Abstract
L’appalto privato, disciplinato dagli artt. 1655-1677 c.c., è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso un corrispettivo in denaro. La codificazione del 1942, conferendo autonomia a tale schema negoziale rispetto alla categoria della locazione che precedentemente lo comprendeva (cd. locatio operis), regola minutamente differenti aspetti del rapporto: fra i più rilevanti, quelli attinenti alla fase esecutiva (variazioni, revisione del prezzo, verifica e accettazione dell’opera), quelli relativi alla fase patologica (vizi e difformità dell’opera, responsabilità per i danni) e quelli riguardanti lo scioglimento del rapporto (risoluzione e recesso).
Il codice civile del 1865, come già aveva fatto il Code Napoléon, era rimasto fedele alla tradizione giuridica romanistica, per la quale l’appalto costituiva una particolare ipotesi di conductio (la locatio-conductio operis), ed era quindi ricondotto alla categoria generale della locazione (al pari della locazione di pura attività lavorativa, la locatio-conductio operarum). Il legislatore del 1942, invece, ha conservato nell’ambito classico della conductio solo la locazione di cose (la conductio rei), ed ha dedicato all’appalto l’intero Capo VII nel Titolo III del Libro IV del Codice civile vigente. Prima di illustrare i contenuti essenziali della disciplina dettata dagli artt. 1655-1677 c.c., va rilevato che la presente trattazione è limitata all’appalto privato e non contempla dunque l’esame delle regole speciali in tema di appalti pubblici, che si applicano quando committente è lo Stato o un soggetto pubblico e che sono oggi contenute in un testo normativo unitario, il cd. Codice degli appalti pubblici (d.lgs. 12.4.2006, n. 163).
L’appalto è «il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso un corrispettivo in denaro» (art. 1655 c.c.). Il contratto in linea generale non è soggetto a vincoli di forma, tranne che nel caso in cui esso determini il trasferimento di diritti reali su cosa immobile (in particolare, nel caso di costruzione su suolo dell’appaltatore) o nei casi in cui la legge espressamente lo preveda, come per gli appalti pubblici e per gli appalti di costruzione di navi, che devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità. Al pari del prestatore d’opera, l’appaltatore si assume il rischio economico dell’affare senza alcun vincolo di subordinazione rispetto al committente. Tuttavia, nel contratto d’opera la prestazione è adempiuta con il lavoro prevalentemente proprio dell’assuntore e dei suoi familiari, e quindi nel contesto di una attività riconducibile alla piccola impresa (art. 2083 c.c.). Per l’appalto, invece, in ragione della maggiore entità della prestazione per lo più dedotta in contratto, il legislatore richiede che l’assuntore disponga di mezzi ben più cospicui.
La prestazione principale del committente è costituita dal pagamento di un corrispettivo in denaro. Molto importante è la distinzione tra corrispettivo a corpo (o à forfait) e corrispettivo a misura, non priva di significative implicazioni anche nella disciplina delle variazioni (v. infra § 3). La prima fattispecie ricorre quando i contraenti hanno stabilito un corrispettivo globale; la seconda quando il corrispettivo dovuto è da calcolarsi sulla base di prezzi unitari in ragione delle “unità” nelle quali l’opera o il servizio si strutturano. Sempre in tema di corrispettivo, va segnalata una deroga al principio generale posto dall’art. 1346 c.c.: il contratto è valido anche se il prezzo non è determinato né determinabile sulla base delle tariffe esistenti o degli usi. In questa ipotesi, il corrispettivo dovuto è stabilito dal giudice (art. 1657 c.c.).
Quanto alla prestazione tipica dell’appaltatore, occorre distinguere tra appalto d’opera e appalto di servizi. Si ha appalto d’opera quando oggetto della prestazione è una modificazione della realtà materiale (come, ad esempio, la costruzione di un immobile o di una nave), mentre l’appalto è di servizi quando la prestazione concerne lo svolgimento di un’attività che, senza tradursi in un’opera nel senso precisato, reca un’utilità economicamente apprezzabile (si pensi, ad esempio, agli appalti di servizi di pulizia, o ai cd. contratti di ‘catering’ e di ‘banqueting’). Con riguardo alla disciplina applicabile agli appalti di servizi, va sottolineato che non tutte le regole dettate dal codice (diversamente dagli artt. 1655, 1656, 1671, 1674, 1676 c.c.) sono previste anche con riferimento a questa fattispecie. Quando il legislatore richiama unicamente l’appalto d’opera o non distingue tra le due figure, la compatibilità delle singole disposizioni con l’appalto di servizi deve essere verificata caso per caso. Inoltre, se si tratta di prestazione di servizi periodica o continuativa, vengono in rilievo, in quanto compatibili, sia le norme poste in tema di appalto che quelle relative al contratto di somministrazione (art. 1677 c.c.).
