipi societari13. Qui s’intende però focalizzare l’attenzione altrove: non sulle imprese che emettono strumenti finanziari destinati ad essere scambiati sul mercato, bensì su quelle che svolgono funzione d’intermediazione tra dette imprese e la vasta platea degli investitori. È del tutto evidente che, per la natura stessa dei prodotti che formano oggetto degli scambi, i mercati finanziari richiedono agli operatori una particolare competenza ed esperienza. Deriva da ciò la straordinaria importanza che riveste in quest’ambito la funzione degli intermediari, una volta impersonati dalla tradizionale figura dell’agente di cambio cui ora, come già prima s’è avuto modo di ricordare, sono subentrate le ben più complesse organizzazioni facenti capo agli istituti di credito, alle società d’intermediazione mobiliare, alle società di gestione del risparmio ed agli altri enti autorizzati a svolgere compiti siffatti, soggetti alla vigilanza delle autorità pubbliche preposte al mercato. Si tratta di enti che generalmente sono tenuti ad assumere la veste di società azionaria, ma per i quali, accanto alle regole generali disciplinanti questo tipo di società, è prevista una serie di disposizioni di diritto speciale. L’esame di tali disposizioni sarebbe qui fuori luogo, ma val la pena di notare come la percezione del ruolo fondamentale che gli intermediari espletano sul mercato finanziario e di quanto dal loro operare dipenda l’efficienza del mercato stesso, la fiducia degli investitori ed, in definitiva, la tutela effettiva di larghe fette del risparmio nazionale, abbia indotto sin da principio il legislatore non solamente a prefigurare i requisiti necessari per lo svolgimento dell’attività d’intermediazione finanziaria, ma anche in parte a disciplinare i moduli organizzativi interni di queste imprese, oltre che i contratti attraverso i quali esse entrano in rapporto con gli investitori. L’intervento normativo – primario e secondario – si è sviluppato lungo una falsariga che ha coinvolto gli istituti di credito per profili di stabilità, anche in ossequio ai ripetuti accordi internazionali raggiunti nell’ambito del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, e poi ha riguardato gli altri intermediari finanziari per profili di trasparenza e correttezza dell’agire, interessando altresì aree, come quella della formulazione dei contratti e dell’organizzazione interna dell’impresa, tradizionalmente connotate da un forte livello di autonomia negoziale ed imprenditoriale, con un certo grado di commistione tra regole privatistiche ed esigenze pubblicistiche, che dà ragione del già notato sovrapporsi dei piani del diritto commerciale, di quello amministrativo e di quello penale. Quanto, in particolare, alle regole organizzative interne, va detto che esse ci appaiono oggi meno eccentriche di quanto lo sarebbero state in passato, dal momento che anche nel diritto comune delle società azionarie la riforma attuata col d.lgs. 17.1.2003, n. 6 ha introdotto norme, quali quelle del terzo e quinto comma dell’art. 2381 e del primo comma dell’art. 2403 c.c., che attribuiscono esplicita valenza giuridica all’adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, con possibili ricadute in termini di responsabilità degli organi sociali che di quegli assetti non si siano fatti doverosamente carico. Ma, nel settore dell’intermediazione mobiliare, così come in quelli bancario ed assicurativo, la normativa è ben più stringente14. In attuazione della già citata direttiva MiFid, infatti, il comma 2 bis dell’art. 6 del t.u.f. ha demandato ad un regolamento congiunto della Banca d’Italia e della Consob il compito di prefigurare non solo i requisiti generali di organizzazione dell’impresa (lett. a), ma anche una minuta serie di profili attinenti all’amministrazione, alla tenuta della contabilità, al controllo interno, alla gestione del rischio, alla responsabilità della dirigenza, alle registrazioni, al trattamento dei reclami e così via (lett. da . ad n). Ed a tanto le due autorità di vigilanza hanno provveduto, emanando il regolamento congiunto del 29.10.200715. Siffatta regolazione dovrebbe essere rispettosa dell’autonomia decisionale dei soggetti abilitati alla prestazione dei servizi d’investimento, come prescritto dal comma 01, lett. a), del citato art. 6, e dovrebbe ispirarsi al principio di proporzionalità16, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari, secondo l’indicazione della successiva lett. b). Non può tacersi invece l’impressione, benché ragioni di spazio impediscano di procedere qui ad un’analisi più puntuale, che si tratti di una normativa eccessivamente minuziosa17, modellata soprattutto sulle esigenze della vigilanza18. Si comprende agevolmente come una regolazione dettagliata e penetrante di tutti gli aspetti dell’agire dell’impresa possa dare conforto a chi, assetato di certezza giuridica, soprattutto si preoccupa di poter definire ex ante il confine tra ciò che è corretto fare e ciò che non lo è. Si tratta di un’esigenza reale, particolarmente avvertita – allo stesso modo dai vigilati e dai vigilanti – specie in settori ad alto tasso di dinamismo, quale certamente è quello dei mercati finanziari. Ma, proprio per l’intrinseca dinamicità di un tale settore e per la conseguente necessità di adeguare costantemente l’agire dell’impresa a situazioni nuove, un simile approccio può risultare sovente inadeguato, perché rischia di ridurre il rispetto della regola ad un mero adempimento burocratico finendo per tradirne lo scopo e quindi per vanificarla. Non si discute dell’opportunità di attribuire significato giuridico al modo in cui l’impresa si organizza quando, come nel caso in esame, ne possano derivare conseguenze rilevanti anche per la tutela dei terzi. Ma questo non significa che qualsiasi regola tecnica di organizzazione aziendale debba assurgere al rango di norma di diritto. L’eccesso di giuridificazione, che anche in altri settori spesso caratterizza i moderni ordinamenti19, appare particolarmente pernicioso in un settore in cui la rapidità dell’evoluzione e la varietà delle situazioni concrete richiedono un affinamento continuo delle tecniche organizzative ed una duttilità di approccio ai quali una regolazione per principi assai meglio si presterebbe che non la pigra verifica di lunghe liste di minuziosi adempimenti burocraticamente prescritti. Ma nulla fa pensare ad un’inversione della tendenza in atto: la MiFid review, della quale all’inizio si è detto, sembra anzi muoversi sempre più nella direzione di una disciplina organizzativa spinta sino ai dettagli20.
