Abstract
Il contratto è l’accordo diretto a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, diretto quindi a creare obbligazioni e ad avere effetto di “legge tra le parti”. Il contratto è fonte di obbligazioni; tuttavia, la nuova codificazione dimostra come nella sequenza logica “contratto-obbligazione-effetti” è necessario ancorare al testo di legge la vincolatività del contratto, l’insorgere dell’obbligazione, la produzione di effetti (giuridici) e la coattività di quel vincolo. Il contratto non è più un fatto esclusivamente privato, ma un vincolo riconosciuto come fonte di obbligazione, cui si dà la funzione di legge tra le parti; è il precipitato della espressione della volontà delle parti e dell’intervento autoritario dell’ordinamento. In altri termini, il contratto diviene regolamento contrattuale.
La nuova codificazione porta con sé una ideologia diversa da quella prevalente dell’Ottocento, liberista e borghese, in quanto ancora la disciplina del contratto a quella della proprietà, ma corporativa: il contratto diviene strumento dell’homo oeconomicus che nel fare operazioni economiche soddisfa il proprio interesse egoistico, ma anche l’interesse della collettività, in quanto ogni operazione deve essere controllata dallo Stato e non può porsi in conflitto con gli interessi dello Stato.
La definizione normativa di contratto assume dunque un diverso significato, rispetto a quella dei codici civili dell’Ottocento: là aveva una funzione unificatoria delle diverse fonti di produzione del diritto, episodiche, localistiche, tradizionali, qui una funzione legalistica. Al contratto inteso come manifestazione di volontà si affianca dapprima e poi si contrappone la concezione secondo la quale la volontà e gli effetti che sono alla base del contratto non sono però sufficienti, occorrendo arricchire il contenuto e gli effetti con quanto disposto dall’ordinamento, il quale controlla le finalità delle parti, controlla la rispondenza di quell’accordo e di quegli effetti a quelli voluti non dalle parti ma dalla legge, controlla la causa del contratto, il rapporto tra le prestazioni, distingue l’apparenza dalla realtà, si preoccupa di individuare i confini dell’accordo anche se esso è affidato a una pluralità di contratti tra loro collegati, e così via. In altri termini, il contratto diviene un regolamento contrattuale.
Nella descrizione delle norme fondamentali dalle quali si può trarre la definizione e il significato di contratto (ma v. anche Contratto 2. Nuove fonti; Contratto 3. Nuove concezioni), la successione per così dire logica ricorrente è: norma definitoria (art. 1321 c.c.) - norma classificatoria (art. 1173 c.c.) - norma regolatrice degli effetti (art. 1372 c.c.); in altri termini, si dipinge il contratto come l’accordo diretto a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321), diretto quindi a creare obbligazioni (art. 1173), e ad avere effetto di “legge” tra le parti (art. 1372). Raramente la dottrina, specie manualistica, si spinge ad esaminare l’art. 1372, prima parte («il contratto ha effetto di legge tra le parti»). Preferisce collocare il contratto tra le fonti delle obbligazioni, perché, dal punto di vista logico e dal punto di vista storico, è l’obbligazione, quale nozione più ampia o comprensiva, quella che racchiude in sé il significato del vincolo che si instaura tra le parti. Sì che l’art. 1372, prima parte, può considerarsi, in questa ottica, superfluo, in quanto il suo contenuto normativo è già espresso da altre norme.
Nella Relazione si trova una conferma di questa linea interpretativa.
Ma in verità, anche altre norme hanno un significato più sistematico-concettuale, più di apparato che di sostanza. Perché, anche in assenza di previsione esplicita, da sempre il contrattò è fonte di obbligazioni. Per non parlare poi della definizione di contratto-accordo, il cui testo un po’ confuso e parziale costituisce un’autentica palestra per i fini esegeti che dimostrano come questa definizione, da intendersi non vincolante, sia una davvero pallida rappresentazione del fenomeno contrattuale.
L’interprete si trova allora ad un bivio: o, in termini positivistici, giustifica l’esistenza di queste tre norme con la loro stessa presenza nel codice civile, e quindi cerca di darvi un senso, dimostrando come nella sequenza logica “contratto-obbligazione-effetti” è necessario ancorare al testo di legge la vincolatività del contratto, l’insorgere dell’obbligazione, la produzione di effetti (giuridici( e la coattività di quel vincolo; ovvero considerare quel testo normativo in prospettiva storica, come un “precipitato” delle precedenti codificazioni. Il rapporto tra i testi normativi precedenti e quello vigente non è però, da questo punto di vista, determinante: salvo il riferimento alla tedesca espressione di rapporto giuridico patrimoniale, non vi sono grandi differenze nei contenuti.
Se risaliamo di qualche decennio, scavalcando la codificazione del 1942, troviamo conferma di questo assunto: la dottrina, in modo esplicito, mostra di intendere contratto, obbligazione, vincolatività dello scambio di promesse, come il portato o di un razionale assetto dei rapporti sociali (sopravvivenza del giusnaturalismo?) ovvero la pedissequa derivazione delle fonti romanistiche. Spesso le due linee si confondono tra loro o si rafforzano l’una con l’altra.