Caratteristiche importanti della prestazione dell’appaltatore sono la unitarietà ed indivisibilità. L’interesse del committente è soddisfatto solo con la consegna dell’opera o con lo svolgimento del servizio. D’altro canto, l’esecuzione della prestazione per sua natura è destinata a protrarsi per un periodo di tempo più o meno lungo. Per queste ragioni, appare persuasiva la tesi che, valorizzando la peculiarità dell’appalto tanto rispetto ai contratti ad esecuzione istantanea o differita quanto rispetto ai contratti di durata, lo qualifica come contratto ad esecuzione prolungata. Solo quando l’appalto riguarda la prestazione continuativa o periodica di un servizio, il contratto appare riconducibile al genus dei rapporti di durata.
Ancora, la prestazione dell’appaltatore, in tutte le specie di appalto, è oggetto di una obbligazione di risultato, il cui adempimento si sostanzia in un facere; in linea generale ciò distingue l’appalto dalla compravendita, caratterizzata invece da una tipica prestazione di dare (il trasferimento della proprietà della cosa). Quando, però, l’appalto implica la produzione di un effetto traslativo – ad esempio perché il terreno è di proprietà del soggetto che assume l’obbligazione di compiere l’opera – la distinzione tra appalto e compravendita si fa più delicata. Soccorrono in proposito diversi criteri: fondamentale quello per cui va ritenuta la ricorrenza dell’appalto se risulta prevalente, nella volontà delle parti, la considerazione della dimensione dell’attività prestata per la realizzazione dell’opera (nella quale consiste il facere tipico dell’appalto) su quella della materia; si ha invece compravendita se risulta che le parti hanno contemplato la necessaria attività di trasformazione della materia come un semplice presupposto strumentale al trasferimento della proprietà della cosa (nel quale consiste il dare tipico della compravendita).
Non di rado accade che l’accordo delle parti si definisca su una progettazione iniziale bisognosa di successive integrazioni o modifiche, anche in ragione del fatto che l’appalto è esposto a variabili che nella fase dell’esecuzione possono determinare l’insufficienza o la inadeguatezza delle pattuizioni iniziali. L’intima inerenza dell’opera agli interessi del committente giustifica, poi, sia pure entro limiti determinati, il riconoscimento di una discrezionalità che non compete al comune creditore. Questa in sintesi è la ratio della disciplina dettata dagli artt. 1659, 1660 e 1661 c.c. in tema di variazioni.
Per variazione o variante si intende qualunque modifica, rientrante nell’alveo contrattuale ma non oggettivamente prevedibile sulla base delle regole dell’arte al momento della formazione dell’accordo iniziale, che venga adottata in un arco temporale compreso tra la conclusione del contratto e l’accettazione dell’opera da parte del committente, facendo insorgere in capo all’appaltatore uno specifico ed autonomo diritto al compenso per i lavori svolti, maggiori o comunque diversi da quelli previsti inizialmente. Se la variazione al progetto è dettata dall’esigenza di garantire il rispetto di altrui diritti assoluti o di norme tecniche non derogabili, ovvero se essa si impone in forza di cause di ordine tecnico o, comunque, se la modifica appare indispensabile per una esecuzione dell’opera a regola d’arte, si ha la fattispecie delle varianti necessarie, prevista dall’art. 1660 c.c. Se invece l’esecuzione secondo le previsioni iniziali è diventata solo più difficoltosa, si applica la diversa disciplina dell’art. 1664 c.c. (su cui infra § 4).