3.1 Regole del contratto e regole del mercato
Il diritto dei contratti è un ceppo antico, che nasce dall’esigenza primaria di regolare rapporti interpersonali del più vario oggetto e che ha conosciuto nel tempo un’amplissima elaborazione teorica e giurisprudenziale. La sua naturale collocazione nel codice civile rispecchia, appunto, il carattere generale dell’esigenza dalla quale la stessa nozione giuridica di contratto trae origine e vale tuttora a delinearne i tratti essenziali. Nondimeno, per effetto della sempre maggiore complessità delle società moderne, in cui le relazioni giuridiche si sviluppano secondo moduli vieppiù diversi, si è fatta strada da alcuni anni una visione più articolata del fenomeno e si è cominciato a parlare di diritto dei contratti al plurale21. Anche a questo hanno contribuito, naturalmente, il confronto e l’integrazione col diritto comunitario, non tanto in conseguenza dell’elaborazione di una figura generale di contratto, che nella legislazione europea non si è ancora compiutamente delineata22, quanto piuttosto per l’infittirsi di disposizioni afferenti alla disciplina di settori specifici, destinate a riflettersi sui rapporti contrattuali inerenti a quei medesimi settori23. Non sorprende certo, perciò, che le regole del contratto subiscano delle torsioni anche quando incontrano la disciplina del mercato, ed in particolare quella del mercato finanziario. Vastissima è infatti l’area delle possibili interferenze tra il diritto dei contratti e la disciplina propria del mercato, gestito secondo un modello privatistico ma pur sempre intriso di interessi di natura pubblica o comunque di interessi generali che trascendono quelli dei singoli contraenti. Basti pensare alla normativa sulla concorrenza24, oppure all’ampia disciplina dei contrati dei consumatori25 e, per restare nell’ambito dei mercati finanziari, al regime della sollecitazione all’investimento e delle offerte pubbliche di acquisto e scambio di strumenti finanziari quotati. Qui, però, s’intende circoscrivere il discorso all’area dell’intermediazione finanziaria e dei servizi d’investimento ad essa inerenti, i quali comportano l’instaurazione di rapporti contrattuali la cui regolazione giuridica riposa in parte sulle disposizioni generali applicabili allo strumento negoziale in concreto adoperato ed in parte su disposizioni dettate per soddisfare esigenze specificamente legate alle caratteristiche proprie di quel tipo di mercato. Anche questa sola area, a dire il vero, è troppo ampia e densa di nodi problematici per poter essere esplorata con completezza in questa sede, non foss’altro perché occorrerebbe tenere conto della varietà dei rapporti contrattuali corrispondenti ai diversi servizi d’investimento contemplati dal legislatore, che non sempre si prestano ad un discorso unitario. Si è negata, d’altronde, la possibilità stessa di ricondurre i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento, cui allude l’art. 23 t.u.f., ad un tipo contrattuale a sé stante (fatta salva l’eventualità che alcuni di quei contratti siano considerati come sottotipi di altre figure contrattuali) e si è sottolineato come, riguardo ad essi, è lecito solamente parlare di una «categoria» di contratti, che restano tra loro diversi ma sono presi in esame congiuntamente dal legislatore unicamente per dettare alcune regole ispirate ad una medesima finalità26. Ed, in effetti, benché si tratti pur sempre, ovviamente, di strumenti negoziali conformati dall’autonoma scelta dei contraenti, particolari esigenze di tutela degli investitori (di cui meglio poi si dirà) hanno indotto il legislatore a prevedere direttamente una non piccola serie di obblighi e di diritti nascenti da quei medesimi contratti, o ad essi inerenti, sicché il loro contenuto è almeno in parte legalmente predeterminato, al pari delle modalità della stipulazione ed, in particolare, del tipo di verifiche e di informazioni reciproche che alla stipulazione debbono accompagnarsi.
3.2 I contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento
L’elemento che maggiormente accomuna i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento risiede nella speciale considerazione in cui il legislatore – quello comunitario non certo meno di quello nazionale – mostra di tenere le esigenze dell’investitore27. È appunto per soddisfare tali esigenze che la disciplina dei contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento presenta non poche divaricazioni rispetto alla normativa generale. Ma è bene tener presente che quel che soprattutto sta a cuore al legislatore, in quest’ambito, è la regolazione non tanto del contratto, in quanto tale, bensì dell’attività di prestazione dei servizi d’investimento, rispetto alla quale la stipulazione di contratti è strumentale, perché è appunto nello svolgimento di quell’attività – prima, durante e dopo il perfezionamento di singoli atti negoziali – che occorre assicurare un adeguato livello di tutela per l’investitore e salvaguardare l’integrità del mercato28. La ragione di questa particolare protezione dell’investitore finanziario in buona parte coincide con quella che è a base della normativa di tutela del consumatore, anch’essa sviluppatasi nel nostro paese soprattutto per impulso del diritto comunitario29. Si vuole rinforzare la posizione di chi, acquisendo sul mercato beni o servizi per scopi estranei alla propria attività professionale, e quindi essendo presumibilmente privo di specifiche conoscenze ed esperienze in grado di renderlo più accorto nell’acquisto, si trova in una situazione d’inferiorità conoscitiva rispetto al venditore del bene o al fornitore del servizio. La logica che ispira siffatta normativa non è perciò del tutto coincidente con quella tradizionale del diritto dei contratti. Lì si presuppone una teorica posizione di equivalenza delle parti e gli effetti giuridici del vincolo contrattuale vengono ricondotti all’incontro di volontà negoziali astrattamente considerate come paritetiche; qui, invece, il contratto è concepito come frutto di un rapporto squilibrato all’origine, in cui, proprio per sopperire a quello squilibrio, una delle parti necessita di maggior tutela rispetto all’altra. È, insomma, sotto questo aspetto, una forma più moderna di tutela del contraente debole. Regge però solo fino ad un certo punto l’assimilazione tra la figura del consumatore, come sopra delineata, e quella di chi investe nel mercato finanziario. Essa è plausibile fin quando l’investitore s’identifica con il generico risparmiatore (il cd. cliente al dettaglio), che investe il proprio denaro a scopi eminentemente conservativi essendo però privo di particolari nozioni ed esperienze nel settore della finanza e, perciò stesso, trovandosi in posizione di asimmetria rispetto all’intermediario con cui contratta, perché costretto in larga misura ad affidarsi a quest’ultimo per la conoscenza e la comprensione dei dati sui quali basare le proprie decisioni30. L’assimilazione diviene però meno plausibile quando l’investitore sia anch’egli dotato di conoscenze ed esperienza finanziarie, come non di rado accade per gli investimenti a carattere più marcatamente speculativo, onde la sua posizione di debolezza rispetto alla controparte contrattuale è assai meno accentuata, o addirittura non sussiste affatto. La normativa sui contratti d’investimento finanziario non trascura questa differenza, come testimonia il cd. principio di graduazione31 invocato dal considerando 31 della Direttiva 2004/39/CE, che trova ora espressione nell’art. 6, co. 2, t.u.f., in attuazione del quale anche la regolazione secondaria è stata modulata tenendo conto delle «differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’ esperienza professionale dei medesimi»32. Ma, anche se graduata in relazione alle differenti esigenze di tutela cui s’è fatto cenno, agli occhi del legislatore la posizione dell’investitore rimane comunque preminente, perché molte regole – e sono quelle di portata più generale, a cominciare dalla fondamentale disposizione secondo cui gli obblighi di comportamento gravanti sugli intermediari sono finalizzati a servire al meglio l’interesse dei clienti, oltre che a salvaguardare l’integrità dei mercati (art. 21, co. 1, lett. a, t.u.f.) – non distinguono tra cliente e cliente e sono destinate ad applicarsi a prescindere dalla qualità e dall’esperienza professionale dell’investitore. Il che, da un lato, trova spiegazione nel fatto che la stipulazione di questo genere di contratti implica comunque un atto di affidamento nell’operare dell’intermediario, pur se da parte di un cliente professionalmente e culturalmente attrezzato, il quale per lo più demanda anch’egli all’intermediario il compimento d’indagini, verifiche e valutazioni tecniche delle quali non può o non trova conveniente farsi direttamente carico; dall’altro lato, si giustifica con la necessità, appunto, di