Abstract
Da quasi mezzo secolo si sviluppa l’analisi critica del diritto privato, la quale ha un taglio antiformalistico, aperto alle intersezioni con le altre scienze e sensibile alle istanze economico-sociali. La rivisitazione della categoria del contratto, accordo oggettivamente inteso, muove dalla sua considerazione come programma economico delle parti, esposto ai rischi che ne possono stravolgere la base negoziale, provenienti da agenti esterni e causati dalle incertezze della realtà. Alcuni autori parlano di equità contrattuale e della meritevolezza del contratto in relazione alla sua causa; l’interpretazione giuridica si allinea a quella economica per rendere compatibili le esigenza di giustizia interne al contratto con le esigenze sociali. I fenomeni recati dalla società di massa, come la contrattazione asimmetrica, sono esaminati alla luce delle categorie codicistiche, piegate a nuove tecniche interpretative. Al metodo giuseconomico, si affianca l’utilizzo di clausole generali come buona fede e correttezza da parte dei giudici ai fini correttivi dell’operazione economica.
Da quasi mezzo secolo si è affiancata alla concezione normativa e formalistica del contratto una concezione che si potrebbe aggettivare come realistica.
Da quanto emerge in materia di adempimento, di interpretazione, di risoluzione si va radicando la concezione secondo la quale il contratto, accordo oggettivamente inteso, riflette il piano di vantaggi e svantaggi, rischi e profitti, programmi e destinazioni, che le parti hanno concordemente costruito e che, se aggredito e sconvolto da agenti esterni, deve trovare in sé, nei propri presupposti e sulla propria «base» le ragioni dell’ulteriore adempimento ovvero della risoluzione (Distaso, N., I contratti in generale, Torino, 1980, 29 ss.; Bessone, M., Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1975, 343; Bessone, M. – Alpa, G. - Roppo, V., Rischio Contrattuale e autonomia privata, Napoli, 1980).
L’ambito del discorso riguarda la responsabilità per inadempimento del contratto: ciò comporta l’analisi del significato e della funzione (anche sistematica) degli artt. 1218 c.c. (responsabilità del debitore), collocato sotto il capo dell’«inadempimento delle obbligazioni», 1256 c.c. (impossibilità definitiva e impossibilità temporanea), collocato sotto il capo «dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento», 1453 c.c. (risolubilità del contratto per inadempimento) e 1463 c.c. (impossibilità totale) entrambi collocati sotto il capo della risoluzione del contratto, e, ancora, art. 1175 c.c. (comportamento secondo correttezza) e 1176 c.c. (diligenza nell’adempimento) entrambi collocati sotto il capo delle disposizioni preliminari in materia di obbligazioni. Questo il ventaglio dei possibili riferimenti normativi dedicati alla disciplina generale dell’adempimento e dell’inadempimento delle obbligazioni e quindi del contratto, cui alcuni autori aggiungono il riferimento all’art 2697 c.c., in ordine al contenuto dell’onere della prova, e, ovviamente all’art. 2740 c.c., in ordine alla responsabilità patrimoniale del debitore.
Sia sotto il profilo della esegesi letterale, sia sotto il profilo della esegesi sistematica, già la Relazione del Guardasigilli offriva indicazioni in ordine alla descrizione del sistema della responsabilità contrattuale nel nostro ordinamento: indicazioni che esprimono la voluntas legis, quanto meno esistente al momento della introduzione del nuovo codice, e che, ovviamente, in oggi, assumono solo un ruolo di semplice indice, di orientamento preliminare, apprezzate, come devono essere, nel contesto storico in cui sono sorte e nel clima culturale in allora imperante, nel quale, come anche di recente si è posto in luce, già convivevano l’anima (o il modello) francese con quella (o con quello) tedesco; e nell’ambito dell’influsso della esperienza tedesca, già in allora si distinguevano diverse posizioni e quindi diversi tipi di approccio.
E pertanto, secondo l’indicazione del Guardasigilli (n. 558), l’obbligo di correttezza - depurato ora di tutti i riferimenti all’ordine corporativo e alla solidarietà fascista - nell’ambito del rapporto obbligatorio, assolve la funzione di «affievolire ogni dato egoistico e [...] richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore». Dizione assai implicante perché: a) non codifica il principio del favor debitoris; b) non codifica il principio della tutela per così dire “ad oltranza” dell’interesse creditorio; c) indica che nel reciproco contemperamento degli interessi (in altro passo si dice “preciso adeguamento reciproco”) si può realizzare la solidarietà richiesta dalla correttezza del “contegno”; d) non specifica i contenuti concreti della correttezza, essendosi “preferita una formula elastica che ammette adattamenti con riferimento a singole situazioni di fatto”; e) richiama le circostanze di fatto, sia con riferimento a quanto può effettivamente accadere nell’ambito del rapporto obbligatorio storicamente determinato, sia con riguardo alla natura (giuridica) ditale rapporto.
