Contratti e atti giuridici in generale
I soggetti del diritto - siano essi individui della specie umana ('persone fisiche', come dicono i giuristi) oppure organizzazioni - sono titolari di posizioni giuridiche, che possono essere le più varie: diritti patrimoniali, come la proprietà o un credito o un brevetto per invenzione industriale; diritti personali, come il diritto all'onore e all'integrità fisica; ovvero obblighi, a loro volta di contenuto economico (come un debito) o invece di contenuto prevalentemente personale (come gli obblighi reciproci di fedeltà e assistenza che il matrimonio fa nascere tra i coniugi); e così via.Le posizioni giuridiche dei soggetti mutano continuamente: continuamente ne nascono di nuove, altre si modificano, altre ancora si estinguono. Tali mutamenti delle posizioni giuridiche esistenti si dicono 'effetti giuridici'. Gli effetti giuridici - in breve: la costituzione, modificazione, estinzione di qualche posizione giuridica - richiedono una causa che li determini, e tale causa si definisce 'fatto giuridico' (o fattispecie giuridica).
Ad esempio: la stipulazione di un contratto di compravendita è il fatto giuridico che determina gli effetti consistenti nel trasferimento del diritto di proprietà dal venditore al compratore e nella nascita dell'obbligo del compratore di pagare il prezzo e del corrispondente diritto di credito del venditore; il crollo di un cornicione che danneggia un'auto in sosta è la fattispecie che fa nascere il diritto del proprietario dell'auto al risarcimento del danno e il correlativo obbligo del proprietario del palazzo; la morte di Tizio, unita al testamento in cui Tizio designa erede Caio e alla dichiarazione con cui Caio manifesta il suo intento di accettare l'eredità, è la fattispecie a cui risale l'effetto del subingresso di Caio nella proprietà, nei crediti e nei debiti di Tizio; e così via.
Abbiamo parlato di causa e di effetti, ma ciò non deve trarre in inganno. La fattispecie non determina gli effetti giuridici in base a un rapporto di causalità come quello che opera nel mondo fisico e che, ad esempio, ci fa dire che il passaggio dell'acqua allo stato solido è effetto dell'abbassamento di temperatura. La fattispecie causa la vicenda giuridica solo perché la legge (cioè la volontà politica del legislatore) ha stabilito, in base a una valutazione di opportunità, che quella certa fattispecie determini quel certo effetto giuridico. Tanto è vero che, se cambia la legge, un dato fatto può cessare di causare l'effetto giuridico che prima causava, o cominciare a causare effetti che prima non causava: ad esempio, se mutano le regole sul risarcimento dei danni, uno stesso fatto dannoso, che prima non obbligava il suo autore al risarcimento, può da quel momento generare un obbligo di risarcimento.
Come si vede dagli esempi, i fatti giuridici possono consistere sia in eventi del mondo fisico o biologico, del tutto estranei alla volontà e all'attività dell'uomo, sia in comportamenti umani: i primi si dicono fatti giuridici in senso stretto, i secondi atti giuridici.
All'interno degli atti giuridici si opera poi un'ulteriore distinzione. Gli atti umani che sono causa di effetti giuridici possono essere involontari (Tizio, senza volerlo, con un suo comportamento negligente causa danno a Caio, facendo nascere diritti e obblighi di risarcimento); oppure possono essere sostenuti da una volontà, che però non è specificamente diretta a produrre gli effetti giuridici che conseguono dall'atto: se Tizio deliberatamente procrea un figlio, ne nasce tutta la complessa serie degli effetti giuridici connessi al rapporto di filiazione, anche se Tizio, nel compiere il volontario atto procreativo, non considerava quegli effetti o addirittura intendeva escluderli. Nell'uno e nell'altro caso parliamo di meri atti giuridici.
A essi si contrappongono quegli altri atti giuridici caratterizzati non solo dal fatto di essere compiuti volontariamente, ma dalla ulteriore circostanza che la volontà dell'autore si dirige proprio alla produzione dei relativi effetti giuridici: l'autore compie volontariamente l'atto, perché vuole gli effetti giuridici che l'atto produce. Il linguaggio giuridico chiama questi atti 'negozi giuridici'.La categoria del negozio giuridico, a sua volta, si collega strettamente con il principio dell'autonomia privata.
Secondo il suo etimo greco, la parola 'autonomia' significa potere di darsi da sé le proprie regole di condotta, anziché vedersele imporre da un'autorità esterna. Nel linguaggio del diritto 'autonomia privata' designa il potere, che in varia misura lo Stato riserva ai privati (singoli o gruppi), di costituire e conformare secondo la propria volontà le proprie posizioni giuridiche.Se io vendo un terreno che mi appartiene, mi privo della proprietà di esso, che passa al compratore, e ne ottengo in cambio una determinata somma di denaro. Un risultato sostanzialmente analogo si produce se, anziché vendere il mio terreno, ne vengo espropriato dalla pubblica autorità: il bene si trasferisce all'espropriante, che mi versa per questo una somma di denaro (indennità di esproprio). In realtà, tra le due ipotesi vi è una profonda differenza. Nel primo caso la circolazione del bene avviene attraverso un atto di autonomia privata: sono io che ho deciso liberamente di vendere; io ho fissato, d'accordo con il compratore, il prezzo e le altre condizioni dell'affare, che nasce dalla mia volontà. Nel secondo caso la circolazione del bene avviene indipendentemente o anche contro la mia volontà: anziché autodeterminarmi, io subisco decisioni altrui che mi vengono imposte in via di autorità; l'autonomia privata qui non trova spazio.
L'esempio appena formulato chiarisce che l'autonomia privata esprime un principio di libertà del cittadino nei confronti del potere pubblico, dello Stato: essa costituisce, infatti, un fondamentale caposaldo delle moderne organizzazioni politiche, affermatosi progressivamente attraverso le lotte contro l'assolutismo e giunto a più piena realizzazione con le rivoluzioni borghesi e liberali. Il suo affermarsi ha legami con lo sviluppo economico e con l'avvento del modo di produzione capitalistico; la rivendicazione di più ampi spazi per l'autonomia privata faceva tutt'uno con la rivendicazione della libertà di iniziativa economica, che gli operatori del nascente capitalismo invocavano contro i vincoli e le restrizioni di un'organizzazione politico-economica ancora carica di residui feudali e corporativi.Anche se l'autonomia privata ha nel campo economico le sue più importanti manifestazioni, essa si esplica pure al di fuori delle relazioni di carattere patrimoniale. E ciascuna delle sue principali esplicazioni trova in norme della Costituzione italiana riconoscimento, tutela e, al tempo stesso, limiti. Così, è manifestazione di autonomia privata la libertà di associarsi con altri per perseguire fini leciti (art. 18); lo è quella di compiere scelte libere in ordine alle proprie esperienze matrimoniali e, più in generale, familiari (art. 29); lo è infine quella di disporre la destinazione del proprio patrimonio dopo la propria morte (art. 42, comma 4).
I privati esercitano la loro autonomia compiendo negozi giuridici: il negozio giuridico è il fondamentale strumento dell'autonomia privata. Come sappiamo, il negozio giuridico si inquadra nella categoria degli atti giuridici, e all'interno di questa si contrappone alla categoria dei meri atti giuridici: da questi ultimi si distingue per il fatto di consistere in una manifestazione di volontà umana, consapevolmente diretta a ottenere gli effetti giuridici che a essa il diritto ricollega. La categoria del negozio giuridico viene elaborata in Germania, nel secolo scorso, dalla scuola della 'pandettistica', sulla base di una riutilizzazione in chiave moderna dei testi del diritto romano giustinianeo, e in una logica di generalizzazione e di astrazione estreme. Con essa si crea infatti un concetto capace di riassumere in sé una serie molto ampia di fenomeni reali: non solo compravendite, locazioni, depositi, mutui e così via, ma anche, per esempio, matrimoni, adozioni, riconoscimenti di figli naturali, costituzioni di enti di beneficenza, testamenti, ecc.
Per abbracciare concettualmente questa fenomenologia reale, è necessaria un'operazione logica: occorre cioè individuare i caratteri comuni alle diverse realtà, astrarli da queste e assumerli, organizzandoli, a elementi costitutivi della figura che si intende costruire. Ma è chiaro che più tale fenomenologia reale è vasta, varia ed eterogenea, minore è il numero dei caratteri comuni identificabili all'interno di essa, minore dunque la ricchezza della definizione generale che su questi si fonda, meno intensa la sua capacità rappresentativa, più ridotta insomma la sua aderenza al concreto, maggiori invece la sua rarefazione e la sua distanza dalla realtà: la sua astrattezza, appunto.
Tutto ciò risulta nel modo più chiaro se si considera la definizione di negozio giuridico che sarebbe diventata prevalente: una dichiarazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici. Emerge di qui, insieme con le caratteristiche formali della generalità e dell'astrattezza, l'altro dato, di ordine per così dire contenutistico, necessario a intendere senso e portata della categoria del negozio: l'assunzione della volontà a elemento chiave della sua definizione. Alla base di essa sta l'idea, già accreditata dal pensiero giusnaturalista e illuminista, della volontà umana come fonte di ogni trasformazione operata nel mondo del diritto, come 'forza creatrice' di diritti e di obblighi, come motore primo dell'intera dinamica giuridica. Esasperata talora fino a sfociare in una vera e propria 'mistica della volontà', questa posizione di principio si riflette poi sul modo in cui viene costruita la concreta disciplina dei negozi giuridici, determinando una serie di regole dirette a tutelare nel modo più intransigente la libertà e la spontaneità del volere di chi pone in essere il negozio, e a scioglierlo dai vincoli nascenti dal negozio là dove tale sua volontà risulti in qualche modo perturbata.Intorno a questa definizione si sviluppa così, nella scienza giuridica tedesca, un imponente complesso di teorie, dottrine, elaborazioni concettuali, che esercita una decisiva influenza anche al di fuori del suo ambiente d'origine: così avviene soprattutto in Italia, dove la categoria del negozio giuridico, introdotta intorno ai primi del nostro secolo, diviene un elemento centrale delle costruzioni di diritto privato e di teoria generale del diritto, benché (a differenza del diritto tedesco, che la prevede e la disciplina nel Codice civile del 1900) essa non abbia avuto da noi recezione legislativa.In altri ordinamenti, come in quello francese e in quelli anglo-americani, la categoria del negozio giuridico è invece sconosciuta, o ha un rilievo del tutto marginale nella sistematica del diritto.
Proprio per il suo alto grado di generalità e astrattezza, la categoria del negozio giuridico comprende un'ampia serie di figure eterogenee. Di qui la necessità di una loro classificazione, che consenta di ordinarle e distinguerle alla stregua di criteri significativi. In base al criterio della materia (più precisamente: della natura delle posizioni giuridiche su cui incidono), si distinguono negozi patrimoniali e negozi non patrimoniali. I primi incidono su posizioni a contenuto economico, nel senso che costituiscono, modificano o estinguono diritti e obblighi patrimoniali (contratti, promesse, procure, rinunce, attribuzioni testamentarie di eredità o di legati, ecc.). I secondi riguardano invece posizioni a contenuto non (direttamente e immediatamente) economico: si pensi per esempio al matrimonio, o alle disposizioni non patrimoniali che possono essere contenute in un testamento (come il riconoscimento di un figlio naturale).
In base al criterio della struttura, si distinguono negozi unilaterali e negozi bilaterali o plurilaterali. I primi risultano dalla manifestazione della volontà di un solo soggetto (anche se qualche altro soggetto può essere cointeressato al negozio): testamento, promesse, rinunce, ratifiche, procure, ecc. I secondi sono costituiti dalle (concordi) manifestazioni di volontà di due o più soggetti: così i contratti, il matrimonio, gli atti costitutivi di società o di associazioni.In base al criterio della produzione degli effetti, si distinguono negozi tra vivi e negozi a causa di morte. Questi ultimi producono i loro effetti solo dopo la, e in relazione alla, morte dell'autore: ne è prototipo il testamento, cui possono appartenere contenuti negoziali molto vari (istituzione di erede, attribuzione di legati, costituzione di fondazioni, ecc.). I negozi tra vivi sono tutti gli altri, che per produrre effetti non presuppongono la morte del loro autore. Un'ulteriore distinzione può operarsi nell'ambito dei negozi patrimoniali. In base al criterio del loro senso economico, questi si distinguono in negozi onerosi e negozi gratuiti. I primi sono quelli in cui tutti i soggetti coinvolti nel negozio sostengono un qualche sacrificio, e correlativamente ricevono un qualche vantaggio di tipo giuridico-economico: per un esempio paradigmatico si pensi alla compravendita. Nei secondi, solo uno o qualcuno dei soggetti coinvolti nel negozio sostiene un tale sacrificio, mentre l'altro o gli altri conseguono il relativo vantaggio senza sobbarcarsi ad analogo sacrificio: si pensi alla donazione, o all'attribuzione di eredità o legati, o alla rinuncia senza corrispettivo a un diritto che si ha verso altri.
Dopo decenni di autentica egemonia culturale, nell'ambiente dei giuristi italiani la dottrina del negozio è da tempo, come si dice, 'in crisi'. Preannuncio - riflesso e insieme elemento - di questo declino della categoria fu la scelta operata dal legislatore del 1942, che rifiutò di darle ingresso nel codice e di elevarla - secondo il modello tedesco - al rango di categoria legislativa, preferendo invece riservare il ruolo di concetto ordinante e unificante dell'attività giuridica dei privati al concetto di contratto. È vero che questa scelta fu immediatamente disattesa da notevoli settori della dottrina civilistica italiana, che cercarono di perpetuare una sistemazione del diritto privato entro la quale l'antica categoria del negozio continuava a essere innalzata a cardine della 'parte generale' del sistema, mentre al contratto, relegato fra le parti speciali, si assegnava, nella gerarchia dei concetti giuridici, un rango subordinato: il rango, più precisamente, di una figura sottocategoriale del negozio, nel senso che il contratto veniva caratterizzato alla stregua di un negozio bilaterale (in quanto tale distinto dai negozi unilaterali, come le promesse), patrimoniale (in quanto tale distinto dai negozi non patrimoniali, come il matrimonio e gli altri negozi familiari), tra vivi (in quanto tale distinto dai negozi mortis causa, come il testamento). Ed è vero altresì che queste posizioni dottrinali tuttora largamente influenzano la stessa didattica del diritto privato corrente nelle nostre università (i manuali istituzionali più significativi e più diffusi dedicano ampio spazio alla figura e alla categoria del negozio).Peraltro, il contratto trova modo di prendersi una qualche rivincita sul negozio: perché, in assenza di norme ad hoc, le teorie e le costruzioni dottrinali sul negozio giuridico finiscono per assumere come referente normativo la disciplina positiva del contratto. È nelle regole codicistiche dedicate ai vari aspetti del contratto in generale (ai vizi della volontà, alle invalidità, alla stipulazione in nome altrui, e così via) che le elaborazioni sul negozio cercano la necessaria validazione normativa. E del resto sono sempre più numerosi i settori della dottrina civilistica che proclamano oramai consumati, o almeno irreversibilmente avviati, la 'crisi' e il 'declino' del negozio giuridico.
Da un lato se ne denunciano i caratteri di eccessiva astrattezza e generalità; dall'altro si constata che l'esaltazione della volontà individuale, su cui quel concetto si fondava, difficilmente può trovare giustificazione in un'epoca, come la presente, caratterizzata dall'emergere delle organizzazioni collettive, da valori di socialità, da istanze di controllo pubblico o sociale delle attività private.
Lo spazio lasciato libero dal negozio tende a essere occupato dal contratto: è la categoria contrattuale che oggi si pone al centro di ogni ricostruzione delle grandi linee del sistema privatistico; è il contratto ad assumere, ereditandolo dal negozio, il ruolo di strumento-simbolo dell'agire autonomo dei privati.E questo rende ragione del fatto che nel presente articolo ci si riferirà - in generale e in prima istanza - al contratto, salvo inserire di volta in volta quelle integrazioni e quelle specificazioni che riflettono le più significative peculiarità degli altri negozi giuridici privati, diversi dal contratto.Un'ultima avvertenza, di tipo linguistico. Si è visto che, propriamente, il concetto di atto giuridico è più ampio di quello di negozio, che ne costituisce una sottospecie. Tuttavia, nel linguaggio giuridico corrente, il termine 'atto giuridico' (o semplicemente 'atto') tende a essere usato nel senso di 'negozio giuridico'. A questo uso linguistico ci si atterrà nella presente voce, dove pertanto 'atto' e 'negozio' saranno impiegati come sinonimi.