garantire e rafforzare il meccanismo di fiducia insito in tal genere di rapporti, sul presupposto che in ciò risiede un elemento cardine del buon funzionamento del mercato nel suo insieme33, come è reso palese dall’accostamento tra la tutela dell’interesse dei clienti e dell’integrità del mercato nella già citata disposizione dell’art. 21, ad ulteriore conferma di quell’intreccio tra profili privatistici e pubblico interesse già in precedenza sottolineato34. Naturalmente non mancano anche disposizioni volte a temperare il rischio di un’eccessiva rigidità del sistema, escludendo o attenuando gli obblighi di tutela del cliente gravanti sull’intermediario in relazione al tipo di prestazione richiesta. È il caso dei cosiddetti servizi di execution only, nei quali l’attività dell’intermediario consiste nella mera esecuzione o ricezione di ordini su iniziativa del cliente: servizi che possono esser prestati senza la altrimenti necessaria valutazione di appropriatezza dell’operazione (con il complesso apparato d’informazioni che ne consegue), quando si abbia a che fare con strumenti finanziari quotati «non complessi», a condizione che il cliente ne sia stato previamente reso edotto (artt. 43 e 44 del regolamento Consob). Ma, proprio a questo riguardo, potrebbe tornare a manifestarsi a breve quel fenomeno d’irrequietezza normativa di cui da principio si diceva, perché nella documento posto in consultazione dalla Commissione europea in vista della già menzionata MiFid review si denuncia un eccessivo grado d’incertezza circa la nozione di strumento finanziario non complesso e si propone, alternativamente, di elaborare più stringenti disposizioni al fine di escludere da tale ambito alcuni valori mobiliari considerati potenzialmente non abbastanza innocui oppure di eliminare senz’altro ogni deroga inerente alla prestazione del servizio di execution only35. Fatte queste generali premesse, poiché s’è già detto che un esame completo e puntuale di tutti i diversi aspetti della disciplina giuridica dei contratti tra intermediari finanziari ed investitori eccederebbe di gran lunga i limiti di questo scritto, ci si limiterà ora a porre in evidenza soltanto alcuni tra i tanti profili critici che l’esperienza ha fatto emergere in questo settore e dei quali, negli ultimi anni, agli operatori forensi è più spesso capitato di doversi occupare. Le osservazioni che seguono si rivolgeranno quindi, anzitutto, alla struttura dei contratti disciplinati dal citato art. 23 t.u.f., poi al rapporto tra le regole di validità cui tali contratti debbono sottostare e quelle di comportamento da rispettare nella fase della loro stipulazione ed in quella dell’esecuzione, infine ad alcuni aspetti del regime di responsabilità derivante dall’inadempimento o dal non esatto adempimento di quei medesimi contratti.
3.3 (Segue) a) Struttura e forma
S’è già osservato che molte delle regole dettate per disciplinare lo svolgimento dei servizi d’investimento ed il comportamento degli intermediari nella prestazione di tali servizi si riflettono, inevitabilmente, anche sul contenuto dei rapporti contrattuali che i medesimi intermediari instaurano con i propri clienti. Poche sono, però, le disposizioni volte direttamente a regolare in via generale la formazione dei contratti in questo specifico settore: l’art. 23 t.u.f. e l’art. 37 del regolamento Consob n. 16190 del 29.10.2007 (il cui successivo art. 38 riguarda invece i contratti riguardanti il solo servizio di gestione di portafogli). Tali servizi, fatta eccezione per la consulenza finanziaria, possono esser forniti dall’intermediario a clienti al dettaglio, secondo quanto dispone il primo comma del citato art. 37 del regolamento, soltanto «sulla base di un apposito contratto scritto»36. La disposizione è palesemente ispirata all’art. 39 della direttiva n. 2006/73/CE, che fa obbligo agli Stati membri di subordinare la prestazione dei servizi d’investimento diversi dalla consulenza alla conclusione, tra l’intermediario ed un «nuovo» cliente al dettaglio, di «un accordo di base scritto su carta o altro supporto durevole» dal quale risultino i diritti e gli obblighi essenziali dei contraenti (eventualmente determinabili anche per relationem ad altri documenti o testi giuridici). Il rapporto di derivazione esistente tra le due norme appena citate ha indotto la maggioranza degli interpreti a ritenere che l’«apposito contratto scritto» menzionato nell’art. 37 del regolamento Consob sia destinato a svolgere, rispetto agli eventuali atti negoziali conseguenti, la funzione corrispondente a quella di un cd. contratto-quadro (l’«accordo di base» di cui parla la direttiva) 37. Si è però anche autorevolmente affermato che si tratterebbe di un contratto riconducibile alla figura del mandato e che gli eventuali ordini successivamente impartiti dal cliente all’intermediario in attuazione di esso avrebbero natura di atti unilaterali, idonei a produrre effetti traslativi in capo al cliente-mandante non appena l’intermediario-mandatario vi abbia dato corso38. Altra parte della dottrina preferisce non prendere posizione sulla natura del contratto, limitandosi ad evidenziare il necessario collegamento negoziale tra il cd. contratto-quadro ed i successivi ordini impartiti dal cliente all’intermediario, con la precisazione che tratterebbesi però di un collegamento unilaterale, nel senso che gli eventi da cui sia colpito il primo travolgono i secondi ma non viceversa39. La questione, nel caso assai frequente in cui il rapporto sia duraturo nel tempo e si sviluppi attraverso una serie di successivi ordini di acquisto o vendita impartiti dal cliente all’intermediario, assume rilevanza pratica soprattutto nella misura in cui se ne vogliano far discendere conseguenze circa i requisiti formali che debbono rivestire tali ordini. L’art. 23 t.u.f., infatti, nel prescrivere la forma scritta per i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento40, con la sola eccezione del servizio di consulenza (salvo altre deroghe regolamentari rimesse alla Consob, sentita la Banca d’Italia), non fa cenno al contratto-quadro o ad altra analoga figura: il che ha indotto una parte della giurisprudenza a ritenere che l’indicato requisito della forma scritta – la cui mancanza dà luogo ad un’ipotesi di nullità relativa, rilevabile unicamente da parte del cliente nel cui interesse la norma è dettata (art. cit., co. 3) – valga non solo per detto contratto-quadro, ma anche per i successivi ordini del cliente, intesi come proposte di altrettanti contratti cui si correla l’accettazione dell’intermediario che quegli ordini esegua41. Questa tesi appare, però, scarsamente persuasiva: non tanto per ragioni d’inquadramento dogmatico, quanto in base a considerazioni sistematiche ed alle indicazioni ricavabili dal testo stesso della normativa. S’è già sottolineata, in primo luogo, la necessità di leggere la normativa italiana alla luce di quella comunitaria, che ne costituisce il necessario presupposto. E si è anche già rilevato come l’art. 39 della direttiva n. 2006/73/CE richieda la stipulazione di «un accordo di base scritto su carta o altro supporto durevole» solo per la prestazione di servizi d’investimento in favore di un «nuovo» cliente al dettaglio. Non solo, quindi, il requisito della forma scritta (o equivalente) è qui riferito unicamente ad un tipo di accordo corrispondente a quello che da noi è ormai invalso definire come contratto-quadro, e non anche agli altri successivi atti negoziali posti in esser sulla base di esso, ma soprattutto è indicativo che detto requisito sia prescritto soltanto per l’instaurazione di rapporti con nuovi clienti. Il che sta chiaramente a significare che il legislatore europeo ha avuto riguardo al momento in cui per la prima volta sorge il rapporto tra intermediario e cliente, e che analogo requisito formale non ha invece inteso richiedere per i contatti ulteriori, quali quelli che si realizzano in occasione degli ordini impartiti in un momento successivo da chi la qualifica di cliente abbia già assunto. Inoltre, non può trascurarsi che il secondo comma dello stesso citato art. 37 del regolamento, nell’elencare gli elementi che costituiscono il contenuto necessario dell’«apposito contratto scritto» indicato nel comma precedente, vi include anche «le modalità attraverso cui il cliente può impartire ordini e istruzioni» (lett. c). L’espressione adoperata può forse prestare argomento in favore della tesi che configura il rapporto in termini di mandato, o di contratto simile al mandato, svuotando di valenza contrattuale autonoma gli ordini impartiti dal cliente. Ma, anche restando nel solco di chi invece preferisce parlare di contratto-quadro (o di contratto normativo), appare difficilmente superabile il rilievo secondo cui, lungi dall’essere predeterminate in modo necessario dalla norma, le modalità degli ordini del cliente – e quindi la forma (scritta o meno) che essi debbono assumere – sono rimesse a quanto di volta in volta sarà stabilito nello stesso contratto-quadro42. Può aggiungersi, infine, che l’art. 13, co. 6, della direttiva n. 2004/39/CE dispone che «le imprese di investimento tengono, per tutti i servizi prestati e tutte le operazioni effettuate, registrazioni sufficienti atte a consentire all’autorità competente di controllare il rispetto dei requisiti previsti dalla presente direttiva e, in particolare di verificare che le imprese di investimento hanno adempiuto tutti gli obblighi nei confronti dei clienti o potenziali clienti»; e che l’art. 57 del regolamento Consob43 stabilisce che «gli intermediari registrano su nastro magnetico o su altro supporto equivalente gli ordini impartiti telefonicamente dai clienti, e mantengono evidenza degli ordini inoltrati elettronicamente dai clienti». Sembra lecito desumerne la conferma che, per i singoli ordini successivi alla stipulazione del contratto-quadro, si pone solo un problema di «tracciabilità», destinato ad assumere rilievo sul piano della prova, ma non si è in presenza di una forma prescritta ad substantiam acti.
