Contratto di diritto europeo
Premessa
A una definizione di ‘contratto di diritto europeo’ si può pervenire sulla scorta di un’indagine comparatistica che verifichi la disciplina e la teoria del contratto nei singoli modelli nazionali, sì da enucleare principi che attingono il livello ‘europeo’ dall’essere comuni a più ordinamenti. In realtà, europeo è anche sinonimo di comunitario, ed è questa la prospettiva di chi privilegia lo studio dell’acquis communautaire, cioè dei principi e modelli consolidati nel diritto contrattuale di derivazione comunitaria. Tale ultima prospettiva, come si dirà in seguito, è quella prescelta dalle istituzioni dell’Unione Europea (Commissione delle Comunità europee e Parlamento).
Il diritto contrattuale ‘comunitario’ si compone di disposizioni normative e sentenze, provenienti da modelli nazionali diversi e inserite nell’ambito delle fonti del diritto comunitario di armonizzazione dei diritti municipali (soprattutto nelle direttive), trasposte nell’ambito degli ordinamenti nazionali: l’acquis communautaire è dunque l’esito di un’opera di armonizzazione riguardante soprattutto la tutela del consumatore, in quanto tale non è una compiuta e organica disciplina dei fenomeni contrattuali (Alpa in Manuale di diritto privato europeo, 2007, p. 252).
Con una serie di comunicazioni della Commissione dal 2001, si è ritenuto di migliorare l’acquis per rendere le sue regole tra loro coerenti e di agevole applicazione, nonché per aggiornarle. Il miglioramento dell’acquis passa attraverso diverse opzioni: l’uniformazione della terminologia impiegata nei testi normativi, l’elaborazione di principi generali posti a fondamento dell’intera disciplina di settore, l’inserzione delle regole in un quadro organico, come se si trattasse di un ‘codice comunitario dei diritti dei consumatori’, alla stregua dei codici di settore nazionali (opzione alternativa può essere quella di considerare l’acquis in materia di diritti dei consumatori come un momento di un’operazione più ambiziosa in vista di una vera e propria codificazione europea) (Schulze 2005, p. 405).
Con la comunicazione del 12 febbr. 2003, la Commissione ha lanciato un Piano d’azione richiedendo a tutti gli interessati di esprimersi riguardo alle iniziative che dovrebbero essere assunte in sede comunitaria per realizzare una ‘più coerente’ disciplina europea del contratto. Il Piano d’azione contiene la proposta di formare un quadro comune di riferimento, detto Common frame of reference (CFR) – contenente principi tra loro sistematicamente ordinati, comuni agli ordinamenti dei Paesi comunitari oppure introdotti ex novo per la loro utilità universalmente riconosciuta – il quale dal punto di vista della terminologia, delle nozioni e dei principi migliorerebbe anche la legislazione comunitaria in materia, oltre a dispiegare effetti positivi nell’ambito degli ordinamenti degli Stati membri (Collins in L’armonizzazione del diritto privato europeo, 2004, p. 107). Il Piano d’azione prevede, inoltre, la redazione di clausole uniformi da inserire nei contratti per i consumatori.
Per avviare la redazione del CFR, cominciando dal miglioramento dell’acquis, la Commissione ha segnalato: a) la presenza nelle direttive di termini giuridici non definiti o definiti con espressioni troppo generiche; b) l’individuazione di aree in cui le direttive non risolvono i problemi sollevati dalla prassi; c) l’esistenza di notevoli differenze tra le discipline di attuazione delle direttive; d) le incongruità nella legislazione comunitaria in materia di contratti; e) l’opportunità di rendere più coerenti le direttive comunitarie in materia di protezione dei consumatori, verificando se esse hanno davvero raggiunto il risultato di eliminare le barriere del mercato interno e semplificato la disciplina, e inoltre se la loro attuazione ha potuto conseguire l’auspicata armonizzazione minima delle relative discipline. Oltre ad assolvere a questo importante ruolo, il CFR potrebbe essere utilizzato dalle parti come legge applicabile al contratto o come modello dai legislatori nazionali.
La Commissione ha proposto anche iniziative complementari come la predisposizione di clausole contrattuali uniformi per determinati tipi contrattuali. L’introduzione di clausole standard avrebbe il vantaggio di uniformare i rapporti contrattuali, sicché le parti non rimarrebbero esposte alla varietà delle tipologie e anzi potrebbero meglio comprendere i contenuti del contratto e le sue condizioni economiche e, quindi, scegliere con maggior facilità la controparte, senza dover temere che il contratto contenga aspetti oscuri o clausole di natura controversa.