Del contratto abbiamo una definizione legislativa: quella dell'art. 1321 (quando il numero di un articolo di legge non è seguito da altra indicazione s'intende che è un articolo del Codice civile) per cui "il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale".
Prima di tutto, dunque, il contratto è accordo: non c'è contratto se non c'è accordo delle parti. Questo requisito costituisce la specificazione, con riguardo alla figura del contratto, di quell'elemento della volontà che si è visto coessenziale alla più generale figura del negozio giuridico.Il significato dell'accordo, e della sua necessità per l'identificazione di un contratto, si coglie in relazione a un elemento ulteriore della sua definizione. Il contratto serve a costituire, regolare o estinguere tra le parti un rapporto giuridico patrimoniale: il contratto dunque incide su un rapporto tra le parti, e perciò incide sulla sfera giuridica di ciascuna delle parti. Ma il diritto privato moderno esclude in via di principio che un soggetto possa, per iniziativa di un altro privato, essere inciso nella sua sfera giuridica contro la sua volontà, e cioè se egli non è d'accordo circa il 'se' e il 'come' dell'incisione. Detto altrimenti: nessuno può - per sua iniziativa e volontà unilaterale - incidere nella sfera giuridica altrui.
A fronte di questo principio si presentano come eccezionali, nel sistema, le ipotesi in cui la costituzione di un rapporto contrattuale rappresenta non già il frutto di una scelta volontaria di entrambi gli interessati, bensì materia di obbligo legale imposto a uno di essi: sono le ipotesi di 'contratto imposto', di cui costituisce esempio la previsione dell'art. 2597, per cui "chi esercita un'impresa in condizioni di monopolio legale ha l'obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa, osservando la parità di trattamento".
L'accordo risulta generalmente dalle conformi volontà manifestate dalle parti. Come vedremo, può risultare anche dalle loro conformi volontà non manifestate espressamente, ma ricavabili con sicurezza dal loro contegno e dalle circostanze obiettive (comportamento concludente), e può risultare perfino dal comportamento puramente omissivo di una delle parti, senza altre circostanze che lo qualifichino: se A fa a B una proposta di contratto dal quale derivano obbligazioni solo a carico di A, e B non risponde né manifesta altrimenti la sua volontà di accettare o rifiutare, e se per questo tra A e B si forma il contratto ex art. 1333, comma 2, può ben dirsi - secondo una ragionevole e socialmente condivisa accezione del termine - che tra A e B c'è accordo.
La qualificabilità come 'accordo' di questa struttura (proposta più silenzio non qualificato) dipende dal suo contenuto, che si riduce qui alla sola nascita di obbligazioni in capo al solo proponente. A fronte di un'operazione diversa, quella stessa struttura non sarebbe qualificabile giuridicamente come accordo: se A propone a B l'assunzione di obbligazioni reciproche, ovvero l'attribuzione (anche senza corrispettivo) di una proprietà in capo a B e B si limita a tacere, non può dirsi che vi sia accordo tra A e B, e difatti non si forma alcun contratto. Perché ci sia accordo, e contratto, occorre che la volontà di B di accettare lo scambio di impegni, o l'attribuzione della proprietà, sia manifestata o almeno sia ricavabile da un suo comportamento concludente.In altre parole: l'accordo non è una realtà fenomenica assoluta, ma è la qualificazione che le norme danno a determinate realtà fenomeniche, negandola invece ad altre. E le norme la danno o la negano in funzione di una valutazione in termini di ragionevolezza sociale, a sua volta dipendente dal contenuto economico-giuridico della realtà da qualificare.
Il senso dell'accordo può cogliersi sotto diversi punti di vista o, se si preferisce, in una graduazione di significati che volta a volta valorizzano l'uno o l'altro degli interessi in gioco.
In un primo senso, il requisito dell'accordo tutela il destinatario dell'altrui dichiarazione. Tutela, più di preciso, il suo interesse a non vedere modificata la propria sfera giuridica in senso (anche solo potenzialmente) svantaggioso, senza la sua volontà di accettare tale modifica prospettata da altri. Corrisponde a questo primo senso la regola per cui se A vuole l'obbligazione di B, o vuole attribuire una proprietà a B, e formula a B la proposta relativa, tali effetti si producono solo in forza di un contratto tra A e B, e dunque solo se c'è l'accordo di B.
In un secondo senso, il requisito dell'accordo tutela ancora il destinatario dell'altrui dichiarazione, ma sotto un profilo alquanto diverso. Tutela cioè il suo interesse a non vedere modificata la propria sfera giuridica, anche in senso sicuramente vantaggioso, contro la sua volontà di accettare tale modifica prospettata da altri. Corrisponde a questo secondo senso la regola (dell'art. 1333) per cui se A propone a B di assumere verso di lui obbligazioni (senza chiedere in cambio l'obbligazione di B) e B rifiuta, tale effetto non si produce, proprio perché manca l'accordo e così non si forma alcun contratto. Se invece B non rifiuta (e anche se si limita a tacere), questo mancato rifiuto identifica il suo accordo di accettare l'obbligazione di A (sia pure un accordo a struttura più leggera rispetto al precedente) e un tale accordo è il contratto fra A e B.
Fin qui l'accordo è stato considerato nella sua funzione di tutelare il destinatario di una dichiarazione. Ma all'accordo può attribuirsi anche il senso di proteggere l'autore della dichiarazione. È questo il senso tradizionalmente identificato nel principio di tipicità (numero chiuso) delle promesse unilaterali (art. 1987).
Stabilire che fuori dei casi previsti dalla legge la promessa unilaterale non genera obbligazioni significa dire che nella generalità dei casi l'accordo del promissario è requisito necessario perché il promittente sia vincolato. L'accordo opera così come elemento che tutela l'autore di una dichiarazione, perché circoscrive i casi in cui questa lo vincola. Senonché la ratio comunemente adottata a giustificazione del principio - proteggere i dichiaranti contro promesse avventate o irragionevoli - è debole e viene ormai diffusamente criticata. Lo stesso principio di tipicità delle promesse unilaterali tende a essere bersaglio di revisioni critiche sempre più radicali.
Se in primo luogo è accordo, in secondo luogo il contratto è (accordo finalizzato al) regolamento di rapporti patrimoniali. Questa caratteristica differenzia il contratto da quei negozi fondati sull'accordo, che non sono però diretti a regolare rapporti patrimoniali: così, per esempio, il matrimonio. E lo differenzia da quegli accordi che probabilmente non sono neppure negozi e che comunque, a loro volta, sono privi del carattere della patrimonialità: così, per esempio, l'accordo tra i coniugi sulle scelte di governo della famiglia (art. 144).
La necessaria patrimonialità del contratto si ricollega, con un nesso evidente, alla necessaria patrimonialità dell'obbligazione, a proposito della quale l'art. 1174 afferma che la prestazione che ne forma oggetto "deve essere suscettibile di valutazione economica". Il contratto, infatti, è la principale tra le fonti delle obbligazioni (art. 1173). Detto altrimenti: una delle funzioni fondamentali del contratto è far nascere debiti e crediti fra le parti. L'accordo verte su un regolamento di rapporti patrimoniali - dunque è un contratto - quando i vantaggi e/o i sacrifici che ne conseguono sono tutti apprezzabili secondo valori di mercato. Peraltro può aversi un contratto anche quando alcuni di tali vantaggi e/o sacrifici non hanno tale carattere, perché riguardano beni giuridici o valori non patrimoniali, ma sono collegati - entro il regolamento concordato - a beni o a valori patrimoniali (altro discorso è quello del trattamento giuridico di tali contratti, specie sotto il profilo della qualificazione di validità o invalidità).
Così, per esempio, sono contratti gli accordi diretti, in cambio di un corrispettivo economicamente valutabile, a consentire lo sfruttamento pubblicitario del proprio nome o della propria immagine; a realizzare un atto di disposizione del proprio corpo, ex art. 5; all'assunzione di obblighi limitativi di proprie libertà fondamentali (sposarsi, non sposarsi; iscriversi, non iscriversi a un dato partito politico, o dimettersi dal medesimo, ecc.).I contratti del primo esempio sono leciti e validi; quelli del secondo esempio sono illeciti e invalidi, ovvero leciti e validi, a seconda che ne consegua oppure no una diminuzione permanente dell'integrità fisica, o sussistano altre ragioni di contrasto con la legge, l'ordine pubblico, il buon costume; quelli del terzo esempio sono sicuramente invalidi. Ma non di meno sono tutti contratti. Dei due elementi che caratterizzano la figura del contratto - accordo e patrimonialità - è questo secondo che sembra connotare più decisamente la figura e fondare la relativa disciplina. Depone in tal senso l'art. 1324, che estende la disciplina del contratto agli atti unilaterali tra vivi, in quanto aventi contenuto patrimoniale: un atto patrimoniale senza accordo può assimilarsi al contratto, sotto il profilo della disciplina applicabile; un atto senza contenuto patrimoniale non lo può, anche se ha struttura di accordo.
Il problema della formazione del contratto è, essenzialmente, il problema di sapere se un contratto c'è oppure non c'è, e quando comincia a esserci. Questo è tuttavia, in qualche misura, un linguaggio figurato. Infatti un contratto non è, di per sé, un elemento della realtà fisica, del quale si possa propriamente riscontrare l'esistenza, così come è dato riscontrarla per gli oggetti del mondo naturale. Eppure, nel linguaggio e nelle concezioni di teorici e di pratici del diritto, il problema della formazione del contratto è talora affrontato come se si trattasse di accertare l'esistenza fisica di una 'cosa': la questione di sapere se un contratto si è formato, o no, viene ridotta alla questione di verificare se determinati elementi della sfera fisiopsichica dell'uomo (le 'volontà' dei contraenti) abbiano causalmente generato un certo fenomeno (l'"accordo" o il "consenso" contrattuale), di cui il contratto costituirebbe appunto il meccanico prodotto.
Si tratta di una concezione, al tempo stesso, ingenua e fortemente ideologica. Concezione ingenua, perché riflette una certa tendenza di stampo positivistico a interpretare e ricostruire i fenomeni giuridici con le stesse categorie concettuali con cui si interpretano e si ricostruiscono i fenomeni della realtà naturale: per dirla con Kelsen, tramite la categoria della causalità anziché quella dell'imputazione. E concezione, altresì, fortemente ideologica, come quella che ha radice nell'esaltazione giusnaturalistica della volontà umana, elevata a fonte esclusiva degli effetti giuridici. Sono caratteristiche che ne fanno una concezione fuorviante, incapace di affrontare in modo corretto il fenomeno giuridico della formazione del contratto e i reali problemi che vi si connettono.In una prospettiva realistica, il giudizio se un contratto sia formato, e quando, costituisce il risultato di una qualificazione di determinati comportamenti umani, operata da norme giuridiche. Tale giudizio si affida perciò a criteri o schemi logici che sono non già 'naturali' e perciò 'necessari' e 'universali', ma invece risultano prefissati in modo convenzionale e, per così dire, arbitrario dal diritto (dai diversi diritti, a ciascuno dei quali possono corrispondere, e di fatto corrispondono, regole diverse di formazione del contratto).
Disciplinare la formazione del contratto secondo queste o invece secondo quelle regole è una scelta politica del legislatore: la quale corrisponde, essenzialmente, al modo in cui il legislatore ritiene di dover risolvere i possibili conflitti di interesse fra le parti coinvolte nella formazione del contratto.
Nella prospettiva indicata in chiusura del paragrafo precedente può dirsi che la formazione del contratto consiste in un procedimento, e cioè in una sequenza di comportamenti umani. Tale sequenza va confrontata con il modello, o lo schema, risultante dalle regole poste in materia dall'ordinamento giuridico. Se la sequenza reale corrisponde al modello procedimentale fissato dalla legge, allora può dirsi che quel certo contratto si è formato.Il carattere di relatività, e non di assolutezza, che in questo modo risulta tipico del giudizio sulla formazione del contratto è poi accentuato da un elemento ulteriore: il fatto che, all'interno del medesimo ordinamento, possono coesistere differenti modelli procedimentali fissati dalla legge per la formazione del contratto. Sicché i contratti possono formarsi, entro un sistema giuridico dato, in tanti modi diversi.
Ciò vale anche rispetto al sistema giuridico italiano, per la cui ricostruzione conviene dunque ispirarsi a un approccio relativistico e pluralistico. Nell'ambito di tale sistema può identificarsi un modello-base, che è quello definito dall'art. 1326, comma 1 (con l'integrazione di cui all'art. 1335), e corrisponde al modo in cui, in generale, i contratti si formano nel nostro ordinamento. Accanto al modello-base esistono poi svariati sub-modelli, che regolano la formazione di particolari classi di contratti.
La regola generale, posta dall'art. 1326, comma 1, è che i contratti si formano sulla base di una proposta contrattuale e della sua conseguente accettazione. Più precisamente, "il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte". Questa regola, che sembrerebbe codificare la cosiddetta 'teoria della cognizione', può risultare tuttavia di difficile applicazione pratica e dare luogo a incertezze: come si fa ad accertare con sicurezza il momento in cui uno prende conoscenza di qualcosa? La legge agevola l'accertamento di questo fatto psichico, legandolo all'accertamento di un fatto esteriore e riscontrabile in modo obiettivo, attraverso una presunzione legale: a norma dell'art. 1335, l'accettazione si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, "se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia".
Ne risulta allora che per il nostro sistema vale la cosiddetta 'teoria della ricezione', seppure temperata da una possibilità di prova contraria. In concreto: il contratto è formato nel momento in cui l'accettazione giunge all'indirizzo del proponente; ma il proponente può provare che l'accettazione, ancorché giunta al suo indirizzo, è stata da lui ignorata per un impedimento non dipendente da sua colpa (né - si aggiunga - riconducibile alla sua sfera di organizzazione), e in tal caso il contratto non è formato.
Questo modello generale di formazione del contratto non opera con riguardo a particolari classi di contratti, per le quali valgono modelli procedimentali differenti.
Per esempio. Nei contratti con obbligazioni del solo proponente non occorre che chi ha ricevuto la proposta manifesti la sua accettazione: perché si formi il contratto è sufficiente che egli non lo rifiuti entro un tempo ragionevole (art. 1333). Una espressa accettazione è superflua anche in ordine ai contratti per i quali è normale che chi riceve la proposta (ad esempio un 'ordine' di fornitura) cominci subito a eseguire la prestazione richiesta (ad esempio inviando subito la merce ordinata), senza bisogno di preventiva risposta: il contratto si forma nel momento in cui ha avuto inizio tale esecuzione (art. 1327). E ancora. Nei cosiddetti contratti reali (mutuo, deposito, comodato, ecc.), perché il contratto si formi non basta l'incontro fra proposta e accettazione: occorre un elemento in più, e cioè la consegna materiale della cosa che forma oggetto del contratto stesso.
Può anche accadere che chi ha formulato la proposta (o accettazione) si penta, e decida che l'affare non gli va più bene. Fino a che il contratto non è formato, egli può allora revocare la sua dichiarazione e impedire così che il contratto si formi (art. 1328).In qualche caso, però, la revoca non è possibile. Ciò accade in alcune ipotesi previste dalla legge e tutte le volte che lo stesso proponente si sia impegnato a tenere ferma la proposta per un certo tempo: si ha allora proposta irrevocabile (art. 1329). Il destinatario della proposta irrevocabile può perciò contare su un certo periodo di tempo per decidere se accettare o meno, così che entro quel tempo dipende solo dalla sua volontà se l'affare si conclude o no.Quando l'irrevocabilità della proposta è stabilita per accordo fra il proponente e il destinatario della proposta stessa, si ha il patto di opzione (art. 1331).
La proposta e l'accettazione di un contratto corrispondono alla volontà delle parti. Ma per produrre effetti giuridici la volontà deve uscire dalla sfera psichica del soggetto: deve essere resa socialmente conoscibile, deve essere manifestata all'esterno, e più precisamente alla controparte. Per concludere un contratto non basta la volontà, occorre la dichiarazione di volontà.Le dichiarazioni di volontà possono, in linea di principio, venire espresse in un modo qualsiasi: con parole scritte, con parole pronunciate, addirittura con un comportamento che prescinde dalle parole. Si richiede solo che il modo di espressione scelto dal dichiarante manifesti al destinatario, in modo adeguato e a lui intelligibile, la volontà di concludere quel contratto. Si pensi a chi sale sull'autobus e inserisce le monete nell'apparecchio che emette i biglietti, o a chi senza parlare prende e consegna merci alla cassa di un supermercato: si concludono così altrettanti contratti di trasporto e di acquisto.A proposito di casi come questi si parla di manifestazione tacita di volontà o, con termine più appropriato, di comportamento concludente.Un altro comportamento concludente può dar luogo anche ad atti diversi dal contratto, come ad esempio negozi unilaterali: se il chiamato all'eredità compie azioni che (pur in assenza di una dichiarazione espressa in tal senso) denunciano chiaramente la volontà di accettare l'eredità, ciò dà luogo a un negozio unilaterale di accettazione (tacita) dell'eredità stessa.