La necessità della variazione non deve essere imputabile alla colpa dell’appaltatore: in questo caso l’appaltatore è inadempiente e, se esegue l’opera senza provvedere a sua cura e spese ad adottare le misure necessarie, andrà incontro alle sanzioni previste dalla legge (su cui infra §§ 6 e 9). Se le parti non concordano sulla necessità della variante e sui contenuti delle modifiche da eseguire, o sulla misura del compenso per i maggiori lavori svolti dall’appaltatore, la relativa decisione sarà presa dal giudice. Tuttavia, al fine di evitare che l’appaltatore sia costretto ad eseguire varianti sproporzionate rispetto all’organizzazione e alla capacità della sua impresa, la legge gli riconosce il diritto di recesso nel caso in cui l’importo complessivo delle modifiche ecceda il sesto del prezzo convenuto, e prevede che egli possa ottenere, secondo le circostanze, un’equa indennità (art. 1660, co. 2, c.c.), nei limiti dell’utilità tratta dal committente. Il diritto di recesso può essere esercitato anche quando il limite verrebbe superato per effetto della necessità di modifiche successive ed ulteriori rispetto a variazioni necessarie già intervenute. Anche il committente ha il diritto di recesso se le variazioni sono di notevole entità, e in questa ipotesi è tenuto a versare all’appaltatore un equo indennizzo (art. 1660, co. 3, c.c.), svincolato dalla utilità dell’opera. In questo caso non è però previsto il limite del sesto, in modo da consentire al committente una maggiore elasticità nel valutare la convenienza della prosecuzione dei lavori. Poiché le fattispecie di recesso qui considerate si fondano su una giusta causa, non compete all’appaltatore il guadagno che gli sarebbe derivato dalla esecuzione integrale del contratto, il quale è invece dovuto quando il committente recede valendosi del diritto riconosciutogli dall’art. 1671 c.c. (infra § 10), il cui esercizio è rimesso alla sua libera volontà.
Il committente può peraltro ordinare o autorizzare variazioni che non siano necessarie nel senso sopra precisato. La prima ipotesi, disciplinata dall’art. 1661 c.c., deroga al principio dell’art. 1372 c.c.: al committente, infatti, sia pure entro precisi limiti a tutela dell’appaltatore, è riconosciuto uno ius variandi, cioè un diritto di modificare unilateralmente il contenuto del contratto. Precisamente, il committente può ordinare variazioni entro il limite del sesto del prezzo complessivo convenuto, corrispondendo all’appaltatore il compenso per i maggiori lavori eseguiti, che spetta anche in caso di appalto stipulato a corpo (art. 1661, co. 1, c.c.). Se le variazioni eccedono il sesto del prezzo complessivo, l’appaltatore può semplicemente rifiutarsi di eseguirle (salvo il diritto del committente di recedere ai sensi dell’art. 1671 c.c.), mentre se accetta si ha una modifica bilaterale dei patti originari.
Lo ius variandi del committente incontra un ulteriore ordine di limitazioni, volte a rendere meno gravosa la posizione dell’appaltatore. Anche quando le richieste di modifica non determinano aumenti di prezzo oltre il sesto, ma importano comunque notevoli modificazioni della natura dell’opera o dei quantitativi nelle singole categorie di lavori previste nel contratto (art. 1661, co. 2, c.c.), l’appaltatore può opporvisi ed ha il diritto di eseguire l’opera secondo le modalità originariamente pattuite (sempre salva la possibilità per il committente di recedere ex art. 1671 c.c.).
La seconda ipotesi è individuata dall’art. 1659 c.c., che disciplina le «variazioni concordate» del progetto. L’appaltatore non può procedere a modifiche di sua iniziativa, se il committente non le ha autorizzate (art. 1659, co. 1, c.c.). Non si ha qui una modificazione unilaterale del contratto, ma una normale ipotesi di modifica consensuale, nella quale l’autorizzazione del committente ha valore di accettazione della proposta avanzata dall’appaltatore. A differenza di quanto previsto per le varianti ordinate dal committente, salvo patto contrario, il diritto al maggior compenso spetta soltanto in caso di appalto a misura e non già di appalto a corpo (art. 1659, co. 3, c.c.). In mancanza di autorizzazione, non è dovuto alcun compenso ulteriore rispetto a quello pattuito, e l’appaltatore potrà essere chiamato a rispondere della difformità dell’opera ai sensi degli artt. 1667 e 1668 c.c. L’autorizzazione del committente deve essere provata per iscritto (art. 1659, co. 2, c.c.); tale forma, che va osservata quand’anche il contratto di appalto sia stato concluso oralmente, deve ritenersi prescritta ad probationem (non già ad substantiam, come affermato dalla giurisprudenza in talune pronunce), con le conseguenze derivanti dall’art. 2725 c.c. in punto di ammissibilità della prova testimoniale e presuntiva. Non è invece soggetta a tali limitazioni la prova dell’autorizzazione se l’appaltatore intende dimostrare di aver eseguito una variazione necessaria (art. 1660 c.c.) o ordinatagli dal committente (art. 1661 c.c.). Lo stesso è a dirsi per l’esecuzione di opere di rilevanza e natura tali da potersi considerare oggetto di un nuovo contratto d’appalto.