La dottrina, anche negli anni recenti, pur approfondendo ulteriormente il significato di “correttezza”, e collegandone il ruolo alle clausole generali (si veda Busnelli, F.D., a cura di, Il principio di buona fede, Milano, 1987; Di Majo, A., Delle obbligazioni in generale, Bologna-Roma, 1988) non ha spostato di molto il significato della norma.
Ancora, si precisa il ruolo della diligenza emergente dall’art. 1176: la diligenza è un criterio di riferimento, il parametro che assolve la funzione di «misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta», «il complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto e a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo”» (n. 559). Si indica pertanto che: a) diligenza è criterio di commisurazione del comportamento del debitore (e non quindi criterio di imputazione della responsabilità); b) è criterio di commisurazione oggettivo, con riguardo al comportamento che una figura ideale di debitore avrebbe tenuto; c) è criterio che deve essere articolato e specificato a seconda della natura del rapporto e delle circostanze concrete (e la stessa Relazione prevede infatti graduazioni della diligenza, nel mandato, nel deposito, e così via).
Per una parte della dottrina tuttavia il quadro si deve completare. Considerata nella sua accezione negativa (non diligenza, cioè “negligenza” = colpa), la diligenza, e quindi il riferimento all’art 1176 c.c., per alcuni assolve anche un compito ulteriore: di integrazione della disciplina della responsabilità cioè di criterio di imputazione per la violazione del rapporto contrattuale.
Fin qui il discorso appare sufficientemente semplificato: per contro, quando si passa a esaminare il testo dell’art. 1218, viene per la prima volta in considerazione la struttura della responsabilità contrattuale, così concepita: un requisito soggettivo (la colpa del debitore), un requisito oggettivo (l’impossibilità della prestazione), cui si può aggiungere un terzo elemento, costituito dall’assenza di cause giustificative (caso fortuito o forza maggiore). Colpa quindi, nel contesto iniziale, significa “non imputabilità dell’evento” riguardo al suo verificarsi, evento da cui dipende l’inadempimento o il ritardo. Anche a questo riguardo, “quando non è necessaria la prova diretta e positiva dell’evento incolpevole che ha prodotto l’impossibilità” si dovrà tener conto delle circostanze, in relazione alla “natura del rapporto o alla prestazione che ne forma l’oggetto”. Ne emerge che la formula dell’art. 1218, così come concepita, pur avendo il fine di risolvere le dispute dottrinali preesistenti, originate da norme che allora apparivano imprecise ed equivoche, non ha, letteralmente affatto modificato la situazione, perché essa si presta a diverse, congrue, attendibili letture e, in particolare a due possibili letture, entrambe ammissibili perché compatibili con il testo: l’una, che importa responsabilità del debitore solo là dove si sia accertato che non si è compiuto lo sforzo richiesto della diligenza; l’altra, che importa responsabilità del debitore in ogni caso in cui, qualunque sia stato lo sforzo impiegato, dovuto o richiesto, non si sia comunque realizzata la prestazione, e la mancata realizzazione non sia dipesa da un evento fortuito (causa non imputabile al debitore).
Queste due letture si sono perpetuate fino a oggi.
L’ampiezza della discrezionalità con cui l’interprete - e quindi il giudice - può procedere all’apprezzamento delle circostanze la disciplina della responsabilità contrattuale è stata, da alcuni, elevata a ipotesi emblematica della sua “autonomia” (Bianca, C.M., L’autonomia dell’interprete: a proposito del problema della responsabilità contrattuale, in Riv. dir. civ., 1964, 478 ss. e da altri a campo di osservazione critica dell’atteggiamento dei giuristi, Tarello, G., L‘autonomia dell’interprete, ora in Guastini, R. - Baruffa, G., a cura di, Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, 1988, 432 ss.).
È bene rendersi conto, già in limine al discorso, che questo quadro, troppo complicato, non agevola né il debitore né il creditore; e non solo perché di volta in volta lo stesso operatore può ricoprire l’uno o l’altro ruolo, ma anche perché al momento della conclusione del contratto, il creditore non saprà operare una valutazione predictable dei risultati che sarà in grado di ottenere, e nella situazione diametralmente opposta, ma non per ciò meno incerta, finisce per trovarsi il debitore. La dottrina è divisa.