Nella pagina laconica ma precisa di Emanuele Gianturco in poche battute si consuma l’intera problematica: si muove dalla definizione romana di obligatio (iuris vinculum); si precisa che le fonti dell’obbligazione sono «la legge e il fatto dell’uomo»; il fatto lecito può costituire un contratto (e un quasi contratto). Di seguito, nella trattazione del contratto, si dà una definizione che è la parafrasi dell’art. 1098 cod. it. previg.: «il contratto è l’accordo di due o più volontà coll’intento di costituire, modificare o sciogliere un vincolo di diritto». Salvo porre l’accento sul fatto volontaristico (accordo, volontà, intento), il rapporto tra la definizione di Gianturco e quella codicistica è indicativo: «volontà è la personificazione giuridica del soggetto agente, della codicistica “parte”, di cui, quasi come in una sineddoche, si dice un aspetto per il tutto; la dizione “con l’intento di” è identica a “diretto a”; solo che la prima accentua la prospettiva soggettivistica; la seconda può anche apparire oggettiva nei suoi effetti. E si aggiunge il ditterio: «duorum vel plurium in idem placitum consensus animo contrahendae obligationis». La definizione serve - a Gianturco - per distinguere il contratto dalla semplice promessa unilaterale: «di conseguenza - egli dice - la semplice promessa unilaterale (pollicitatio) non è obbligatoria, e può essere revocata, finché non sia accettata dall’altra parte» (art. 1057, co. 1, in Gianturco, E., Istituzioni di diritto civile, Firenze, 1929, 140; si tratta, come è noto, del testo dei 1886, riveduto e integrato nel 1915 da Carlo Lessona).
Non manca un accenno al «negozio giuridico»; ma è fatto en passant, senza illustrarne significato e funzioni, di categoria generale; l’espressione è alternativa a qualsiasi rapporto vincolante nascente dalla volontà, di cui si descrivono gli elementi essenziali e quelli accidentali.
Infine, quanto agli effetti, non si sottolinea che il contratto ha forza di legge tra le parti; si dice semplicemente che non può essere sciolto per semplice volontà di una di esse; per porlo nel nulla occorre il mutuo consenso.
Si cita una norma di legge? No; sono superflue in quanto la costituzione dottrinale, ricca dell’eredità romanistica, è di per sé sufficiente a descrivere questi fenomeni. Non c’è bisogno (Gianturco non lo dice esplicitamente ma le sue omissioni sono eloquenti) di ancorare questi dati al testo normativo.
La scelta del testo di Gianturco non è casuale: è il testo più diffuso sia per la tiratura, dovuta all’edizione economica, sia per la sua chiarezza e sinteticità, imperando tra studenti e studiosi del diritto civile per più di mezzo secolo.
Se consideriamo ora un altro famoso e diffuso manuale, quello di Brugi, Istituzioni di diritto civile italiano (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano, IV ed., Milano, 1904, 1923), scopriamo un’autentica miniera. Intanto, la preponderante influenza della dottrina tedesca di fine secolo trova pochi spazi, occhieggia qua e là nelle citazioni a piè di pagina e si fa sentire soprattutto nella descrizione - che qui è centrale - della nozione di “rapporto giuridico”. Brugi tenta di dimostrare che questa nozione è “patria” perché nella discussione della codificazione del 1865, al momento di dettare la definizione di contratto, si elimina l’espressione “rapporto civile” in quanto considerata di natura scientifica e non pratica; in verità quella espressione aveva un sapore tutto diverso, perché non riguardava il significato proprio di “rapporto giuridico” in senso stretto.
Ciò che interessa invece osservare che due sono i punti di grande rilievo in queste pagine, il primo, che taglia corto anche sulle discussioni di oggi in ordine alla attualità della nozione, e l’uso scolastico-didascalico del “negozio giuridico”. In altri termini, questa espressione non trova né può trovare spazio nel codice in quanto “appartiene alla scienza”: ed appunto ne parlano i codici di tipo scientifico come quello tedesco (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano cit., 79 ss.). Il secondo, che giustifica la traduzione in norma di definizioni ed effetti, si esprime così: non è solo la volontà a rendere obbligatorio il vincolo, perché la legge può ricollegare alla volontà (manifestata) effetti anche non voluti dalle parti (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano cit., 180 ss.).
Brugi dimentica poi la nozione di negozio giuridico e la sostituisce con quella di atto giuridico (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano cit., 176 ss.).
Ma la risposta di Brugi è soddisfacente solo in parte: è sì essenziale osservare che l’atto - e quindi il contratto - non racchiude solo il voluto, l’in idem placitum consensus, ma anche le integrazioni dettate dalla legge (Per una critica al dogma della volontà v. le pagine illuminanti di Cogliolo, P., Scritti vari di diritto privato, Torino, 1925, I, 9).
Tuttavia questo assunto non giustifica ancora, la necessarietà di una regola come quella per cui il contratto ha effetto di legge tra le parti; non basta l’incontro delle volontà a creare quell’effetto?
Nella descrizione del contratto Brugi richiama i testi normativi: quello che stabilisce le cause delle obbligazioni (art. 1097); quello che dà la definizione di contratto come accordo di due o più persone per costituire regolare o sciogliere tra loro un vincolo giuridico (art. 1098). Il loro contenuto - a detta dell’autore - riproduce la definizione della conventio di Giustiniano (cosiddetto negozio giuridico bilaterale). E critica la scelta del legislatore francese che costituisce una figura generale (convention) di cui il contratto è una sotto-categoria. Si è confuso (a suo dire) il contratto con l’obbligazione convenzionale, cioè la causa con l’effetto (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano cit., 514). Nel Code Napoléon il contratto è fonte di vincoli giuridici, come del resto già Pothier aveva messo in luce. È su questo che Brugi porta l’accento: l’accordo della volontà crea obblighi tra le parti.
In che cosa allora è servita la codificazione? Nell’identificare contractus e pactum della pregressa tradizione e nel dare al contratto la forma di figura generale (Brugi, B., Istituzioni di diritto civile italiano cit., 519).
Se è così, e già si sono fatti molti passi avanti, dobbiamo pensare che le norme oggi vigenti siano da un lato davvero un retaggio storico del passato, dall’altro il frutto di una mentalità positivistica che intanto ammette l’insorgere di vincoli giuridici in quanto essi siano riconosciuti dall’ordinamento: prima di pensare a come rendere coattivo il vincolo e a come sanzionarne l’inadempimento, si deve pensare a rendere il vincolo un fatto non più privato, creato tra due persone, ma un fatto “pubblico” che reca in sè il crisma dello Stato: cioè appunto il contratto riconosciuto come fonte di obbligazione; il contratto cui si dà la funzione di legge tra le parti.
