Abstract
Vengono esaminati gli elementi che caratterizzano il contratto collettivo aziendale ricostruendone natura, funzioni e collocazione nel più ampio sistema delle relazioni sindacali. In particolare, si affronta il problema dei rapporti con gli altri livelli della contrattazione collettiva e quello dell’efficacia soggettiva, analizzando gli orientamenti della giurisprudenza, la regolamentazione sindacale e, infine, la disciplina posta dalla l. 14.9.2011, n. 148.
Il contratto collettivo aziendale è il contratto stipulato tra un singolo datore di lavoro, eventualmente assistito dalla associazione di imprese alla quale aderisce, e una rappresentanza dei suoi lavoratori.
In mancanza di una disciplina legale dei soggetti abilitati alla contrattazione collettiva, anche per la stipulazione del contratto aziendale vale il principio che la rappresentanza dei lavoratori può essere costituita da una qualsiasi coalizione di lavoratori, non necessariamente organizzata in modo stabile e formale (cfr. Giugni, G., La funzione giuridica del contratto collettivo, Milano, 1968, 19). Ciò che è sufficiente, e al tempo stesso necessario, è che la rappresentanza dei lavoratori miri a tutelare un interesse collettivo di tutto il personale (attuale e futuro) dell’azienda, o comunque, di parte di essa (singoli stabilimenti, reparti, unità o specifiche qualifiche). Al contrario ove i rappresentanti agiscano esclusivamente per curare interessi individuali di una pluralità di singoli lavoratori individualmente determinati, il contratto stipulato con il datore di lavoro è riconducibile nella categoria dei contratti plurisoggettivi (o individuali plurimi).
È opportuno ricordare, peraltro, che il tessuto produttivo italiano è stato a lungo fortemente caratterizzato dall’opposizione delle imprese all’ingresso nei luoghi di lavoro da parte del sindacato, al fine di evitare di dover trattare con quest’ultimo in modo “diretto” (ossia senza il “filtro”, normalmente presente nella contrattazione collettiva nazionale e territoriale, costituito dalle organizzazioni che operano in rappresentanza dei datori di lavoro). Anche a ragione di ciò, la dottrina e la giurisprudenza sono state inizialmente incerte sulla qualificazione della natura dei contratti che, sporadicamente, venivano stipulati a livello aziendale, prevalendo inizialmente proprio la tesi favorevole ad un loro generale inquadramento tra i contratti plurisoggettivi.
Questa incertezza, però, è venuta meno a seguito, prima, dell’introduzione del sistema di contrattazione “articolata” nel settore delle imprese a partecipazione statale, (cfr. il Protocollo Intersind – A.S.A.P. del 5.7.1962) e, poi, dei rivolgimenti della fine degli anni ’60 del secolo scorso che condussero i movimenti sindacali di “base” a rivendicare il diretto esercizio di poteri, anche negoziali, sui luoghi di lavoro, e il legislatore ad introdurre la disciplina promozionale dell’attività sindacale in azienda (titolo III della l. 20.5.1970, n. 300).
Tutto ciò, mentre ha permesso una graduale diffusione della contrattazione aziendale (frequenti sono i rinvii che ad essa operano anche le disposizioni di legge), ha consentito che si affermasse l’opinione che attribuisce a quel contratto la stessa natura, dignità e forza vincolante del contratto collettivo nazionale, in quanto anche esso costituisce non la somma di più contratti individuali, bensì un atto di autonomia sindacale riguardante una pluralità di lavoratori collettivamente considerati (cfr., tra le tante, Cass., 9.12.1988, n. 6695; Cass., 26.7.1984, n. 423; Cass., 26.1.1983, n. 718; Cass., 13.1.1981, n. 300; Cass., 10.4.1971, n. 357). Come il contratto nazionale, e quelli di qualsiasi altro livello, anche il contratto aziendale è quindi destinato ad introdurre una disciplina collettiva uniforme dei rapporti di lavoro, sia pure con riferimento a tutti i lavoratori non già di un intero settore, categoria o territorio, ma più limitatamente di una determinata azienda o parte di essa (cfr., sempre tra le tante, Cass., 17.5.1985, n. 3047; Cass., 29.3.1982, n.1965; Cass., 19.10.1981, n. 5470. In dottrina, per la distinzione tra contratto individuale plurimo e contratto aziendale, v. Proia, G., Ancora alcune considerazioni in ordine alla distinzione tra contratto collettivo aziendale e contratto plurisoggettivo, in Mass. giur. lav., 1994, 496 ss.).
Nonostante la graduale diffusione di cui si è fatto cenno, la contrattazione di livello aziendale, come anche quella territoriale (l’una insieme all’altra definite di “secondo livello”, perché, di norma, si aggiungono al “primo livello” costituito dal contratto collettivo nazionale o di categoria), ha avuto fino ad ora un’applicazione limitata. Essa, infatti, riguarda, a tutt’oggi, soltanto una parte (non prevalente) del mondo delle imprese, concentrata soprattutto tra quelle industriali di dimensioni medio grandi situate nel centro-nord, mentre ha riscontrato una diffusione assai più limitata nel terziario, tra le piccole e medie imprese e, in genere, nelle imprese di tutti i settori e di tutte le dimensioni del centro-sud. Inoltre, la contrattazione aziendale, in base alla disciplina dettata dai livelli contrattuali d’ambito superiore, è stata abilitata a svolgersi pressoché esclusivamente sulle materie specificamente demandate da questi ultimi, e quindi soltanto in funzione integrativa della disciplina posta dai contratti nazionali (in proposito, tra gli ultimi, v. Lassandari, A., Il contratto collettivo aziendale, in Proia, G., a cura di, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Tratt. dir. lav. Persiani-Carinci, Padova, 2014, 717 ss.).