Il rapporto di corrispettività tra le prestazioni dedotte nell’appalto può essere alterato anche da fattori che non incidono sulle modalità convenute di realizzazione dell’opera, e che dunque non si traducono in una variazione in senso tecnico.
In primo luogo, il legislatore prende in considerazione l’aumento o la diminuzione dei costi della mano d’opera e dei materiali (art. 1664, co. 1, c.c.), nel cui ambito vanno contemplati anche gli aumenti dei costi di trasporto e di tutte le categorie di dipendenti impiegate (non solo dunque la ‘mano d’opera’). Sia l’appaltatore – in caso di aumento – sia lo stesso committente – in caso di diminuzione – possono chiedere la revisione del prezzo, ma solo per la differenza che eccede il decimo del corrispettivo inizialmente pattuito, o successivamente modificato a seguito dell’adozione di una variazione dell’opera ai sensi degli artt. 1659 ss. c.c.
In secondo luogo, il codice disciplina la cd. sorpresa geologica (art. 1664, co. 2, c.c.). La norma, anch’essa derogabile dalla diversa volontà dei contraenti, si applica in tutte le ipotesi in cui eventi naturali – l’espressione «cause geologiche, idriche e simili» è da intendersi in senso semplificativo – causano difficoltà di esecuzione che a loro volta provocano maggiori costi per l’appaltatore. Questi avrà allora diritto ad un «equo compenso», ma solo se le sopravvenute difficoltà abbiano reso «notevolmente più onerosa l’esecuzione dell’opera».
Il carattere della imprevedibilità, secondo la interpretazione che appare preferibile, deve sussistere negli stessi termini già descritti illustrando la fattispecie del co. 1 dell’art. 1664 c.c., nonostante il riferimento letterale a cause «non previste». La mancata previsione effettiva di fattori di per sé prevedibili al momento della conclusione del contratto secondo la media diligenza e perizia non può infatti legittimare l’appaltatore a pretendere un compenso aggiuntivo per avervi dovuto fare fronte.
Ai sensi dell’art. 1665, co. 5, c.c., il diritto dell’appaltatore al pagamento del corrispettivo, se non sia diversamente pattuito o previsto dagli usi, sorge a seguito dell’accettazione dell’opera (o delle singole partite, in proporzione della parte eseguita, nell’ipotesi dell’art. 1666 c.c.). Sempre all’accettazione dell’opera la legge collega altre importanti conseguenze, quali la liberazione dell’appaltatore dalla responsabilità per i vizi palesi (infra, § 6) nonché il passaggio a carico del committente del rischio connesso al perimento o deterioramento (infra, § 11). È dunque di grande rilevanza l’individuazione del momento dell’accettazione. A questo riguardo soccorrono le regole dettate dallo stesso art. 1665 c.c. Il committente, prima di ricevere la consegna dell’opera, ha il diritto di verificarne la conformità al contratto e alle regole dell’arte. È quindi con la comunicazione del risultato positivo della verifica che, di norma, si ha l’accettazione del committente. Tuttavia, l’opera si considera accettata anche se il committente ne riceve la consegna senza riserve, oppure se, in mancanza di un valido motivo, e nonostante l’invito rivoltogli dall’appaltatore, non compie la verifica o non ne comunica il risultato entro un breve termine.
Gli artt. 1667 e 1668 c.c. dettano la disciplina della garanzia per i vizi e le difformità dell’opera appaltata. Secondo l’originario impianto codicistico, tali disposizioni dettavano un regime unitario destinato a regolare la materia in tutti i tipi di appalto (ivi compresi, pacificamente, gli appalti di servizi). Oggi il loro campo di applicazione risulta ridotto per effetto della recente normativa in tema di beni di consumo (sulla quale infra § 7).