Ma prima che vi fosse un sistema giuridico statuale centralizzato, perché il contratto era vincolante?
Arriviamo al cuore del discorso, che avvicina l’esperienza continentale a quella di common law, ove si discute - in assenza di norme di riconoscimento - quale sia il fondamento della promessa.
Il consenso obbliga; ma il semplice consenso non basta, essendo necessario l’affidamento.
Quando si è creato il principio della vincolatività del consenso, inteso in modo moderno? Secondo Astuti, è l’epoca del giusnaturalismo razionale, che precede di più di un secolo la trattazione di Domat, a creare la vincolatività del consenso. Corroborano questa tendenza le prassi mercantili.
Non è questa la sede per ripercorrere l’antica e complessa problematica del principio consensualistico: le pagine di Gino Gorla e di Rodolfo Sacco suppliscono ad ogni altra curiosità intellettuale. Può essere però utile sottolineare che già Comneno (richiamato da Grozio) fa risiedere nel ius gentium l’obbligatorietà della promessa, poi affinata dal ius civile dei Romani (Commentarii iuris Civilis, libri X, I, Napoli, 1724, L. I, 21). Ed è lo stesso Comneno che sottolinea come sia lecito mancare alla promessa se la controparte non ne riceve danno: «mihi quidem videtur semper fas esse datum fidem non implere si nihil inde veniat in commodi ad eum cui data est».
Per parte sua Grozio si diffonde per ben due capitoli della sua opera sulle promesse e sui contratti.
Ed è davvero in Grozio che possiamo finalmente rinvenire la risposta alla domanda iniziale: perché l’obbligazione espressa dalla volontà del singolo crea vincoli giuridici che devono essere rispettati. Grozio lo spiega muovendo una acuta critica a Comneno. Questi distingue i patti che comprendono un sinallagma, e sono vincolanti, da quelli che ne sono privi, e appunto perciò non producono obbligazione.
Tuttavia sono eseguiti, perché «il solvens si affida alla propria virtù e onestà». Per sostenere questo assunto - dice Grozio - Comneno non chiama in causa le autorità dei giusconsulti, ma argomenti razionali: «chi fa credito sulla base di una promessa non accettata (pollicitatio) non commette colpa maggiore di chi ha fatto una promessa per mera vanità; ciò che importa è il modo in cui si fa la promessa, non se sia accettata o meno, quando si opera tra persone oneste». «È cosa turpe non adempiere le promesse, non perché ciò sia ingiusto, ma perché ciò indebolisce la stessa promessa». Grozio ribatte che per ottenere un vincolo occorre una determinata forma; in ogni caso ciò che è vincolante è la manifestazione di volontà nella forma della promessa (Commentarii iuris Civilis, libri X, I, cit., 22).
I commentatori successivi ripiegano sostanzialmente sulla classificazione delle fonti romanistiche. Talvolta si riscontrano notazioni interessanti: ad es. Eineccio sottolinea che «la legge costituisce il fondamento di ogni obbligazione» (Eineccio, G.T., Recitazioni di diritto civile, trad. it. di A.C., XIV, Napoli, 1830, 21). La convenzione è «il consenso di due o più persone su di uno stesso oggetto di dare, fare o prestare o fornire qualche cosa» (Eineccio, G.T., Recitazioni di diritto civile, cit., 23; poi si riprende la distinzione tra contratti e patti, e la classificazione romanistica).
In altri termini, Domat, tra fonti romanistiche, prassi mercantili, elaborazioni dei giusnaturalisti; ben può tracciare il solco tra passato e futuro del contratto, enunciando una definizione che codificata nel 1804, e rimbalzando di codice in codice, arriva fino a noi.
Ma, si diceva, occorre tener conto non solo della Pandettistica, ma soprattutto del principio dell’affidamento.
Il principio dell’affidamento, inteso come quella regola che impone di dare rilevanza all’apparenza, piuttosto che alla realtà, da cui l’apparenza diverge, se la realtà come è nota all’altro contraente, non poteva albergare nel Code Napoléon in cui si è affermato il dogma della volontà nei contratti; mentre si radica nel B.G.B. (in quanto osserva acutamente Sacco, R., Affidamento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 662), nel sistema tedesco il consenso non ha effetti traslativi occorrendo l’attuazione, cioè la consegna o l’annotazione sui registri immobiliari, che costituiscono l’elemento apparente ed esterno della fattispecie. È sotto l’influsso della dottrina tedesca, ed è per accogliere le esigenze espresse dalla pratica commerciale (indagate da Sotgia, S., Apparenza giuridica e dichiarazioni alla generalità, Roma, 1930) e per assegnare rilevanza giuridica ai rapporti creati dalla società apparente, dalla procura apparente e così via, quindi per tutelare l’ignara controparte o il terzo in buona fede che si fa strada, anche nella tradizione italiana, il principio dell’affidamento.
Per dirla con Emilio Betti - inesattamente qualificato il fautore dell’unilaterale teoria della dichiarazione - si è trovato un componimento tra teoria della volontà e teoria della dichiarazione. Occorre guardare alla legittima aspettativa del destinatario: il quale deve, secondo buona fede, poter fare affidamento sul significato comune, usuale, oggettivo della dichiarazione univoca che gli perviene: «il solo normalmente riconoscibile nel mondo sociale alla stregua, appunto, della buona fede» (Betti, E., Teoria generale del negozio giuridico, III, XI ed., Torino, 1960, 344-345).