In effetti, la realtà italiana, storicamente fondata su grandi organizzazioni sindacali nazionali, ha dato vita ad una forte centralizzazione della contrattazione collettiva, che ruota attorno agli accordi interconfederali ed ai contratti collettivi nazionali di lavoro, i quali dettano la disciplina applicabile alla pluralità di settori produttivi rappresentati dalle confederazioni sindacali (solitamente, con riferimento a specifici istituti o alle regole generali della rappresentanza) o ai singoli settori rappresentati dai sindacati di categoria (solitamente, con riferimento a tutti gli istituti del rapporto di lavoro, oltreché alle relazioni industriali nel settore).
La centralizzazione della contrattazione collettiva, unitamente alla particolare efficacia che l’ordinamento statale riconosce al contratto collettivo (favorendo la sua applicazione generalizzata e riconoscendo la sua inderogabilità in peius da parte dell’autonomia individuale), ha consentito di assicurare un livello minimo di trattamento economico e normativo del lavoro nei diversi comparti o settori produttivi. Questa uniformità di trattamento ha, a sua volta, consentito di evitare che, all’interno di ogni comparto o settore, la concorrenza tra imprese e la concorrenza tra lavoratori fosse basata sul dumping sociale.
In termini più generali, il “governo” centralizzato della disciplina sindacale ha consentito di realizzare coesione sociale e politiche di sviluppo: gli stessi aumenti retributivi che nei periodici rinnovi dei contratti nazionali sono stati acquisiti nel tempo, anche a prescindere da un incremento effettivo di produttività, hanno favorito negli anni del boom economico del secolo scorso la diffusione del benessere tra i lavoratori senza incidere sulla tenuta complessiva dell’apparato produttivo. Quest’ultimo, infatti, non essendo ancora pressato dalla concorrenza estera, poteva ribaltare sui prezzi dei prodotti gli aumenti concessi e, contemporaneamente, fare affidamento sugli incrementi delle vendite derivanti dal maggior potere d’acquisto da parte dei lavoratori e delle loro famiglie.
Negli ultimi anni, però, il sistema centralizzato di contrattazione collettiva non si è rivelato più in grado di produrre effetti positivi né per le imprese, né per i lavoratori, in quanto quel sistema – in un mercato divenuto globale – non è in grado allo stato di svolgere efficacemente il ruolo di regolazione della concorrenza, essendo il suo campo d’applicazione legato al territorio nazionale e non potendo quindi vincolare le imprese situate all’estero, né impedire alle imprese situate in Italia di “delocalizzarsi” (ossia, di modificare il Paese ove “stabilirsi”). Inoltre, il processo di integrazione europea non solo assume, come fondamento, la “libertà di stabilimento” delle attività economiche in ciascuno degli Stati membri, ma, più in generale, ha ridotto il ruolo della politica economica nazionale e, di conseguenza, ha ridotto anche il ruolo che la contrattazione centralizzata (soprattutto a livello interconfederale) ha potuto svolgere, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, sul piano della politica dei redditi (cfr. il Protocollo del 23.7.1993).
Ne è derivato che, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, il valore delle retribuzioni, in termini reali, è entrato in una lunga fase di stallo, tuttora in essere, facendo emergere, in tutta la sua criticità, la questione dell’impoverimento di quote crescenti di popolazione, tanto più a seguito dell’ultima e più “feroce” crisi economica iniziata nel 2008. Tutto ciò, oltretutto, è avvenuto in un contesto in cui anche la competitività delle nostre imprese si è andata riducendo a causa dello scarso incremento degli indici di produttività rispetto ai paesi esteri concorrenti, evidenziando, altresì, come l’uniformità della disciplina dettata dai contratti collettivi nazionali di categoria non possa tenere conto delle condizioni specifiche delle singole realtà aziendali, le quali risultano sempre più differenziate in relazione a tipi e metodi di lavorazione, professionalità utilizzate, mercati di riferimento.
In questa situazione, dopo anni di discussione sul superamento del modello contrattuale prefigurato dal citato Protocollo del 23.7.1993, dal 2009 in poi (v. infra, § 3.2), le parti sociali sono ripetutamente intervenute sulla struttura della contrattazione collettiva dichiarando di voler favorire lo sviluppo della contrattazione collettiva di secondo livello, e specialmente di quella aziendale, anche eventualmente con contenuti derogativi rispetto alla disciplina del contratto nazionale.