Quanto detto sopra corrisponde al principio di libertà delle forme, che caratterizza il diritto moderno nei confronti dei diritti meno evoluti.Nei sistemi giuridici del passato (nello stesso diritto romano e poi nel diritto comune) valeva generalmente l'opposta regola del formalismo negoziale: nessuna dichiarazione di volontà produceva effetti giuridici se non veniva espressa secondo formalità particolari (presenza di testimoni, impiego di determinate parole e non di altre, compimento di gesti rituali, ecc.) e proprio nella forma, più che nella volontà, si vedeva la fonte degli effetti giuridici; si può così dire che allora tutti i contratti erano contratti formali.
Con il trionfo delle ideologie del giusnaturalismo, e con la conseguente esaltazione della volontà e del suo potere creativo, a questa e solo a questa si riconducevano, come alla loro origine, tutte le conseguenze legali impegnative per il soggetto; e pareva che costringere la manifestazione del suo volere entro le rigide maglie di forme predeterminate in modo vincolante significasse comprimerne intollerabilmente la libertà. Libertà del volere postulava dunque libertà di forme: questa si afferma con il Codice napoleonico e giunge fino a noi, informando un sistema nel quale è regola che i contratti possano essere conclusi senza alcuna formalità.
Tale regola soffre però di eccezioni molto importanti, perché vi sono alcune classi di contratti e di altri atti giuridici per la cui formazione la legge richiede l'impiego di una forma particolare: questo significa che le dichiarazioni di volontà che danno vita a quei negozi devono essere rivestite da certe modalità espressive, o accompagnate da un determinato rituale (e quei negozi si chiamano allora negozi formali, o contratti solenni).
La forma solenne più comune e più diffusa è la scrittura: la legge prescrive ad esempio che debbano farsi in forma scritta (non possano cioè concludersi oralmente) tutti i contratti che trasferiscono la proprietà di immobili.
Altre volte neanche la scrittura è sufficiente, e la forma prescritta dalla legge presenta caratteri di maggiore complessità e solennità. È il caso dei contratti che devono farsi per atto pubblico: le dichiarazioni di volontà dei contraenti sono allora rese davanti a un notaio che, nella sua qualità di pubblico ufficiale, le riceve e le trascrive in un apposito documento (rogito notarile). La forma dell'atto pubblico è necessaria ad esempio per la donazione e per i contratti con cui si costituiscono società di capitali (come le società per azioni). E ancora: il negozio cambiario richiede che l'emittente apponga la sua firma su un apposito foglietto recante la denominazione di 'cambiale'; il negozio di matrimonio richiede che gli autori di esso - gli sposi - rispondano alla presenza di testimoni con determinate formule alle formule pronunciate dall'ufficiale di stato civile e che quest'ultimo li dichiari uniti in matrimonio; e così via.
Nei diritti antichi le prescrizioni di forma avevano connotazioni simboliche, di tipo magico e religioso, e riflettevano uno stadio dell'evoluzione giuridica in cui le norme di legge non si distinguevano nettamente dai precetti divini e dalle prassi rituali. Inoltre esse costituivano praticamente il mezzo più elementare per distinguere gli impegni giuridici da quelli cui non doveva riconoscersi valore vincolante sul piano legale. Con il progresso giuridico queste giustificazioni vengono meno, perché il diritto tende a sottrarsi all'influenza della religione, del rito, del mito, acquistando caratteri sempre più marcati di laicità e razionalità, mentre per l'individuazione e la selezione degli impegni giuridicamente sanzionati si affermano via via criteri meno rozzi di quelli fondati sull'osservanza di un cerimoniale esteriore.
Altre sono, oggi, le funzioni attribuite alle forme negoziali. Tra esse: garantire gli stessi interessati contro decisioni precipitose in ordine ad atti capaci di incidere sensibilmente sul loro patrimonio o, più in generale, sulle loro posizioni giuridiche; rendere obiettivamente certo e non controvertibile il fatto della formazione del negozio e il suo contenuto, così prevenendo liti su questi punti; rendere determinati atti più facilmente conoscibili anche ai terzi (cioè ai soggetti diversi dagli autori di essi), che potrebbero esservi interessati, attraverso le varie forme di pubblicità - come ad esempio la trascrizione nei registri immobiliari - che presuppongono appunto il carattere formale degli atti stessi.
Una persona può curare da sé l'amministrazione del proprio patrimonio o, più in generale, svolgere le attività giuridico-economiche che la interessano, concludendo personalmente i contratti e gli altri atti a ciò necessari. Ma talora questo non è possibile o conveniente per lo stesso interessato, o semplicemente non è a lui gradito, o ancora non è ritenuto opportuno dalla legge. In questi casi si ricorre alla rappresentanza: il contratto o l'atto è concluso da un soggetto (il quale compie tutte le attività necessarie: trattative, valutazione di convenienza dell'operazione, formazione e dichiarazione della volontà, ecc.), ma gli effetti del contratto o dell'atto stesso si producono in capo a un altro soggetto, incidono direttamente sul patrimonio o comunque nella sfera di un soggetto diverso. Chi fa il contratto o compie l'atto si chiama 'rappresentante', chi ne riceve gli effetti 'rappresentato' (art. 1388).
Si distinguono due tipi di rappresentanza: volontaria e legale. Nella rappresentanza volontaria è lo stesso rappresentato che decide autonomamente di conferire a un altro soggetto il potere di sostituirlo nel compimento delle attività giuridiche che lo riguardano; questo potere viene conferito al rappresentante con un atto unilaterale del rappresentato, che si chiama procura. Nella rappresentanza legale il potere di rappresentanza è conferito dalla legge, indipendentemente dalla volontà del rappresentato: ciò accade ad esempio - per ragioni diverse - con i minori e gli interdetti per infermità di mente (rappresentati rispettivamente dai genitori e dal tutore) e con gli imprenditori falliti (rappresentati dal curatore fallimentare); in una parola, con gli incapaci di agire.Inoltre, al meccanismo della rappresentanza si fa ricorso per il compimento dei contratti e degli atti che riguardano soggetti diversi dalle persone fisiche, e cioè le organizzazioni (società, associazioni, fondazioni, enti pubblici). Questi sono materialmente compiuti dagli organi, cioè dalle persone fisiche che hanno la rappresentanza del gruppo. Il sindaco o il consiglio comunale agiscono in rappresentanza del comune; il presidente o l'amministratore delegato o il consiglio di amministrazione o l'assemblea dei soci agiscono in rappresentanza della società. E gli atti compiuti da quei soggetti in nome del comune o della società sono, rispettivamente, gli atti del comune o della società. Il meccanismo della rappresentanza opera facendo sì che l'atto compiuto dal rappresentante produca i suoi effetti direttamente nel patrimonio del rappresentato, a una precisa condizione: che, nel compierlo, il rappresentante dichiari alla controparte di agire non per sé, ma in nome e per conto del rappresentato (cosiddetta 'spendita del nome').
Il meccanismo della rappresentanza non può operare per i cosiddetti atti 'personalissimi', che toccano la sfera più intima del soggetto interessato (quali matrimonio, testamento, donazione, riconoscimento del figlio naturale): questi devono essere compiuti personalmente dall'interessato e nessun altro può compierli in sua vece.
La legge disciplina i casi di uso scorretto o irregolare del meccanismo della rappresentanza: ad esempio quelli in cui il rappresentante opera in conflitto di interessi con il rappresentato, o compie atti dopo che la relativa procura gli è stata revocata, o addirittura compie atti per i quali non gli era mai stata data alcuna procura dal soggetto in nome del quale egli dichiara di agire (falso rappresentante o rappresentanza senza potere). Tale disciplina si ispira a un'idea fondamentale: realizzare il giusto equilibrio tra protezione del rappresentato contro atti del rappresentante che potrebbero pregiudicarlo e protezione del terzo con cui il rappresentante ha compiuto l'atto, terzo che poteva essere all'oscuro della scorrettezza consumata ai danni del rappresentato e così avere confidato nella piena regolarità dell'operazione (tutela dell'affidamento).
L'art. 1325 elenca i 'requisiti' del contratto, e cioè gli elementi che devono essere presenti perché possa dirsi che vi è un contratto. Essi sono: l'accordo, la causa, l'oggetto, la forma, se prescritta, a pena di nullità. Tali requisiti (con qualche opportuno adattamento, ove necessario) valgono altresì per gli atti diversi dal contratto, e dunque concorrono a definire la figura generale dell'atto o del negozio giuridico.
Il contratto richiede prima di tutto l'accordo delle parti (e sul 'senso' dell'accordo rispetto al contratto ci siamo già diffusi ampiamente). Riferito all'atto giuridico in generale, questo requisito si traduce in quello della volontà, o meglio della dichiarazione di volontà: dichiarazione che per gli atti diversi dal contratto (e che non implicano accordo tra due o più parti) è unilaterale anziché bilaterale.
Al requisito dell'accordo (o, più in generale, della dichiarazione di volontà) si lega quello della forma: che è, come abbiamo visto, l'insieme delle modalità espressive in cui devono manifestarsi le volontà degli autori degli atti.
Il contratto determina spostamenti di ricchezza: spostamenti attuali o potenziali, presenti o futuri; di ricchezza materiale o immateriale - consistente in cose o in diritti non 'cosali' - ma sempre spostamenti di ricchezza.
È principio generale del nostro sistema, e di ogni sistema fondato sopra postulati di razionalità, che qualsiasi spostamento di ricchezza deve essere giustificato; che il diritto ammette, riconosce e tutela solo gli spostamenti di ricchezza fondati su una qualche ragione giustificativa.Il concetto di 'causa' esprime appunto la ragione giustificativa degli spostamenti patrimoniali operati tramite atti giuridici volontari.
Il contratto deve allora avere una causa. Un contratto senza causa darebbe luogo al fenomeno - inammissibile nel sistema - di spostamenti patrimoniali non sostenuti da una ragione giustificativa.
Il contratto di compravendita, ad esempio, realizza un doppio spostamento di ricchezza: la proprietà della cosa passa dal venditore al compratore e il compratore dà al venditore la somma di denaro corrispondente al prezzo. Il primo spostamento è giustificato dal secondo e insieme lo giustifica. E allora qui, come in ogni altro contratto di scambio, o a prestazioni corrispettive, la causa è la contestuale esistenza di prestazione e controprestazione, che si giustificano reciprocamente e simultaneamente: è, in una parola, lo scambio stesso.
Causa è, più in generale, l'operazione economica che dà sostanza e ragione d'essere al contratto, mentre il contratto dà all'operazione economica veste e forza legali.
Nel Codice civile (art. 1418) possono identificarsi due ordini di previsioni normative in tema di causa del contratto: quelle relative alla causa illecita e quelle relative alla causa mancante. Entrambe sono finalizzate a un giudizio di nullità del contratto.
Se nel contratto manca la causa, il contratto è nullo. Si tratta di casi in cui l'operazione economica programmata dalle parti è irrealizzabile o priva di senso, e dunque non può funzionare come ragione giustificativa del contratto che le dà veste legale e degli spostamenti di ricchezza cui questo è orientato. Per fermarsi all'esempio più ripetuto: l'acquisto di cosa già in proprietà dell'acquirente è privo di causa, perché riflette un'operazione economica insensata, una pseudo-operazione incapace di giustificare il relativo contratto e gli spostamenti patrimoniali che dovrebbero derivarne.
Il contratto è poi nullo quando ha una causa, ma questa è illecita, cioè contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume (art. 1343). Questi sono i casi in cui l'operazione economica che dà sostanza al contratto e ne riceve forma legale è realizzabile e sensata, e di per sé, astrattamente, potrebbe costituire ragione giustificativa del contratto stesso e dei relativi spostamenti patrimoniali, ma è sotto altro profilo disapprovata dall'ordinamento giuridico, perché diretta a realizzare risultati che questo considera indesiderabili (ad esempio: se A promette a B di non sposarsi in cambio di una somma di denaro, questo atto ha causa illecita ed è nullo, perché contrasta con il principio di libertà matrimoniale).
Da quanto fin qui detto emerge la doppia valenza del concetto di causa. Causa è ciò che giustifica il contratto, gli dà un senso, sia agli occhi delle parti interessate, sia agli occhi dell'ordinamento giuridico. Se un contratto è privo di causa, vuol dire che esso riflette un'operazione insensata e ingiustificata prima di tutto dal punto di vista delle parti, cioè nella prospettiva di un esercizio razionale dell'autonomia privata. Se il contratto ha causa illecita, significa che esso riflette un'operazione la quale - seppure sensata e giustificata dal punto di vista delle parti - si presenta riprovevole agli occhi dell'ordinamento giuridico. In parole più brevi, la causa è oggetto e strumento di un controllo sulla razionalità del contratto, e al tempo stesso oggetto e strumento di un controllo sulla liceità del contratto.
In un caso e nell'altro il controllo può avere termini di riferimento più o meno ampi, a seconda del modo in cui la nozione di causa viene concretamente definita e specificata. Al riguardo, l'esperienza del pensiero giuridico italiano si caratterizza per la transizione dall'uno all'altro di due fondamentali orientamenti: da un orientamento astratto e tipizzante a un orientamento concreto e individualizzante.
Nella fase immediatamente successiva all'entrata in vigore del Codice prevaleva la tendenza a identificare la causa con la funzione economico-sociale tipica del contratto, che si configurava perciò identica per tutti i contratti appartenenti al medesimo tipo, con il quale la causa finiva per confondersi. A questa stregua, il contratto di vendita - ogni contratto di vendita - trovava la propria ragione giustificativa semplicemente nella nuda e astratta funzione di realizzare lo scambio tra cosa e prezzo, senza che in tale ragione giustificativa penetrassero, assumendo la corrispondente rilevanza causale, elementi concreti e atipici, propri di ciascuna particolare operazione e riflettenti gli specifici interessi delle parti.
Nei decenni seguenti la nozione della causa come funzione sociale tipica fu sottoposta a critiche crescenti e quindi sempre più marginalizzata a favore di un diverso modo di concepire la ragione giustificativa dei contratti. Questa diversa concezione della causa valorizza specifici interessi delle parti che, al di là dell'astratta funzione del tipo di appartenenza, il contratto - quel particolare contratto - è chiamato a realizzare, e attira anch'essi a formare la ragione giustificativa del contratto stesso e dei relativi spostamenti patrimoniali, riconoscendone con ciò la possibile rilevanza.In questa prospettiva si chiariscono la nozione di 'motivi del contratto' (tradizionalmente contrapposta a quella di causa) e il suo ruolo. Motivi sono gli interessi (i bisogni, i desideri, le aspettative) che non entrano a comporre la ragione giustificativa dell'operazione, e rimangono perciò privi di rilevanza causale, in quanto appartengono alla sfera puramente individuale e soggettiva del singolo contraente, senza informare di sé la logica dell'operazione complessivamente considerata. Un esempio: se io compro un oggetto allo scopo esclusivo di donarlo a un amico per il suo prossimo matrimonio, fa parte della causa di questo contratto di acquisto il mio interesse a entrare in proprietà di un oggetto del tipo e delle qualità richieste. Se questo mio interesse è deluso, ad esempio perché l'oggetto non ha tali qualità, possiamo dire che qui c'è un difetto che tocca la causa del contratto, dunque è rilevante e mi permette di attivare rimedi a mio favore. Ma se accade semplicemente che il mio amico decida di non sposarsi, io non posso invocare rimedi contro quel contratto che, pure, è diventato per me inutile: questo specifico interesse che mi ha spinto all'acquisto (fare un dono di nozze) non rientra nella causa del contratto, ma è semplicemente un motivo irrilevante.