Senza pretese di completezza si possono individuare alcuni filoni: a) l’analisi storica; b) l’analisi sistematica; c) l’analisi economica; d) l’analisi comparatistica; si tratta, in realtà, più che di linee di svolgimento del dibattito o di fasi in cui esso può essere scandito, di diversi approcci, spesso compresenti nel contributo di ogni singolo autore.
Nell’ampia letteratura, è sufficiente soffermarsi solo alcune posizioni dottrinali (per una analisi analisi più diffusa v. Alpa, G., Il contratto in generale, in Tratt. Cicu-Messineo-Schlesinger, Milano, 2014) per il profilo sub a): Cannata, A., Dai giuristi ai codici, dai codici ai giuristi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 995 ss.; Mengoni, L., Responsabilità contrattuale, in Jus, 1986, 87 ss., Visintini, G., La responsabilità contrattuale, Napoli, 1979; per il profilo sub b): oltre a Visintini, G., La responsabilità contrattuale, cit., Bessone, M., Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, rist. inalt., 1975; Giorgianni, M., L’inadempimento, Milano, 1970; Bianca, C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1979, 98 ss.; Natoli, U., L’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1984; Di Majo, A., Obbligazioni in generale, cit.; per il profilo sub c): Trimarchi, P., Sul significato economico dei criteri di responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, 521 ss.; Pardolesi, R., Il diritto della concorrenza, in Alpa, G. - Pulitini, F. - Rodotà, S. – Romani, F., a cura di, Interpretazione giuridica e analisi economica, Milano, 1984, e ai brani ivi tradotti di autori inglesi e nordamericani; per il profilo sub d) v. i contributi raccolti in in Alpa, G. - Pulitini, F. - Rodotà, S. – Romani, F., a cura di, Interpretazione giuridica e analisi economica, cit. A titolo meramente conclusivo si può fare riferimento al contributo che si è proposto nella letteratura sul tema con propositi di compiutezza: mi riferisco alle pagine di Luigi Mengoni che riproducono il testo della voce Responsabilità contrattuale destinata all’Enciclopedia del diritto (in Jus, 1986, 87 ss.). A esito di una attenta, acuta e raffinata rilettura delle fonti classiche, specie tedesche, e delle loro diverse incidenze sulle elaborazioni teoriche italiane, anteriori e posteriori al codice civile, l’autore isola appunto le due versioni sopra riportate: quella, risalente a Osti e ripresa da Visintini, che - in modo rigoroso - esclude una integrazione degli artt. 1176 e 1218 c.c., affida all’art. 1218 c.c. il ruolo di regola principale della responsabilità contrattuale, ignora i criteri di imputazione (e quindi richiede una integrazione sulla base del principio della colpa desunto dall’art. 43 c. p. considerata norma uniforme per la responsabilità contrattuale e per la responsabilità extracontrattuale) e assegna invece alla diligenza il compito esclusivo (e riduttivo) di misura dell’esatto adempimento delle obbligazioni che hanno per oggetto un facere (Mengoni, L., Responsabilità contrattuale, cit., 120-121); quella invece via via discendente da Barassi (e da Hartmann) in cui vi è responsabilità quando vi è colpa (oggettiva) e cioè mancanza di comportamento diligente; all’interno di questa versione, l’autore distingue poi una linea interpretativa (a suo dire) corretta, che porta al controllo della “in eseguibilità” della prestazione, e una, distorta, frutto di asseriti equivoci, in cui il controllo avviene sulla «esigibilità» della prestazione.
Ormai non si può più pretendere di ricondurre tutto a sistema, anche se non è necessario abbandonarsi a tentazioni nichilistiche. I codici di un tempo hanno vissuto in gloria, oggi si propone una nuova codificazione concepita come un nuovo modo di aggregare regole di autonomia privata. I tentativi consumati in ambito accademico e poi ripresi in ambito comunitario sono oggetto di ampio dibattito.
Siamo distanti anni luce dal dibattito nella cultura giuridica francese o in quella anglo-americana, nel senso che il nostro tempo ha superato il loro, le nostre stagioni si sono moltiplicate molto di più delle loro, ma corriamo un doppio rischio: che quella straordinaria esperienza sia conchiusa in sé, rimanendo compressa entro i confini nazionali, visto che siamo più inclini ad importare che non ad esportare le idee, i modelli, le stesse “mode” che si radicano e ramificano all’estero; che l’affermarsi del contratto globalizzato, tecnicamente perfetto e (in apparenza) neutrale dal punto di vista ideologico e dei valori che racchiude soppianti, attraverso le codificazioni di settore, l’applicazione dei principi internazionali, la giurisprudenza arbitrale, il contratto costruito sulle fondamenta del codice del 1942. Quelle fondamenta corrono il rischio di diventare ceneri, e il contratto del codice anch’esso un monumento storico come è accaduto per il negozio giuridico.