Dal canto suo, anche il legislatore sembra perseguire lo stesso obiettivo, poiché, da un lato, ha offerto incentivi economici (sotto forma di detassazione o decontribuzione) a favore di quegli aumenti salariali che siano collegati ad incrementi di produttività e redditività previsti da contratti aziendali e territoriali (v., ad esempio, art. 5 l. 28.1.2009, n. 2; art. 1, co. 47, l. 13.12.2010, n. 220), e, dall’altro lato, ha direttamente attribuito, sia pure con una disposizione che ha suscitato accese critiche ed opposizioni (cfr. art. 8 d.l. 13.8.2011, n. 138 conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148), ampi poteri alla contrattazione collettiva aziendale e territoriale, in deroga ai contenuti dei contratti nazionali e persino della stessa legge (v. infra, § 6).
Nuova e più radicale espressione della tendenza al decentramento contrattuale, infine, è costituita dai recenti accordi collettivi Fiat (quelli siglati, con il dissenso di un’organizzazione sindacale, nel biennio 2010-2011, e culminati nella sottoscrizione, per tutti gli stabilimenti del gruppo, del contratto collettivo del 13.12.2011), i quali hanno assunto un indubbio rilievo nel nostro sistema di relazioni sindacali non soltanto perché hanno riguardato il più importante gruppo industriale privato italiano, ma anche per i loro contenuti innovativi (su tale vicenda e sull’ampio dibattito che ha suscitato, v., per tutti, Carinci, F., a cura di, Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, Milano, 2011, nonché Proia, G., Il contratto collettivo comune di lavoro dopo Mirafiori, in Mass. giur. lav., 2011, 206 ss.). In particolare, il contratto collettivo del 13.12.2011, pur avendo come destinatario un unico “gruppo” industriale, è stato definito dalle parti stipulanti un contratto specifico “di primo livello”, in quanto ha regolato organicamente ogni aspetto ed istituto del rapporto di lavoro. Si è, così, creato un contratto collettivo “alternativo”, applicabile a tutto il personale del gruppo, che ha sostituito per intero (con previsioni anche peggiorative), la disciplina posta dal contratto nazionale di categoria (non più applicato dalla Fiat, dopo il recesso della stessa azienda da Federmeccanica e la sua conseguente fuoriuscita dal sistema confindustriale).
Essendo il sistema della contrattazione collettiva articolato su più livelli (interconfederale, nazionale di categoria, regionale, provinciale, aziendale), la disciplina dei rapporti di lavoro di fonte sindacale è spesso costituita da una pluralità di contratti collettivi di diverso livello, nel senso che il singolo rapporto di lavoro può rientrare nel campo di applicazione di più contratti collettivi stipulati per ambiti più o meno ampi.
In un sistema ordinato, i contratti collettivi di diverso livello applicabili al medesimo rapporto di lavoro regolano anche i propri reciproci rapporti in modo da realizzare una armonica integrazione della disciplina che ciascuno di essi detta. Però, non è sempre così che si verifica; anzi, accade spesso che, soprattutto tra le strutture sindacali locali o le rappresentanze sindacali operanti in azienda, vi siano divergenze di valutazioni (o vere e proprie contestazioni) nei riguardi dei sindacati nazionali che stipulano il contratto di categoria, così da determinare la sottoscrizione di accordi che si pongono rispetto a quest’ultimo in un rapporto non di integrazione, bensì di conflitto.
Questa evenienza determina, a sua volta, stante l’assenza di regole legali di carattere generale (esistenti soltanto nel settore pubblico privatizzato: cfr. art. 40, co. 3-quinquies, d.lgs. 30.3.2001, n. 165), un problema giuridico (oltreché di inefficienza del sistema contrattuale) assai delicato, che è quello di individuare quale tra le disposizioni configgenti debba prevalere.
Diversi sono stati, al riguardo, i criteri di soluzione elaborati, ma nessuno può dirsi pienamente appagante. Non lo era un primo orientamento che, facendo leva sull’applicazione dell’art. 2077 c.c., attribuiva prevalenza sempre al contratto collettivo più favorevole al lavoratore (cd. criterio del favor), poiché la disposizione codicistica ora citata è stata dettata, e trova applicazione, solo in relazione all’ipotesi di contrasto tra contratto collettivo e contratto individuale, e non può quindi regolare i rapporti tra due contratti che sono entrambi di natura sindacale e godono della medesima garanzia di libertà prevista dall’art. 39, co. 1, Cost.
Successivamente, tra incertezze e ripensamenti, sono stati proposti ulteriori criteri, come quello cronologico (in base al quale prevale sempre il contratto stipulato successivamente), quello di gerarchia (in base al quale, invece, prevale sempre la disciplina posta dal contratto di livello superiore) e di specialità (in base al quale, infine, prevale sempre il contratto collettivo ad ambito minore, ossia quello più vicino al rapporto di lavoro e agli interessi che si intendono regolare). Anche questi tre ultimi criteri, però, hanno suscitato critiche, prima tra tutte quella che evidenzia come essi siano stati elaborati per risolvere l’ipotesi di conflitti tra norme di diritto e non siano, quindi, di per sé estendibili alla diversa ipotesi di conflitti tra disposizioni contrattuali, sia pure di natura sindacale.