Il contratto serve a sistemare interessi umani attraverso la regolazione di un rapporto giuridico patrimoniale. Tale regolazione si concreta nel regolamento contrattuale, e cioè nell'insieme delle conseguenze legalmente vincolanti che derivano dal contratto: quegli effetti giuridici in vista dei quali le parti fanno contratti e in funzione dei quali il diritto dà ai contratti valore legale.In questa prospettiva si può dire che la sistemazione di interessi perseguita, e la corrispondente regolazione del rapporto giuridico patrimoniale, sono il contenuto o l'oggetto del contratto (inteso in senso lato, perché in senso più ristretto oggetto del contratto è il bene su cui incidono gli effetti del contratto stesso, come ad esempio la cosa venduta nel contratto di compravendita, o il brevetto nel contratto di licenza di brevetto, ecc.). Al tempo stesso, però, esse ne sono il risultato, cioè l'insieme dei suoi effetti. Con la conseguenza che oggetto, contenuto ed effetti del contratto finiscono sostanzialmente per identificarsi, trovando la loro sintesi nell'idea di regolamento contrattuale.
Per contro, l'analisi giuridica tende a rifiutare siffatta identificazione e si preoccupa di distinguere quei concetti l'uno dall'altro. I risultati sono però dissonanti: non c'è grande intesa, tra gli interpreti, sul significato da attribuire ai termini appena indicati e sul modo di differenziarli tra loro. Di qui un fiorire di definizioni e di correlazioni, svolte in contrasto con altre definizioni e correlazioni, entro un dibattito che ha affaticato non poco (e forse più del giusto) gli studiosi del contratto e del negozio.Maggiore interesse merita piuttosto il rapporto tra oggetto del contratto (ovvero il regolamento contrattuale) e accordo delle parti, o più in generale volontà degli autori degli atti. L'accordo delle parti è necessario perché vi sia il contratto (inteso come la decisione vincolante di regolare in un certo modo propri rapporti giuridici). Ma l'accordo delle parti non esaurisce il contratto (inteso come il modo in cui quei rapporti risultano concretamente ed effettivamente regolati): questa concreta ed effettiva regolazione - cioè il regolamento contrattuale - è infatti determinata, oltre che dall'accordo delle parti, anche da altri fattori, esterni alla volontà dei contraenti.
Si immagini che A venda a B, per il prezzo di 120 e senza indicazione del luogo di consegna, un bene mobile per il quale il sistema pubblicistico di controllo dei prezzi prevede un corrispettivo massimo di 100. Qui il contenuto dell'accordo è che A trasferisce la cosa a B, e B si obbliga a pagare 120 ad A. Il contenuto del regolamento contrattuale generato da quell'accordo è invece diverso: è che A trasferisce la cosa a B; che la cosa sarà consegnata da A a B nel luogo dove essa si trovava al tempo della vendita, se le parti ne erano a conoscenza, oppure nel luogo corrispondente al domicilio o alla sede dell'impresa di A (art. 1510, comma 1); che B è obbligato a pagare ad A (non 120, ma) 100. Diversità che sono frutto dell'integrazione operata dalle norme di legge sul luogo di consegna e sul prezzo massimo. E il contenuto da ultimo indicato si identifica con gli effetti del contratto: effetto traslativo della proprietà da A a B; effetto generativo di onere a carico di B circa il ritiro della cosa; effetto generativo di obbligazione a carico di B, a favore di A, per un ammontare di 100.
Per identificare il regolamento contrattuale o, se si preferisce, l'oggetto del contratto, occorre dunque conoscere l'accordo (volontà) delle parti, e se del caso chiarirne il significato: ciò che si compie attraverso l'interpretazione. Occorre poi conoscere quegli altri elementi di regolazione del rapporto che non sono contenuti nell'accordo delle parti, ma derivano da fonti esterne le quali possono completare o addirittura modificare l'accordo stesso: e questa è l'integrazione.Nel nostro sistema esiste dunque una pluralità di fonti da cui discende la determinazione del regolamento contrattuale. In grande sintesi, esse possono classificarsi in tre categorie: l'accordo delle parti, le previsioni di legge, le valutazioni del giudice.
In prima istanza, determinare il regolamento contrattuale è potere e compito delle parti contraenti: la prima fonte di tale determinazione è ciò che esse hanno concordemente voluto; in una parola il loro accordo, che costituisce il punto di confluenza e di equilibrio tra gli interessi - tendenzialmente contrapposti - di cui ciascuna è portatrice.Il principio risulta dall'art. 1322, comma 1, ove si afferma che, entro i limiti stabiliti dalla legge, "le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto". Si tratta di un principio coerente con la posizione e il ruolo che il contratto ha nel sistema. Il contratto è essenzialmente veste giuridica di affari, strumento legale per l'esercizio dell'iniziativa economica: e la legittimazione dei privati a determinare liberamente il regolamento dei loro contratti non è che l'indispensabile corollario della libertà di iniziativa economica a essi riconosciuta dall'art. 41 della Costituzione.
Un primo, fondamentale modo in cui l'accordo delle parti può esercitare la sua competenza a determinare il regolamento contrattuale dell'operazione programmata consiste nello scegliere tra regolamento conducibile a un tipo contrattuale (contratto tipico) e regolamento atipico. Questa libertà di determinare il contenuto del negozio vale, in linea di principio, anche per atti diversi dal contratto, e in particolare per gli atti unilaterali a contenuto patrimoniale. Vale molto meno, invece, per altri negozi non contrattuali: il contenuto e gli effetti del matrimonio o dell'accettazione dell'eredità risultano in larga misura sottratti alle scelte discrezionali dei contraenti, che non sono liberi di conformarli a proprio piacimento (si parla infatti, al riguardo, di actus legitimi). Il tipo contrattuale è un genere, o un modello, di operazione economica suscettibile di essere rivestita della forma del contratto e regolata dalla legge con norme specifiche. Più precisamente, la legge detta norme che si applicano ai contratti diretti a realizzare quel determinato genere di operazione economica e dunque appartengono a quel determinato tipo di contratto (compravendita, locazione, assicurazione, appalto, ecc.).
Tipo (contrattuale) deve perciò intendersi come sinonimo di tipo (contrattuale) legale. Quando si parla di tipo 'sociale' si allude invece a un'operazione economica la cui tipicità deriva non dall'essere stata prevista e disciplinata dal legislatore con norme espressamente dedicate ai contratti che la rivestono, bensì dal fatto di ricorrere, con una certa frequenza e abitualità, nella prassi degli operatori.
I contratti che appartengono a un tipo legale si dicono contratti nominati, o tipici; i contratti che non appartengono a nessun tipo legale si dicono innominati, o atipici. A differenza che in altri sistemi (per esempio nel diritto romano classico), nel nostro ordinamento c'è libertà di fare contratti atipici, riconosciuti e tutelati dal diritto: è il principio enunciato dall'art. 1322, comma 2, ove si precisa che i contratti atipici sono ammissibili "purché [...] diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico".
Se non vi fosse la libertà di fare contratti atipici, cioè estranei a qualsiasi tipo legale, non esisterebbero neppure i tipi sociali: questi risultano infatti dall'abituale impiego di contratti (legalmente) atipici. Quando un tipo sociale si consolida e si diffonde, acquistando particolare importanza nella prassi dei traffici, è possibile che il legislatore ritenga opportuno dedicargli una normativa specifica, trasformandolo così in tipo legale. È quanto accadrà, per esempio, se troveranno attuazione le iniziative in varia sede assunte per dare disciplina legislativa ai contratti di leasing e di factoring (che oggi sono atipici, perché non appartengono ad alcun tipo legale).
La libertà di fare contratti atipici conosce qualche limite: in alcuni settori vale infatti, per lo meno in linea teorica, un principio di tipicità, o di numero chiuso, dei contratti ammissibili. Il divieto di contratti atipici è posto per esempio in materia di concessione di fondi rustici, dove l'art. 13, comma 1 della legge del 15 novembre 1964, n. 756, ha precluso la stipulazione di "contratti agrari di concessione di fondi rustici che non appartengono ad alcuno dei tipi di contratti regolati dalle leggi in vigore". E sono in numero chiuso, per antica tradizione, le convenzioni matrimoniali, dirette a introdurre regimi patrimoniali della famiglia diversi dal regime legale (che oggi è il regime di comunione degli acquisti).
L'esperienza dimostra peraltro che in tutti questi casi il vincolo di tipicità ha maglie larghe, o comunque tali da poter essere forzate senza troppa difficoltà: maglie entro cui l'autonomia privata riesce abbastanza agevolmente a introdurre strutture atipiche. Si coglie qui il punto di emersione di una più generale 'crisi' del regime di tipicità, che investe pure i settori in cui quel regime gode di più antica e radicata tradizione: dai diritti reali alle promesse unilaterali, alle società, ai titoli di credito.
L'interpretazione e la qualificazione del contratto (o di altro atto giuridico) hanno in comune l'essere operazioni giudiziali. Si differenziano tuttavia per il loro contenuto e la loro funzione.
L'interpretazione serve, in presenza di oscurità o ambiguità della volontà manifestata dall'autore o dagli autori dell'atto, ad attribuire a questo un significato tra i diversi significati possibili. La qualificazione serve invece a determinare se un contratto (o altro atto) sia tipico o atipico e, nel primo caso, a quale tipo legale esso appartenga.Interpretazione e qualificazione sono operazioni concettualmente distinte, ma praticamente legate da un rapporto biunivoco: per qualificare il contratto occorre interpretarlo, e cioè accertare il significato dell'accordo; ma conoscere a quale tipo il contratto appartenga è a sua volta elemento che può illuminare questo o quel punto dell'accordo.
Sempre sul piano pratico, interpretazione e qualificazione hanno un elemento comune, e cioè la finalità cui si dirigono: determinare qualità e misura degli impegni delle parti, scaturenti dal contratto; in altre parole, definire concretamente il regolamento contrattuale. Più precisamente l'interpretazione chiarisce o ricostruisce il regolamento, nella parte in cui questo è determinato dall'accordo delle parti; la qualificazione è il presupposto per l'operare di quella diversa fonte di determinazione del regolamento, che è costituita dalle norme appartenenti alla disciplina del tipo.
Il rilievo consente di definire meglio posizione e ruolo di ciascuna delle due operazioni, in rapporto all'accordo delle parti. L'interpretazione ha, in linea di principio, funzione sussidiaria rispetto all'accordo, il quale vincola l'attività interpretativa del giudice: questi, interpretando, non solo non può andare contro l'accordo, ma neanche può andare fuori dell'accordo, assegnando al regolamento pattizio significati che non siano direttamente legittimati dall'accordo stesso.
Per parte sua la qualificazione è l'attività del giudice esercitata sull'accordo delle parti, che il qualificante deve (o dovrebbe) assumere come un dato da non alterare, o ridurre, o forzare; deve per contro segnalarsi una certa tendenza dei giudici italiani a svolgere l'attività di qualificazione in modo non sempre rispettoso degli accordi atipici, che troppo volentieri vengono ridotti a tipi legali entro cui, per la verità, non si inquadrano in modo del tutto appropriato: il punto decisivo è che - ridotto l'accordo a tipo legale e ascrittolo a questo piuttosto che a quel tipo - il regolamento corrispondente risulta per automatismo integrato dalle disposizioni normative che appartengono al tipo o ai tipi prescelti.
Sotto questo profilo la qualificazione è rappresentabile come attività giudiziale che costituisce il punto di sutura tra determinazione del regolamento per accordo delle parti e integrazione legale del regolamento. In altre parole: qui la fonte giudiziale concorre indirettamente alla determinazione del regolamento, creando il presupposto per l'operare della (di questa o di quella) fonte legale.
Sappiamo che in linea di principio le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto. Accade spesso, peraltro, che le parti usino poco di questa libertà, e si limitino a fissare, nel loro accordo, il nucleo minimo essenziale dell'operazione o poco più, senza prevedere e regolare - come pure potrebbero - tutti i possibili profili dell'operazione stessa.
Per il corretto svolgimento dell'operazione è tuttavia necessario che tutti i profili di essa abbiano una disciplina (a cui fare riferimento, se non altro, in caso di controversia tra le parti): che tutti i profili, in altre parole, siano coperti dal regolamento contrattuale. Orbene, per le parti di questo che non risultino sostanziate dall'accordo dei contraenti, provvede la legge a darvi corpo.
Così, se le parti di un contratto di compravendita non lo dicono, è la legge che stabilisce dove e quando deve essere pagato il prezzo della vendita (art. 1498, commi 2 e 3), dove e come deve essere consegnata la cosa venduta (art. 1510).
Queste regole - si ribadisce - entrano in azione solo se l'accordo è lacunoso, solo se la questione cui si riferiscono non è stata prevista e risolta dalle parti, di cui si limitano a integrare la volontà mancante: perciò si definiscono norme suppletive. Ma se le parti vogliono, possono bene accordarsi per regolare la questione in modo diverso da quanto in esse previsto: sotto questo profilo si designano come norme derogabili, o dispositive.
A determinare il regolamento contrattuale possono concorrere, in assenza di accordo delle parti, anche gli usi o le consuetudini, e cioè le prassi comunemente osservate nello svolgimento dei vari tipi di operazioni contrattuali, anche se non previste in nessuna norma di legge formale. Questa funzione integrativa degli usi risulta da due articoli del Codice civile: l'art. 1374 stabilisce che "il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi"; l'art. 1340 dispone che le "clausole d'uso s'intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti".
Al pari delle norme dispositive, dunque, anche gli usi cedono di fronte alla contraria volontà delle parti. Se si aggiunge che sia le une sia gli altri codificano le correnti prassi dei traffici (e dunque i punti di vista e gli interessi degli operatori), se ne ricava trattarsi in entrambi i casi di fonti di integrazione del regolamento contrattuale, subordinate e funzionali all'autonomia privata.
A una logica affatto diversa rispondono quelle ulteriori fonti di determinazione del regolamento contrattuale che sono le norme imperative. Esse costituiscono il fondamentale strumento attraverso cui l'ordinamento giuridico controlla che le operazioni perseguite dall'autonomia privata nella forma del contratto o di qualche altro negozio giuridico non confliggano con i valori, con gli obiettivi, con gli interessi che l'ordinamento medesimo vuole in ogni caso garantiti. Sono norme imperative, ad esempio, quelle che stabiliscono la durata minima e il canone massimo dei contratti di locazione abitativa (legge sull'equo canone, n. 392, del 1978); analogamente lo sono quelle che impediscono al testatore di disporre in violazione della quota spettante agli eredi aventi diritto alla legittima. Essendo dettate per la tutela di interessi generali o socialmente importanti, esse non possono venir derogate dalla volontà delle parti, che sono obbligate a osservarle. Perciò esse si applicano non solo se le parti non hanno stabilito nulla sul punto, ma anche se hanno concordato previsioni diverse.Le previsioni delle norme imperative, infatti, si inseriscono automaticamente nel contenuto del contratto, sostituendosi alle diverse previsioni dei contraenti (inserzione automatica di clausole: art. 1339): se locatore e inquilino hanno pattuito una durata più breve o un canone più alto di quanto fissato per legge, al loro rapporto si applicano senz'altro le diverse previsioni legali. Le norme imperative costituiscono dunque lo strumento fondamentale di limitazione della libertà contrattuale, o più in generale dell'autonomia privata.
Anche il giudice può concorrere a determinare il regolamento contrattuale. Vi sono infatti casi in cui - di fronte a un accordo lacunoso - la legge affida al magistrato il potere-dovere di completarlo, inserendovi l'elemento che le parti avevano trascurato di stabilire.Tali casi riguardano spesso la fissazione del termine entro cui deve compiersi una certa attività prevista dal contratto (artt. 1183, 1331, comma 2, 1817). Possono però riguardare anche aspetti più sostanziali dell'operazione: ad esempio la stessa prestazione che forma oggetto del contratto (artt. 1349, comma 1, e 1286, comma 3) o la misura del corrispettivo pecuniario di una prestazione di fare (artt. 1657 per l'appalto; 1709 per il deposito; 1733 per la commissione; 1751, comma 2 per la mediazione; 2099, comma 2 per il lavoro subordinato; 2225 per il contratto d'opera; 2233, comma 1 per il contratto con il libero professionista intellettuale).
In termini più generali, poteri di conformazione del regolamento contrattuale sono attribuiti al giudice dall'art. 1374, ai sensi del quale "il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, e, in mancanza, secondo [...] equità". È infatti al giudice che spetta individuare, nel singolo caso, quali conseguenze derivano dal contratto "secondo equità".Questa previsione corrisponde a un fenomeno - che sembra caratterizzare molti ordinamenti contemporanei - di ampliamento dei poteri del giudice e di esaltazione della sua capacità di valutare fatti e situazioni in modo responsabile e autonomo, alla luce di principî generali più che attraverso una meccanica applicazione di analitiche e casuistiche previsioni legali. In concreto, la determinazione 'equitativa' del regolamento consiste in ciò, che il giudice chiamato a definire le complessive situazioni di diritto e di obbligo che per le parti derivano dal regolamento contrattuale è legittimato ad attribuire a tal fine rilevanza a tutte le circostanze che - pur non prese in considerazione dalle parti, e dunque non assunte a materia del loro accordo - tuttavia concorrono a definire in modo significativo l''ambiente' contrattuale: attribuendo a esse rilevanza, il giudice potrà dettare la soluzione più coerente con il programma dell'autonomia privata.