Questa precisazione di Betti, che suona come un’autodifesa delle possibili distorsioni del suo pensiero o dalle estreme conseguenze cui può essere portata la teoria dell’affidamento - è svolta in materia di interpretazione del contratto.
Ma, come si diceva, l’affidamento gioca un ruolo in tutto il settore della disciplina contrattuale: i princìpi fondamentali che regolano il contratto sono essenzialmente “i princìpi della dichiarazione e della tutela del destinatario in buona fede” (Sacco, R., Affidamento, cit., 666.). D’altra parte è sufficiente scorrere le numerose norme che in questo settore ne hanno codificato il tenore per rendersi conto di ciò: v. gli artt. 428 c.c. in materia di contratto concluso dall’incapace naturale; 1447-1448 c.c. in materia di rescissione; 1439 c.c. per il dolo determinante; 1428 ss. c.c. per l’errore rilevante solo se riconoscibile (la riserva mentale non è tutelata); gli artt. 1415 ss. c.c. sul negozio annullato che può produrre effetti per i terzi.
Si registra, in altre parole, quel fenomeno di oggettivazione del contratto (sulla quale hanno insistito Bianca, C.M., Diritto civile, III, II ed. Milano, 2015, 17; Galgano, F., Teorie e ideologie del negozio giuridico, in Salvi, C., a cura di, Categorie giuridiche e rapporti sociali, Milano, 1978, 76; Di Majo, A., Contratto e negozio, in Salvi, C., a cura di, Categorie giuridiche e rapporti sociali, cit., 113 ss.; Barcellona, P., Diritto privato e processo economico, in Salvi, C., a cura di, Categorie giuridiche e rapporti sociali, cit., 282) e che è il portato della unificazione delle due codificazioni, civile a commerciale (Ferri, G.B., Il negozio giuridico tra libertà e norma, Rimini, 1993, 189).
La complessa situazione in cui versava la sistemazione normativa del contratto sotto il codice civile del 1865 è molto interessante perché ci fa comprendere – meglio di quanto non sia chiarito nella Relazione del Guardasigilli – le scelte che hanno guidato il legislatore nella redazione dell’art. 1321 in ordine alla definizione di “contratto”. La riassume, con cristallina analisi, Francesco Filomusi Guelfi nelle pagine della sua fortunata Enciclopedia giuridica (Filomusi Guelfi, F., Enciclopedia giuridica, Napoli, VI ed. 1910, 327 ss.) già citata. Il contratto è trattato nell’ambito del «diritto di obbligazione». L’obbligazione è definita, riprendendo le parole delle Istituzioni giustinianee, come «vincolo giuridico mediante il quale si è costretti ad una prestazione». L’A. spiega che la dottrina moderna (cioè la dottrina pandettistica) ha sostituito il temine rapporto a quello di vincolo, e richiama la definizione di Pacchioni (Pacchioni, G., Le obbligazioni, Padova, 1899) secondo il quale «Chiamasi obbligazione il rapporto giuridico patrimoniale in forza di cui una persona (che dicesi debitore) è vincolata ad una prestazione (d’indole positiva o negativa) verso altra persona (che dicesi creditore)». L’oggetto della obbligazione è la prestazione, che deve avere un valore economico apprezzabile, nel senso che l’interesse tutelato potrebbe avere anche un carattere morale. Le fonti delle obbligazioni sono, sempre secondo Filomusi Guelfi, che si rifà alla dottrina prevalente dell’epoca, il contratto, il fatto, la legge.
Queste premesse concettuali chiariscono la definizione di contratto, che recita: «il contratto è l’accordo di due o più volontà per fondare un rapporto giuridico obbligatorio, il cui obiettivo ha un valore economico» (per una moderna e approfondita analisi della disciplina del contratto v. Roppo, V., Il contratto, Milano, 2001).
La definizione di contratto nel codice vigente appare come una crasi tra la definizione recata dal codice civile del 1865 e quella proposta da Filomusi Guelfi, perché riprende quasi integralmente la definizione del codice previgente («il contratto è l’accordo»), sostituisce a «persone» il più corretto termine di «parte» («tra due o più parti») per costituire, modificare (in luogo di regolare) o estinguere (in luogo di sciogliere) un rapporto giuridico patrimoniale (in luogo di vincolo giuridico).
L’espressione «rapporto», nota Filomusi Guelfi, era già presente nel progetto Cassinis e nel Progetto Miglietti.
Sì che la definizione di contratto del codice civile del 1865, già migliore tecnicamente della definizione recata dal codice napoleonico, avrebbe potuto essere ben più avanzata nella sua formulazione se si fossero adottate le proposte di Cassinis e di Miglietti.
Il codice di commercio ebbe anche il suo influsso nella giurisprudenza e nella dottrina civilistica, perché fu adoperato anche per risolvere i dubbi sollevati dalla applicazione del codice civile a proposito della conclusione del contratto fra parti distanti con diversi mezzi di comunicazione. Ma anche la formulazione dell’art. 36, con il quale disciplinava la formazione del contratto, aveva dato adito a critiche.
Fino alla istituzione delle Commissioni per la riforma dei due codici la dottrina di diritto civile aveva maturato la consapevolezza della necessità di prendere in considerazione la disciplina e la prassi del commercio e gli interessi dei “commercianti” definiti con termine più moderno “imprenditori” nel nuovo codice unitario. Sicché scarse sono le tracce di questa riflessione nelle opere dedicate alla materia.
Eppure Cesare Vivante, nel suo prestigioso trattato di diritto commerciale aveva già segnalato la conseguenza delle disposizioni del codice di commercio con quelle del codice civile.
Le concezioni del contratto nella fase precedente alla codificazione riflettono le diverse radici culturali della nostra dottrina: il contratto come atto di volontà sottospecie del negozio giuridico, il contratto come veste giuridica dell’operazione economica, il contratto come fonte di regole di comportamento, e così via.