L’opera presenta un vizio, ai sensi dell’art. 1667 c.c., se è realizzata in violazione delle regole dell’arte o se non è idonea alla sua destinazione normale. La difformità consiste invece in uno scostamento rispetto alle pattuizioni delle parti o nella inidoneità alla speciale destinazione convenuta. Tanto i vizi quanto la mancanza di qualità, diversamente da quanto accade nella compravendita, sono soggetti alla medesima disciplina speciale. Per questa ragione, anche se l’appaltatore esegue un’opera completamente difforme da quella pattuita, non ricorre la fattispecie dell’aliud pro alio, che nella compravendita legittima il ricorso alle regole generali in tema di inadempimento (artt. 1218 e 1453 ss. c.c.), ma solo la realizzazione di un’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, ai sensi dell’art. 1668, co. 2, c.c., con la conseguenza che la risoluzione del contratto sarà ammissibile unicamente alle condizioni e nei limiti dettati dalle regole speciali oggetto di trattazione (infra).
La garanzia compete al committente per i vizi occulti, cioè non riconoscibili ed effettivamente non conosciuti dal soggetto che ha provveduto alla verifica o, in mancanza, all’accettazione. Essa non può essere invocata se l’opera è stata accettata senza riserve, ed i vizi e le difformità erano noti o comunque riconoscibili. La riconoscibilità va valutata con riferimento alla diligenza media del buon padre di famiglia, salvo che in concreto risulti il possesso di specifiche competenze tecniche. Tuttavia, la garanzia è dovuta anche in caso di vizi o difformità riconoscibili, se l’appaltatore ne ha in malafede taciuto l’esistenza.
L’azione del committente si prescrive in due anni dal giorno della consegna (art. 1667, co. 3, c.c.) e, a pena di decadenza, il committente deve denunciare all’appaltatore i vizi o le difformità non palesi entro sessanta giorni dalla scoperta, cioè dal momento in cui abbia acquisito un’apprezzabile consapevolezza dell’esistenza del vizio e del suo rapporto di derivazione causale dall’attività svolta dall’appaltatore (dal suo inadempimento), eventualmente a seguito dello svolgimento di accertamenti tecnici. Il rispetto del termine di decadenza costituisce una condizione dell’azione ed il relativo onere probatorio grava dunque sul committente.
La denuncia non è necessaria in due ipotesi. Anzitutto, quando l’appaltatore ha occultato i vizi e le difformità; al riguardo va osservato che il fatto che l’appaltatore ne abbia taciuto in malafede l’esistenza è normalmente ritenuto sufficiente ad escludere l’onere di provvedere alla denuncia altrimenti gravante sul committente. Inoltre, la denunzia non è necessaria se l’appaltatore, anche per facta concludentia, ha riconosciuto l’esistenza del vizio, pur negando in proposito la propria responsabilità.
Il committente, convenuto in giudizio per il pagamento del prezzo, può far valere la garanzia in via riconvenzionale, purché abbia comunque provveduto alla denuncia entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi due anni dalla consegna. La giurisprudenza ammette comunque che il committente possa limitarsi ad opporre l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., al solo fine di paralizzare la pretesa dell’appaltatore, anche quando non abbia proposto in via riconvenzionale la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.
Il contenuto della garanzia si sostanzia anzitutto nell’alternativa tra riduzione del prezzo pattuito in proporzione del minor valore dell’opera ed eliminazione dei vizi e delle difformità «a spese dell’appaltatore» (art. 1668, co. 1, c.c.). Quanto alla risoluzione del contratto a causa dei vizi o delle difformità, essa può essere chiesta dal committente solo se questi sono «tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione» (art. 1668, co. 2, c.c.), tenuto conto sia dell’uso normale al quale essa è rivolta, sia delle caratteristiche eventualmente pattuite al fine di assicurarne uno specifico uso o un determinato godimento (anche una estrema difformità estetica potrebbe quindi essere rilevante). La gravità dell’inadempimento necessaria ai fini della risoluzione è dunque maggiore di quella richiesta in generale dall’art. 1455 c.c.