Il Parlamento europeo ha anticipato le iniziative della Commissione sulla via di una codificazione europea già dal 1989 e successivamente con la risoluzione del 6 maggio 1994, rilevando che l’Unione Europea ha già proceduto all’armonizzazione di alcuni settori del diritto privato, e che un’armonizzazione progressiva appare essenziale per la realizzazione del mercato interno. Il risultato auspicato è l’elaborazione di un ‘codice comune europeo di diritto privato’, da articolarsi in più fasi di progressivo avvicinamento delle discipline vigenti negli ordinamenti degli Stati membri, che conduca a un’armonizzazione parziale a breve termine, e poi a una più completa a lungo termine.
È allora agevole constatare come Commissione e Parlamento manifestino un approccio significativamente diverso rispetto al processo di armonizzazione del diritto privato europeo. La Commissione, con la comunicazione, ha circoscritto l’ambito dell’armonizzazione al diritto contrattuale, mentre il Parlamento europeo, oltre a esortare la Commissione a presentare proposte dirette, a rivedere le direttive per rimuovere le clausole di armonizzazione minima che hanno impedito la realizzazione di una normativa uniforme a livello comunitario, constata che queste divergenze costituiscono un ostacolo alla protezione del consumatore, ma anche al buon funzionamento del mercato interno (Joerges in L’armonizzazione del diritto privato europeo, 2004, p. 45).
Il Parlamento europeo spinge per la realizzazione dell’unificazione del diritto contrattuale e l’adozione di un ‘corpus di norme di diritto contrattuale dell’Unione Europea che tenga conto delle nozioni e soluzioni giuridiche comuni stabilite nelle iniziative precedenti’, anche se la gran parte dei governi continua a dichiararsi favorevole alla redazione di uno strumento soltanto opzionale in base al principio di sussidiarietà.
A ben vedere, il CFR potrebbe assolvere al compito non soltanto di completare l’armonizzazione, ovvero di estenderla ad altri contratti con cui i consumatori compiono operazioni economiche fondamentali, ma anche quello di costruire una base normativa di carattere generale, perché l’armonizzazione non si risolva in trasposizioni troppo permeate dalle culture giuridiche degli ordinamenti nazionali (Alpa in Manuale di diritto privato europeo, 2007, p. 258).
Dal tipo contrattuale al gruppo di contratti. La norma imperativa
Il livello privilegiato di intervento del legislatore italiano del 1942, in materia di contratto, è la disciplina dei singoli tipi contrattuali, nel senso che la disciplina applicabile al singolo contratto è in primo luogo quella del tipo (vendita, appalto ecc.) e, solo in via residuale, quella dettata dal codice civile per il contratto in generale: analoga affermazione può farsi rispetto all’intervento del legislatore europeo dei contratti, almeno se si guarda al diritto positivo delle direttive e dunque al diritto di derivazione comunitaria (Plaia in Manuale di diritto privato europeo, 2007, p. 859).
Il diritto europeo dei contratti di fonte accademica, quello per intenderci dei PDEC (Principi di Diritto Europeo dei Contratti) elaborato dalla Commissione Lando (dal nome del presidente), tende invece ad arrestarsi alla disciplina della parte generale del contratto: i tipi contrattuali continuerebbero a essere disciplinati dai singoli diritti nazionali, in ragione delle forti divergenze tra le diverse discipline municipali. Ciò si giustifica in ragione del fatto che i PDEC sono volti non soltanto a ridurre gli effetti indesiderabili delle diversità degli ordinamenti nazionali nell’ambito del mercato europeo, ma anche (o soprattutto) a fornire una base al diritto dei contratti nell’ambito della Comunità, sulla quale possano fondarsi le misure di armonizzazione nei singoli settori.
Nel diritto europeo dei contratti, tuttavia, anche in quello ‘comunitario’ delle direttive, la dialettica tipologica non si muove sul duplice livello congegnato in una parte generale e in una, per così dire, speciale, e poggia peraltro prevalentemente sulla tecnica della norma imperativa, mentre la disciplina domestica dei singoli contratti è per lo più costituita da norme dispositive, cioè derogabili dai contraenti.
Quel che più interessa è poi la circostanza che il ventaglio di norme imperative che il frammentario diritto europeo dei contratti conosce, ovviamente quando non sia addirittura destinato a operare in termini di (o comunque a incidere sulla) disciplina generale del contratto (come accade, per es., per la disciplina delle clausole abusive), non si rivolge alla creazione di un nuovo tipo, né tanto meno alla disciplina di un tipo particolare, ma coinvolge per lo più ‘gruppi di contratti’ mediante un intervento rapsodico.