Il Codice riprende le tematiche oggetto di molti dei problemi che la dottrina aveva evidenziato negli anni precedenti alla sua emanazione e che aveva già risolto; per la verità, forte della sua tradizione, la dottrina non aveva atteso il crisma legislativo per dare le risposte più coerenti alle questioni aperte sotto il codice del 1865. Ad es., nella settima edizione riveduta e ampliata di uno dei manuali più diffusi – usati dai magistrati e dagli avvocati oltre che naturalmente dagli studiosi e nelle Università – redatto da Roberto De Ruggiero, si risolve in modo brillante il problema della definizione del contratto che il Codice del 1865 aveva ricopiato dal Codice napoleonico: «il concetto moderno del contratto (…) è sì ampio quanto l’idea stessa dell’accordo tra due o più persone e non ha altro limite fuorché quello della natura giuridica e patrimoniale dell’oggetto, per potersene lasciar fuori tutti quegli accordi che cadono su oggetti non giuridici o su oggetti giuridici sì ma non patrimoniali» (De Ruggiero, R., Istituzioni di diritto civile, III, Messina, 1935, 242).
E quanto al fondamento della obbligatorietà dei contratti, De Ruggiero mostra di non dare peso alla disposizione (art. 1123) di derivazione napoleonica che assegna al consenso delle parti valore di legge (che diventerà l’art. 1372) perché sottolinea che «la determinazione del fondamento, su cui riposa la forza obbligatoria del contratto, è un problema di carattere filosofico»; non bisogna limitarsi a cercarlo nella norma positiva; rifiuta la sufficienza del richiamo benthamiano all’interesse individuale, o il richiamo di Pufendorf al patto sociale: la ragione è nella giustificazione kantiana del vinculum iuris, cioè «nella limitazione che la persona fa alla propria libertà, coll’assoggettarne una parte all’altro contraente il quale se l’appropria e la fa sua» (de Ruggiero, R., Istituzioni di diritto civile, civ., 244).
Nel Codice civile troviamo molteplici usi dell’espressione “contratto”. In particolare, il Codice dà una definizione normativa di “contratto” (art. 1321); e nella disciplina del diritto internazionale privato e nella Convenzione europea sulla legge applicabile alle obbligazioni si precisa quale sia la legge regolatrice del “contratto”.
Il Codice considera il contratto quale “fonte di obbligazioni” (art. 1173); disciplina il contratto indicando le modalità di conclusione, gli elementi, essenziali e accidentali, gli effetti, l’esecuzione, la sua mancata esecuzione ed i rimedi applicabili; la validità del contratto.
Il Codice enumera una nutrita schiera di operazioni economiche più frequenti, e cioè il contratto di compravendita, di permuta, di appalto, ecc., che denomina contratti “speciali” (e che prendono il nome di contratti “tipici”).
Ma si considera “contratto” anche una operazione economica che non rientri negli schemi negoziali disciplinati specificamente nella rassegna dei contratti speciali regolati in dettaglio; si denomina questa fattispecie contratto atipico o innominato; si considera contratto anche l’accordo diretto a disciplinare attività svolte in comune da gruppi di soggetti (associazioni, fondazioni, società).
La definizione di contratto che il Codice civile offre è una definizione generale e approssimativa, che viene via via affinata e arricchita dalle speculazioni teoriche, dall’apporto della prassi, dai modelli giurisprudenziali. Come per ogni definizione che si rinviene nel Codice civile o nelle leggi speciali, si apre anche a questo proposito il problema del significato della definizione, cioè della sua estensione semantica e della sua vincolatività per l’interprete. È un problema secolare, al quale la dottrina attuale non ha dato soluzioni univoche: per taluni la definizione è vincolante, sì che l’interprete, pur non essendo impedito di arricchire e articolare il contenuto della regola che fissa la definizione, ne rimane comunque astretto; per altri occorre individuare gli usi effettivi della definizione, sì che la definizione normativa è solo apparentemente vincolante; per altri ancora occorre distinguere: a) la definizione, cioè la formulazione descrittiva; b) il concetto che si può ricavare dalla definizione o a cui allude la definizione; c) il tipo, cioè il rapporto o la figura o il complesso di rapporti a cui il legislatore fa riferimento. Per parte nostra, aderiamo a quest’ultima tesi, concludendo, che l’enunciato normativo ha senso solo se si accerta come esso viene inteso nella prassi e con quali criteri esso viene utilizzato.
In giurisprudenza sono assai rare le pronunce che fanno riferimento alla definizione e alla nozione di contratto, così come espressa dall’art. 1321 c.c. È però frequentissimo l’assunto che la denominazione, cioè l’intitolazione di una operazione economica scelta dai contraenti non esprime l’esatta sua configurazione giuridica e quindi non vincola il giudice; l’intitolazione scelta dai contraenti costituisce solo un indizio per procedere alla qualificazione del contratto. In altri termini, il nomen juris usato dalle parti non è vincolante.
Seguendo la linea per la quale la definizione normativa contenuta nell’art. 1321 non vincola l’interprete, la dottrina ha elaborato diverse definizioni di contratto: quale conformità di intenti; quale adesione alla proposta contrattuale di altri; quale stipulazione; quale enunciato della dichiarazione; quale testo che racchiude la volontà comune; quale regolamento di interessi o assetto negoziale conforme all’ordinamento giuridico e da questo integrato e comunque arricchito di tutto quanto, per via autoritativa, la legge dispone, anche in contrasto con la volontà dei contraenti; in altri termini dal contratto quale manifestazione o dichiarazione di volontà, c.d. voluto si distingue il regolamento contrattuale, composto da voluto + normato. Autonomia ed eteronomia del contratto: il contratto è il precipitato della espressione della volontà delle parti e dell’intervento autoritativo dell’ordinamento.