Quale che sia il rimedio in concreto esperito, il committente ha diritto al risarcimento del danno subito. Infatti, ben possono esservi altri pregiudizi non suscettibili di essere riparati attraverso la riduzione del prezzo o l’eliminazione dell’irregolarità. Secondo la giurisprudenza più recente, data l’unitarietà del regime speciale di responsabilità, anche tale azione risarcitoria è soggetta al termine di prescrizione biennale.
Le regole poste dagli artt. 1667 e 1668 c.c. integrano ma non escludono le regole generali in tema di inadempimento delle obbligazioni, che sono quindi applicabili all’appalto quando non ricorrono i presupposti della disciplina speciale. Ad esempio, si ritiene ammissibile l’azione di risoluzione ai sensi degli artt. 1453 ss. c.c., soggetta al termine di prescrizione ordinario, se l’opera rimane ineseguita o non viene consegnata: la garanzia speciale, infatti, presuppone necessariamente un ‘opus perfectum’, nel senso di compiuto.
Quando il contratto è stipulato tra un consumatore e un professionista-imprenditore, ed ha ad oggetto un bene di consumo (dunque necessariamente un bene mobile fungibile), viene in rilievo la disciplina dettata dagli artt. 128 ss. c. cons. (d.lgs. 6.9.2005, n. 206), i quali si applicano, oltre che alla compravendita, alla permuta e alla somministrazione, ai contratti di appalto e d’opera, come pure a tutti i negozi comunque volti alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre.
Come si è detto (v. supra § 6), per l’appalto il legislatore ha dettato una disciplina della risoluzione per inadempimento più rigorosa di quella generale degli artt. 1453 ss. c.c.: quando l’opera è ormai realizzata, la risoluzione giudiziale è in linea di massima ammissibile solo ai sensi dell’art. 1668, co. 2, c.c. La posizione del committente, tuttavia, è ampiamente controbilanciata, nella fase di esecuzione del contratto, dal riconoscimento di uno speciale diritto di verifica e di controllo dello svolgimento dei lavori (art. 1662, co. 1, c.c.). Se, all’esito di questa verifica, risulta che l’esecuzione non procede a regola d’arte e secondo le condizioni pattuite, il committente può fissare all’appaltatore un congruo termine perché vi si conformi. Se l’appaltatore nel termine assegnato non si mette in regola, il contratto è risoluto (art. 1662, co. 2, c.c.). La risoluzione interviene per volontà del committente: l’eventuale sentenza pronunziata dal giudice adito in caso di contrasti tra le parti si limita ad accertarne i presupposti (come, ad esempio, la congruità del termine assegnato) ed è pertanto meramente dichiarativa.
L’art. 1662 c.c. conferisce al committente la possibilità eccezionale di esercitare, prima ancora della scadenza del termine di adempimento, un rimedio preventivo affine alla diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 1454 c.c., ma di maggiore pregnanza. Secondo un primo orientamento, infatti, le irregolarità o il ritardo che consentono la risoluzione ex art. 1662 c.c. non devono necessariamente presentare né la gravità ordinariamente indispensabile per la risoluzione per inadempimento (art. 1455 c.c.), né quella gravità qualificata richiesta per l’appalto dall’art. 1668, co. 2, c.c. Tuttavia è dato ravvisare anche una tesi più rigorosa, la quale esige la ricorrenza degli estremi dell’inadempimento di non scarsa importanza, giusta il disposto dell’art. 1455 c.c., per ammettere la risoluzione in base all’art. 1662 c.c. Quale che sia la tesi preferibile, appare ragionevole ritenere che un’irregolarità di trascurabile importanza non possa determinare la risoluzione del contratto secondo la norma in esame. Occorre che le carenze riscontrate siano sufficienti a far presumere che, se non sanate, determinerebbero la responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1667 c.c., o comunque un apprezzabile ritardo del termine di consegna.