Ciò può dirsi anche in relazione alla più recente disciplina sulla vendita di beni mobili di consumo, la quale esplicitamente opera rispetto ai contratti di ‘permuta e di somministrazione nonché a quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre’. In questo caso, dunque, l’intervento del legislatore europeo non si occupa esclusivamente del tipo vendita, operando piuttosto ogniqualvolta venga in considerazione un contratto comunque finalizzato alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre. La disciplina dei singoli contratti e, per ciò che qui più interessa, quella dei contratti funzionali alla circolazione o produzione di beni o servizi, tende quindi sempre più a caratterizzarsi come una disciplina per norme imperative e, invece, debolmente orientata in senso tipologico.
La combinazione di queste due circostanze, e la conseguente spiccata tendenza alla limitazione dell’autonomia privata in ambiti operativi assai ampi, conferma quella tecnica nota al diritto europeo dei rimedi incentrata sull’aggiramento della fattispecie o, come pure si è detto, addirittura conduce alla ‘perdita della fattispecie’: un radicale allontanamento dalla descrizione di quel fatto o da quei fatti cui la norma giuridica ricollega determinati effetti giuridici.
Al contempo, sarebbe poco corretto guardare all’utilizzo imponente della tecnica della norma imperativa come a un momento tout-court di compressione dell’autonomia privata. Tale tecnica è infatti funzionale alla creazione di scelte consapevoli da parte del consumatore e dunque si candida, come per paradosso, a momento di esaltazione, piuttosto che di mortificazione, della libertà e dell’autonomia privata. La norma imperativa restituisce al soggetto debole (sia esso consumatore oppure imprenditore) quello spazio di libertà entro il quale si muove un’autentica autonomia del soggetto privato.
Il legislatore comunitario non si preoccupa di disegnare in modo compiuto le situazioni tipo al cui verificarsi la norma giuridica ricollega determinati effetti: gli obiettivi del mercato unico impongono più semplicemente interventi imperativi per quei gruppi di contratti ove può annidarsi un momento distorsivo della concorrenza. A ciò si aggiunga l’ulteriore paradosso di un’autonomia privata che, proprio rispetto ai contratti funzionali alla circolazione di beni e servizi in settori particolarmente delicati, già imbrigliata nelle maglie imperative ridescritte dall’impianto normativo europeo, risulta altresì compressa (almeno apparentemente) dalla imponente regolamentazione svolta dalle autorità indipendenti, ulteriore strumento di politica comunitaria, poiché è proprio a livello europeo che si definiscono macrobiettivi e modalità d’intervento della regolazione ‘secondaria’.
L’intervento dell’autorità amministrativa indipendente, apparentemente limitativo in modo più o meno significativo dell’autonomia dei privati, non si presta, in realtà, a un’unica lettura, poiché, se rispetto ai servizi finanziari esso non di rado implica una obliterazione della stessa, negli altri casi l’eteroregolazione ricrea ‘i presupposti di un’autonomia contrattuale sostanziale’. Emblematico è il settore dei contratti bancari, in cui il potere di tipizzazione attribuito alla Banca d’Italia ha incentivato il riemergere di un’autonomia contrattuale su base associativa (associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori e degli utenti) e un discorso analogo, in termini cioè di impulso alla negoziazione associativa, può farsi rispetto al settore dei servizi di pubblica utilità.
Per questa ragione, c’è chi ha sostenuto che «la normazione delle autorità indipendenti non solo è in grado di convivere con l’autonomia privata, ma ne riconferma e ne esalta la funzione», è strumento per la sua «salvaguardia»: una partecipazione dell’associazionismo alla funzione di normazione (e di eteroregolazione del contratto) che, si è detto, evocherebbe una sorta di «neocorporativismo» (Gitti 2006, p. 107).
La perdita della fattispecie e il nuovo processo di limitazione e conformazione dell’autonomia privata si spiegano in realtà in ragione dell’essenzialità del ruolo del diritto dei contratti, e segnatamente di quelli funzionali alla circolazione o produzione di beni o servizi, nella creazione del mercato unico: tale obiettivo primario, come è noto, passa per l’attuazione piena delle libertà di circolazione di beni, persone, servizi e capitali, una libertà che non può realizzarsi in presenza di ostacoli normativi municipali. Addirittura, non sarebbe sufficiente uniformare il diritto dei contratti con tecnica ‘imperativa’ in funzione dell’abbattimento dei momenti distorsivi della concorrenza, poiché anche l’uniformazione dei diritti dispositivi nazionali costituirebbe un importante incentivo al superamento delle barriere culturali e linguistiche rispetto alla contrattazione transfrontaliera, sovente incerta in ragione della scarsa conoscenza del diritto sostanziale straniero: da qui, secondo taluno, la necessità di un codice che uniformi anche lì dove la norma giuridica dispositiva nazionale non sarebbe di per sé idonea a distorcere la concorrenza all’interno del mercato unico (Swann 2002, p. 29).