È questa la tesi oggi prevalente in dottrina e giurisprudenza, alla quale aderiamo.
Si è precisato altresì che la definizione normativa, per la sua semplicità, può essere assunta a base della nozione di contratto, anche se l’espressione “contratto” di volta in volta usata dal legislatore continua ad essere ambigua, e richiede quindi una ulteriore specificazione con riferimento al contesto in cui è collocata.
Il contratto presuppone nella definizione legislativa una pluralità di parti: con tale espressione si indicano, in modo riassuntivo e metaforico, diversi centri di interessi (due o più di due); pertanto la nozione di parte del contratto o di contraente non si identifica necessariamente con il “soggetto” persona fisica che conclude il contratto; una pluralità di persone può dare luogo ad un solo centro di interessi e quindi ad una sola parte. Nella definizione normativa di contratto si allude all’ipotesi più frequente di contratto di scambio, a prestazioni corrispettive; ma si ha contratto anche nel caso in cui vi sia una pluralità di soggetti che non intendono procedere ad uno scambio, ma piuttosto costituiscono un solo centro di interessi e concorrono al compimento di una attività comune. Si ha allora un contratto che si suol denominare “associativo” (atto costitutivo di associazione, di società, di consorzio).
I contratti si possono classificare e assegnare a distinte categorie a seconda dei soggetti, del loro oggetto, della forma, del tipo, degli effetti che producono. Attesa la parziale sovrapposizione della teoria del negozio e della teoria del contratto, una cospicua serie di categorie contrattuali si è esaminata retro, a proposito delle figure negoziali (Francario, L., La classificazione dei contratti, in Alpa, G. – Bessone, M., I contratti in generale, I, I fenomeni negoziali, Torino, 1991, 601 ss. I contratti sono unilaterali, se producono obbligazioni in capo ad una sola parte (comodato, art. 1803 c.c.); bilaterali, se le obbligazioni sono a carico di entrambe le parti (compravendita; contratto di lavoro; trasporto, ecc.); plurilaterali, se producono obbligazioni a carico di più parti. Si discute se i contratti di associazione, società, ecc. siano plurilaterali in quanto le parti hanno una comunione di scopo.
La classificazione dei contratti che segue può essere estesa anche ai negozi giuridici in generale.
Sono a prestazioni corrispettive, o sinallagmatici (dal greco synállagma che significa scambio), o di scambio, quando la prestazione di una parte (esempio vendita della cosa) è corrispettivo della prestazione dell’altra (esempio pagamento del prezzo): sono associativi quando le parti perseguono uno scopo comune.
I contratti sono commutativi o aleatori, a seconda che non implichino assunzione di rischio anormale, oppure implichino assunzione di rischio anormale a carico di una parte.
Contratti istantanei, nei quali gli effetti si verificano immediatamente (esempio acquisto al supermarket); contratti a esecuzione continuata o periodica, nei quali la esecuzione si protrae nel tempo, con prestazioni ripetute (esempio somministrazione di gas) (c.d. anche contratti di durata).
Contratti a termine (lavoro stagionale, abbonamento ad una rivista); contratti a tempo indeterminato (assunzione stabile del lavoratore).
Contratti ad esecuzione differita, nei quali gli effetti si producono non immediatamente, ma in un momento ulteriore (esempio vendita in cui la consegna della cosa è differita di alcuni mesi).
Contratti a titolo oneroso, se la prestazione di una parte si accompagna ad un sacrificio (esempio vendita della cosa: il venditore si sacrifica, spogliandosi della cosa; l’acquirente, pagando il prezzo); a titolo gratuito, se la prestazione si esegue a favore della controparte, senza imporle alcun sacrificio (esempio donazione).
Contratti tipici, se corrispondono ad una figura legislativa disciplinata (vendita, trasporto, ecc.); atipici, se sono di creazione delle parti, e non hanno figura precisa (engineering, leasing, ecc.).
Quanto agli effetti, i contratti si distinguono in: contratti consensuali, se si perfezionano con il semplice consenso, cioè con l’accordo; reali, se si perfezionano con una attività ulteriore, non essendo sufficiente il consenso; se si perfezionano cioè con la consegna della cosa (comodato, mutuo, deposito, pegno; sequestro; riporto); ad efficacia obbligatoria, se comportano solo l’assunzione di obbligazioni (contratto di lavoro; di trasporto); ad efficacia reale, se comportano il trasferimento della proprietà della cosa (contratti traslativi).
Quanto alla forma, solenni, se è prescritta una forma particolare; non solenni, o a forma libera, tutti gli altri.
Quanto al contenuto, condizionati, se sottoposti a condizione, semplici, se non lo sono.
Se sono diffusi con condizioni identiche tra una generalità di consumatori, si denominano di massa, altrimenti a base individuale.
Con riguardo allo status di una o di entrambe le parti si distinguono ancora in contratti agrari, contratti di impresa, contratti dei consumatori; con riguardo alla cittadinanza (criterio soggettivo) o al luogo in cui deve essere eseguita la prestazione (criterio oggettivo) si distinguono in contratti di diritto interno e contratti internazionali.
Le classificazioni sono opera dottrinale, ed hanno scopo didascalico. Tuttavia vi sono ipotesi in cui la categoria è indicata dal legislatore (es., capo XVII del libro V); alla classificazione legislativa si riconosce il medesimo rilievo delle definizioni (non vincolanti). In ogni caso, la classificazione può incidere sulla qualificazione del contratto.
Il libro IV dispone i singoli contratti secondo un ordine pratico, cominciando dal contratto più diffuso (compravendita) e seguendo poi ove possibile raggruppamenti di contratti concernenti lo status dei contraenti, ecc. Atteso che i contratti speciali sono disciplinati anche fuori dal libro IV, gli interpreti sono liberi di seguire altri ordini espositivi.