Di contro, non è consentito al giudice avvalersi dei suoi poteri di equità per portare il contratto a conseguenze contrastanti con l'assetto di interessi che le parti hanno posto a fondamento dell'operazione: al pari dell'interpretazione, neanche la valutazione secondo equità costituisce infatti uno strumento con cui il giudice possa affermare e far valere un interesse generale contro le scelte di autonomia privata che si assumano contrastare con esso.
Ciò non significa che non esistano casi in cui le valutazioni giudiziali incidono sul regolamento contrattuale in senso antagonistico all'autonomia privata. È quanto accade, per esempio, tutte le volte che il giudice dichiara un contratto nullo perché contrastante con l'ordine pubblico o il buon costume (art. 1343).
Questi principî sono accomunati alle norme imperative perché anch'essi esprimono valori e interessi generali, che devono prevalere sulle scelte dei privati contraenti. Si contrappongono, per altro verso, a esse sulla base di una ripartizione dei ruoli tra legislatore e giudice, nel senso cioè che attraverso quei principî il legislatore, per così dire, delega al giudice di determinare di volta in volta, con sue valutazioni autonome e in qualche misura discrezionali, l'eventuale indesiderabilità sociale delle operazioni di autonomia privata. E lo fa per colmare lo scarto tra un sistema di norme imperative inevitabilmente rigido e soggetto a obsolescenza e il sempre mutevole sistema dei valori e delle esigenze sociali che il primo non riesce a riflettere se non imperfettamente.
Fare un contratto significa realizzare un'operazione economica riconosciuta e tutelata dal diritto, e l'operazione si realizza compiutamente, sul piano legale, in quanto il contratto produce determinati effetti giuridici. Gli effetti del contratto rappresentano appunto l'espressione e la formalizzazione giuridica di quei trasferimenti di ricchezza che costituiscono la sostanza di ogni operazione contrattuale.Incidendo sopra i rapporti giuridici tra le parti, gli effetti del contratto ne modificano le situazioni giuridiche, e le parti subiscono tali modifiche anche se per avventura, dopo aver fatto il contratto, se ne pentano e non le desiderino più: fatta la vendita, il compratore è obbligato a pagarne il prezzo e il venditore ha perso la proprietà della cosa, qualunque sia il loro attuale gradimento per queste nuove posizioni giuridiche. Si introduce così l'idea del vincolo contrattuale, che si lega strettamente alla nozione di effetti del contratto: il contratto genera un vincolo giuridico per le parti, nel senso che queste non possono respingerne gli effetti, ma devono subirli.
Gli effetti del contratto possono essere tanto vari, quanto varie sono le operazioni economiche che i soggetti realizzano in forma contrattuale, e varie le esigenze e gli interessi che in questo modo essi mirano a soddisfare. Tuttavia è possibile classificarli; e classificandoli sulla base di criteri comuni particolarmente significativi ne risultano due grandi categorie: effetti reali ed effetti obbligatori. A seconda che producano gli uni ovvero gli altri, i contratti si suddividono così in due classi: contratti con effetti reali e contratti con effetti obbligatori.
I contratti con effetti obbligatori sono quelli le cui conseguenze giuridiche immediate si esauriscono nella nascita di obbligazioni e dei corrispondenti diritti di credito: ad esempio la locazione, l'appalto, il contratto di lavoro, il patto di astenersi dal fare concorrenza, ecc. Qui, per effetto del contratto, le parti acquistano solo diritti a pretendere determinati comportamenti dalla controparte, che a sua volta assume l'obbligo di tenerli: appunto, diritti di credito e obbligazioni.
I contratti a effetti reali sono invece quelli che producono, come loro effetto immediato, il trasferimento della proprietà, ovvero la costituzione o il trasferimento di un diritto reale parziario (usufrutto, servitù, superficie, ecc.) o infine il trasferimento di altri diritti, così assoluti (ad esempio un brevetto) come relativi (ad esempio diritti di credito preesistenti).Regola fondamentale dei contratti con effetti reali è che la proprietà o il diverso diritto che essi mirano a trasferire o costituire "si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato" (art. 1376). "Consenso" significa qui contratto perfezionato secondo il suo proprio schema legale di formazione. Ed efficacia traslativa del consenso significa che, per il trasferimento o la costituzione del diritto, non occorrono ulteriori requisiti in aggiunta a quelli legalmente necessari per la formazione del contratto. Così, la proprietà della cosa venduta passa all'acquirente senza bisogno che la cosa gli sia consegnata, perché la vendita si perfeziona con il semplice incontro fra proposta e accettazione.Il principio dell'efficacia traslativa del consenso (riconosciuto anche dal diritto francese) si ricollega alla tendenza, propria del giusnaturalismo e dell'illuminismo giuridico, a esaltare il ruolo della volontà come fonte e forza creatrice di ogni effetto giuridico. Esso non era accolto dal diritto romano e non è accolto, oggi, dal diritto tedesco: in Germania per trasferire la proprietà non è sufficiente la valida conclusione di un contratto traslativo; occorre, oltre a questa, un atto ulteriore e separato che, in esecuzione del contratto fondamentale, produca l'effetto di trasferimento (la consegna della cosa mobile; l'iscrizione del titolo di acquisto immobiliare negli appositi registri fondiari).
L'idea del contratto come vincolo, cioè come fonte di effetti legali a cui le parti non possono sottrarsi, trova enunciazione solenne nell'art. 1372, comma 1: "Il contratto ha forza di legge tra le parti". È la stessa idea che si racchiude in un'antica e nobile formula: pacta sunt servanda. Per la coerente ricostruzione del sistema, l'art. 1372, comma 1 deve essere letto sullo sfondo di altre due norme - gli artt. 1321 e 1322 - che esprimono il fondamento e la giustificazione della forza vincolante del contratto. Come sappiamo, per l'art. 1321 il contratto implica l'accordo, cioè la volontà di entrambe le parti di accettare quel programma e quel regolamento contrattuale: nessuno può essere vincolato contro o senza la sua volontà. A sua volta, l'art. 1322 garantisce ai privati, in via di principio, la libertà di conformare i loro regolamenti contrattuali nel modo più coerente con i loro interessi, con i loro gusti e anche con i loro capricci.
In altre parole, l'art. 1321 garantisce i privati (fatti salvi i casi di obbligo a contrarre) contro i vincoli imposti per iniziativa unilaterale altrui, cui essi non concorrono; l'art. 1322 li garantisce (fatti salvi i contenuti contrattuali legalmente imposti) contro vincoli di contenuto non gradito.
Questa doppia garanzia fa sì che gli impegni contrattuali siano, in linea di principio, impegni liberamente assunti e liberamente determinati dalle parti: e allora si giustifica che siano anche impegni vincolanti per le parti. I privati sono liberi di contrarre o non contrarre, ma se contraggono si vincolano: perché questo vincolo trova fondamento nella loro libertà. Il termine stesso di 'autonomia', del resto, esprime sia l'idea della libertà, sia l'idea del vincolo.
Fondati sulle ragioni appena viste, il principio che pacta sunt servanda e l'idea del contratto come vincolo fondano a loro volta il senso e l'utilità del contratto nel sistema dei rapporti sociali. I contratti si fanno, e servono, perché chi li fa può contare sul fatto che i risultati (gli spostamenti di ricchezza) in essi previsti non rimarranno sulla carta, ma si realizzeranno effettivamente, e la loro realizzazione non sarà affidata solo alla spontanea adesione del partner contrattuale, ma potrà essere pretesa e ottenuta anche contro la sua volontà: appunto perché egli è vincolato dal contratto.Il vincolo contrattuale è, in altre parole, l'elementare e indispensabile garanzia di effettività dei risultati perseguiti con il contratto e dunque il fondamento della sua funzione sociale. Se il contratto è vincolo per ciascuna delle parti, ne consegue che nessuna delle stesse, di regola, può sciogliere il contratto (e così liberarsi dal vincolo) per propria decisione unilaterale. Di contro, è fuori discussione la generale possibilità che il contratto sia sciolto "per mutuo consenso" (art. 1372, comma 1): la conseguente modificazione delle posizioni giuridiche di cui le parti sono titolari grazie al contratto è infatti accettata da tutte le parti che la subiscono.
Alla regola della normale impossibilità che il contratto si sciolga per decisione unilaterale di una parte, e più in generale per una causa diversa dall'accordo di entrambe, sono previste eccezioni, le quali possono ordinarsi in due categorie fondamentali: alla prima appartengono le ipotesi in cui lo scioglimento è determinato da una dichiarazione unilaterale di volontà (generalmente di tipo negoziale), talora in connessione con qualche altro elemento; alla seconda le ipotesi in cui lo scioglimento implica un'attività giurisdizionale.
Il principale esempio della prima categoria è dato dall'esercizio di un diritto di recesso unilaterale: artt. 1372 ss. Il diritto di recesso può essere attribuito alla parte da una previsione del contratto, scaturente dall'accordo dei contraenti (recesso convenzionale): in tal caso si potrebbe osservare che la deroga al principio dell'art. 1372, comma 1, è relativa, perché lo scioglimento, pur unilaterale, del vincolo trova la sua fonte mediata nell'accordo di entrambe le parti.In altri casi, all'opposto, è la legge stessa che attribuisce a una parte (o a entrambe) il potere di recedere unilateralmente, senza bisogno di un preventivo accordo in tal senso fra i contraenti: ciò accade in quei particolari rapporti nei quali si ritiene giusto assicurare agli operatori una maggiore libertà di movimento e di scelta circa l'operazione in corso (artt. 1671, 2227, 2237), oppure in quegli altri rapporti nei quali si tratta di proteggere una parte contro decisioni poco meditate, dandole la possibilità di 'pentirsi' e cancellare così l'operazione e il relativo vincolo (art. 12 della legge n. 77 del 1983, in tema di recesso dell'investitore dal contratto di investimento in valori mobiliari).
Restano finalmente i casi in cui l'iniziativa della parte interessata allo scioglimento del vincolo non basta da sola a operare lo scioglimento stesso, ma si presenta (in concorso con determinati elementi obiettivi) come fattore necessario d'impulso di un'attività giurisdizionale al cui esito soltanto è affidata la possibilità che il vincolo si sciolga: sono i vari casi di impugnativa e di risoluzione giudiziale del contratto.
Essi sono accomunati dal fatto di operare quali rimedi contro il vincolo derivante da un contratto difettoso, nel senso che si cercherà di precisare meglio nel prossimo paragrafo.
Prima di passare a tale argomento, merita osservare che i principî appena enunciati richiedono adattamenti più o meno profondi in relazione ai negozi giuridici diversi dal contratto. Tali negozi producono effetti giuridici, ma è, di caso in caso, molto diversa l'incidenza che la volontà dei loro autori può avere sul conseguente vincolo giuridico. Ad esempio: tra i negozi bilaterali, il matrimonio non solo vincola le parti, che non se ne possono liberare unilateralmente, ma neppure può sciogliersi per mutuo consenso di entrambe; tra i negozi unilaterali, il testamento è sempre e incondizionatamente revocabile dal testatore, mentre la promessa al pubblico è revocabile solo per giusta causa fino a che non si sia prodotta la situazione in essa prevista, e l'atto costitutivo di fondazione non può revocarsi dopo il riconoscimento dell'ente o l'inizio della relativa attività.
Può accadere che esistano al tempo della formazione del contratto, oppure sopravvengano in epoca successiva, fattori che si oppongono al regolare funzionamento dello stesso. Sono fattori i quali rendono, sotto diversi profili, inopportuno o indesiderabile che il contratto produca i suoi effetti, che il relativo vincolo permanga a carico delle parti, che gli spostamenti patrimoniali da esso giustificati abbiano corso. In questi casi possiamo dire, con formula generica, che il contratto è difettoso.
Quando il contratto è difettoso, scattano i rimedi contrattuali predisposti dalla legge, che ne fissa i presupposti, mentre spetta al giudice accertarne l'esistenza in concreto nei singoli casi. Questi rimedi hanno il comune obiettivo di impedire o cancellare gli effetti del contratto, e con essi gli spostamenti di ricchezza che ne dovrebbero conseguire: l'obiettivo, in una parola, di eliminare il vincolo contrattuale. E come molto diverse possono essere le ragioni che rendono indesiderabile, agli occhi dell'ordinamento, gli effetti di un determinato contratto, così diversi possono essere, pur nel comune obiettivo di rimuovere il vincolo contrattuale, i rimedi offerti a questo scopo.
Un discorso analogo può valere, tendenzialmente, anche per gli atti non contrattuali. E molti dei rimedi previsti per i contratti possono trovare applicazione - magari con varianti e aggiustamenti - anche nei confronti di altri negozi giuridici che si presentino per qualche ragione difettosi, così che i loro effetti richiedano di venire rimossi.
In un primo ordine di ipotesi, l'ordinamento persegue la rimozione del vincolo contrattuale perché contesta alla radice l'operazione di autonomia privata impostata dai contraenti.
Il rimedio preordinato alla rimozione del vincolo e dei corrispondenti effetti contrattuali è allora la nullità del contratto. Se si analizzano le cause di nullità del contratto (v. art. 1418 e le varie norme che operano in combinato disposto con esso), si rileva che questo giudizio di radicale contestazione dell'operazione contrattuale può risalire fondamentalmente a due ordini di ragioni: o perché si tratta di operazione irrealizzabile o insensata; oppure perché si tratta di operazione (realizzabile e sensata, ma) disapprovata dall'ordinamento in quanto socialmente dannosa.Il rimedio della nullità colpisce operazioni irrealizzabili o prive del senso di un'operazione contrattuale: per esempio quando dipende da mancanza di accordo fra le parti; da mancanza di causa; da mancanza dell'oggetto, ovvero da impossibilità, indeterminatezza e indeterminabilità dell'oggetto stesso.
Il rimedio della nullità colpisce operazioni disapprovate dall'ordinamento (perché lesive di interessi generali o comunque di particolare valore sociale): per esempio quando dipende da illiceità dell'oggetto; da illiceità della causa; da contrasto con norme imperative; da mancanza della forma legalmente necessaria (in quanto questa viene prescritta dalla legge a protezione di interessi generali).
In tutti questi casi, nel sancire la nullità del contratto - o in genere del negozio -, l'ordinamento si pone in antagonismo con la scelta di autonomia privata (anche se conviene precisare che, nella prima serie di casi, la contestazione di quella particolare iniziativa contrattuale dipende dal riconoscimento che essa si presenta come radicalmente incongrua rispetto al modello tipico-ideale dell'operazione di autonomia privata). E cancellarne gli effetti corrisponde alla necessaria salvaguardia dell'interesse generale, di cui l'ordinamento è portatore.
Alle ipotesi considerate nel paragrafo precedente si contrappongono tutte le altre, in cui il contratto è da considerarsi difettoso (così che l'ordinamento ritiene inopportuno il permanere del vincolo e la produzione dei relativi effetti) perché la misura e/o la qualità di tali effetti, cioè degli spostamenti di ricchezza determinati dal contratto, non corrispondono al piano degli interessi ragionevolmente riferibile alle scelte dell'autonomia privata.
Liberare le parti dal vincolo, rimuovere gli effetti del contratto o del negozio, cancellare cioè gli spostamenti patrimoniali o le disposizioni giuridiche cui questo darebbe luogo, è allora coerente con lo spirito dell'autonomia privata, perché impedisce che si determinino (per l'operare di un negozio difettoso) conseguenze incompatibili con il senso del programma da questo formulato. I rimedi iscritti in questa logica si presentano così immediatamente orientati non alla salvaguardia dell'interesse generale (come la nullità), bensì alla protezione degli interessi particolari dei contraenti: o meglio di uno dei contraenti, perché qui la difettosità del contratto si ritorce in pregiudizio di una delle parti, a protezione della quale l'ordinamento accorda la liberazione dal vincolo (che l'altra parte - di regola non toccata negativamente, o addirittura avvantaggiata, dal fattore di difettosità - vorrebbe invece conservare).
Valutare se il contraente danneggiato dalle circostanze che perturbano la regolare funzionalità dell'operazione e ne sconvolgono l'economia debba ugualmente restare vincolato ai suoi impegni contrattuali, oppure possa ritenersi sciolto dal vincolo, equivale a decidere su quale dei contraenti debba gravare il rischio delle circostanze che alterano il senso dell'operazione contrattuale.