Vi è, dunque, un duplice livello d’intervento del legislatore europeo dei contratti del consumatore: uno prevalente per così dire ‘orizzontale’ e uno ‘verticale’, meno frequente, relativo a singoli tipi contrattuali. In entrambi i casi il legislatore non rinuncia alla consueta tecnica della norma imperativa, essendo identica la ratio dell’eliminazione di momenti distorsivi della concorrenza. Ancorché il ricorso a tale tecnica, come pure l’imponente eteroregolazione cosiddetta secondaria affidata alle autorità indipendenti, rilancia la libertà dei soggetti privati, restituendo a questi ultimi un’autonomia contrattuale sostanzialmente (e non solo formalmente) libera.
Solo di rado il diritto europeo dei contratti si è spinto sino a incidere sulla parte generale del contratto (del consumatore), come accade, per es., per la disciplina delle clausole abusive. Per il resto il legislatore europeo si arresta sulla soglia di discipline settoriali o comunque speciali, sia quando detta discipline per ‘gruppi di contratti’ (vendita dei beni di consumo), o comunque in ragione di speciali tecniche di formazione del contratto (contratti a distanza, contratti negoziati fuori dai locali commerciali), sia quando si preoccupa di singoli tipi (multiproprietà, vendita di pacchetti turistici).
Se il livello privilegiato di intervento del legislatore europeo si assesta a valle, nell’ambito dei contratti al consumo, è pur vero che una parte non trascurabile della produzione normativa comunitaria riguarda i rapporti contrattuali detti business to business, cioè quei rapporti giuridici in cui entrambi i contraenti agiscono per un fine che non può dirsi estraneo all’attività professionale svolta. Basti pensare alla disciplina del contratto di agenzia o a quella sulla subfornitura (e all’istituto dell’abuso di dipendenza economica). Si tratta a questo punto di considerare se anche tali segmenti normativi mantengano quella caratteristica che si è detto sembra connotare il diritto europeo dei contratti: una scarsa propensione tipologica, in quanto disciplina rivolta più a gruppi di contratti che non alla creazione di un tipo e, per altro verso, un costante ricorso alla tecnica della norma imperativa.
In tal senso, la normativa sulla subfornitura offre significative indicazioni all’interprete. Il carattere transtipico della disciplina dell’abuso di dipendenza economica è evidente già nel rilievo che la stessa opera rispetto a contratti tra imprese, per lo più riconducibili alla categoria dei contratti di durata, caratterizzati dalla circostanza che una delle parti contraenti ha effettuato ‘investimenti specifici che ne hanno indebolito la posizione nei riguardi della controparte’. Lo stesso dibattito dottrinale circa l’ambito operativo, oggettivo e soggettivo, della legge sulla subfornitura non ignora che i rapporti contrattuali o, se si vuole, il gruppo di contratti interessati dalla normativa in questione sono individuati in ragione delle segnalate caratteristiche e non già in funzione della riconducibilità a un tipo contrattuale. Al contempo, come già si è notato a proposito della disciplina consumeristica, l’impianto della normativa sulla subfornitura poggia saldamente sulla tecnica della norma imperativa. Risulta in tal modo confermata l’ipotesi che l’esigenza di eliminare i momenti distorsivi della concorrenza si accompagna a una tecnica di disciplina non orientata tipologicamente e che non rinuncia a significativi momenti di compressione dell’autonomia privata dell’impresa, sia a valle, nei rapporti contrattuali al consumo, sia a monte, nei rapporti contrattuali tra imprese o, come si dice, business to business (Plaia in Manuale di diritto privato europeo, 2007, p. 866): una compressione, tuttavia, che ancora una volta deve dirsi solo formale, essendo invece sostanziale il recupero in termini di autonomia della libertà contrattuale dei soggetti privati. Altra questione è se i diversi segmenti normativi di matrice europea a tutela dell’impresa debole possano essere organizzati sino a edificare un ‘terzo’ paradigma contrattuale, che si affianca a quello generale del codice civile e a quello ora disciplinato dal Codice del consumo.
Il professionista e il consumatore
La categoria del contratto del consumatore si impernia sulla contrapposizione di due classi di soggetti distinte per capacità di incidere sulla predisposizione del regolamento contrattuale e sulla successiva esecuzione del rapporto: il professionista e il consumatore.