3.4 (Segue) b) Regole di validità e regole di condotta
La prescrizione riguardante la forma del contratto, ricavabile dalla combinazione dei citati artt. 23 del testo unico e 37 del regolamento, quale che ne sia l’area di applicazione oggettiva, costituisce certamente una regola di validità, la cui violazione comporta la nullità dell’atto, per espressa disposizione del legislatore. E si è già sottolineato che si tratta di un’ipotesi di nullità relativa (o «di protezione»)44, che può essere fatta valere solo dal cliente. Non è l’unica regola di validità espressamente enunciata per i contratti relativi alla prestazione di servizi d’investimento. Il secondo comma del medesimo art. 23 commina la nullità anche in caso di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo e di ogni altro onere a carico del cliente, ed il secondo comma del successivo art. 24 pure sanziona con la nullità (sempre di carattere relativo) la violazione delle disposizioni dettate dal primo comma in tema di gestione di portafogli. Ma, come già accennato, la normativa (tanto quella primaria quanto quella secondaria) è focalizzata molto più sull’attività di prestazione dei servizi che non sui requisiti di validità dei contratti ad essi relativi: infatti, contiene una molteplicità di regole di comportamento che l’intermediario è tenuto a rispettare sia nella fase antecedente la stipulazione del contratto sia nella fase esecutiva, riguardanti le informazioni che l’intermediario medesimo deve procacciarsi e deve fornire al cliente, le modalità di esecuzione degli ordini, i possibili rimedi in caso di conflitto di interessi e molto altro ancora45. Donde la questione – agitata a lungo ed in modo assai vivace nelle aule di giustizia – se la violazione di siffatte regole di comportamento, oltre all’eventuale responsabilità per risarcimento del danno a carico dell’intermediario cui essa sia imputabile, determini anche la nullità dei contratti stipulati con il cliente. Questione tutt’altro che priva di risvolti concreti, perché, nella più parte dei casi, la declaratoria di nullità fa sorgere in capo al cliente, senza necessità di altra prova, il diritto di ripetere tutto quanto versato all’intermediario a scopo d’investimento e, quindi, di recuperare integralmente le eventuali perdite prodotte dal cattivo investimento; mentre – come meglio si preciserà in seguito – il dovere affidarsi alla sola tutela risarcitoria comporta per l’investitore l’onere (non sempre agevole) di dimostrare l’esistenza del danno subito e del nesso di causalità con l’illegittimo comportamento dell’intermediario, esponendo inoltre l’attore all’eventuale eccezione di aver concorso con il proprio comportamento alla produzione del danno stesso. Non essendo recepito nel nostro ordinamento il principio pas de nullité sans texte e disponendo invece il primo comma dell’art. 1418 c.c. che, salvo diversa disposizione di legge, il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative (cd. nullità virtuale), si è da più parti sostenuto che la violazione delle regole di comportamento alle quali l’intermediario è soggetto provoca senz’altro la nullità dei contratti stipulati con il cliente, dal momento che tali regole sono dettate anche per preservare l’integrità del mercato e perciò integrano, appunto, delle norme imperative. Siffatta impostazione non è stata però sposata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, pur convenendo sul carattere imperativo delle regole di condotta il cui rispetto sia imposto inderogabilmente dalla legge all’intermediario, e pur riconoscendo una tendenza dell’ordinamento ad affievolire la tradizionale distinzione tra regole di validità del contratto e regole di condotta delle parti46, ha stimato che questa tendenza non abbia ancora acquisito la consistenza di un principio consolidato e che, perciò, in difetto di indicazioni univoche di segno diverso nella normativa di settore, la suaccennata distinzione conservi valore anche in questo specifico ambito: con la conseguenza che, mentre la violazione di norme imperative concernenti la forma, la struttura o il contenuto del contratto oppure la possibilità stessa di stipularlo in difetto di determinate condizioni o requisiti è certamente idonea a cagionarne la nullità virtuale, altrettanto non può dirsi per la violazione di regole dettate per disciplinare il comportamento delle parti nella fase antecedente alla stipulazione del contratto o nell’esecuzione di esso47. Una simile conclusione – riferita evidentemente anche alla violazione di quelle regole assai importanti che sono destinate a garantire al cliente le informazioni occorrenti per compiere scelte consapevoli – lascia però aperta sia la possibilità che il comportamento precontrattuale dell’intermediario integri gli estremi del dolo, con conseguente annullabilità del contratto, sia che l’inadempimento nella fase esecutiva risulti tanto grave da giustificare la risoluzione del contratto medesimo; e resta fermo altresì il diritto al risarcimento del danno, che, secondo la Suprema Corte, ben può discendere dalla violazione di regole afferenti alla fase precontrattuale, pur quando il contratto si sia perfezionato e non risulti affetto da vizi genetici48. L’ o r i e n t amento così delineato, che è stato successivamente ancora ribadito dalla Cassazione49 ed è andato consolidandosi anche nella successiva giurisprudenza di merito, ha provocato in dottrina reazioni contrastanti50; ed è stata prospettata da taluni51 la necessità di distinguere tra l’ipotesi di violazione di specifiche regole di condotta gravanti sull’intermediario e quella di un comportamento implicante, da parte dell’intermediario medesimo, la sistematica e programmata deviazione dal perseguimento dell’interesse del cliente. Situazione, quest’ultima, che finirebbe per determinare uno snaturamento della causa concreta del contratto, minandone la meritevolezza e giustificando perciò la reazione dell’ordinamento in termini di nullità del contratto stesso. Va aggiunto che, ove si ritengano applicabili ai rapporti di cui si sta parlando (o, almeno, ad alcuni tra essi) i principi desumibili dalla disciplina del contratto di mandato, potrebbero darsi casi nei quali la deviazione del comportamento dell’intermediario dal doveroso perseguimento dell’interesse del cliente configura una vera e propria esorbitanza dai limiti dell’incarico, i cui effetti dovrebbero perciò rimanere a carico del mandatario, secondo quanto disposto dal primo comma dell’art. 1711 c.c. Pur nella diversità delle possibili configurazioni giuridiche cui s’è da ultimo accennato, mette conto notare l’approccio di relativa flessibilità che da esse consegue: tale, cioè, da implicare sempre la necessità di una valutazione in concreto della portata oggettiva e della rilevanza economico-pratica delle violazioni imputabili all’intermediario, come indispensabile premessa logica della scelta tra rimedi radicali, di tipo caducatorio, e rimedi volti ad un riequilibrio del rapporto. Valutazione tanto più opportuna in un’area nella quale i comportamenti reciproci delle parti sovente s’intrecciano in modo assai stretto (basti pensare alla bidirezionalità dei flussi d’informazione che precedono la stipulazione dei contratti e l’esecuzione degli ordini, essenziale al rispetto delle regole dell’adeguatezza e dell’appropriatezza nella prestazione dei servizi d’investimento52): di talché la tutela dell’investitore, pur costituendo indiscutibilmente uno dei perni del sistema, non può mai andare del tutto disgiunta dal rispetto di fondamentali regole di buona fede e correttezza gravanti su entrambe le parti del rapporto e da cui, in definitiva, dipende anche l’integrità del mercato53.