In linea di principio, quindi, sembrerebbe che l’unico criterio aderente al sistema normativo vigente sia quello, affermato anch’esso in giurisprudenza, dell’autonomia, in base al quale si deve tener conto della effettiva volontà delle parti stipulanti, risultante dal coordinamento funzionale delle varie disposizioni dei diversi contratti collettivi, tutti aventi pari dignità e forza vincolante (cfr. Cass., 18.5.2010, n. 12098; Cass., 26.5.2008, n. 13544; Cass., 18.9.2007, n. 19351; Cass., 19.4.2006, n. 9052; Cass., 19.5.2003, n. 7847). Senonché va avvertito che tale criterio, pur essendo ineccepibile, è idoneo a risolvere i casi di conflitto soltanto apparente, ma non i casi in cui manchi qualsiasi coordinamento funzionale tra i contratti collettivi di diverso livello e vi sia una “incompatibilità” assoluta tra le disposizioni da ciascuno dettate, così da lasciare ancora aperto, e fonte di notevoli incertezze, il problema di cui trattasi.
Ovviamente, anche le parti sindacali hanno tentato di risolvere, e prima ancora di prevenire, il problema del conflitto tra contratti collettivi di diverso livello, ed in particolare tra contratto nazionale e contratto aziendale.
L’accordo interconfederale del 23.7.1993 aveva stabilito che fosse il contratto nazionale a stabilire materie, tempi e modalità di svolgimento della contrattazione aziendale, precisando, altresì, che il contratto aziendale poteva riguardare soltanto «materie e istituti diversi e non ripetitivi» rispetto a quelli già disciplinati dal contratto nazionale (cfr. punti 2.1 e 2.3 dell’accordo del 23.7.1993). Inoltre, per quanto riguarda la materia della retribuzione, la competenza del contratto aziendale era circoscritta alla introduzione di erogazioni collegate alla produttività dell’impresa e, più in generale, ai risultati del suo andamento economico (cfr. punto 2.3 dell’accordo del 23.7.1993).
Dopo lunghe discussioni sulla perdurante attualità di tale disciplina, anche per la scarsa effettività di talune sue previsioni, sono stati stipulati (con il dissenso della Cgil) l’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22.1.2009 e il successivo accordo interconfederale attuativo del 15.4.2009, i quali, pur riconfermando la supremazia del contratto nazionale per quanto riguarda l’individuazione degli ambiti e delle materie di competenza del contratto aziendale, hanno stabilito che, in determinate ipotesi, i contratti aziendali possano modificare anche in peius le previsioni dei contratti nazionali (cfr. punto 16 dell’accordo del 22.1.2009 e punto 5 dell’accordo del 15.4.2009).
In particolare, nell’accordo attuativo del 15.4.2009, vi è la presa d’atto che nei principali paesi dell’Unione europea si è già sviluppata «una generale tendenza a favorire un progressivo decentramento della contrattazione collettiva»e che «una maggiore diffusione della contrattazione di secondo livello» può «consentire di rilanciare la crescita della produttività e quindi delle retribuzioni reali» (così punto 3 dell’accordo del 15.4.2009). Così, a tal fine, da un lato, sono stati sollecitati gli interventi pubblici di incentivazione della contrattazione di secondo livello mediante la detassazione o decontribuzione degli aumenti salariali i quali siano collegati «al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese» (cfr. supra, § 2). D’altro lato, è stato previsto che le strutture territoriali dei sindacati nazionali possono concludere, sotto il diretto controllo di questi ultimi, intese dirette a modificare «singoli istituti economici e normativi» disciplinati dal contratto nazionale al fine di governare «situazioni di crisi aziendali» o di «favorire lo sviluppo economico ed occupazionale del territorio» (cfr. punto 5 dell’accordo del 15.4.2009).
Successivamente, gli accordi interconfederali del 28.6.2011 e, infine, del 10.1.2014, siglati anche dal sindacato che aveva dissentito dalla riforma degli assetti contrattuali del 2009, nell’affrontare il tema della definizione delle regole in materia di rappresentatività sindacale e di efficacia della contrattazione aziendale, hanno ulteriormente esteso la possibilità da parte di quest’ultima di modificare la disciplina dei contratti nazionali.
È vero, infatti che, come già negli accordi del 2009, anche in quelli del 2011 e, poi, del 2014, v’è l’espressa riconferma che la contrattazione aziendale si esercita soltanto per le «materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale di lavoro di categoria» e che essa può anche introdurre, in relazione alle esigenze degli «specifici contesti produttivi», previsioni diverse (e quindi anche peggiorative) rispetto a quelle contenute nel contratto nazionale, ma pur sempre entro i «limiti e con le procedure» previste dallo stesso contratto nazionale (cfr. punti 3 e 7 dell’accordo del 28.6.2011 e parte terza dell’accordo del 10.1.2014). Tuttavia, in alcune ipotesi particolari e specificamente individuate, è previsto che la contrattazione aziendale in deroga possa esercitarsi anche in via autonoma rispetto alle previsioni del contratto nazionale. Ed infatti, è stabilito che, pur in assenza di regole poste dal contratto nazionale, il contratto aziendale, per «gestire situazione di crisi o in presenza di interventi significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa», possa comunque definire «intese modificative», e quindi anche peggiorative, delle disposizioni del contratto nazionale che riguardano «la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro» (cfr., ancora, punto 7 dell’accordo del 28.6.2011 e parte terza dell’accordo del 10.1.2014). Inoltre, in questo caso si attribuisce la titolarità del potere negoziale direttamente «alle rappresentanze sindacali operanti in azienda (cfr.; infra, § 4), sia pure da esercitare «d’intesa»con le organizzazioni sindacali territoriali «espressione delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato» (cfr., sempre, punto 7 dell’accordo del 28.6.2011 e parte terza dell’accordo del 10.1.2014).