La figura del professionista non solleva particolari questioni giacché il legislatore comunitario si è adeguato alla terminologia di common law e ha adottato l’espressione professionista nell’accezione lata di persona fisica o giuridica (pubblica o privata), che agisce nel quadro della propria attività imprenditoriale o professionale, riconducibile al termine inglese professional. La figura del consumatore risulta invece controversa nonostante lo sforzo definitorio del legislatore comunitario che designa il consumatore come qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale. La definizione lascia ben pochi margini alle interpretazioni estensive o analogiche, per lo meno sul versante dell’esplicito ancoraggio alla qualità di persona fisica; mentre il riferimento alle finalità di carattere non imprenditoriale o professionale non appare di significato altrettanto univoco, per quanto venga inteso per lo più come richiamo agli scopi di godimento esclusivamente personale, volti al soddisfacimento delle esigenze individuali e della propria vita familiare.
Il ripudio della concezione del consumatore come appartenente a una specifica classe sociale ha suggerito l’abbandono delle letture più spiccatamente soggettivistiche per approdare invece a una concezione oggettivistica orientata al sindacato in concreto dello scopo finale perseguito dalla controparte del professionista. La conseguenza principale di questa nuova impostazione è stata una rivisitazione della normativa sul contratto del consumatore come disciplina dell’atto di consumo a prescindere dalla formale qualificazione soggettiva dei contraenti. Il dibattito sorto intorno alla nozione di consumatore ha anzi chiarito, pur tra notevoli contrasti, che occorre porre l’accento sull’interesse concreto in vista del quale il contratto è concluso e sulla condizione di assenza di forza contrattuale nel singolo caso, sicché è legittimo considerare consumatore anche l’imprenditore individuale o il professionista mosso nella stipulazione del contratto dall’esigenza di appagare un bisogno di consumo.
La rinnovata concezione oggettivistica incide proprio sul terreno apparso più permeabile a una rilettura, ossia sull’identificazione della finalità di consumo con la finalità di godimento individuale o familiare, e consente di considerare tale qualsiasi scopo non strettamente collegato allo svolgimento della propria attività professionale o addirittura marginale, sicché ora nulla sembra ostare all’inclusione tra i consumatori del professionista-persona fisica che acquisti un distributore di bevande per placare la sete del proprio personale.
L’estensione della categoria del consumatore agli enti risulta più problematica, sebbene gli interpreti non manchino di segnalare l’irragionevolezza della distinzione di trattamento tra la persona fisica e l’ente non profit o ancora l’ente che istituzionalmente persegue scopo di lucro, ma che di fatto agisce per altri fini.
La prospettata preferenza per una nozione di consumatore a tinte oggettive non implica anche l’accoglimento dei tentativi di ricomprendervi le persone giuridiche e soprattutto gli enti senza scopo di lucro, giacché dalla definizione di consumatore, così come dimostra con chiarezza il rilievo assunto dallo scopo negoziale concreto, si delinea nettamente la ratio di circoscriverne la figura alle sole persone fisiche. Lo ha ribadito in svariate occasioni la Corte di giustizia delle Comunità europee (22 nov. 2001, C-541/99 e C-542/99), secondo cui la nozione di consumatore non può che riguardare una persona fisica e, in tal modo, ha lanciato un segnale di chiusura nei confronti dei tentativi nazionali di estenderla anche agli enti che agiscono per scopi estranei alla propria attività professionale.
La rilettura in chiave oggettiva della nozione di consumatore pone la questione della sua ridefinizione, questa volta in senso restrittivo. Se la valutazione in concreto dell’atto negoziale è finalizzata a verificare l’interesse al consumo e la condizione di assenza di forza contrattuale, ciò solleva il problema della qualificazione del cosiddetto consumatore esperto, ossia dell’acquirente del bene o del servizio dotato di un grado di preparazione tecnica pressappoco simile a quella del venditore/fornitore. Se infatti entrambi i profili, quello dell’interesse e quello dell’assenza di forza contrattuale, concorrono all’identificazione della figura del consumatore, se ne dovrebbe escludere la ricorrenza nell’ipotesi dell’acquirente esperto, per assenza del divario di competenze e dello squilibrio nella detenzione delle informazioni che connota, nella valutazione del legislatore, la relazione tra il professionista e il consumatore.
La soluzione appena prospettata appare, tuttavia, troppo rigorosa e soprattutto sembra tradire la ratio della normativa consumeristica che consiste invece nella predisposizione di regole di riequilibrio del contratto. Tali regole sono ancorate a una presunzione astratta di disparità di potere contrattuale, che si ricava dal fatto oggettivo del compimento di un atto di consumo e prescinde, dunque, dalle qualità soggettive dell’autore. Ciò esonera da una valutazione in concreto della sussistenza del divario di potere contrattuale per ritenere integrata la qualificazione di consumatore. Questo passaggio è importante perché, invece, l’impresa debole non è identificata sulla base di una valutazione astratta, ma piuttosto attraverso una verifica in concreto della situazione di dipendenza economica.