3.5 (Segue) c) Profili di responsabilità
Alla varietà dei servizi d’investimento e dei contratti che ne regolano la prestazione fa ovviamente da riscontro una gamma altrettanto ampia di profili di responsabilità in cui l’intermediario può eventualmente incorrere. E si è già accennato al fatto che tale responsabilità può derivare dalla violazione di obblighi inerenti tanto alla fase precontrattuale54 quanto a quella dell’esecuzione dei contratti. Ragioni di spazio nuovamente impongono di rinunciare ad ogni pretesa di completezza e suggeriscono, viceversa, di dedicare qualche breve notazione solo ad alcuni aspetti di carattere generale, a cominciare da quello che riguarda l’onere della prova, disciplinato espressamente dal sesto comma dell’art. 23 t.u.f., che, nei giudizi per risarcimento dei danni derivati dalla prestazione di servizi d’investimento, fa carico agli intermediari (i «soggetti abilitati») di dimostrare di «aver agito con la specifica diligenza richiesta». Diligenza da reputare corrispondente a quella evocata dal secondo comma dell’art. 1176 c.c. per l’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di attività professionali, tale certamente essendo l’attività svolta dagli intermediari abilitati alla prestazione di servizi d’investimento. È opinione comune che, nel porre a carico dell’intermediario l’onere probatorio di cui s’è detto, il legislatore abbia inteso dettare un’ulteriore norma di tutela dell’investitore, destinata anch’essa a bilanciare la posizione di debolezza contrattuale di quest’ultimo, operando questa volta sul piano processuale55. Su ciò non può non convenirsi, pur dovendosi sottolineare come siffatta tutela sia qui accordata a qualsiasi cliente, prescindendo dal suo grado di competenza ed esperienza finanziaria. La portata effettiva della norma è però assai discussa. Infatti, fin quando ci si muove nell’area della responsabilità contrattuale, è regola generale quella che pone a carico del debitore l’onere di provare che l’inadempimento della prestazione è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.), e la disposizione speciale del sesto comma del citato art. 23 parrebbe aggiungervi ben poco. Non son mancati, in dottrina, tentativi per dare a detta disposizione una lettura più ampia, sino a postulare che l’inversione dell’onere della prova a beneficio del cliente investa anche i profili oggettivi della responsabilità, ivi compreso il nesso causale tra inadempimento e danno56. Ma si tratta di tentativi di dubbia riuscita, non solo e non tanto per motivi sistematici, ma anche perché non pare agevole superare il rilievo testuale ricavabile dalla stessa summenzionata disposizione del testo unico, che fa riferimento unicamente all’onere della prova della diligenza adoperata dall’intermediario nel fornire la propria prestazione senza minimamente toccare altri elementi costitutivi della pretesa risarcitoria. Persuasivamente, perciò, la Suprema Corte ha di recente ribadito che, in fattispecie di tal genere, l’investitore deve sia allegare l’inadempimento delle obbligazioni disciplinate dalla legge e dalla normativa regolamentare, sia fornire la prova del danno e del nesso di causalità, mentre grava sull’intermediario l’onere di provare tanto l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, che il cliente abbia lamentato esser rimaste inadempiute, quanto, sotto il profilo soggettivo, di avere agito con la specifica diligenza richiesta57. Da ultimo converrà almeno accennare, attesa la frequenza con cui il tema si presenta nella pratica, alla responsabilità solidale che grava sull’intermediario, a norma del terzo comma dell’art. 31 t.u.f., per i danni cagionati dai promotori finanziari della cui opera egli si avvalga nell’offerta fuori sede di strumenti finanziari o servizi d’investimento. È evidente l’assonanza con la responsabilità prevista in via generale per i preponenti dall’art. 2049 c.c.58, che qui è ribadita in modo espresso anche per l’ipotesi in cui il fatto illecito del promotore costituisca reato. Del pari evidente è la riconducibilità anche di questa norma alla finalità di maggior tutela del cliente che costituisce, come s’è visto, il filo rosso dell’intera disciplina di settore, con il solo ovvio limite che tra il fatto del promotore e le incombenze affidategli dall’intermediario sussista almeno un nesso di occasionalità necessaria59. Merita peraltro di esser sottolineato come siffatta attribuzione di responsabilità all’intermediario sia qui destinata anche a svolgere una funzione che, per certi versi, si riallaccia all’esigenza di un’adeguata organizzazione imprenditoriale degli intermediari alla quale già s’è fatto cenno al § 3. La rete dei promotori è, infatti, parte non secondaria dell’organizzazione di cui l’intermediario si avvale nello svolgimento della propria attività d’impresa, sicché è logico presumere che la consapevolezza di dover rispondere verso i terzi anche degli eventuali illeciti posti in essere dai medesimi promotori funga da stimolo affinché il preponente – che è in grado di farlo meglio di qualunque soggetto esterno e perciò meglio anche delle autorità pubbliche di vigilanza a ciò preposte – si attrezzi per esercitare un efficace controllo sul comportamento di soggetti operanti sul mercato nel suo interesse60.