Proseguendo con l’analisi critica della concezione di contratto consegnata dalla tradizione, occorre chiedersi quale sia la struttura delle regole che nei codici sono deputate a disciplinare il contratto.
In dottrina si è dibattuto sui criteri che presiedono la struttura dei codici civili (Grundmann, S. The architecture of European codes and contract law, L’Aja, 2006), operando un utile confronto tra le codificazioni di matrice francese e quelle di matrice germanica, per stabilire a quali influssi dottrinali e a quali intenti legislativi quei criteri si siano ispirati i legislatori. È un tema che rileva nella descrizione della disciplina del contratto ed al quale si farà dunque menzione nelle prossime pagine.
Non si è invece insistito molto sull’ordine degli argomenti, quasi che esso fosse un dato irrilevante o un dato scontato, una conseguenza naturale dell’ordine del discorso incentrato sul contratto. Eppure, rivolgere anche un semplice sguardo alle opere che hanno guidato i redattori del Code Napoléon, assunto qui come il modello primigenio di codice civile moderno, è operazione non inutile.
La materia del contratto, rispetto a quella della proprietà e dei diritti reali minori, risente certamente del diritto romano, ma anche delle teorie razionaliste e giusnaturaliste del Seicento e del Settecento, piuttosto che delle coutumes. I redattori non citano con scrupolo scientifico tutte le fonti. Ad es., Cambacérès (Rapport sur le code civil, fait au nom du comité de législation, Parigi, 1808) preferisce citare Pothier piuttosto che Domat. Difficile dire se l’omissione di Domat fosse dovuta al credo giansenista di cui era portatore, oppure alla sua distanza temporale dal lavoro dei redattori, o dal fatto che all’epoca dei lavori dei redattori Pothier era più noto perché più diffuso, più semplice e più moderno. Il lavoro di scavo delle fonti è svolto, almeno in parte, dai primi commentatori che, a seconda della loro provenienza culturale e delle esigenze pratiche perseguite, ora propongono il raffronto delle fonti letterarie con i principi e le regole rinvenibili nei testi romani, rimaneggiati nel corso dell’età di mezzo e dei secoli immediatamente precedenti la codificazione, ora stabiliscono il rapporto tra gli assunti dei dottori e le regole del code civil (per tutti v. Alpa, G., La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Bari, 2009)
L’ordine del Code Napoléon (che conta poco più di millecinquecento articoli) risulta da una sorta di parte conclusiva del Libro III dedicato ai modi con cui si acquista la proprietà, ed è impresso al Titolo III, dedicato ai contratti ossia (ou) alle obbligazioni convenzionali in genere.
Già le parole del titolo sono significative, perché di obbligazioni il codice tratta nei due libri precedenti, sia con riguardo alle persone e alla famiglia sia con riguardo ai beni. È significativo pertanto che in questo caso si voglia sottolineare che il codice tratta delle obbligazioni “convenzionali”, cioè delle obbligazioni che derivano da una “convenzione” tra le parti, quella convenzione con cui si può derogare alle norme imperative (art. 6). Ma ciò che può stupire è che le convenzioni, o meglio le obbligazioni convenzionali siano fatte passare per contratti con una semplice congiunzione «o» che ne sottolinea la similitudine. L’idea che subito cattura il lettore è dunque che i contratti siano fonti di obbligazione, e che essi, proprio perché disciplinati in questo titolo, “in generale”, non possano che produrre obbligazioni, anche se sussistono poi altre obbligazioni generate da altre fonti, come la legge, i quasi contratti, i delitti e i quasi delitti e, come risulta in modo non esplicito da altre disposizioni, anche dall’equità.
È dunque il contratto obbligatorio che viene assunto come paradigma generale della disciplina del contratto. «Il contratto è una convenzione», recita l’art. 1101 del code civil, è dunque una sottospecie di un genus più ampio e generale denominato “convenzione”, che il codice non disciplina e che viene assunta piuttosto dalla dottrina giuridica, dalla terminologia in uso, dalla prassi del commercio. Si tratta sempre però di astrazione, dal momento che nella dottrina francese dell’epoca i contratti più ricorrenti sono chiamati con il loro nome (vendita, deposito, assicurazione, cambio etc.). Così come i patti aggiunti sono esplicitati con formule tratte dal latino dei giuristi romani.
Data la definizione, il Titolo III prosegue – dimenticando nei titoli il termine “contratto” e sostituendolo talvolta con convenzione, talvolta con obbligazione - con la indicazione delle condizioni essenziali (cioè i requisiti) di validità delle convenzioni: consenso, oggetto, causa; con la disciplina degli effetti delle obbligazioni, comprensiva della interpretazione; con le diverse specie di obbligazioni; e poi prosegue con la disciplina degli engagements che si formano senza convenzioni, dove il termine engagement viene tradotto con “obbligazioni” nella versione italiana che entra in vigore nel 1806 nel Regno d’Italia, cioè nelle province conquistate da Napoleone. Le obbligazioni sono il punto di sutura, il minimo comun denominatore di tutte queste figure, ma esse (salvi i casi già menzionati di obbligazioni derivanti dai rapporti familiari o dai rapporti reali) sono disciplinate non prima del contratto, ma dopo.
Questa struttura, che si ritrova nella maggior parte dei codici di origine francese, viene impressa da Cambacérès, che la riproduce nelle diverse stesure dei progetti di codice civile da lui predisposti (Projet de Code civil présenté au Conseil des Cinq-Cents, Parigi, 1793). In particolare, l’ultimo, rispetto a quello discusso al Tribunato e poi promulgato da Napoleone, risale all’anno V del nuovo regime.