In sostanza, con gli accordi richiamati le parti sindacali, ripartendo le competenze tra i diversi livelli della contrattazione collettiva, hanno inteso impedire la stessa possibile sovrapposizione di discipline sindacali incompatibili.
Allo stesso tempo, dettando una specifica disciplina delle ipotesi in cui il contratto aziendale può derogare quello nazionale, hanno regolato i criteri in base ai quali, nell’ambito delle relazioni sindacali, dovrebbero essere risolti i casi di contrasto tra l’uno e l’altro, nel senso di riconoscere validità – e, quindi, prevalenza – all’accordo aziendale derogatorio solo ove esso rispetti le regole procedurali e sostanziali all’uopo fissate.
Tuttavia, tale soluzione, per quanto apprezzabile sul piano intersindacale, ha una limitata efficacia giuridica, poiché gli accordi interconfederali, come tutte le previsioni di carattere negoziale, vincolano soltanto le parti che li hanno siglati, ma non le singole associazioni di categoria (almeno secondo Trib. Roma, 13.5.2013, in Lav. giur., 2013, 702), né tantomeno i sindacati aderenti alle confederazioni non firmatarie. Inoltre, si deve tener conto che, a differenza di quanto avviene nel settore pubblico (cfr, ancora, art. 40, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 165/2001), il contratto aziendale eventualmente stipulato in violazione delle competenze assegnate dal contratto nazionale non potrebbe essere considerato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c., in quanto gli atti di autonomia sindacale non possono essere assimilati a “norme imperative di legge”. In questa ipotesi, ferme restando le eventuali responsabilità endoassociative dei soggetti che abbiano stipulato il contratto aziendale in contrasto con le regole degli accordi interconfederali, quel contratto manterrebbe comunque la sua validità ed efficacia tra le parti che lo hanno sottoscritto (cfr., da ultimo, Trib. Roma, 13.5.2013, poc’anzi citata, nonché Cass. 18.6.2003, n. 9784).
È stato già evidenziato (v. supra § 1), come il contratto aziendale possa essere sottoscritto anche da una rappresentanza di lavoratori non organizzata stabilmente, purchè essa rappresenti gli interessi (non già dei singoli, bensì) della collettività dei lavoratori (cfr., al riguardo, Cass., 5.5.2004, n. 8565; Cass., 27.5.1996, n. 4870; Cass., 9.11.1995, n. 11677. Contra, però, Cass., 9.3.1999, n. 2022).
Di fatto, il ruolo di agente negoziale viene solitamente assunto, ove costituite, dalle rappresentanze sindacali aziendali, unitamente alle articolazioni territoriali dei sindacati di categoria.
Va ricordato, infatti, che già lo Statuto dei lavoratori, pur non essendo una legge “sulla”contrattazione collettiva, attribuiva specificamente alle rappresentanze sindacali aziendali la legittimazione a stipulare accordi su determinate materie (artt. 4 e 6 della l. n. 300/1970). E la legislazione successiva ha contributo alla espansione delle loro competenze in materia contrattuale, anche attraverso l’impulso offerto con l’attribuzione di diritti di consultazione e di esame congiunto (cfr. art. 5, l. 20.5.1975, n. 164; il combinato disposto dei co. 1 e 5 dell’art. 47, l. 29.12.1990, n. 428; gli artt. 1, co. 7 e 8, 4, co. 2, 5 e 11, 5, co. 1, l. 23.7.1991, n. 223; art. 3, d.l. 12.2.1993, n. 31; art. 8 d.l. 10.3.1993, n. 57).
Va anche ricordato, però, che il modello di rappresentanza sindacale in azienda previsto dall’art. 19 l. n. 300/1970 ha evidenziato, nel tempo, problemi di efficienza/funzionalità riconducibili ad una pluralità di fattori di diversa natura, tra i quali quello di realizzare una “presunzione di rappresentanza” generale che può non corrispondere, nelle diverse realtà, ad un effettivo consenso da parte dei lavoratori rappresentati. E ciò ha indotto le parti sociali, in un apprezzabile sforzo di autoriforma, a prevedere il passaggio al diverso modello delle rappresentanze sindacali unitarie di carattere elettivo, riconoscendo direttamente a queste ultime anche la «legittimazione a negoziare al secondo livello le materie oggetto di rinvio da parte del c.c.n.l.» (cfr., ancora il Protocollo del 3.7.1993, nonché l’accordo interconfederale del 20.12.1993).
È noto, peraltro, che il passaggio dal vecchio al nuovo modello di rappresentanza sindacale in azienda è risultato complesso e a tutt’oggi non si è realizzato compiutamente, onde i due modelli continuano a coesistere in diversi ambiti aziendali.