1 Lo si può leggere nel sito web della Commissione europea.
2 L’acronimo MiFid sta per Market in Financial Instruments Directive. Si tratta, come viene sottolineato nell’introduzione del medesimo documento di consultazione citato nel testo, di uno dei pilastri fondamentali dell’integrazione dei mercati finanziari europei, che consta di una direttiva quadro del Parlamento e del Consiglio (la n. 2004/39), poi integrata dalla direttiva della Commissione n. 2006/73 e dal regolamento n. 1287/2006.
3 Due sole citazioni basteranno: Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 2004, 10 ss.; ed Albanese, Contratto mercato responsabilità, Milano, 2008, 40 ss. Per un’analisi del rapporto tra il mercato ed i valori costituzionali, si veda anche Delli Priscoli, Mercato e diritti fondamentali, Torino, 2011.
4 L’abbandono della concezione del mercato di borsa come pubblico servizio, risalente all’ipostazione napoleonica, in favore di una gestione del mercato intesa come attività economica, soggetta a vigilanza pubblica ma esercitata da privati in forma d’impresa ed a scopo di lucro (che trova oggi esplicito riconoscimento nell’art. 61, comma 1 del testo unico della finanza), ha costituito un allineamento al modello già da tempo invalso nell’area dei paesi anglosassoni ed ormai dominante nel mondo occidentale. Si vedano per tutti, al riguardo, Motti, I mercati regolamentati di strumenti finanziari, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate a cura di Patroni Griffi-Sandulli-Santoro, Torino, 1999, 349 ss.; e, da ultimo, Gabrielli-Lener, Mercati, strumenti finanziari e contratti dopo la MiFid, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, in Tratt. contratti Rescigno-Gabrielli, Milano, 2011, I, 3 ss.
5 Per una ricapitolazione dei passaggi che hanno condotto dalla legge n. 1 del 1991 sino al testo unico del 1998 si veda Ferrarini, La riforma dei mercati finanziari e il Testo unico, in La riforma dei mercati finanziari, a cura di Ferrarini-Marchetti, Roma, 1998, 25 ss.
6 In special modo per quel che riguarda l’attività delle autorità di vigilanza, Consob e Banca d’Italia, ed i relativi poteri regolamentari, ispettivi e sanzionatori.
7 Basti pensare alla disciplina delle offerte pubbliche ed a quella riguardante gli organi delle società quotate.
8 Tra l’altro, con le importanti modifiche apportate alla pregressa normativa in tema di insider trading e manipolazione del mercato.
9 Per effetto della MiFid – come puntualizza bene Roppo, Sui contatti del mercato finanziario, prima e dopo la MiFid¸ in Riv. dir. priv.¸ 2008, 487 – la disciplina dei mercati finanziari ha assunto la caratteristica di essere multilivello, cioè «di risultare composta da una pluralità di fonti di natura diversa che convergono a coprire lo stesso oggetto di regolazione». Ad un duplice livello comunitario, formato dalle due direttive già sopra menzionate alla nt. 2, fa infatti da riscontro la normativa nazionale di recepimento, a propria volta articolata su un livello primario (il già ricordato testo unico della finanza) ed un livello secondario (i regolamenti attuativi, la cui emanazione è demandata dallo stesso testo unico principalmente alla Consob ed alla Banca d’Italia).
10 Non mi riferisco solo a quello italiano.
11 Cfr. La concorrenza tra ordinamenti giuridici, a cura di Zoppini, Bari, 2004.
12 L’opinione secondo la quale il ridotto sviluppo del sistema finanziario italiano, specie se posto a paragone di quelli dei più avanzati paesi anglosassoni, sarebbe in gran parte dovuto all’assetto giuridico regolamentare dell’ordinamento è stata a lungo prevalente, e non solo tra gli economisti: si veda, in tal senso, la ricerca di Raganelli, Sulle determinanti giuridico-regolamentari del ridotto sviluppo della Borsa italiana, in Il mercato finanziario italiano: borsa, competitività, delle imprese e tutela del risparmio, a cura di Comana, Roma, 2005, 155 ss.
13 Si vedano, in argomento, Spada, Tipologia delle società e società per azioni quotate, in Riv. dir. civ., 2000, II, 211 ss.; e Zanarone, Il ruolo del tipo societario dopo la riforma, in Il nuovo diritto delle società – Liber amicorum Gianfranco Campobasso, diretto da Abbadessa- Portale, 1, Milano, 2007, 55 ss.
14 Cfr. de Mari, Autorità e libertà nella disciplina dell’intermediazione mobiliare, Roma, 2010, 131 ss.; e Scognamiglio, Recenti tendenze in tema di assetti organizzativi degli intermediari finanziari (e non solo), in Banca borsa, 2010, I, 137 ss.
15 Pubblicato nella G.U. n. 255 del 2.11.2007 e nel Bollettino Consob n. 10.2, dell’ottobre 2007.
16 Sul rapporto tra principio di proporzionalità e principio di adeguatezza nell’organizzazione degli intermediari finanziari, si veda Mosco, Funzioni aziendali di controllo, principi di proporzionalità e ruolo degli organi sociali nella MiFid, in La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFid: prime valutazioni e tendenze applicative, a cura di de Mari, Padova, 2009, 31 ss.
17 Drastico il giudizio di Scognamiglio, Gli assetti organizzativi degli intermediari finanziari, in La nuova disciplina degli intermediari, cit., 6, che parla di «una disciplina per alcuni versi farraginosa, fin troppo attenta alle questioni di dettaglio» e di «un dettato sovente appesantito da espressioni pletoriche ed un po’ ripetitive, più adatte, si direbbe, ad un manuale di organizzazione aziendale. che non ad un testo normativo».
18 Ma resta l’interrogativo posto sin dal titolo del suo scritto da Rutigliano, Organizzazione, governo societario e controlli interni negli intermediari finanziari: eccesso di regolamentazione o fallimento dell’autodisciplina?, in La nuova disciplina degli intermediari, cit., 61 ss.
19 Cfr. Alpa, La c.d. giuridificazione delle logiche dell’economia di mercato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 725 ss.
20 Si veda, in particolare, il paragrafo 7.3 del documento offerto in consultazione, che tratta appunto dei requisiti organizzativi dell’impresa dai quali dipende l’autorizzazione alla prestazione dei servizi d’investimento.
21 Per una sintetica ma efficace ricostruzione del modo in cui si è andato evolvendo il rapporto tra la nozione codicistica generale del contrato e le diverse tipologie specifiche di contratto emerse in epoca successiva, cfr. Roppo, Parte generale del contratto, contratti dei consumatori e contratti asimmetrici (con una postilla sul «terzo contratto»), in Riv. dir. priv., 2008, 669 ss.
22 Cfr. De Nova, I contratti di oggi e la necessità di un elenco condiviso di divieti e di clausole vietate: a proposito di armonizzazione del diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. priv. 2007, 463 ss.
23 Fenomeno ormai in atto da diversi anni: si veda Alpa, Le nuove frontiere del diritto contrattuale, Roma, 1998; e Chinè, Il diritto comunitario dei contratti, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di Tizzano, Torino, 2000, I, 607 ss.
24 Sulle cui interferenze con la disciplina del contratto vedi, in particolare, Osti, Contratto e concorrenza, in Tratt. Roppo, VI, Milano, 2006, 635 ss.
25 Sulla quale v’è ormai amplissima letteratura: si vedano, per tutti, Calvo, I contratti del consumatore, in Tratt. dir. comm. Galgano, Padova 2005; E. Minervini, I contratti dei consumatori, in Tratt. Roppo, IV/1, 485 ss.; e Greco, Profili del contratto del consumatore, Napoli, 2005.