L’art. 1669 c.c. detta uno speciale ed eccezionale regime di responsabilità per il caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la costruzione di edifici o di altre cose immobili destinati per loro natura a lunga durata in ragione della loro attitudine strutturale. Se l’immobile, nel corso di dieci anni dal compimento, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore ne è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa. La rovina totale e la rovina parziale si hanno, rispettivamente, quando l’immobile diventa inagibile in tutto o in parte, a seguito del grave pregiudizio subito da elementi strutturali. Pericolo evidente di rovina, secondo la tesi preferibile, si ha invece quando il rischio che simili situazioni possano sopraggiungere è chiaro agli occhi di un esperto. Quanto ai gravi difetti, la giurisprudenza ne ha progressivamente ampliato la nozione: vi rientrano oggi non solo quei difetti che hanno implicazioni attuali sulla stabilità e la conservazione dell’immobile, ma anche qualsiasi seria alterazione che possa pregiudicarne la normale utilità, compromettendone l’abitabilità o comunque limitandone apprezzabilmente il godimento. Restano escluse le imperfezioni meramente estetiche e le difformità dalle previsioni contrattuali, per le quali non resterà che la tutela ex art. 1667 e 1668 c.c.
La natura della responsabilità in esame è controversa. La tesi che a tutt’oggi pare prevalente in dottrina, coerentemente con la collocazione sistematica della norma e con il suo tenore letterale, è nel senso della natura contrattuale. Secondo una diversa opzione esegetica, avallata da una giurisprudenza sostanzialmente granitica, la responsabilità ex art. 1669 c.c. va invece ricondotta al paradigma extracontrattuale, in quanto la norma sarebbe posta a diretta tutela dell’interesse pubblico alla stabilità e conservazione degli edifici. Le diverse impostazioni illustrate in linea di massima convergono nel ritenere che si tratti di una responsabilità fondata sulla colpa, e che tale colpa sia oggetto di una presunzione iuris tantum; non manca peraltro, in dottrina, chi esclude la necessità di una colpa dell’appaltatore, la cui responsabilità sarebbe oggettiva e si giustificherebbe in considerazione del rischio di impresa o della particolare pericolosità dell’attività edificatoria.
Sulla base dell’asserita natura extracontrattuale, la giurisprudenza ha esteso la legittimazione passiva a carico di diversi soggetti, in ragione del loro apporto causale all’illecito in concorso di responsabilità con l’appaltatore. In particolare, si tratta del progettista, del direttore dei lavori, dello stesso committente nei casi in cui l’appaltatore abbia agito come nudus minister. Quanto alla legittimazione attiva, va sottolineato che la stessa compete, oltre che al committente, anche ai suoi aventi causa. Secondo la tesi tradizionalmente seguita da dottrina e giurisprudenza, il contenuto della garanzia ex art. 1669 c.c. è limitato al risarcimento del danno, diversamente da quanto previsto in tema di vizi e difformità. La giurisprudenza più recente tende, invece, ad ammettere in alternativa anche la reintegrazione in forma specifica secondo la disciplina dettata dall’art. 2058 c.c. in tema di responsabilità extracontrattuale.
La responsabilità in esame ha durata decennale: non si tratta di prescrizione o decadenza, ma dell’estensione temporale del rapporto sostanziale di responsabilità, che viene meno se nessuna delle situazioni di fatto contemplate dall’art. 1669 c.c. si verifica entro il decennio dal compimento materiale dell’opera, secondo la tesi preferibile e assolutamente maggioritaria. Il momento dell’accettazione rileva solo in via residuale, se non sia possibile stabilire il momento esatto della ultimazione dei lavori, in quanto presumibilmente di poco successivo.
L’azione di responsabilità – che può in concreto essere esercitata anche oltre il decennio purché in relazione a fenomeni manifestatisi prima del suo spirare – è soggetta, a pena di decadenza, all’onere della denuncia dei gravi difetti entro l’anno dalla scoperta effettiva. Quindi, il momento in cui il presupposto dell’azione si è reso riconoscibile per qualunque profano di media avvedutezza può valere come dies a quo solo se non risulta con certezza la data della scoperta effettiva. Al riguardo non sono sufficienti manifestazioni di scarsa rilevanza o semplici sospetti.
La forma della denunzia è libera e la relativa dichiarazione, avente natura recettizia, può essere fatta sia con atto stragiudiziale sia con la stessa domanda giudiziale. L’onere della prova dell’avvenuta denunzia grava sul committente. Va poi segnalato che la denunzia non è necessaria, con la conseguenza che il committente non incorre in alcuna decadenza, quando l’appaltatore ha riconosciuto l’esistenza dei gravi difetti.