Un “rilancio” delle RSU è stato, ora, previsto dall’accordo interconfederale del 28.6.2011, e soprattutto dal Testo Unico del 14.1.2014, i quali attribuiscono ad esse la competenza a negoziare a livello aziendale in via esclusiva, ossia senza prevedere la necessaria contitolarità delle organizzazioni sindacali territoriali (salvo quanto già detto, supra, § 2). Resta, però, ancora ferma la possibile sopravvivenza di realtà in cui operino ancora le rappresentanze sindacali aziendali, alle quali continua ad essere riconosciuta la competenza a stipulare accordi aziendali aventi, a determinate condizioni, la medesima efficacia degli accordi stipulati dalle RSU (cfr., infra, § 5).
La giurisprudenza è attualmente orientata nel ritenere che il contratto aziendale sia applicabile a tutti i lavoratori dell’azienda, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, proprio perché esso, come detto, è diretto a regolare, indistintamente, tutti i rapporti di lavoro dell’intera azienda (o di parte di essa).
Tuttavia, si tratta di un’efficacia solo tendenzialmente generale, in quanto resta salvo il diritto al dissenso di natura sindacale. Ed invero, secondo la stessa giurisprudenza, il contratto aziendale non può vincolare i lavoratori esplicitamente dissenzienti che siano iscritti ad una organizzazione sindacale diversa da quella che lo ha stipulato, in quanto – in mancanza di una disciplina speciale di legge – il contratto collettivo (a qualunque livello sia stipulato) non può avere una “forza” diversa da quella prevista per tutti i contratti di diritto comune (art. 1372 c.c.), e non può comprimere il diritto di libertà sindacale dei lavoratori che aderiscono ad un sindacato dissenziente (cfr., tra le ultime, Cass., 18.4.2012, n. 6044; Cass., 28.5.2004, n. 10353; Cass., 25.3.2002, n. 4218).
In passato, anche per evitare il rischio che il dissenso nei confronti dell’attività negoziale delle organizzazioni sindacali stipulanti fosse utilizzato dal singolo lavoratore in modo strumentale (ad esempio, per rifiutare l’applicazione soltanto di quelle parti del contratto aziendale peggiorative, ma, allo stesso tempo, beneficiare dei vantaggi da esso previsti), la giurisprudenza ha tentato più volte di affermare l’efficacia erga omnes del contratto aziendale (cfr. ancora, tra le ultime, Cass., 26.6.2004, n. 11939 e Cass., 25.3.2002, n. 4218). Tentativi che sono stati giustificati, talvolta, utilizzando ancora il diritto comune dei contratti, con il ricorso estensivo, ad esempio, all’istituto della ratifica per atti concludenti ex art. 1399 c.c. (cfr. Cass., 27.1.1988, n. 719; Cass., 11.11.1987, n. 8325), ma anche utilizzando moduli interpretativi specificamente elaborati per il contratto collettivo. Si è, così, fatto ricorso al principio del consenso prestato dalla maggioranza dei lavoratori (cfr. Pret. Prato, 5.5.1988, in Foro it. rep., 1988, voce Lavoro (contratto), n. 42), all’elemento della partecipazione alle attività preparatorie, come referendum o assemblee (cfr. Pret. Pinerolo, 6.12.1993, in Dir. prat. lav., 1994, 1557), all’unicità ed indivisibilità dell’interesse collettivo aziendale dei lavoratori stessi (cfr. Cass., 8.7.2004, n. 12647; Cass., 2.5.1990, n. 3607), o alla presunzione dell’attribuzione a favore delle organizzazioni stipulanti della funzione di rappresentare la generalità dei lavoratori, rappresentanza, dunque, quasi di tipo istituzionale (cfr. Cass., 2.3.1988, n. 6695; App. Milano, 4.3.2003, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 511 ss., per l’efficacia generale di un contratto aziendale stipulato dalla RSU). Qualche seguito, infine, ha avuto anche la tesi che, operando una differenziazione tipologica tra i contratti collettivi stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative e quelli stipulati dalle altre associazioni sindacali, ricollega ai primi, e solo ad essi, la conseguenza dell’efficacia generalizzata (cfr. Trib. Milano, 2.2.1987, in Foro it. rep., 1987, voce Lavoro (contratto), n. 77).
Al pari della giurisprudenza, anche la dottrina, muovendo dal diffuso convincimento della inadeguatezza della rappresentanza di diritto comune a spiegare il fenomeno sindacale e, in particolare, l’efficacia del contratto collettivo, ha tentato, a sua volta, di elaborare nuove proposte ricostruttive, volte anch’esse a dare soluzione al problema della rilevanza del dissenso individuale. E così, per fondare l’efficacia erga omnes del contratto aziendale, anche in dottrina si è affermata l’indivisibilità degli interessi regolati sul piano dell’impresa e la conseguente necessità di un’unica ed inscindibile regolamentazione contrattuale, o si è fatto leva, in alternativa, sulla qualità rappresentativa dei soggetti stipulanti, sulla necessità del rispetto del principio di parità di trattamento in azienda o, ancora, sull’adozione di procedure di tipo assembleare-plebiscitario in sede di formazione e approvazione del contratto, fino a far ricorso anche alla valorizzazione del meccanismo del rinvio esplicito o implicito del contratto individuale al contratto collettivo (su tali proposte ricostruttive, ma anche sui loro limiti, v., da ultimo, Lunardon, F., Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012, 21 ss., ma già Proia, G., Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, dissenso, Milano, 1994, 181 ss.).