Nell’avvicendarsi di queste stagioni, nel sovrapporsi delle epoche, nella vita parallela di indirizzi interpretativi, si delineano anche nuove metodologie che affiancano all’analisi formale l’analisi sociologica, quella antropologica, quella letteraria.
Si affermano nuove clausole generali, prima tra tutte l’abuso di potere contrattuale. Si affermano nuove classificazioni (B2C, B2B, B2b o “terzo contratto”, o contratto asimmetrico: v. Minervini, E., Il “terzo” contratto, in I Contratti, 2009, 493; Gitti, G. – Villa, G., a cura di, Il terzo contratto, Bologna, 2008; Roppo, V., Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici, in Riv. dir. priv., 2007, 669; Zoppini, A., Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Navarretta, E., a cura di, Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, Milano, 2007; Del Prato, E., La minaccia di far valere un diritto, Padova, 1990, 95 ss.). Si introducono nuovi principi, come la trasparenza intesa come tecnica di negoziazione mediante l’adempimento di obblighi informativi precontrattuali, nuovi adempimenti documentali, come i modelli imposti dalle direttive comunitarie. Si congegnano nuovi rimedi, quali la rinegoziazione e la revisione del contratto, la nullità di protezione, la rilevanza dei comportamenti che ridonda in vizi del contratto. E pertanto si assegnano nuovi compiti al giudice, espandendosi perciò i confini del controllo giudiziale degli atti di autonomia privata.
La tripartizione classificatoria di contratti tra contraenti formalmente eguali, contratti tra imprese e contratti con i consumatori si arricchisce di una nuova categoria, il contratto asimmetrico, in cui l’asimmetria (informativa, di potere negoziale, di potere impositivo) non riguarda solo il consumatore, ma riguarda anche la piccola impresa, e più in generale la parte esposta all’abuso di potere economico della controparte . (Zoppini, A., Il contratto asimmetrico, cit.).
La “giustizia” del contratto è stata esaminata in diverse prospettive. La più aderente alla disciplina del codice riguarda la giustizia nel contratto, cioè la valutazione comparativa degli interessi in gioco, emergenti dalle opposte posizioni delle parti che il contratto è chiamato a comporre (se si tratta di un contratto di scambio e non di un contratto associativo, anche se nell’esecuzione di un contratto associativo possono nascere conflitti). Il codice, che pure esprimeva una concezione liberale, corretta dai principi del corporativismo, ha introdotto correttivi che rimettono i contraenti su una posizione di parità formale (ad es., nei contratti per adesione, giusta gli artt. 1341-1342 c.c.), rimediano a situazioni sproporzionate, come la laesio enormis, le clausole penali, etc. L’espressione “giustizia contrattuale” è vista anche fuori dal contratto, quando si considera lo status delle parti, l’appartenenza del contraente ad una categoria che abbisogna di una particolare tutela (il lavoratore, il consumatore, la piccola impresa) e quando si pensa che il contratto, nella ripartizione di vantaggi e svantaggi, non debba consentire l’approfittamento di una parte ai danni dell’altra, come accade nei casi di abuso di posizione dominante, abuso di dipendenza economica, abuso di pratiche commerciali, abuso di clausole contrattuali e così via. Si tratta di casi previsti, in via legislativa, o costruiti dalla giurisprudenza mediante l’impiego delle clausole generali, come appunto abuso del diritto, buona fede, correttezza etc.
L’orientamento dell’interpretazione del codice civile si è venuto combinando con l’orientamento interpretativo delle regole di derivazione comunitaria. Di qui la convinzione dei più – a cui mi associo – che esista nell’ordinamento interno, integrato com’è dal diritto comunitario, un principio di giustizia contrattuale, di equilibrio del contratto, non solo nei contratti di massa, ma anche nei contratti individuali, quando sussistono determinate circostanze (Somma, A., Giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2005, 75; Monateri, P.G., Ripensare il contratto: verso una visione antagonista del contratto, Riv. dir. civ., 2003, 409).