26 E. Gabrielli-R. Lener, Mercati, strumenti finanziari e contratti, cit., 37 ss.
27 Il secondo ed il trentunesimo considerando della direttiva n. 2004/39/CE sono espliciti nell’indicare tra gli obiettivi della direttiva medesima quello di «offrire agli investitori un livello elevato di protezione» e di «proteggere gli investitori». Nel diritto interno, in modo altrettanto esplicito, l’art. 5, co. 1, lett. b)¸ t.u.f. individua nella tutela degli investitori una delle finalità della vigilanza sugli intermediari ed il successivo art. 21, co. 1, lett. a), fa obbligo agli intermediari di adoperarsi per «servire al meglio l’interesse dei clienti».
28 In tal senso anche Tucci, «Servizio» e «contratto» nel rapporto tra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., I, 200 ss.
29 Gioia, Tutela giurisdizionale dei contratti del mercato finanziario, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., 59, sottolinea come il testo unico della finanza, pur continuando a non menzionare mai espressamente i consumatori, bensì soltanto gli investitori, contenga oggi, dopo le modifiche rese necessarie dall’adeguamento alla MiFid, molte disposizioni chiaramente fondate sull’assimilazione di tali due figure. In argomento si veda anche Blandini, Il codice del consumo e i servizi finanziari: riflessioni sulla posizione del consumatore, in Riv. dir. priv. ,2007, 19 ss.
30 Sotto il profilo della correttezza lessicale, l’assimilazione del consumatore al risparmiatore può essere, ovviamente, discussa, ma sul piano giuridico l’accostamento è giustificato dalle medesime esigenze di tutela, di cui è cenno nel testo, e trova riscontro nell’uso di strumenti normativi almeno in parte coincidenti. Circa il modo in cui – forse non sempre con la dovuta proprietà terminologica – il legislatore adopera le parole «cliente», «investitore» e «risparmiatore », si vedano però le diverse posizioni di Carriero, Statuto dell’impresa d’investimento e disciplina del contratto, Milano, 1997, 37 ss.; Perrone, Gli obblighi di informazione nella prestazione dei servizi di investimento, in Banca borsa, 2006, I, 372; e La Rocca, La tutela dell’impresa nella contrattazione in strumenti finanziari derivati, Padova, 2011, 1 ss.
31 Sull’importanza del principio di graduazione, definito una pietra angolare del sistema, perché destinato, nel medesimo tempo, a mitigare il favore della normativa verso l’investitore, fungendo da elemento di raccordo tra la disciplina speciale del mercato finanziario e quella generale dei contratti, a rendere più flessibile il confine tra norme cogenti ed autonomia negoziale ed ad evitare costi ingiustificati a carico delle imprese operanti nel settore, realizzando un giusto equilibrio tra le esigenze dei clienti e quelle degli intermediari, si veda La Rocca, La tutela dell’impresa, cit., 15 ss. Per un’analisi più dettagliata della classificazione dei clienti nella normativa italiana, dopo il recepimento della MiFid, con la distinzione tra clienti al dettaglio, controparti qualificate e clienti professionali (di diritto o a richiesta), si rinvia a Tucci, «Servizio e «contratto», cit., 181 ss.
32 Un problema delicato, emerso già nel vigore della normativa antecedente al recepimento della MiFid, riguarda la prova della qualifica e dell’esperienza del cliente che giustifichi l’applicazione di un regime di protezione meno rigoroso. In particolare, nella giurisprudenza di merito si sono registrate decisioni di segno diverso in ordine al valore probatorio da riconoscere alle dichiarazioni a tal riguardo sottoscritte dai clienti all’atto della stipulazione dei contratti relativi alla prestazione di servizi d’investimento, soprattutto quando questi avevano ad oggetto strumenti finanziari molto complessi (quali, ad esempio, i derivati). Sul punto ha poi preso posizione anche la Suprema Corte, affermando che la dichiarazione del cliente, in assenza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario, esonera quest’ultimo dall’obbligo di ulteriori verifiche e costituisce argomento di prova del fatto che il cliente sia un operatore qualificato (Cass., 26.5.2009, n. 12138, in Foro it., 2010, I, 121, con nota di La Rocca). La più precisa disciplina regolamentare successivamente emanata dalla Consob dopo il recepimento della direttiva MiFid dovrebbe ora rendere più agevole, almeno in parte, la soluzione del problema.
33 Sul rapporto, non privo di una qualche ambivalenza, tra tutela del consumatore ed efficienza del mercato vedi Albanese, Contratto, cit., 134 ss.
34 La centralità dell’elemento fiduciario nella funzione degli intermediari finanziari ed il nesso tra l’affidabilità di tale funzione e lo sviluppo del mercato nel suo insieme è ben evidenziato da Costi-Enriquez, Il mercato mobiliare, Padova, 2004, 5 ss.
35 Si veda il punto 7.2.1 del documento di consultazione.
36 L’art. 37 del regolamento, non diversamente dall’art. 23 t.u.f., si riferisce ai contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi d’investimento (la cui definizione si rinviene nell’art. 1, co. 5, del medesimo testo unico, richiamato anche dall’art. 2, co. 1, lett. c, del regolamento), ma è applicabile anche alla commercializzazione di quote o azioni di OICR e di Sicav ed alla distribuzione dei prodotti finanziari assicurativi, per effetto dei rinvii operati dai successivi artt. 77, co. 2 e 3, ed 85, co. 1; non si applica, invece, alla distribuzione dei prodotti finanziari bancari ed assicurativi emessi dalle stesse banche o imprese di assicurazione, non figurando analogo richiamo nel testo degli artt. 84 ed 87.
37 Di «contratto-quadro» (o «contratto normativo») parla anche Cass., 25.6.2008, n. 17341, in Foro it., 2009, I, 188, con nota di Scoditti. Tale orientamento è sostenuto in dottrina, tra gli altri, da Roppo, Sui contatti del mercato finanziario, cit., 498 ss.
38 Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni Unite della Cassazione, in Contr. e impr., 2008, 1 ss. Nello stesso senso Trib. Rovereto, 18.1.2006, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 1239, con nota di Muccioli, Intermediazione finanziaria e strumenti di tutela degli investitori. Di un contratto «che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato» parlano anche le Sezioni unite nella sentenza 19.12.2007, n. 26724, sulla quale si avrà occasione di tornare in seguito (infra, nt. 47).
39 Razzante, Contratti di negoziazione e «negoziazione d’ordini», in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., II, 1133 ss.
40 Il requisito della forma scritta , però, non si applica necessariamente anche ai contratti relativi a servizi accessori, per i quali occorre a tal fine un’eventuale ulteriore specifica previsione.
41 Così, ad esempio, App. Milano, 11.12.2007, in Giur. it., 2008, 923; e Trib. Genova, 26.6.2006, in Foro pad., 2007, I, 137; contra, però, Trib. Genova, 22.3.2007, in Foro pad., 2007, I, 126; Trib. Milano, 4.4.2006, in Banca borsa, 2008, II, 217; Trib. Milano, 28.5.2005, in Banca borsa, 2007, II, 499; e Trib. Bologna, 18.12.2006, in Dir. banc., 2007, I, 317.