Il contratto con asimmetria di potere contrattuale
Non può essere trascurato il movimento in atto in Europa che si ripropone di sollecitare una riflessione sul contratto tra consumatore e professionista volta alla sua assunzione a paradigma di un nuovo modello contrattuale assai divergente dal contratto di diritto comune. Il tratto principale del nuovo modello si ravvisa nell’attribuzione al giudice di un potere di controllo sull’equilibrio dell’accordo che va ben al di là delle tradizionali ipotesi codicistiche, connotate invece dallo stato di patologia sociale in cui viene concluso il negozio (si pensi, per es., alla rescissione), cui si affiancano il proliferare dei recessi di pentimento, la previsione di nullità cosiddetta di protezione, la reviviscenza dei vincoli di forma e di contenuto, la commistione tra regole di validità e regole di comportamento.
Un così ricco complesso di regole tanto eccentriche rispetto al diritto comune si ritiene ispirato all’esigenza di porre rimedio alla fisiologica condizione di disparità economica e di potere contrattuale tra le parti, secondo un modello per l’innanzi incarnato dal solo contratto di lavoro subordinato. Questo particolare stato di fisiologia sociale, in effetti, non è esclusivo dei soli contratti tra consumatore e professionista, ma è anzi comune a contratti privi di una siffatta caratterizzazione socioeconomica delle parti, quali per es. – per limitarci all’esperienza italiana – il contratto di subfornitura (l. 18 giugno 1998 n. 192), la disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231) e il contratto di affiliazione commerciale (l. 6 maggio 2004 n. 129).
Tutto ciò spinge a proporre, per un verso, un nuovo paradigma generale di contratto, che si affianca al contratto di diritto comune, paradigma definito come ‘contratto con asimmetria di potere contrattuale’ per meglio evidenziarne il nucleo costituito dalla condizione intrinseca di debolezza di una parte rispetto all’altra (Roppo 2002, p. 639). La tendenza della dottrina e della giurisprudenza europee ad allargare le maglie della nozione di consumatore appare, del resto, strumentale all’approdo di un modello generale di contratto: il fine perseguito da tale tendenza, infatti, è quello di porre i presupposti per proiettare il contratto del consumatore nella dimensione di un rinnovato diritto comune mediante l’estensione della normativa di protezione a soggetti, magari non istituzionalmente deboli e in balia dell’aggressività commerciale di imprese e di professionisti, ma non per questo meno vulnerabili dinanzi ai rischi della contrattazione standardizzata e dell’assenza di un’adeguata informazione, quali, per es., gli enti senza scopo di lucro o anche il professionista impegnato a procurarsi un bene o un servizio per finalità miste.
Tuttavia, il paradigma del contratto del consumatore poggia sulla presunzione astratta che il compimento di un atto di consumo sottenda una disparità di forza contrattuale e, dunque, giustifichi interventi normativi di stampo correttivo; ciò lo rende strutturalmente inadatto a candidarsi a nucleo di una nuova disciplina generale del contratto, poiché il diritto comune per sua natura deve risultare applicabile a qualsiasi contraente e in ogni contesto, mentre le norme a tutela del consumatore presuppongono una specifica situazione di fatto rappresentata dal rapporto negoziale unilateralmente predisposto tra soggetti individuati sulla base del diverso potere di incidere sul contratto, non soltanto in sede di conclusione ma anche in sede di esecuzione del contratto.
Lo schema che si sarebbe dovuto adottare, allora, è quello delle tradizionali clausole vessatorie di cui all’art. 1341 c.c. o della rescissione per stato di pericolo di cui all’art. 1447 c.c. e per stato di bisogno di cui all’art. 1448 codice civile. O, ancora, del gap informativo di qualsivoglia parte per via di incapacità ed errore, di violenza o dolo quali cause di annullamento del contratto di cui agli artt. 1425 e sgg. codice civile. È questa la via prescelta dai PDEC, che tendenzialmente ripudiano il criterio selettivo del riferimento a una tipologia di atti negoziali, individuati tramite la figura di un soggetto, ora il consumatore ora il cliente, tipizzato come parte debole, accogliendo quello del significativo squilibrio nei diritti e nelle obbligazioni frutto di una condotta contraria a buona fede e correttezza (art. 4:110); e introducono, inoltre, la fattispecie dell’ingiusto profitto e del vantaggio iniquo di una parte a danno dell’altra, nella quale assume rilievo la situazione di dipendenza o quella di bisogno della parte svantaggiata di cui la parte avvantaggiata è a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza (art. 4:109).