È pur vero che la negoziazione diretta, ad esempio, esclude l’applicazione della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, ma è anche vero che, in tutti gli altri casi, la direttiva comunitaria n.13/1993 ha inciso la libertà contrattuale in modo molto più estensivo di quanto non avesse fatto il codice civile. Non credo che si tratti solo di realizzare finalità di integrazione del mercato e di libera circolazione di beni e servizi, perché tutta la disciplina della tutela del consumatore – pur presentata in questa ottica – va ben al di là di essa, attingendo finalità di ordine sociale (in senso contrario si è espresso Mazzamuto, S., Il contratto e il potere correttivo del giudice, in AA.VV., I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale. Iniziativa economica e impresa, t. III, Napoli, 2007, 81 ss.).
Se mai il problema, all’opposto, è se i meccanismi correttivi – di natura legislativa o di natura giudiziale – soddisfino compiutamente le istanze di natura sociale che provengono dalla collettività e chiedono una mediazione con le istanze degli operatori economici o al legislatore o al giudice (Perfetti, U., L’ingiustizia del contratto, Milano, 2005).
Il contratto è considerato «giusto» non tanto perché corrisponde alla volontà delle parti, in quanto liberamente negoziato, non tanto perché scaturito da una volontà integra, e non tanto perché il valore delle prestazioni corrisponde a quello di mercato (o comunque non è inferiore alla metà, secondo la regola che non legittima l’approfittamento della parte che ottiene un controvalore ultra dimidium), ma perché:
i) nel corso dei contatti tra le parti, la parte meno esperta ha ottenuto le informazioni utili per poter consapevolmente e liberamente concludere il contratto; si è cioè ripristinata la simmetria informativa, rispetto ad una situazione «asimmetrica»; ii) la parte meno esperta ha ottenuto il testo contrattuale, e i documenti, le note integrative,ogni altro sussidio utile per poter valutare appieno tutti gli aspetti dell’operazione economica; iii) il contratto contiene clausole che consentono alla parte meno esperta di sciogliersi dal vincolo dopo la conclusione del contratto; iv) il contratto prevede clausole vessatorie che debbono essere sottoscritte per risultare efficaci, o comunque debbono essere evidenziate, per attirare l’attenzione della parte meno esperta; v) il contratto non contiene clausole oscure; vi) il comportamento delle parti è stato conforme a buona fede.
Ciascuna di queste situazioni ha una sua vicenda normativa: le leggi speciali le contemplano con riguardo ai contratti dei consumatori, ai contratti dei risparmiatori, ai contratti tra professionisti; tutte queste situazioni non debbono concorrere quando si applicano le regole generali sul contratto, ma il fatto che la legislazione speciale a poco a poco si stia estendendo induce la dottrina a riconsiderare le valutazioni in termini di «giustizia» del contratto e a non respingere l’idea, difesa dalla tradizione, che il contratto sorge con un ben delineato rapporto tra le prestazioni che il giudice non può modificare.
Questo assunto è smentito proprio dai casi nei quali si consente al giudice di verificare se il comportamento precontrattuale abbia dato luogo ad un inadempimento contrattuale, se l’oscurità delle clausole (anche quelle riguardanti il prezzo) ne implichi la nullità, se nel riequilibrio del contratto mediante la clausola di buona fede – magari a seguito di circostanze sopravvenute – sia possibile raggiungere un rapporto corrispondente a ciò che è «equo». «Equo» però non è ciò che il giudice, soggettivamente, ritiene, ma ciò che oggettivamente risulta dal mercato. I comportamenti scorretti, contrari alla buona fede, sono sanzionati perché il mercato ha interesse ad espungere gli operatori che commettono abusi.
Anche nell’esame delle diverse proposte di armonizzazione delle regole sul contratto – dai PECL al DRAFT al Regolamento opzionale sulla vendita – è maturato un indirizzo critico che vede in quei testi l’inclusione di correttivi, che ritiene tuttavia insoddisfacenti per assicurare una posizione di garanzia sostanziale dei diritti e degli interessi della parte “debole” (AA. VV., Social Justice in European Contract Law: a Manifesto. Study Group on Social Justice in European Private Law, in Eur. L. Jour., 2004, 653–674; v. anche Somma, A., Social Justice and the Market in European Contract Law, in Eur. Rev. Contract L., 2006, 181).
È appena il caso di dire che i meccanismi di correzione interna riguardano soltanto la posizione della singola parte più debole e il programma contrattuale che essa ha concordato con la controparte; la sua debolezza dipende dalle circostanze in cui il contratto è stato concluso o da quelle che interverranno successivamente. Certo, il contratto non può essere corretto se l’affare è stato cattivo per inadeguatezza incompetenza mancanza di perspicacia o abilità.
Invece, per quanto riguarda l’intervento dall’esterno, in cui si considerano categorie di soggetti o categorie di eventi è evidente che il nuovo diritto appare, dal punto di vista sociale, più giusto di quello anteriore.