L’azione si prescrive se il committente, compiuta la prescritta denuncia, non agisce nel successivo termine di un anno (art. 1669, co. 2, c.c.), ovvero se non provvede a interrompere il decorso di tale prescrizione annuale attraverso il compimento di qualunque atto stragiudiziale che valga a costituire in mora l’appaltatore.
Come già accennato (supra § 3), l’art. 1671 c.c. riconosce al committente uno speciale diritto di recesso, che, diversamente da quanto accade per il recesso convenzionale ex art. 1373 c.c., può essere esercitato ad nutum anche quando l’esecuzione dell’opera o del servizio è già iniziata, senza necessità di preavviso e senza che abbiano rilievo i motivi per i quali la determinazione è assunta (potrà quindi trattarsi anche del semplice venire meno della fiducia riposta nell’appaltatore). Con la disposizione in esame, peraltro derogabile dal diverso accordo delle parti, il legislatore ha tenuto conto del fatto che il committente è il solo giudice finale dell’utilità e della rispondenza della prestazione ai suoi interessi. Nel contempo, tuttavia, ha ampiamente tutelato la posizione dell’appaltatore, il quale, in caso di recesso ad nutum, deve essere tenuto indenne dei lavori eseguiti, delle spese sostenute e del mancato guadagno: in sostanza, egli ha diritto al corrispettivo in ragione del lavoro già svolto, al rimborso delle spese sostenute in funzione del compimento integrale della prestazione, ed all’utile netto che ne avrebbe tratto. L’appaltatore non ha dunque un interesse giuridicamente protetto alla effettiva realizzazione della prestazione pattuita, ma ha diritto di conseguire sul piano economico lo stesso risultato che avrebbe tratto dall’integrale esecuzione del contratto.
Il contratto si scioglie, secondo i principi generali (artt. 1256 e 1463 c.c.), se l’esecuzione dell’opera diviene impossibile per causa non imputabile a nessuna delle parti. La parte dell’opera che già fosse stata compiuta deve essere pagata all’appaltatore in proporzione del prezzo pattuito per l’intero, ma nei limiti in cui la stessa sia utile al committente, avuto riguardo – oltre che ovviamente alla natura dell’opera – alle previsioni contrattuali (art. 1672 c.c.). Quando invece, prima dell’accettazione (supra § 5), l’opera perisce o subisce un deterioramento per causa non imputabile a nessuna delle parti, le relative conseguenze sono integralmente sopportate dall’appaltatore, se – come accade normalmente ai sensi dell’art. 1658 c.c. – è stato lui ad aver fornito la materia (art. 1673, co. 1, c.c.). A carico dell’appaltatore restano invece solo le spese e gli oneri sostenuti se i materiali sono stati messi a disposizione dal committente, che in relazione ad essi sopporta dunque il rischio del perimento o del deterioramento dell’opera (art. 1673, co. 2, c.c.).
Il subappalto, cioè il contratto derivato con il quale l’appaltatore affida in tutto o in parte ad un altro imprenditore l’esecuzione dell’opera o del servizio, è consentito se il committente dà la sua autorizzazione (art. 1656 c.c.). In mancanza il contratto è nullo, e la nullità può essere fatta valere dal solo committente. Questi on acquista diritti né obblighi nei confronti del subappaltatore. Il rapporto di subappalto, infatti, è un vincolo negoziale che si instaura esclusivamente tra appaltatore e subappaltatore. Lo stesso contenuto dell’accordo, d’altra parte, può essere diverso dalle pattuizioni del contratto principale tra committente e appaltatore-subcommittente: ad esempio, la diversità può riguardare il prezzo o il termine finale. Al subappalto si applicano in linea generale le regole dell’appalto, salvi alcuni adattamenti imposti dalla peculiarità della fattispecie. Sia che il committente principale agisca nei suoi confronti facendo valere la sua responsabilità per vizi o difformità dell’opera o del servizio (art. 1667- 1668 c.c.), sia che agisca sulla base dell’art. 1669 c.c., l’appaltatore-subcommittente ha azione di regresso contro il subappaltatore, purché, sotto pena di decadenza, abbia comunicato a quest’ultimo la denunzia ricevuta dal committente entro sessanta giorni dal ricevimento (art. 1670 c.c.).
Artt. 1655-1677 c.c.; art. 128 ss. c. cons.
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