Nonostante gli apprezzabili sforzi profusi, nessuno di questi tentativi è, però, riuscito a fornire una spiegazione pienamente convincente, almeno sul piano del diritto positivo, dell’efficacia generale del contratto collettivo, anche di quello aziendale. Pertanto, in conformità all’orientamento della giurisprudenza attualmente prevalente, si deve ancora ritenere che, al di fuori di singole ipotesi di rinvio legale (cfr. Cass., 24.2.1990, n. 1403, in Foro.it, 1990, I, 877, in relazione all’art. 1 della l. n. 863/1984), e del campo di applicazione dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011, conv. con mod. dalla l. n. 148/2011 (di cui si dirà infra,§ 6), il singolo lavoratore, ove non altrimenti vincolato per atti di esercizio di autonomia privata, possa legittimamente rifiutare l’applicazione del contratto aziendale sottoscritto da organizzazioni sindacali diverse da quelle alle quali egli aderisce.
Peraltro, come già il problema del conflitto tra contratti collettivi di diverso livello (v. supra, § 3.2), anche il problema dell’efficacia del contratto aziendale è stato affrontato dalle parti sociali, fermo restando che anche esso non può dirsi definitivamente risolto a causa degli stessi limiti di efficacia e vincolatività che caratterizzano, in quanto fonti comunque pattizie, tutti i contratti di diritto privato.
In particolare, nell’accordo interconfederale del 28.6.2011, e ora nell’accordo del 14.1.2014, è stato espressamente stabilito che il contratto aziendale, compreso quello che contiene intese modificative del contratto nazionale (v. supra, § 3.2), sia efficace «per tutto il personale in forza» presso l’azienda, a condizione che esso sia approvato dalla maggioranza dei componenti delle RSU (e dunque, anche nei confronti dei lavoratori iscritti ad organizzazioni sindacali i cui rappresentanti all’interno della RSU hanno espresso posizioni di dissenso). Mentre, nel caso siano presenti RSA, il contratto aziendale è efficace e vincolante se approvato «dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione», e poi, eventualmente, anche dalla maggioranza dei lavoratori votanti dell’azienda (purché la partecipazione al voto sia superiore al 50 per cento degli aventi diritto), se tale voto è richiesto da almeno una organizzazione sindacale firmataria degli accordi interconfederali (o di una sua espressione) o da almeno il 30 per cento dei lavoratori della stessa azienda (cfr. punto 5 dell’accordo del 28.6.2011 e parte terza dell’accordo del 10.1.2014).
Pressato da richieste esplicite e fortemente cogenti che provenivano da istituzioni europee, anche il legislatore è intervenuto nuovamente sulla contrattazione collettiva, imprimendo ad essa una decisa accelerazione nella direzione dell’“adattabilità” del sistema contrattuale alle esigenze degli specifici contesti produttivi.
Così l’art. 8 del d.l. n. 138/2011, sotto la rubrica Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità, ha attribuito ai contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale (ed anche territoriale) la possibilità di sottoscrivere «intese» efficaci nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a prescindere da ogni affiliazione sindacale, in relazione ad un ventaglio molto ampio di «materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione».
Precisamente, tali «intese» possono riguardare, anche in deroga alle disposizioni di legge ed ai contratti nazionali, le materie relative: «agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie»; «alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale»; «ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro»; «alla disciplina dell’orario di lavoro»; «alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro», nonché «alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro» (esclusi i casi in cui il licenziamento sia «discriminatorio» o violi altri specifici divieti stabiliti dalla legge).
Diversi sono i punti critici dell’intervento del legislatore, che, va evidenziato, seguiva di poche settimane l’intervento operato dalle parti sociali con l’accordo interconfederale del 28.6.2011, senza però riprenderne i contenuti (così da suscitare da parte delle organizzazioni sindacali reazioni negative e l’intenzione, dichiarata forse più che praticata, di disapplicazione della disciplina legale in questione).
Quest’ultima, infatti, pur richiamando espressamente il citato accordo interconfederale per quanto riguarda l’individuazione delle rappresentanze sindacali legittimate alla stipulazione delle «intese» di cui trattasi, incide sugli equilibri endosindacali e intersindacali, ed è stato perciò sospettato di essere in contrasto con il principio di libertà sindacale di cui all’art. 39, co. 1, Cost., in quanto estende la gamma delle materie rimesse alla contrattazione di prossimità e conferisce a quest’ultima un potere di derogare non solo la contrattazione nazionale, ma anche la legge (v., soprattutto, Carinci, F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in Argomenti dir. lav., 2011, 1169 e 1204). Ma va ricordato che l’intervento del legislatore è stato motivato da pressanti sollecitazioni europee e da interessi generali di politica economica, e di ciò vi è traccia nella previsione della legge stessa in base alla quale le intese modificative devono essere giustificate da finalità ritenute meritevoli («maggiore occupazione», «qualità dei contratti di lavoro», «adozione di forme di partecipazione dei lavoratori», «emersione del lavoro irregolare», «incrementi di competitività e di salario», «gestione delle crisi aziendali e occupazionali», «investimenti» e «avvio di nuove attività»).