Agli occhi dei liberisti invece apparirà ingiusto, perché introduce limitazioni alla libertà contrattuale dei privati che dovrebbe essere lasciata intatta.
Ma l’intangibilità del contratto è oggi un mito, e i modelli di giustizia sociale che in ambito europeo sono prevalsi impongono di considerare anche i valori sociali, a cominciare dalla persona e dai diritti fondamentali.
Gli orientamenti che maturano in dottrina sono variegati.
La linea più aderente alla disciplina di codice, con tutte le possibili estensioni interpretative, si concentra sui meccanismi interni, tra i quali la rescissione, la risoluzione per eccessiva onerosità, riduzione della clausola penale, la riduzione degli effetti presupposizione, le clausole abusive, le clausole di esonero da responsabilità, le clausole limitative dei rimedi e gli altri meccanismi affidati al giudice sono altrettante tecniche correttive dello squilibrio contrattuale (Cataudella, A., Bilateralità corrispettività e onerosità, in Studi Senesi, 1968, 230, Perfetti, U., L'ingiustizia del contratto, cit.). La più esterna alle tavole dei valori contrattuali si rifà alla giustizia sociale e critica i principi «ordo-liberali» che sorreggono non solo questo indirizzo in Italia ma soprattutto le iniziative dell’Unione europea (Somma, A., Giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti, cit.; Monateri, P.G., Ripensare il contratto: verso una visione antagonista del contratto, cit.). Si discute se sia ammissibile nel nostro ordinamento l’istituto dei danni punitivi (Benatti, F., Danni punitivi e class action nel diritto nordamericano, in AGE, 2008, 235 ss.). Un altro indirizzo accosta la giustizia del contratto alla sua trasparenza, e quindi alla simmetria di posizioni contrattuali, incluse le informazioni precontrattuali obbligatorie. Ancora, un ulteriore indirizzo si incentra su una clausola generale, l’abuso del diritto.
L’abuso del diritto è uno strumento che il legislatore aveva voluto espungere dal sistema, ma che è ritornato in auge con grande determinazione, attraverso la porta della giustizia tributaria, e poi via via conquistando, sotto spoglie diverse, singoli settori dell’ordinamento, dal diritto processuale a quello deontologico fino al diritto contrattuale.
L’esercizio abusivo del credito, il recesso abusivo, lo sfruttamento della posizione economicamente più forte nei contratti tra imprese, l’abuso di posizione dominante nei contratti anticoncorrenziali, l’impiego della buona fede per reprimere i comportamenti abusivi sono tutte espressioni di questa linea che porta il contratto ad una maggiore equità.
Sull’abuso del diritto in tutte le sue configurazioni si raccoglie l’attenzione di gran parte della dottrina (Pagliantini, S., a cura di, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010; D’Amico, G., Libertà di scelta del tipo contrattuale e frode alla legge, Milano 1993).
Ma nuovamente viene in gioco la buona fede, che non obbedisce, per sua natura, alla tipizzazione degli usi (come suggerirebbero Benatti, F., I doveri di buona fede e di diligenza nell’adempimento, sub. Art. 1175, in Comm. c.c. Schlesinger, 1990, e D’Angelo, A., La buona fede. Il contratto in generale, in Tratt. Bessone, t. IV, Torino, 2004) per ragioni di certezza del diritto, per arginare la discrezionalità del giudice, per rendere più salde le operazioni economiche) ma si presta in giurisprudenza ad una svariata, estesa, incessante applicazione, che tiene conto delle esigenze sociali.
Ne sono testimonianza molti contributi dedicati agli sviluppi straordinari di questa clausola generale: Rodotà ne segna i confini temporali (Rodotà, S., Le clausole generali nel tempo del diritto flessibile, in Orestano, A., a cura di, Lezioni sul contratto, Torino, 2010; Nanni, L., La buona fede contrattuale, Padova, 1988; D’Angelo, A., La buona fede, cit.; D’Angelo, A. - Monateri, P.G. - Somma, A., Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, 2008).
Quando si profila una situazione di disparità contrattuale, sulla base delle disposizioni di codice è dunque possibile - senza alterare la volontà delle parti espressa nel programma originario – ricorrere a meccanismi riequilibrativi.
Appunto di equilibrio si parla nel testo della disciplina delle clausole abusive.