42 Il puntuale rilievo è di Roppo, Sui contatti del mercato finanziario, cit., 500.
43 Col quale è stata recepita la disposizione contenuta nell’art. 7 della direttiva n. 1287/2006/CE.
44 Sulla figura della nullità di protezione, in generale, si veda Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in Tratt. Roppo, IV/1, 155 ss.
45 Per una completa ricapitolazione delle regole di condotta che l’intermediario è tenuto a rispettare nella prestazione dei servizi d’investimento si rinvia a Lucantoni, Le regole di condotta degli investimenti finanziari, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., I, 239 ss.
46 Su cui vedi D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 37 ss.
47 Questo orientamento, in parte espresso già da Cass., 29.9.2005, n. 19024, in Foro it., 2006, I, 1105, con nota di Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale, è stato poi ulteriormente precisato ed ampliato in due coeve sentenze delle Sezioni unite del 19.12.2007, nn. 26724 e 26725, pubblicate su molte riviste, tra cui Foro it. 2008, I, 784, con altra nota di Scoditti; Giur. it. 2008, 353, con nota di Cottino; Giust. civ., 2008, I, 1175, con nota di Nappi; Giur. comm., 2008, II, 604, con nota di Bruno-Rozzi; Società, 2008, 449, con nota di Scognamiglio; Corr. giur., 2008, 223, con nota di Mariconda; Contratti, 2008, 221, con nota di Sangiovanni; Danno e resp., 2008, 525, con nota di Roppo; Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 432, con nota di Salanitro.
48 L’affermazione secondo cui la violazione del dovere di comportamento secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto può esser fonte di responsabilità non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative o di conclusione di un contratto invalido, ma anche quando il contratto sia stato validamente concluso, pur se conforme all’opinione espressa da una parte della dottrina (la tesi è particolarmente sviluppata da Mantovani, «Vizi incompleti» del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995; si veda anche Meruzzi, La trattativa maliziosa, Padova, 2002, 229 ss.; contra, però, D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Tratt. Roppo, V/2, Milano, 2006, 1007 ss.), non è pacifica. Il pregresso orientamento della giurisprudenza – ribadito in tempi relativamente recenti anche da Cass., 25.7.2006, n. 16937, in Giust. civ., 2006, I, 2717; e Cass., 5.2.2007, n. 2479, in Foro it. Rep., voce Contratto in genere, n. 533 – escludeva la responsabilità precontrattuale per il fatto che l’accordo tra le parti si fosse formato a condizioni diverse da quelle che si sarebbero avute se una delle parti non avesse tenuto nei confronti dell’altra un comportamento contrario alla buona fede, essendo la responsabilità precontrattuale preclusa dall’intervenuta conclusione del contratto. Da questo più risalente orientamento ha preso però poi le distanze anche un’ulteriore pronuncia del giudice di legittimità, che ha ravvisato una responsabilità di tipo aquiliano in un caso di sottoscrizione di azioni quotate a seguito di offerta pubblica di vendita corredata da un prospetto informativo non veridico (Cass., 11.6.2010, n. 14056, in Giur. it., 2011, 289; in Società, 2011, 411; ed in Corr. giur., 2011, 359).
49 Cass., 17.2.2009, n. 3773, in Giust. civ., 2010, I, 1756; ed in Giur. it., 2010, 338, con nota di Fiorio, Onere della prova, nesso di causalità ed operazioni non adeguate.
50 Si vedano gli autori citati alla nota 47, cui adde La Rocca, Il contratto di intermediazione mobiliare tra teoria economica e categorie civilistiche, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 107 ss., il quale particolarmente sottolinea le peculiari caratteristiche del diritto dei mercati finanziari rispetto al diritto comune dei contratti e fa leva sul quarto comma dell’art. 67-septesdecies c. cons. (applicabile alla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari, in forza del richiamo operato dal precedente art. 67 bis) per dedurne la nullità dei contratti nella stipulazione dei quali l’intermediario abbia violato gli obblighi di informativa precontrattuale così da alterare in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche degli strumenti finanziari inerenti al servizio offerto.
51 Tucci, «Servizio e «contratto», cit., 207.
52 Sulle quali si vedano, in particolare, Cian, L’informazione nella prestazione dei servizi d’investimento, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli- Lener, cit., I, 213 ss.; Santocchi, Le valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza nei rapporti contrattuali tra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., I, 281 ss.; e Paracampo, Gli obblighi di adeguatezza nella prestazione dei servizi d’investimento, in Banca borsa, 2007, II, 203 ss.
53 Che i mercati finanziari non siano comparabili a delle case da gioco (donde l’inapplicabilità dell’art. 1993 c.c., disposta dal quinto comma dell’art. 23 t.u.f.) dipende principalmente dal comportamento degli intermediari, ma in qualche misura anche da quello di chiunque altro vi si accosti.
54 Non è il caso di soffermarsi qui sull’annosa disputa circa la natura della responsabilità precontrattuale, che alcuni riconducono nell’alveo di quella contrattuale ed altri invece definiscono aquiliana. Si rinvia, in proposito, a D’Amico, La responsabilità precontrattuale, cit. 977 ss.
55 Le norme in tema di onere della prova, pur operando di regola in ambito processuale, hanno però natura sostanziale. Pertanto Cass., 22.10.2010, n. 21729, in Foro it. Rep., 2010, voce Intermediazione e consulenza finanziaria, n. 140, ha escluso che previsioni normative quale quella dell’art. 23, co. 6, t.u.f. possano essere invocate rispetto a vicende accadute prima della loro entrata in vigore.
56 Per un’ampia panoramica sulle diverse opinioni manifestatesi in dottrina sul punto si rinvia a Rulli, L’onere della prova nei giudizi di risarcimento danni, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli-Lener, cit., I, 337 ss.
57 Cass., 17.2.2009, n. 3773, cit.; e Cass., 29.10.2010, n. 22147, in Foro it. Rep., 2010, voce Intermediazione e consulenza finanziaria, n. 142.
58 Per una ricognizione delle varie tesi affacciate in dottrina circa la natura giuridica della responsabilità gravante sull’intermediario per fatto del promotore si rinvia a Gioia, Tutela giurisdizionale dei contratti del mercato finanziario, cit., 81 ss.
59 Così, da ultimo, Cass., 24.3.2011, n. 6829, secondo cui, peraltro, non rileva che il comportamento del promotore abbia esorbitato dal limite fissato dal preponente, essendo sufficiente che la sua condotta sia stata agevolata e resa possibile dall’inserimento del promotore stesso nell’attività della società d’intermediazione mobiliare e si sia realizzata nell’ambito e coerentemente alle finalità in vista delle quali l’incarico è stato conferito, in maniera tale da far apparire al terzo in buona che si trattava di attività inerente a quell’incarico.
60 In questa logica s’iscrive l’orientamento giurisprudenziale che, richiamandosi anche al principio dell’apparenza del diritto, ha addossato all’intermediario la responsabilità per un illecito compiuto in danno di terzi da un ormai ex promotore in un caso in cui l’intermediario non aveva provveduto a comunicare la cessazione del proprio rapporto con quel promotore ai clienti i quali, tramite quest’ultimo, avevano mantenuto nel tempo i propri contatti con l’intermediario medesimo (Cass., 7.4.2006, n. 8229, in Danno e resp., 2006, 1112)..