Si dubita, altresì, della costituzionalità della attribuzione di efficacia generale alle intese in questione, poiché tale attribuzione è disposta sulla base di un modello diverso da quello previsto dall’ultimo comma dell’art. 39 Cost. (v., tra gli altri, Carinci, F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, cit.., 1164 e 1186; Ferraro, G., Il contratto collettivo dopo l’art. 8 decreto n. 138/2011, in Argomenti dir. lav., 2011, 1277 ss.). Ma può obiettarsi che, secondo la parte prevalente della dottrina, quest’ultima disposizione costituzionale riguarda esclusivamente i contratti nazionali di categoria e, quindi, non è applicabile ai contratti di diverso livello. E, comunque, il modello dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011 si fonda sul principale, anche se non unico, requisito desumibile dal precetto costituzionale, poiché l’efficacia generale delle «intese» è riconosciuta a condizione che esse siano sottoscritte «sulla base di un criterio maggioritario» riferito alle rappresentanze sindacali legittimate alla loro stipulazione (in proposito, v. anche Vallebona, A., L’efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l’idolo dell’uniformità oppressiva, in Mass. giur. lav., 2011, 686; Pessi, R., Ancora sull’art. 8 della seconda manovra estiva. Quali spazi per la contrattazione di prossimità?, in Dir. rel. ind., 2012, 60 ss.).
Si contesta, infine, l’ampiezza delle materie sulle quali è stato concesso alla contrattazione di prossimità il potere di derogare la legge, poiché quel potere non è limitato a specifiche ipotesi come era sempre avvenuto nei precedenti casi in cui il legislatore aveva fatto ricorso al modello della “deregolazione controllata”, così da suscitare il timore che ciò possa mettere a rischio l’intero sistema legale di tutela del lavoro (v., ancora, Carinci, F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, cit., 1168 e 1204; Ferraro, G., Il contratto collettivo dopo l’art. 8 decreto n. 138/2011,cit., 1268). Ma va sottolineato che la delega alla contrattazione di prossimità, per quanto ampia, non ha «un ambito illimitato», poiché riguarda solo le specifiche materie tassativamente elencate (cfr. C. cost., 19.9.2012, n. 221). Ed inoltre, quella delega trova un limite invalicabile nella condizione che essa operi nel «rispetto della Costituzione» e dei «vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro» (art. 8, co. 2-bis, d.l. n. 138/2011); ditalché, anche se la verifica del rispetto di tale condizione essenziale da parte dei singoli accordi di prossimità potrà dare luogo a complesse questioni interpretative, il timore di uno “smantellamento” della tutela legale appare infondato.
Art. 39 Cost.; art. 8 d.l. 13.8.2011, n. 138 conv. con mod. dalla l. 14.9.2011, n. 148.
Carinci, F., Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, Milano, 2011; Carinci, F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in Argomenti dir. lav., 2011, 1137 ss.; Cataudella, M.C., L’efficacia generale degli accordi aziendali e territoriali, in Dir. lav. merc., 2012, 59 ss.; Ferraro, G., Il contratto collettivo dopo l’art. 8 decreto n. 138/2011, in Argomenti dir. lav., 2011, 1249 ss.; Lassandari, A., Il contratto collettivo aziendale, in Proia, G., a cura di, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Tratt. dir. lav. Persiani-Carinci, Padova, 2014, 717 ss.; Lunardon, F., Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012, 21 ss.; Maio, V., Struttura ed articolazione della contrattazione collettiva, Padova, 2013; Maio, V., Concorso e conflitto di diritti che discendono da contratti collettivi incompatibili, in Argomenti dir. lav., 2004, 571 ss.; Pessi, R., Ancora sull’art. 8 della seconda manovra estiva. Quali spazi per la contrattazione di prossimità?, in Dir. rel. ind., 2012, 60 ss.; Proia, G.-Gambacciani, M., Il contratto collettivo di diritto comune, in Proia, G., a cura di, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Tratt. dir. lav. Persiani-Carinci, Padova, 2014, 595 ss.; Proia, G., Il contratto collettivo comune di lavoro dopo Mirafiori, in Mass. giur. lav., 2011, 206 ss.; Proia, G., Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, dissenso, Milano, 1994; Proia, G., Ancora alcune considerazioni in ordine alla distinzione tra contratto collettivo aziendale e contratto plurisoggettivo, in Mass. giur. lav., 1994, 496 ss.; Santoro Passarelli, G., Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e art. 8 d.l. 138/2011 conv. con modif. l. 148/2011: molte divergenze e poche convergenze, in Argomenti dir. lav., 2011, 1224 ss.; Santoro Passarelli, G., Osservazioni su «conflitto intersindacale, pluralità di contratti collettivi nell’ambito della stessa categoria, clausola di rinvio e rapporto tra contratti collettivi di diverso livello», in Del Prato, E., a cura di, Studi in onore di Antonino Cataudella, Napoli, 2013, 2027 ss.; Vallebona, A., L’efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l’idolo dell’uniformità oppressiva, in Mass. giur. lav., 2011, 682 ss.