Dunque, la discussione sui possibili scenari del diritto contrattuale europeo e sull’elaborazione di nuove regole generali destinate a comporre un rinnovato paradigma di contratto nel quale acquisti piena rilevanza la condizione di squilibrio di potere tra le parti ha trovato alimento non solo nel diritto di fonte comunitaria, ma anche nelle codificazioni private o fonti scientifiche che dir si voglia: ma i PDEC recepiscono nel modo più corretto l’istanza diffusa dell’elaborazione di un modello generale di contratto con asimmetria di potere contrattuale (Mazzamuto in Manuale di diritto privato europeo, 2007, p. 266).
Frequente è infatti il riferimento alla buona fede-correttezza nei PDEC, come è rappresentato dall’art. 4:109 in tema di «Ingiusto profitto o vantaggio iniquo», secondo cui: «(1) Una parte può annullare il contratto se, al momento della conclusione di esso: (a) fosse in situazione di dipendenza o avesse una relazione di fiducia con l’altra parte, si trovasse in situazione di bisogno economico o avesse necessità urgenti, fosse affetto da prodigalità, ignorante, privo di esperienza o dell’accortezza necessaria a contrattare, e (b) l’altra parte era o avrebbe dovuto essere a conoscenza di ciò e, date le circostanze o lo scopo del contratto, ha approfittato della situazione della prima in maniera gravemente scorretta o ne ha tratto un ingiusto profitto. (2) Su domanda della parte legittimata all’annullamento, il giudice può, ove il rimedio sia adeguato, modificare il contratto in modo da metterlo in armonia con quanto avrebbe potuto essere convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza. (3) Il giudice può parimenti modificare il contratto su domanda della parte alla quale è stata inviata la comunicazione di annullamento per ingiusto profitto o vantaggio iniquo, purché la parte che ha inviato la comunicazione ne sia informata prontamente da quella che l’ha ricevuta e prima che abbia potuto agire sulla fede nella comunicazione».
Una parte della dottrina italiana ha ravvisato nella buona fede dei PDEC, in uno con la tradizionale funzione integrativa, anche una funzione di riequilibrio del contratto. Tale funzione di riequilibrio non opera tramite l’ancoraggio a valori o a criteri di integrazione esterni al contratto stesso, ma agisce in via di autointegrazione al fine di creare un equilibrio che il contratto non ha in partenza, ma che è in nuce nel regolamento stesso come potenzialità inespressa: una potenzialità che la buona fede consente di tradurre in atto mediante un percorso del tutto peculiare, cooperando con la volontà delle parti in modo da far emergere l’assetto degli interessi nei suoi aspetti non espressamente divisati, rispettando ciò che le parti avrebbero scelto se vi avessero provveduto da sé. Si è, dunque, in presenza di un’analogia «che si diparte dall’atto di autonomia» e di cui è artefice la buona fede in qualità di strumento di esaltazione dell’autonomia privata che propizia un intervento non «più dall’esterno come può fare l’ordinamento con le sue leggi, ma dall’interno, con l’adozione della stessa logica dell’autonomia, rendendo compatibile il contratto con una sopravvenienza, cioè un problema che le parti non hanno risolto e ad esse era commesso di risolvere». È, questa, peraltro una prospettiva che non è ignota al diritto italiano, nel quale alla buona fede è già riconosciuta la funzione di autointegrazione del regolamento contrattuale, ma limitatamente ai suoi aspetti accessori e che ora acquista nei PDEC un respiro più ampio poiché coinvolge l’assetto complessivo degli interessi. Se ne deduce che il modello di contratto presupposto dai PDEC è quello di un regolamento di interessi suscettibile di rimodellazione nel rispetto dell’equilibrio, che era originariamente suo proprio o avrebbe dovuto essere tale e che viene riguadagnato volta a volta di fronte a situazioni non previste che ne alterino l’assetto tramite un autoallineamento cui presiede elettivamente la buona fede.