La dottrina recente ha tentato di risolvere positivamente una questione annosa, che aveva tormentato i giuristi per tutto il secolo scorso. E cioè se sia possibile rimediare allo squilibrio senza dover necessariamente pervenire alla soluzione spesso troppo rigida e inefficiente dello scioglimento del rapporto. Le alternative studiate sono due: obbligare le parti a rinegoziare; consentire al giudice di intervenire apportando i correttivi ritenuti equi.
Questi meccanismi sono stati per così dire codificati nel Draft Common Frame of Reference, e nei testi che ne sono derivati.
Avvalendosi dei progetti di codificazione europea e dei modelli stranieri la dottrina italiana più attenta a questa problematica è riuscita nell’intento, anche se non ha raccolto una adesione corale (per i primi riferimenti v. Alpa G. - Resta, G., Le persone fisiche e i diritti della personalità, Torino, 2006; Mantello, M., Autonomia dei privati e problemi giuridici della solidarietà, Milano, 2007; Navarretta, E., Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 2006; Cherednychenko, O., Fundamental Rights, Contract Law and the protection of the Weaker Party, Munchen, 2007).
Un contratto giusto è anche un contratto trasparente.
L’espressione “trasparenza” si può intendere in diverse accezioni, connesse con le esigenze che il legislatore, ovvero organismi di controllo amministrativo, ovvero organismi sorti nell’ambito dell’autonomia privata intendono soddisfare. L’espressione comincia ad essere usata nel settore dei contratti bancari e finanziari (Alpa, G., La trasparenza dei contratti bancari e finanziari, Bari, 2001;. Gaggero, P., La trasparenza del contratto, Milano, 2011). Può riguardare oneri di forma del contratto, per far sì che la controparte dell’istituto di credito, cioè il “cliente”, sia in grado di conoscere dettagliatamente, già nel momento di costituzione del rapporto, la natura e l’oggetto del contratto e, in sostanza, l’ampiezza delle obbligazioni assunte nei confronti della banca e il loro corrispondente onere economico, nonché le posizioni di vantaggio offerte dall’ente creditizio; può riguardare l’ambito e l’oggetto delle informazioni che si possono trasmettere al cliente nella fase anteriore alla costituzione del rapporto, nella fase di esecuzione e nella fase di estinzione; può riguardare il jus variandi dell’imprenditore (Gaggero, P., La modificazione unilaterale dei contratti bancari, Padova, 1999); può riguardare la tecnica di redazione delle clausole e la loro intelligibilità; può riguardare lo stesso contenuto minimo del contratto; può riguardare, infine, lo scambio di informazioni tra le parti e quindi la correttezza di comportamento dei soggetti che nella fase di costituzione, esecuzione ed estinzione del rapporto operano a contatto con il cliente.
Esemplare è la disciplina della trasparenza del mercato finanziario.
In un mercato fondato sul principio della libertà dell’iniziativa economica e sul principio della libertà contrattuale, la trasparenza attiene alla qualità delle prestazioni bancarie e finanziarie: più il rapporto è trasparente, maggiore è la consapevolezza (quanto meno potenziale, se non effettiva) del cliente in ordine alla scelta della banca, alla scelta dell’operazione economica che si vuole intraprendere, alla scelta della veste giuridica con la quale essa è espressa, alla scelta del contenuto che essa deve assumere.
La trasparenza è quindi collegata con l’ampiezza e il contenuto delle informazioni, con i comportamenti, con i documenti contrattuali, con i controlli sui comportamenti e sui documenti. Ciascuna di queste attività comporta costi: di qui la diatriba tra coloro che privilegiano un mercato puro, e coloro che privilegiano un mercato controllato.
I primi affidano alle stesse forze operanti sul mercato la ricerca delle condizioni per contemperare l’esigenza dell’imprenditore bancario e finanziario volta a contenere al massimo ogni limitazione, onere, direttiva e quindi le informazioni e la documentazione da trasmettere al cliente cercando di operare, sostanzialmente, in un ambiente e in un rapporto tendenzialmente “opaco”, e l’esigenza del cliente, esattamente opposta, volta ad ottenere il maggior numero di informazioni, di documenti, in un ambiente e in un rapporto tendenzialmente “limpido”. I secondi ritengono che il mercato debba essere guidato, o mediante interventi diretti, o mediante misure di “moral suasion”, al fine di assicurare alla parte meno organizzata, meno consapevole, sostanzialmente meno forte, una posizione se non paritetica, almeno più agguerrita nei confronti dell’imprenditore. È questa la posizione, a quanto pare, emersa in ambito comunitario e quella verso la quale si sta muovendo il legislatore italiano.