La decisione procede sulla base di una serie di regole che nel loro insieme danno corpo a quello che può definirsi come il controllo di funzionalità dei contratti. Tali regole, benché poste a fondamento di rimedi diversi tra loro, hanno una ratio comune: esse riflettono tutte criteri di buon funzionamento del mercato e mirano ad assicurare che i rapporti tra i contraenti si sviluppino in modo razionale e corretto dal punto di vista della logica del mercato.In questo senso, la disciplina che presiede al controllo di funzionalità dei contratti non si prefigge altro, in definitiva, che assicurare il rispetto di quelle che potremmo chiamare le 'regole del gioco' contrattuale (che fa tutt'uno con il 'gioco' del mercato), in quanto presupposto per un ordinato e razionale svolgimento dei rapporti tra gli operatori economici contraenti: presupposto a sua volta necessario (e - secondo i postulati ideologici dell'economia classica - anche sufficiente) perché il mercato possa favorire la migliore allocazione delle risorse e con essa la massimizzazione del benessere collettivo.
È coerente a questa logica che nessuna delle regole concernenti il controllo di funzionalità del contratto sia diretta a controllare istituzionalmente l'adeguatezza del rapporto tra le prestazioni, a valutare se ciò che una parte ha dato o promesso sia adeguatamente remunerato da ciò che dall'altra parte a lei è stato dato o promesso; a garantire insomma l'equità dello scambio, il rispetto dei principî di giustizia commutativa. Le parti sono libere, in linea di principio, di fissare come credono le ragioni di scambio dei loro contratti; ciascuna parte è libera di dare 100 in cambio di 10. L'ordinamento giuridico non interviene a correggere questa 'iniqua' proporzione, ma rispetta le autonome scelte degli operatori - nella stessa misura in cui rispetta la libertà delle decisioni di mercato.
L'ordinamento giuridico interviene solo a controllare il quadro esterno delle circostanze entro cui quelle scelte e quelle decisioni - quali che siano - sono state assunte e devono essere portate a esecuzione: e reagisce solo nell'ipotesi che quelle scelte e decisioni siano state prese sulla base di elementi tali da perturbare gravemente le valutazioni di convenienza dell'operatore, ovvero debbano essere portate a esecuzione in presenza di circostanze sopravvenute, che incidono su di esse in modo così profondo da privarle di senso e di ragione economica.
Una prima, elementare regola del gioco contrattuale è questa: che colui il quale assume impegni, nel quadro di un'operazione economica, deve essere in grado di svolgere le sue valutazioni di convenienza in modo ragionevolmente corretto, senza che intervengano elementi tali da sconvolgere o alterare gravemente il processo decisionale destinato a sfociare nella risoluzione del contratto. Se non esistono neppure questi presupposti minimi di sensatezza e razionalità delle decisioni contrattuali, non sembra giusto né opportuno tenere il contraente vincolato a esse.
Per questo la legge prende in considerazione, assicurando opportuni rimedi, una serie di ipotesi caratterizzate dal fatto che il processo di formazione della volontà contrattuale di una delle parti risulta perturbato o falsato da circostanze esterne o interne al soggetto, ma in ogni caso tali da privare di ragionevole attendibilità il calcolo economico da lui posto a fondamento dell'iniziativa.
Ciò accade quando il soggetto si trova, nel momento in cui conclude il contratto, in condizioni fisiopsichiche tali da escluderne la normale capacità di intendere e di volere, ad esempio perché minore di età o interdetto per infermità di mente (incapacità di agire); e può accadere anche quando il soggetto sia fuorviato, nelle sue valutazioni della convenienza del contratto, da ignoranza o da false conoscenze in ordine a elementi essenziali dell'operazione (errore), ovvero dall'inganno e dai raggiri cui egli sia stato fatto segno, e che lo hanno determinato a contrattare (dolo), o infine da gravi minacce appositamente esercitate contro di lui per costringerlo a concludere l'affare (violenza): sono questi i cosiddetti vizi della volontà. In presenza di essi, il rimedio offerto è l'annullabilità del contratto (o più in generale del negozio), che consente al contraente pregiudicato nel suo processo decisionale, e perciò protetto dalla legge, di liberarsi dal vincolo assunto sulla base di una volontà viziata.
Alle ipotesi di incapacità di agire e di vizi del volere, che danno luogo all'annullabilità del contratto, possono accostarsene altre, accomunate alle prime dal fatto che anch'esse offrono un rimedio contro distorsioni del processo decisionale dei contraenti: sono le ipotesi in cui il contratto è soggetto a rescissione. Questo rimedio opera quando il contratto è stato concluso sotto la pressione di circostanze eccezionalmente gravi, tali da coartare in modo rilevante la libertà di determinazione e di scelta di uno dei contraenti, e da precludergli la possibilità di impostare l'operazione contrattuale secondo un corretto calcolo di razionalità economica: uno stato di pericolo, oppure uno stato di bisogno.
Quando (ma solo quando) si sia accertata una così grave anomalia dell''ambiente' esteriore in cui il contratto si è formato, si può passare a esaminare il contenuto, e cioè l'equilibrio economico che esso realizza: se i termini dello scambio risultino iniqui o pesantemente sperequati a danno della parte che ha sofferto quelle circostanze anomale, la legge le offre - con la rescissione del contratto - la possibilità di liberarsi dal vincolo contrattuale.
In altre ipotesi la razionalità economica o comunque la funzionalità dell'operazione contrattuale risultano perturbate, in danno di uno dei contraenti, da circostanze non già (come nei casi prima considerati) coeve alla formazione del contratto, bensì sopravvenute in epoca successiva. E come vi sono 'regole del gioco' contrattuale che riguardano il processo decisionale attraverso cui le parti si determinano a fare il contratto, così ve ne sono altre che riguardano il concreto svolgimento dell'operazione.
Fa parte delle più ovvie 'regole del gioco' che il contraente che assume vincoli contrattuali nell'ambito di un contratto a prestazioni corrispettive debba ricevere in cambio la prestazione a cui controparte si è vincolata nei suoi confronti. Se egli non la riceve perché tale prestazione è diventata obiettivamente impossibile, o perché controparte non la esegue o la esegue in modo inadeguato, è chiaro che l'operazione perde senso per tale contraente, perché l'inadempimento di controparte o l'impossibilità sopravvenuta della prestazione attesa impediscono la realizzazione del suo programma contrattuale: e non essendo né razionale né giusto tenere il contraente vincolato a un'operazione e a un programma oramai frustrati, gli si consente di sciogliersi a sua volta dal vincolo (e in più, nel caso di inadempimento imputabile a controparte, di far accertare la sua responsabilità e conseguentemente ottenere il risarcimento del danno).
Una ulteriore, anche se meno ovvia, regola del gioco è che chi assume un vincolo contrattuale lo fa, come suole dirsi, rebus sic stantibus, e cioè sul presupposto che le circostanze obiettive da lui assunte a base dei suoi calcoli di convenienza non mutino poi, imprevedibilmente, in modo tale da sconvolgere il piano di interessi posto a fondamento della sua decisione di contrarre, squilibrando a suo danno i termini economici dell'operazione. Se invece ciò accade - e le circostanze sopravvenute, straordinarie e imprevedibili, rendono la prestazione contrattualmente stabilita a suo carico eccessivamente onerosa - appare giusto e razionale consentire anche a lui di liberarsi dal vincolo.
In tutti questi casi - in cui sopravvenienze intervenute dopo la formazione dell'accordo frustrano il programma contrattuale di una delle parti, impedendole di trarre dall'operazione le utilità ragionevolmente sperate, o addirittura esponendola a perdite - il rimedio offerto a costei per liberarsi dal vincolo è, in generale, la risoluzione: per inadempimento di controparte (artt. 1453 ss.), per impossibilità sopravvenuta della prestazione attesa (artt. 1463 ss.), per eccessiva onerosità sopravvenuta della propria prestazione (artt. 1467 ss.).
Il principio dell'autonomia privata costituisce un portato della moderna società borghese e liberale, modellata dal capitalismo. Lo stesso vale per le teorie del negozio giuridico e del contratto, nate per strumentare quel principio. È dunque naturale che le corrispondenti regole e costruzioni giuridiche riflettano gli stessi valori fondamentali che informavano quella società e le filosofie create per legittimarla. In grande sintesi, questi valori possono ridursi ai tre seguenti: il valore dell'individuo; il valore della volontà; il valore della libertà da ingerenze pubbliche.
La società borghese ottocentesca si costituì (ed era concepita) come società di individui molto più che come società di organizzazioni. Gli individui, molto più che i gruppi organizzati, vi si presentavano come i protagonisti dei rapporti sociali, del traffico economico e dunque, infine, delle relazioni giuridiche. L'autonomia privata era perciò essenzialmente autonomia individuale, con la conseguenza che ai contratti e ai negozi si pensava prevalentemente, se non esclusivamente, come a contratti e negozi fatti da individui per soddisfare esigenze e interessi di individui.
Nella concezione 'classica' del negozio e del contratto la capacità degli atti privati di soddisfare esigenze e interessi dei loro autori faceva tutt'uno con la loro aderenza alla volontà dei soggetti. La volontà (e, per quanto si è detto poco sopra, la volontà individuale) era concepita come l'elemento essenziale, la sostanza stessa del contratto e del negozio giuridico. Anche nel linguaggio dei giuristi 'autonomia privata' si identificava con 'autonomia della volontà': per lungo tempo le due espressioni sono state usate con valore di sinonimi. Questa declinazione fortemente volontaristica (e perciò psicologistica) della teoria degli atti giuridici aveva precise conseguenze sul piano delle regole operative: la possibilità, per l'autore di una dichiarazione negoziale, di cancellare l'atto, e così di liberarsi dai suoi effetti vincolanti, dimostrando che tale dichiarazione e i conseguenti effetti giuridici non corrispondevano alla sua vera volontà, vuoi perché la dichiarazione non rifletteva esattamente la volontà stessa, vuoi perché questa si era formata in modo difettoso.
Infine, la concezione del contratto e del negozio si fondava su un principio di libertà: per l'appunto libertà contrattuale o libertà negoziale. Ciò significa che, in coerenza con i postulati politico-filosofici del liberalismo ottocentesco, l'autonomia privata era tendenzialmente immune da vincoli e limiti di fonte pubblica. Lo Stato lasciava i privati liberi di operare nella sfera giuridico-economica seguendo il proprio interesse o, addirittura, il proprio arbitrio, e si asteneva dall'intervenire circa i modi in cui essi intendevano regolare le proprie situazioni e i propri rapporti giuridici: che è quanto dire circa i modi in cui essi facevano contratti o altri negozi.
Libertà di contratto, fondata sulla sovrana volontà individuale dei contraenti: in questa formula possono riassumersi posizione e ruolo dell'istituto nel quadro degli ordinamenti liberali. Ed è alla luce di questa formula che si può intendere il senso dell'altra più famosa formula - "dallo status al contratto" - introdotta da Henry S. Maine per scolpire il passaggio dalla società di ancien régime, che imprigionava gli individui in un fitto reticolo di vincoli feudal-corporativi, alla società moderna, di cui a buon diritto il contratto e la libertà di contratto potevano erigersi a simbolo e valore fondante. Ma con la ulteriore transizione dagli ordinamenti liberali ai sistemi giuridici contemporanei, che riflettono una realtà economica, sociale e politica profondamente mutata, anche quella concezione del contratto si è venuta modificando, attraverso la progressiva erosione/trasformazione dei suoi fondamentali elementi costitutivi.
Mentre nella società ottocentesca il contratto era fatto, tendenzialmente, da individui per soddisfare interessi di individui, nella società contemporanea sempre più spesso i contratti fanno capo a organizzazioni complesse e sono orientati a realizzare interessi superindividuali: inevitabile conseguenza del fatto che oggi le organizzazioni, molto più degli individui, o, se si preferisce, gli individui organizzati molto più degli individui isolati sono protagonisti delle relazioni e delle attività economico-sociali.
La vita economica è dominata dalle grandi imprese, che sono invariabilmente soggetti non individuali ma collettivi, rivestiti dalla forma della società (lucrativa o cooperativa). Nella vita civile si moltiplicano le organizzazioni non di profitto (associazioni, fondazioni, comitati con le finalità più varie) che aggregano interessi e attività di rilevanza superindividuale. A sua volta, la vita pubblica esibisce una pluralità di enti o comunque di organizzazioni amministrative, tanto più numerosi e attivi quanto più si espandono - è fenomeno del nostro tempo - la presenza e l'intervento dello Stato nella sfera delle relazioni economico-sociali.
Ora, tutte queste organizzazioni operano essenzialmente attraverso la stipulazione di un infinito numero di atti giuridici, specie di contratti, che sono lo strumento a esse necessario per svolgere le proprie attività istituzionali, per realizzare i fini e gli interessi in funzione dei quali si sono costituite. E questo è un primo modo in cui il contratto passa da una dimensione individuale a una dimensione collettiva, che per il passato gli era sconosciuta.
La tendenza può cogliersi anche da un altro punto di vista, che si colloca per così dire a monte di quello appena considerato. Si è appena osservato il moltiplicarsi dei contratti delle organizzazioni: ma ancor prima si dovrebbe segnalare il fenomeno dei contratti per le organizzazioni. Si allude con ciò alla circostanza per cui alla base di molte importanti organizzazioni sta proprio un contratto, il quale dà vita all'organizzazione stessa: così è il contratto costituito tra gli associati o tra i soci, che dà vita rispettivamente all'associazione o alla società. Ma, alla lunga, l'organizzazione nata dal contratto fa premio sul contratto che le ha dato vita: i contratti di associazione o di società si obiettivano e per così dire si consumano nel complesso organizzativo generato da essi e che da essi tuttavia si distacca e si rende autonomo, acquistando una propria esistenza, una propria fisionomia, una propria capacità di durata che vanno al di là dei singoli rapporti contrattuali fondativi del gruppo organizzato, e al di là delle posizioni e degli interessi individuali dei singoli contraenti. Il diritto delle società conosce, tra i suoi luoghi classici, la distinzione, la dialettica, spesso la contrapposizione tra l'interesse della società e l'interesse del singolo socio: anche se sono proprio i singoli soci che, facendo il relativo contratto, hanno creato la società. Il fatto è che quel contratto si è obiettivato in una 'istituzione' che assorbe e trascende il contratto stesso.
Ma il fenomeno che con maggiore evidenza segnala il passaggio del contratto verso una dimensione collettivo-istituzionale è quello della contrattazione collettiva, di cui costituisce un esempio paradigmatico (ma non esclusivo) il contratto collettivo di lavoro, stipulato dalle contrapposte organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Sua funzione è determinare in modo giuridicamente vincolante le retribuzioni minime e le altre condizioni che dovranno essere osservate nella conclusione di ciascuno dei singoli rapporti individuali di lavoro tra gli imprenditori che hanno partecipato all'accordo e i loro dipendenti, rappresentati dai sindacati stipulanti. In altre parole, il contratto collettivo ha una funzione normativa, il cui senso è proprio quello di dettare regole per disciplinare non rapporti tra individui, bensì tra categorie sociali organizzate, secondo il modello della società che usa definirsi 'neocorporativa'.E proprio con riguardo a esso si è potuta teorizzare, come fenomeno tipico della società contemporanea, la tendenziale trasformazione dell'autonomia privata da autonomia individuale ad autonomia collettiva.
Gli sviluppi della società moderna mettono in crisi anche il ruolo centrale che la volontà aveva nella teoria e nella disciplina del contratto e del negozio giuridico, quali si erano configurate nell'Ottocento sulla base del giusnaturalistico 'dogma della volontà'.
Un primo fattore di crisi di questa impostazione psicologistica può cogliersi nel processo, descritto poco sopra, di espansione dell'area occupata dall'autonomia collettiva a scapito di quella che residua all'autonomia individuale. Il dogma della volontà, invero, presupporrebbe il prevalere di atti fortemente personalizzati, come sono gli atti compiuti da individui per individui. È invece molto più difficile valorizzare quella dimensione psicologico-soggettiva che è insita nell'elemento volontaristico, là dove prevalgono atti connotati da maggiore 'oggettività' o addirittura da una certa 'spersonalizzazione', quali gli atti che fanno capo a organizzazioni e sono orientati alla realizzazione di interessi superindividuali.