Risalendo a ritroso nell’indagare le fonti della disciplina del contratto possiamo constatare che l’indice dei temi e quindi la struttura delle norme hanno subito notevoli modificazioni nel corso del tempo.
Il terzo progetto di Cambacérès appare informato a criteri più lineari e logici di quanto non sarebbe poi accaduto per il testo omologo accolto nel Code Napolèon. Infatti qui l’intero codice, diviso in tre libri, espone in poco più di mille articoli la disciplina delle persone, dei beni e delle obbligazioni. Il Libro III regola le obbligazioni in generale, le loro cause e i loro effetti, le obbligazioni solidali, le garanzie, l’estinzione delle obbligazioni, la prova e poi i contratti più frequentemente usati.
Le fonti delle obbligazioni sono solo due: le convenzioni e la legge. Le convenzioni – il termine contratto non è impiegato nella formulazione delle regole generali – non sono valide senza consenso e senza concorso di volontà; la promessa di una sola parte se non accettata non è una convenzione. Ogni convenzione, quale che ne sia la causa, è legge tra coloro che l’hanno formata. Le convenzioni non hanno effetto che relativamente al loro oggetto e a coloro che l’hanno formate. […] La convenzione è nulla se c’è dolo, violenza grave o errore sulla qualità della cosa (artt. 707-717).
Nel suo discorso sul Progetto di codice civile presentato al Consiglio dei Cinquecento a nome della Commissione di Classificazione delle Leggi che tiene nella qualità di deputato del dipartimento dell’Hérault e di coordinatore della commissione incaricata di raccogliere le norme destinate a regolare i rapporti tra privati Cambacérès espone le ragioni delle scelte effettuate. In particolare precisa che le convenzioni non esistono se non vi è un concorso di volontà e se non vi è un consenso libero delle parti. Quel che subito potrebbe apparire come un requisito ripetitivo (consenso e concorso di volontà) si chiarisce appunto nel senso che la volontà libera di ciascuna delle parti deve essere amalgamata in un concorso di volontà (“in idem sentire”). Ne segue logicamente che l’effetto delle convenzioni è relativo e circoscritto al loro oggetto. Cambacérès si preoccupa della stabilità delle convenzioni e quindi esclude un altro vizio, la lesione (lésion) che aveva dato luogo ad un alto contenzioso e rendendo incerti i rapporti finiva per pregiudicare la proprietà. L’unico autore citato è Pothier, J.R., Traité des Obligations selon les règles tant du for de la conscience, que du for extérieur, 1764, 56, a proposito dei requisiti della convenzione valida.
E Pothier in effetti definisce il contratto come una specie di convenzione ) nel Traité des Obligations selon les règles tant du for de la conscience, que du for extérieur, cit. 7. Ma definisce anche la convenzione o il patto (inteso come sinonimo della convenzione) che è «il consenso di due o più persone per formare tra loro qualche obbligazione (engagement) o per risolverne una precedente o per modificarla». La specie di convenzione che ha per oggetto una obbligazione si denomina contratto. Pothier rifiuta, in quanto non ammessi dal diritto francese, i principi del diritto romano sulle specie di patti, sulla distinzione tra contratti e semplici patti, in quanto non fondati sul diritto naturale. Ma richiama pur sempre l’autorità dei Romani a proposito della definizione di convenzione («Duorum vel plurium in idem placitum consensus», L. I, par. 1, ff. de Pact.; ma la sua guida è Domat, J., Les lois civiles dans leur ordre naturel, Parigi, 1689, 1).
Distinti gli elementi essenziali da quelli naturali e da quelli accidentali, Pothier tratta dei vizi (in cui include la lesione), della causa e dell’oggetto, degli effetti relativi del contratto, dell’interpretazione e del giuramento. Di qui, dunque, Cambacérès ha tratto la prima matrice della disciplina.
Ma Pothier ha richiamato Domat. Secondo Domat “Les conventions sont les engagements qui se forment par le consentement mutuel de deux ou plusieurs personne, qui se font entre elles une loi d’exécuter ce qu’elles promettent” (Domat, J., Les lois civiles dans leur ordre naturel, cit.,). E subito dopo aver giustificato questo comportamento degli uomini necessario ad ogni società per sopravvivere e prosperare perché i contratti più frequenti riguardano la soddisfazione di bisogni elementari al commercio, Domat dà una definizione più precisa, che suggella non solo i confini dell’intera categoria riportando ad unità tutti i tipi di accordi che gli uomini possano fare, ma detta le regole che Pothier e poi Cambacérès e i redattori del Code Napoléon faranno proprie: la convenzione è un termine generale che comprende «ogni sorta di contratti, trattati e patti di ogni natura». La convenzione è il consenso di due o più persone per formare tra loro qualche impegno (engagement) o per risolverne uno pregresso o per modificarlo. I reciproci impegni costituiscono la causa della convenzione; l’obbligazione è nulla se nasce senza causa. Seguono poi le condizioni, l’interpretazione, la risoluzione e i tipi contrattuali usuali.
Nel descrivere la definizione delle regole fondamentali in materia di contratti queste pagine che portano il loro augusto peso ci hanno dato molti ammaestramenti: le definizioni e le concezioni di contratto; le declinazioni delle regole principali; ma anche una rappresentazione delle scelte di fondo che non viene elaborata in dettaglio ma esposta come se fosse la naturale conseguenza dell’impiego delle fonti del diritto romano o di altre fonti che costituiscono il “nostro diritto”. E il passaggio dai tipi contrattuali romani e il superamento del principio capitale secondo il quale “ex nudo pacto non oritur ius” è ottenuto con un accenno esplicito ma tranchant, senza spiegazioni accurate e senza la ricostruzione della disciplina pregressa.
Fonti normative
Art. 1321 ss. c.c.
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