Cambia anche il modo di intendere la trasparenza, a seconda che ci si ponga nell’ottica della tutela degli interessi degli enti creditizi (l’ottica più congeniale alla dottrina e alla giurisprudenza fino a tempi recenti dominanti nel nostro Paese), ovvero nell’ottica della tutela degli interessi dei contraenti deboli (l’ottica era in emersione, soprattutto con riguardo alla disciplina dei consumi e dei servizi quale promossa dal diritto comunitario e quale in corso di recepimento nel nostro diritto interno).
Poiché ogni generalizzazione è poco utile, se non dannosa, discutere di trasparenza in astratto è operazione scientificamente non attendibile e praticamente infruttuosa. Occorre quindi muovere due distinzioni preliminari: un conto è la trasparenza collegata con un contratto concluso tra istituti di credito ed investitori o clienti “istituzionali”, altro conto è la trasparenza collegata con contratti offerti al pubblico in generale, e a controparti “deboli”; la trasparenza può poi avere diverse graduazioni, a seconda dei diversi tipi contrattuali che si prendono in considerazione.
Tradurre tutto ciò in formule giuridiche è operazione complessa: non solo perché ogni intervento diretto ad introdurre la trasparenza, o a migliorare il grado di trasparenza già esistente, incide su una disciplina vigente (quale è offerta dalle disposizioni costituzionali, dalle disposizioni di codice civile e dalle disposizioni delle leggi speciali); ma anche perché questo intervento si collega con altri interventi maturati in settori estranei a quello bancario e finanziario, diretti a introdurre la trasparenza nelle condizioni di contratto, nei messaggi pubblicitari, nei comportamenti degli operatori economici, nei rapporti tra le imprese e i consumatori-risparmiatori.
A lungo la dottrina civilistica ha indagato gli obblighi di informazione dei contraenti, sia nella fase precontrattuale (art. 1337 c.c.) sia nella fase di interpretazione del contratto (art. 1336 c.c.), sia nella fase di esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.), ricorrendo alla clausola generale di buona fede, alla valutazione del comportamento anche anteriore alla conclusione del contratto, alla elaborazione di “obblighi accessori” del rapporto obbligatorio, quando non alla integrazione del contratto (art. 1374 c.c.). Quale effetto abbia avuto l’applicazione di questa normativa sui contratti bancari non è facile dire, ma, sostanzialmente pare che la costruzione dogmatica e l’interpretazione giurisprudenziale delle regole generali in materia di contratto non abbiano prodotto vantaggi rilevanti dal punto di vista della tutela del contraente debole.
Allo stesso modo, l’applicazione degli artt. 1341, 1342, 1370 c.c., per comune opinione, ha portato alla legittimazione, piuttosto che non al controllo effettivo, delle clausole contenute nei moduli o formulari utilizzati dagli enti creditizi, vanificando le esigenze di tutela del contraente debole. A conclusioni simili si può pervenire con riguardo al controllo esercitato da organismi amministrativi operanti nel settore bancario.
Risultati più considerevoli si sono ottenuti dalla applicazione della direttiva comunitaria sulle clausole abusive contenute nei contratti dei consumatori.
La direttiva, pur facendo concessioni al potere contrattuale delle imprese, e, in particolare, alle imprese che erogano servizi finanziari in senso lato (ad esempio, per quanto concerne la legittimazione del ius variandi), consente di istituire un controllo giudiziale sulle clausole “abusive”, sia dal punto di vista della loro intelligibilità, sia dal punto di vista del loro contenuto; nonché un controllo amministrativo, preventivo o successivo, sui moduli e formulari contenenti le clausole abusive.
La disciplina di settore è stata oggetto di una vastissima letteratura, che ha indagato i rapporti tra codice civile e t.u.b e t.u.f.; le regole del c. cons. pur non inglobando il testo della normativa sul credito al consumo ha inglobato i contratti a distanza eventi ad oggetto i servizi finanziari.
Al di là dei contratti del settore, tutte le direttive comunitarie si preoccupano di istituire obblighi informativi precontrattuali. Esse si muovono dal presupposto che il consumatore informato è dotato di potere contrattuale, e quindi il rapporto contrattuale che scaturisce dalla negoziazione dovrebbe essere equilibrato (Di Donna, L, Obblighi informativi precontrattuali, vol. I, La tutela del consumatore, Milano, 2008). L’asimmetria e la giustizia contrattuale coinvolgono l’informazione dei contraenti e quindi la trasparenza del contratto.
Fonti normative
Artt. 1175, 1176, 1218, 1256, 1336, 1337, 1341, 1342, 1370, 1374, 1375, 1453, 1463, 2697, 2740 c.c.
Bibliografia essenziale
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