La conseguente 'oggettivazione' del contratto riflette del resto esigenze proprie della moderna economia, caratterizzata da produzione, distribuzione e consumi di massa. In un tale sistema il primo imperativo è quello di garantire la sicurezza e la stabilità dei rapporti, a loro volta presupposto per la celerità delle contrattazioni: ma questi obiettivi richiedono appunto che le transazioni siano assunte e disciplinate nella loro oggettività, nel loro svolgimento tipico; essi sono perciò incompatibili con l'attribuire rilevanza decisiva alla volontà individuale, ai particolari e concreti atteggiamenti psichici dei soggetti interessati all'operazione; in una parola sono incompatibili con la teoria della volontà.
Si spiega così il passaggio dalla teoria della volontà alla teoria della dichiarazione. 'Teoria della dichiarazione' è espressione riassuntiva di una serie di regole di disciplina del contratto, unificate da una caratteristica e da un obiettivo. La caratteristica è quella di ricollegare gli effetti e il trattamento giuridico dei rapporti agli elementi oggettivi, esteriormente e socialmente riconoscibili, degli atti con cui i rapporti si costituiscono, molto più che non agli elementi di psicologia individuale, agli atteggiamenti mentali rimasti nel foro interno, in una parola alla volontà delle parti: con la conseguenza che in caso di conflitto tra 'soggettivo' e 'oggettivo', tra le effettive posizioni della psiche e della volontà del contraente e ciò che socialmente appare e viene percepito dall'altro contraente, si tende ad attribuire prevalenza a quest'ultimo dato, sacrificando così la volontà alla dichiarazione. L'obiettivo è quello di tutelare gli interessi del destinatario della dichiarazione medesima, il quale abbia fatto affidamento sul tenore obiettivo e socialmente percepibile della stessa: una tutela di interessi individuali che -al livello dell'intero sistema - si converte per l'appunto in garanzia della sicurezza e della celerità degli scambi, della continuità e della stabilità delle relazioni di affari.Il modello soggettivo di controllo era strumento funzionale a un sistema economico individualistico, relativamente chiuso e poco dinamico, in larga misura dominato dal settore primario, qual era il sistema economico capitalistico del primo Ottocento, non ancora giunto all'apice del suo sviluppo. Il modello oggettivo di contratto è invece strumento funzionale a un'economia capitalistica altamente sviluppata, caratterizzata da produzione e consumi di massa e dunque da un elevato volume degli scambi: l'economia industriale del XX secolo. Tutto ciò ha un preciso riscontro sul piano della storia delle idee: se si vuole ricollegare a ciascuno di questi due modelli il nome di uno scienziato (o ideologo) sociale sembra possibile affermare che il primo corrisponde all'idea di contratto propagandata da Herbert Spencer (1820-1903), il teorico dell'utilitarismo liberal-individualistico, mentre il secondo riflette l'idea di contratto fatta propria da Émile Durkheim (1858-1917), non a caso uno dei primi sociologi che si occuparono della fenomenologia delle società di massa.Il contratto dunque si trasforma, per adeguarsi al tipo di mercato, al tipo di organizzazione economica di volta in volta prevalente.
Ma proprio trasformandosi e adeguandosi nel modo che si è detto, il contratto può continuare ad assolvere la sua funzione fondamentale nell'ambito delle economie capitalistiche di mercato: la funzione cioè di strumento della libertà di iniziativa economica.
È allora chiaro che le trasformazioni dell'istituto contrattuale, che abbiamo designato nei termini di una sua oggettivazione, non contraddicono ma anzi assecondano il principio dell'autonomia privata, intesa non necessariamente come sinonimo di autonomia della volontà individuale, bensì come forma giuridica e legittimazione della libertà economica, della libertà di perseguire il profitto o comunque di operare secondo le convenienze di mercato, nei modi e con le tecniche adeguate al tipo di mercato storicamente dato.
Su un piano diverso si collocano altri aspetti della evoluzione delle teorie e della disciplina del contratto, i quali riflettono vere e proprie restrizioni dell'autonomia privata o della libertà contrattuale, e cioè limiti sostanziali posti all'autonomo potere dei soggetti di decidere e attuare, nella forma del contratto, le iniziative economiche suggerite dalle convenienze di mercato. In prima istanza, i limiti alla libertà contrattuale sono limiti di fatto, che derivano dal contesto economico-sociale in cui si esercita l'autonomia privata: derivano, per usare una formula di sintesi, dalla disparità di potere contrattuale esistente fra le parti del contratto, disparità che a sua volta costituisce il riflesso della disuguaglianza di potere economico, di risorse conoscitive, di capacità organizzativa tra le categorie sociali di cui sono esponenti i soggetti impegnati nella negoziazione. E se in una negoziazione sono impegnati un contraente forte e un contraente debole, è fatale che il primo riesca a imporre la sua volontà e il suo interesse sulla volontà e sull'interesse del secondo, costringendolo ad accettare un contratto squilibrato a vantaggio della parte forte e a detrimento della parte debole, senza che questa possa - attraverso una vera trattativa condotta su un piede di parità - far valere adeguatamente le proprie esigenze e i propri interessi: in altre parole, la sua autonomia è qui compressa di fatto dal potere sostanziale d'imposizione unilaterale che il contraente forte è in grado di esercitare nei suoi confronti. La dottrina giuridica descrive il fenomeno attraverso la formula del contratto per adesione, a indicare appunto che una delle parti detta le condizioni contrattuali, a cui l'altra parte non può che aderire passivamente, perché solo a questo prezzo può ottenere il bene che forma oggetto del contratto: un bene spesso primario, e perciò difficilmente rinunciabile, e per altro verso un bene che il soggetto non riuscirebbe a procurarsi altrove a condizioni migliori.
Gli esempi sono tutt'altro che difficili da reperire. Lo stesso contratto di lavoro subordinato, per un'intera fase storica, corrispondeva al paradigma del contratto per adesione. La condizione degli operai delle fabbriche e degli altri lavoratori dipendenti nell'epoca della rivoluzione industriale è perfino troppo nota. Necessitati da esigenze legate alla loro stessa sussistenza fisica, nella conclusione del contratto di lavoro i lavoratori si trovavano in piena balia del datore di lavoro, che poteva determinare il contenuto a suo totale arbitrio e in conformità dei propri interessi. Essi non avevano alcuna possibilità di opporsi e di modificare le condizioni più dure del rapporto (in termini di livelli retributivi, orario, igiene e sicurezza dell'ambiente di lavoro, ecc.) che la controparte gli imponeva. È vero che erano formalmente liberi di concludere o non concludere il contratto di lavoro e di determinarne il contenuto, e, concludendolo, formalmente esercitavano poteri di autonomia contrattuale in posizione di formale eguaglianza con la controparte. Ma ciò non toglie che, di fatto, la loro inferiore posizione economico-sociale li espropriava di ogni possibilità di un esercizio reale, e non meramente nominale, della libertà di contratto.Un altro esempio, che a differenza del precedente ha valore attuale e non semplicemente storico, riguarda il fenomeno dei contratti standard (o condizioni generali di contratto), che concerne, generalmente, le imprese produttrici e/o distributrici di beni e servizi diretti a un vasto pubblico di consumatori e utenti. Data l'omogeneità (o, appunto, la standardizzazione) dei prodotti e servizi offerti, per collocarli sul mercato tali imprese devono stabilire una serie indefinita di rapporti contrattuali, omogenei per il loro contenuto, con una serie a sua volta indefinita di controparti. A questo scopo esse predispongono in anticipo uno schema contrattuale, un complesso uniforme di clausole applicabile indistintamente a tutti i rapporti della serie, che vengono così assoggettati a una medesima regolamentazione. Coloro i quali desiderano entrare in relazione d'affari con il predisponente non discutono né contrattano singolarmente i termini e le condizioni di ciascuna operazione, e dunque le clausole del relativo contratto, ma si limitano ad accettare in blocco (spesso senza neppure conoscerle compiutamente) le clausole unilateralmente e uniformemente predisposte da controparte, assumendo in tal modo un ruolo di semplici 'aderenti'.
Questa tecnica di contrattazione costituisce un portato ineliminabile della moderna organizzazione della produzione e dei mercati, e indiscutibilmente opera come decisivo fattore di razionalità e di economicità dell'agire imprenditoriale. Un risultato di questo genere è certamente desiderabile in sé e per sé. E tuttavia esso si consegue a un prezzo molto elevato, quello di privare una delle parti di ciascun rapporto -in concreto, intere masse di consumatori, acquirenti e utenti - di ogni possibilità di reale influenza in ordine alla determinazione del suo contenuto, che risulta imposto in via unilaterale. Viene così meno, sostanzialmente, il presupposto di un esercizio non meramente formale o fittizio dell'autonomia privata e della libertà contrattuale. Viene meno, in altre parole, quella libertà di valutazione e di scelta del consumatore che, nei postulati della teoria economica, costituirebbe il presupposto necessario per un razionale funzionamento dei meccanismi del mercato e della concorrenza. Non solo: ché, a guardare nel merito, si deve aggiungere che di questo loro potere di determinazione unilaterale e arbitraria del contenuto dei rapporti contrattuali le imprese predisponenti fanno nel gran numero dei casi un uso vessatorio a danno degli aderenti; le clausole uniformi imposte a questi ultimi sono di regola conformate in modo tale da realizzare esclusivamente gli interessi dell'impresa, garantendole vantaggi cui corrispondono, a carico di controparte, rischi, oneri e sacrifici ben più gravosi di quelli che le dovrebbero toccare in base alle norme dispositive (basta pensare all'abuso che nei contratti standard si fa delle clausole che escludono o limitano la responsabilità facente carico ex lege al predisponente, così dissolvendo una essenziale garanzia degli interessi dell'aderente).
I fenomeni di restrizione sostanziale dell'autonomia privata, dovuti alla disparità economico-sociale dei contraenti, non sono certo esclusivi dell'età contemporanea. Anzi, come l'esempio del contratto di lavoro subordinato indica con chiarezza, essi si presentavano in forma più acuta proprio nel secolo scorso, all'epoca della teoria classica del contratto. Ciò che da allora a oggi appare profondamente mutato è semmai il modo in cui il sistema giuridico si atteggia e reagisce rispetto a quei fenomeni.
Si è visto come nell'età del laissez faire l'ideologia della libertà contrattuale fosse spinta fino a precludere (o ridurre al minimo) gli interventi pubblici diretti a interferire nelle attività e nelle relazioni negoziali dei privati. Non era consentito allo Stato turbare le dinamiche spontanee del mercato, per introdurre in esse elementi di correzione degli squilibri e delle disuguaglianze esistenti tra i soggetti che vi agivano. Le cose mutano nel nostro secolo, in connessione con le trasformazioni del ruolo dello Stato. Cresce l'intervento statale nell'economia e si fa più intenso il controllo pubblico sulle attività di produzione e circolazione della ricchezza. Con l'affermarsi delle politiche di welfare, lo Stato non si pone più quale arbitro neutrale di fronte alle dinamiche del mercato e agli sviluppi del conflitto sociale, ma vi interviene quale giocatore attivo e 'parziale' con obiettivi di riequilibrio delle disparità economico-sociali esistenti tra i soggetti dell'ordinamento. Di qui il moltiplicarsi degli interventi autoritativi esterni che il potere pubblico - generalmente il legislatore - compie sull'attività contrattuale dei privati, vietando loro di inserire nei contratti determinati contenuti (considerati svantaggiosi per la parte 'debole' del rapporto, che si intende proteggere) e imponendo di inserirvi altri contenuti, utili all'interesse della parte 'debole'. Strumento di siffatto intervento pubblico sono, essenzialmente, le norme imperative e i meccanismi di inserzione automatica, che si sono illustrati a suo luogo.
In questo modo - possiamo dire - il legislatore reagisce alla restrizione o all'espropriazione di fatto della libertà contrattuale delle 'parti deboli', restringendo a sua volta, con formali prescrizioni normative, la libertà contrattuale delle 'parti forti' del rapporto: giacché sappiamo che è l'esercizio della libertà contrattuale dei contraenti in posizione di superiorità economica e sociale a causare direttamente la riduzione o la soppressione della libertà contrattuale dei contraenti in posizione economicamente e socialmente inferiore.
Gli interventi pubblici in restrizione della libertà contrattuale, a tutela di categorie di contraenti meritevoli di protezione, si dispiegano in tutti i settori più rilevanti della vita economico-sociale. Si consideri la materia delle locazioni urbane (e cioè dei rapporti tra proprietari di case e inquilini): qui il legislatore è intervenuto prima (e per un lungo periodo) con provvedimenti di 'blocco' dei contratti di locazione in corso e dei relativi canoni, poi con la legge n. 392 del 1978 (legge dell''equo canone'), che ha sottratto alla libera contrattazione delle parti addirittura i due elementi fondamentali del contratto: durata e misura del canone. Considerazioni analoghe valgono per la materia dei contratti agrari, che è come dire dei rapporti tra i proprietari della terra, che non la lavorano direttamente, e i non proprietari che la lavorano e la fanno fruttare. E lo stesso infine può dirsi per la materia - ancora più rilevante - dei contratti di lavoro subordinato, in cui il legislatore è ripetutamente intervenuto, soprattutto a partire dagli anni sessanta, a disciplinare i rapporti con norme in favore dei lavoratori subordinati, le quali, proprio per essere inderogabili dalle parti, operano come limite alla loro libertà contrattuale.
Al riguardo, deve tuttavia ricordarsi che nel campo dei rapporti di lavoro il riequilibrio tra le posizioni dei contraenti non si è realizzato attraverso interventi legislativi diretti a limitare la libertà contrattuale, e dunque l'autonomia privata, delle parti, ma altresì - e ancor prima - attraverso quel 'recupero' della stessa autonomia privata, a un diverso livello, che si realizza con la sua trasformazione da autonomia individuale in autonomia collettiva (contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro a opera dei sindacati).
In presenza degli sviluppi che si sono delineati, sempre più di frequente si agita la questione se la società e il diritto contemporanei conoscano un declino oppure, all'opposto, una nuova vitalità del ruolo dell'autonomia privata e del contratto, suo fondamentale strumento. La risposta non è facile, perché quegli sviluppi sono spesso ambigui e contraddittori: nel senso che vi sono fenomeni i quali sembrano segnare un'obiettiva riduzione dell'importanza dell'autonomia privata e del contratto quali apparati di regolazione sociale, mentre accanto a essi altri fenomeni sembrano invece dilatarne ed esaltarne il ruolo.
Si consideri il vasto e rilevantissimo campo dei rapporti di lavoro subordinato. Qui, per un verso, si assiste a un regresso dell'autonomia privata: con il moltiplicarsi degli interventi imperativi del legislatore sul rapporto di lavoro si riducono gli spazi entro cui le parti possono liberamente determinarne il contenuto: sempre più le leggi, sempre meno i contratti, operano quali fonti di regolazione di queste categorie di rapporti. Ma, per altro verso, è questo stesso il terreno su cui sono nate e si sono sviluppate quelle prassi di contrattazione collettiva che hanno aperto nuovi importantissimi spazi allo strumento del contratto e all'esercizio dell'autonomia privata: la quale, se arretra in quanto autonomia individuale, avanza invece nella forma di autonomia collettiva.Il segno della contraddittorietà sembra anche caratterizzare, su un piano più generale, l'evoluzione dei rapporti tra il contratto e la legge. Si è visto come gli sviluppi sopra delineati segnalino lo straordinario estendersi degli interventi legislativi sui rapporti contrattuali, che riducono sostanzialmente gli spazi entro cui può esplicarsi l'autonomia dei privati: in questo senso, con una formula un po' generica ma incisiva, potrebbe dirsi che la legge celebra oggi il suo predominio sul contratto, sottraendo a quest'ultimo settori di rapporti e competenze che prima gli erano riservati.
Ma una tale rappresentazione della realtà - pur vera in sé - è soltanto parziale, perché trascura fenomeni che, al contrario, sembrano delineare una tendenza esattamente opposta: la tendenza per la quale è il contratto a conquistare un certo predominio sulla legge, e ad assicurare la disciplina di rapporti e situazioni che prima trovavano il loro regolamento esclusivamente nelle prescrizioni autoritative del legislatore; tendenza che sovente si esprime con l'affermare che oggi la legge viene sempre più spesso 'contrattata'. Intesa nel suo senso più generico o addirittura più grossolano, questa formula allude al fatto che molto spesso - per la sempre più forte frammentazione o segmentazione della società, che si riflette poi sui modi di funzionamento del sistema politico-istituzionale - i provvedimenti legislativi non fanno che sanzionare 'accordi' previamente intervenuti fra le parti politiche interessate, quando non 'intese' o 'impegni' strappati dalle categorie sociali o professionali con efficaci azioni di lobbying.
Ma c'è un altro fenomeno, che in modo ancora più chiaro documenta la tendenza per cui il contratto si spinge a occupare spazi e a svolgere ruoli un tempo riservati gelosamente al dominio della legge, o più in generale degli atti che emanano unilateralmente dal potere pubblico: il fenomeno -affermatosi di recente - della contrattazione collettiva nell'ambito del pubblico impiego.
È noto che il rapporto di lavoro con lo Stato e con tutti gli altri enti pubblici non economici non nasce da un contratto e non si configura come un rapporto contrattuale; fonte di esso (e dei suoi contenuti) sono, per antica tradizione, l'atto unilaterale dell'amministrazione, nonché la legge. Ma da qualche tempo l'organizzazione e l'iniziativa dei sindacati sono riuscite prima a rendere meno rigido e poi a smantellare questo modello, introducendo anche nel settore del pubblico impiego la pratica della contrattazione collettiva. 'Controparte' del sindacato è qui l'ente pubblico, o gli organi che lo rappresentano; contenuto del contratto collettivo sono le condizioni di trattamento economico e normativo che l'ente pubblico si impegna a praticare ai propri dipendenti: non già in via diretta, bensì trasfondendole in altrettanti articoli di leggi (o altri provvedimenti normativi) che il potere pubblico-contraente si impegna a emanare. In questi casi la legge o l'atto normativo (fonte formale di disciplina del rapporto) non è altro che la sanzione e la registrazione di un contratto, al quale sostanzialmente va ricondotta - come alla sua fonte reale - la disciplina dei rapporti e delle situazioni di cui si tratta. E la legge del 29 marzo 1983, n. 93 (cosiddetta legge quadro sul pubblico impiego), che regola procedure, modalità di svolgimento ed effetti della contrattazione sindacale nei vari rami del pubblico impiego, ha addirittura individuato materie (così la retribuzione, il lavoro straordinario, la mobilità del personale) in ordine alle quali le previsioni degli accordi sindacali hanno efficacia immediata, senza bisogno della loro traduzione in formali atti normativi.
A qualche interessante riflessione può dare spunto anche l'analisi dei rapporti tra contratto e attività della pubblica amministrazione.
Per un verso non v'è dubbio che la libertà contrattuale dei privati subisce crescenti limitazioni a opera di interventi amministrativi, variamente configurati e finalizzati (si pensi, per esempio, ai prezzi 'amministrati' dal CIP, o alla preventiva approvazione o autorizzazione amministrativa che si richiede per determinati atti contrattuali, come ad esempio le condizioni delle polizze di assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, condizioni predisposte dalle imprese assicuratrici, che devono essere approvate con decreto del ministro per l'Industria).
Ma per altro verso quei medesimi fenomeni di accresciuto intervento degli apparati pubblici nella sfera della società civile fanno sì che il contratto si ponga come strumento sempre più utilizzato e necessario per le finalità dell'azione amministrativa - non più dunque semplice oggetto dell'intervento pubblico, ma suo mezzo insostituibile. Di modo che il contratto, se così può dirsi, celebra la sua 'rivincita' sull'attività della pubblica amministrazione.
Questo fenomeno si manifesta in primo luogo con una partecipazione sempre più intensa degli enti pubblici all'attività contrattuale, negli stessi ambiti in cui vi prendono parte i soggetti privati e sul medesimo piano di questi: si pensi ai contratti (di fornitura, di appalto, ecc.) stipulati dalle pubbliche amministrazioni con imprese private, per procurarsi i beni o i servizi necessari all'adempimento dei loro compiti, via via più estesi.Ma la 'rivincita' del contratto sulla pubblica amministrazione non si arresta qui, e conquista al contratto - nell'ambito dell'azione amministrativa - posizioni e ruoli qualitativamente nuovi. Si tratta, in breve, del fenomeno per cui rapporti e situazioni coinvolgenti interessi di privati cittadini, che secondo i classici schemi dell'azione amministrativa (impostata tradizionalmente sulla contrapposizione di autorità e libertà) venivano disciplinati attraverso unilaterali provvedimenti dell'amministrazione, e dunque in via schiettamente amministrativa, tendono sempre più a essere regolamentati in via convenzionale, e dunque sulla base di un accordo - diciamo pure di un contratto - tra privato ed ente pubblico, secondo un nuovo modello di azione amministrativa organizzato sul consenso più che sull'imposizione.
Si usa richiamare, a questo proposito, la nozione di contratto di 'diritto pubblico'. Ne costituiscono un esempio i cosiddetti 'accordi bonari' per il trasferimento consensuale di immobili di proprietà privata che dovrebbero essere assoggettati a procedimento di espropriazione; o ancora le cosiddette 'concessioni-contratto', con cui la pubblica amministrazione concede al privato l'uso di determinati beni pubblici (ad esempio di una porzione del demanio marittimo) ovvero l'esercizio di un pubblico servizio.
L'analisi delineata intorno ai diversi fenomeni di trasformazione del contratto e del diritto dei contratti smentisce quanti proclamano la tesi di un irreversibile 'declino' o addirittura della 'morte' del contratto in quanto tale, o di un ritorno 'dal contratto allo status'. In realtà, se per qualche aspetto il contratto appare oggi in declino, per altri aspetti il suo ruolo conosce un'espansione e un rilancio; il contratto non è 'morto', ma è semplicemente 'diverso' da come era in passato; e più che un ritorno 'dal contratto allo status' sembra legittimo parlare del passaggio da un modello di contratto a un altro modello di contratto, meglio adeguato alle esigenze dei tempi nuovi.
Conviene ora offrire qualche spunto di comparazione, utile a comprendere il modo in cui una materia così rilevante e centrale come quella che attiene al contratto e, più in generale, all'atto di autonomia privata, viene affrontata e sistemata in contesti giuridici diversi dal nostro. Evidenti limiti di spazio impongono di circoscrivere, e perciò selezionare, gli ordinamenti stranieri ai quali riferire tali cenni di comparazione. Si sceglie così di non soffermarsi su sistemi pure obiettivamente molto importanti, come quello francese e quello germanico: quanto al primo, perché compreso in quella stessa 'famiglia' dei sistemi romanistici, o latini, a cui appartiene pure il nostro sistema; quanto al secondo, perché, pur appartenendo a una diversa 'famiglia' giuridica, ha esercitato sul nostro sistema una fortissima influenza tramite un processo di recezione di modelli dottrinali tedeschi entro la cultura giuridica italiana, che ha avuto come campo privilegiato di operatività proprio la teoria del negozio giuridico quale strumento elettivo dell'agire autonomo dei privati.
Sembra invece di maggiore interesse dedicare attenzione a ordinamenti più lontani dal nostro (e non meno significativi dei precedenti nel panorama giuridico contemporaneo): in particolare, ai sistemi giuridici anglosassoni (o di common law), che presentano rispetto al nostro più marcate differenze di struttura e di modelli culturali, e a quelli socialisti, forse più vicini a noi quanto ai modelli culturali e alle categorie concettuali, ma certo più divaricati sotto un profilo - quello politico - che assume un rilievo decisivo nei confronti di una materia appunto così 'politica' quale quella dell'autonomia privata e dei suoi strumenti.
Un'indagine che metta a confronto le linee di sviluppo e l'attuale concezione del contratto nell'ambito della common law e rispettivamente nei sistemi 'continentali' farebbe emergere profonde differenze insieme con significativi punti di contatto. Un primo punto di contatto riguarda l'origine stessa della figura del contratto nel suo delinearsi quale autonoma fonte di effetti giuridici volontari. Nell'area romanistica la responsabilità ex delicto precede storicamente la responsabilità ex contractu, e solo tardivamente il valore del contratto come fonte autonoma di effetti legali (più precisamente il valore vincolante della promessa) si afferma attraverso il lento riconoscimento della possibilità di azionare in via legale - di fronte alla rottura della promessa - un'apposita responsabilità 'contrattuale', distinta da quella generica responsabilità per illecito che in origine esauriva ogni forma di responsabilità. Analogo processo vale per la common law: anche nell'area del diritto inglese in principio era il tort, e solo il tort fondava responsabilità e pretese legali; la nascita del contract, cioè il delinearsi di un'autonoma responsabilità per rottura di una promessa volontariamente assunta, si identifica con un processo di emancipazione dal ceppo originario dell'illecito. A questo dato si lega un'ulteriore convergenza storica tra common law e famiglia romanistica: nell'una e nell'altra area il contratto nasce come semplice fonte di promesse (vincolanti), e con esclusione di altri tipi di effetti giuridici, in particolare con esclusione dell'effetto del trasferimento della proprietà. Per tutta una fase, nell'intera area dei diritti europei, il problema fondamentale del contratto si esauriva nell'individuare le condizioni alle quali una promessa può considerarsi fonte di obbligazioni per il promittente e, per il promissario, fonte di un diritto di credito azionabile in giudizio: richiamando categorie familiari al giurista italiano, si può dire che in origine il contratto era solo contratto con effetti obbligatori, e non si concepiva un contratto con effetti reali.
Ma su questo comune elemento d'origine si innesta, nel procedere dell'evoluzione storica, un elemento di differenziazione che tuttora ci divide dall'esperienza della common law. Mentre in Italia e negli altri ordinamenti della famiglia romanistica si afferma - con il principio dell'efficacia traslativa del consenso - l'idea che il contratto serve non solo a far nascere obbligazioni, ma anche a trasferire la proprietà, nell'area della common law (come pure in quella dei diritti germanici) questa idea non passa, e il contratto continua a identificarsi senza residui con la promessa vincolante, generatrice di obbligazioni. Ecco perché la più classica definizione del contract - quella di Pollock - identifica in esso nient'altro che "a promise, or a set of promises, which the law will enforce". Ecco perché alla figura e alla disciplina del contract risultano completamente estranei temi che invece, nella nostra esperienza, appartengono a pieno titolo alla problematica contrattuale: in particolare, il tema del trasferimento della proprietà (coperto dal concetto di conveyance), e più specificamente quello dell'attribuzione della proprietà in via fiduciaria, cui corrisponde il peculiare (e difficilmente traducibile) istituto del trust.
Né si riduce a questo la sfasatura tra l'area delle materie coperte dal concetto di contract e quella cui rinvia la figura del contratto nel diritto italiano (e in genere continentale). Per fare un altro esempio, il tema dell'agire in nome altrui (in una parola, della rappresentanza), che noi siamo abituati a ricondurre alla problematica del contratto o del negozio giuridico, nell'area della common law costituisce - sotto la denominazione di agency - materia del tutto autonoma, che non trova spazio nelle trattazioni del contract. E ancora: mentre, come si è visto, in Italia e in Germania il contratto viene per antica tradizione inquadrato nella più generale e astratta categoria del negozio giuridico, una tale categoria non trova alcun equivalente nell'esperienza della common law.
Per altro verso, l'evoluzione che la figura del contract e il principio dell'autonomia privata (freedom of contract) conoscono nel passaggio tra lo scorso secolo e il presente esibisce tratti comuni con l'analoga evoluzione che contratto e autonomia privata subiscono, nel nostro ambiente, con la transizione dalla società liberale alla moderna organizzazione della società di massa e dello Stato del benessere.
Nell'Ottocento - l'epoca in cui si consolida la cosiddetta teoria 'pura' o 'classica' del contratto - il dogma liberale e liberista della freedom of contract si traduceva in alcuni principî o regole fondamentali, che era costume esprimere nell'eloquente formula della sanctity of contract. E 'sanctity of contract' significa essenzialmente due cose. La prima è che le parti private devono essere libere di conformare i loro contratti secondo la propria volontà e le proprie convenienze, senza che autorità pubbliche - legislatore o giudici - vi interferiscano e mettano in discussione le scelte autonome dei contraenti in nome di ragioni di public interest o di public policy. La seconda è che, una volta fatto il contratto e assunti i relativi impegni, le parti sono rigidamente vincolate a osservarli, e il giudice non può liberarle da essi anche se per circostanze sopravvenute il rispetto di quegli impegni sia divenuto terribilmente gravoso o del tutto antieconomico per chi li aveva assunti (inderogabilità del principio pacta sunt servanda). Questa linea di assoluto non interventismo si esprimeva nella classica formula per cui "i giudici non devono fare i contratti per le parti".
Ma era una linea che non avrebbe resistito, in quella sua durezza, alle prove del XX secolo. Oggi, anche nella common law, il rigore del principio pacta sunt servanda si stempera nella costruzione e applicazione di tutta una serie di remedies fondati su principî di good faith e reasonableness, e offerti a chi cerchi di sottrarsi all'adempimento di un contratto che nuove circostanze hanno reso obiettivamente troppo gravoso per lui. E con sempre maggiore larghezza si ammettono interventi 'correttivi' per incidere dall'esterno, in senso riequilibratore, sopra contratti stipulati tra parti in posizione di inequality of bargaining power.
Siffatti interventi sono operati in primo luogo dai giudici, le cui decisioni - in un sistema di judge made law, costruito sul valore vincolante del precedente giudiziale - sono la principale fonte normativa anche delle regole in materia di contratto. Ma sempre più spesso, in tempi recenti, tendono a essere operati anche dal legislatore: e in questa crescente importanza della fonte legislativa può cogliersi un ulteriore elemento di convergenza tra le linee di sviluppo del diritto contrattuale nei sistemi di civil law e di common law.
In una prospettiva a cui le tumultuose vicende politiche maturate nell'Europa dell'Est sul finire degli anni ottanta assegnano oramai un carattere prevalentemente storico, concludiamo con qualche rilievo intorno al senso e al valore del contratto e dell'autonomia privata nei sistemi di tipo socialista. È evidente che in un ordinamento socialista il principio dell'autonomia contrattuale non poteva assumere lo stesso valore e la stessa funzione che a esso si riconoscono negli ordinamenti giuridici 'borghesi'. Entro sistemi, come quelli socialisti, che programmaticamente respingevano la distinzione-contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato, non avrebbe avuto senso parlare di autonomia 'privata', intesa come potere del singolo o dei gruppi di perseguire i propri interessi, separati da quelli della collettività o a essi contrapposti: l'esercizio dei poteri attribuiti ai cittadini e alle imprese - i protagonisti della sfera contrattuale - era considerato istituzionalmente finalizzato al perseguimento dell'interesse collettivo. Ma questo non escludeva che anche in un sistema socialista il contratto e la libertà di contratto potessero giocare ruoli obiettivamente importanti.
Occorre distinguere, al riguardo, tra funzioni della libertà di contratto riconosciuta ai cittadini e funzioni della libertà di contratto riconosciuta alle imprese.Il diritto dei cittadini a decidere autonomamente circa la stipulazione e il contenuto dei loro contratti - un diritto che è stato sancito, in via generale e con molta solennità, nel par. 8 del nuovo Codice civile (Zivilgesetzbuch) della Repubblica Democratica Tedesca, entrato in vigore il 1° gennaio 1976 - assolveva, nell'ideologia del diritto socialista, un duplice ruolo: da un lato, esso faceva sì che il contratto potesse valere come strumento per l'efficace soddisfazione dei bisogni materiali e intellettuali dei cittadini stessi, ai quali consentiva di convertire in 'valori d'uso' il corrispettivo monetario del lavoro da essi prestato a favore della società e così fruirne effettivamente; dall'altro lato, la libertà di scelta dei cittadini in ordine alla conclusione e al contenuto dei contratti (diretti a procurarsi dalle imprese produttrici i beni e i servizi necessari alla soddisfazione dei loro bisogni di vita) era vista, per così dire, come il canale attraverso cui i cittadini avevano modo di influire sulle stesse direttive del piano economico nazionale, nella misura in cui le loro scelte di acquisto - fondate appunto su quella 'libertà di contratto' - contribuivano a orientare le determinazioni dei pianificatori, relativamente a quantità e qualità dei beni di consumo, nel senso indicato appunto da tale 'domanda'.
Quanto alla libertà contrattuale delle imprese - nei rapporti con i consumatori ovvero con le altre imprese -, la sua estensione maggiore o minore costituiva un indice del tipo di organizzazione economica proprio di ogni particolare sistema socialista: là dove essa era più limitata, prevaleva evidentemente un modello di pianificazione rigida e accentrata; là dove essa era più estesa, il sistema risultava invece fondato su principî di decentramento delle decisioni economiche e di relativa autonomia (pur nella generale cornice del piano) delle singole unità produttive, delle quali in questo modo era più agevole misurare il grado di efficienza. (V. anche Diritto; Proprietà; Sistemi giuridici comparati).
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