La tesi dell’autointegrazione è avversata da chi reputa la buona fede un veicolo di appiattimento del contratto sul mercato, assunto non solo a metro dello squilibrio contrattuale ma anche a misura della sua correzione. Il presupposto è che la buona fede rappresenti pur sempre nei PDEC uno strumento di eterointegrazione, il quale nell’assenza di una cornice ordinamentale – che i PDEC in quanto progetto di codice non hanno per definizione – con il suo corollario di norme imperative, di principi e di valori, non può che operare tramite il riferimento a standard mercantili, come il prezzo e l’equilibrio ottenibile in un mercato comparabile ma perfettamente concorrenziale. L’autointegrazione risulta, dunque, inconcepibile nell’ipotesi delineata dall’art. 4:109, poiché la norma non suggerisce lo sviluppo del concreto equilibrio contrattuale raggiunto dalle parti, ma la sostituzione dell’assetto raggiunto dalle parti con il diverso assetto che «avrebbe potuto essere convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza», ossia per l’appunto l’equilibrio ottenibile in un mercato perfettamente concorrenziale. Da queste considerazioni risulta un arretramento della volontà delle parti e un potenziamento della prassi mercantile, con la conseguenza che la ‘giustizia’ e la ‘morale’a cui devono ispirarsi gli interventi correttivi consistono nel rendere inderogabile il mercato.
La disciplina comunitaria del contratto del consumatore
A differenza delle altre direttive che riguardano singole operazioni contrattuali oppure le modalità di conclusione del contratto, la direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive introduce delle regole di tenore generale che investono l’intera categoria dei contratti del consumatore.
La normativa in discorso ha dato luogo a un’autentica rivoluzione copernicana, giacché per la prima volta sono approvate in sede comunitaria regole che incidono sulla disciplina generale del contratto ossia sulle clausole negoziali, sulla loro interpretazione, sul loro oggetto (a esclusione del prezzo dell’affare), sull’equilibrio normativo tra le prestazioni e, quindi, sul bilanciamento degli interessi delle parti contraenti.
È evidente l’impatto sugli ordinamenti nazionali, che va ben al di là degli scopi immediati e dei contenuti specifici dell’intervento comunitario, determinando in particolare la differenziazione dei contratti dei consumatori dagli altri contratti di massa e dai contratti individuali sulla base della qualificazione soggettiva dei contraenti: così in molti ordinamenti la disciplina generale dei contratti non negoziati individualmente si è frazionata in tre sezioni: a) i contratti tra professionisti e consumatori; b) i contratti tra professionisti; c) i contratti tra privati.
L’intervento comunitario è animato dall’esplicita premessa che il professionista sia più forte del consumatore, il quale non opera per scopo di profitto o di organizzazione della propria attività (imprenditoriale oppure professionale), ma al fine di soddisfare le esigenze della vita quotidiana proprie o della propria famiglia.
La direttiva ricorre espressamente al parametro della buona fede nel controllo dei contratti dei consumatori e affida al giudice il compito di valutare la vessatorietà della singola clausola o di un gruppo di clausole o dell’intero contratto, tramite per l’appunto la buona fede, ossia la correttezza e il leale comportamento delle parti: qui, della parte che ha predisposto il testo del contratto per adesione.
La direttiva introduce poi il criterio dell’equilibrio tra le posizioni giuridiche delle parti contraenti: un equilibrio contrattuale in senso normativo che non equivale a controllo dell’opportunità dell’affare e, pertanto, non consente di ripensare la ragione di scambio e di ridurre il prezzo. L’unica eccezione a tale perimetro del controllo di vessatorietà si ha nel caso in cui il corrispettivo non venga espresso in modo chiaro, sicché il consumatore non è in grado di avvedersi dell’effettivo onere derivante dalla sottoscrizione del contratto predisposto. È la trasparenza del rapporto che viene in gioco e, quindi, se il rapporto non è trasparente l’intervento del giudice può ben colpire la clausola oscura o ambigua. L’art. 4, 2° co., stabilisce che: «La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».
Lo squilibrio contrattuale in senso normativo riguarda ‘diritti’ e ‘obblighi’ e, dunque, allude alla sola ripartizione – all’interno del tipo prescelto e delle clausole individualmente e complessivamente considerate – di posizioni di vantaggio e svantaggio e al controllo sotto tale profilo dei meccanismi contrattuali interni alla singola operazione o all’intero affare ove si tratti di contratto collegato o derivato da altri contratti. È compito dell’interprete discernere le clausole che individuano l’oggetto del contratto e al loro interno quelle che fissano la contropartita economica e quelle che riguardano i diritti e gli obblighi delle parti.
Lo squilibrio deve essere ‘significativo’, ossia tale da alterare in modo rilevante il rapporto tra la posizione del professionista e la posizione del consumatore: il giudice deve, dunque, accertare se la singola clausola arrechi uno svantaggio al solo consumatore e non sia giustificata da un regolamento contrattuale che nel suo complesso non lo pregiudichi. Ma deve anche porre a raffronto il contratto in concreto esaminato con un modello astratto di contratto ‘equilibrato’ e non può affidarsi puramente e semplicemente ai modelli utilizzati da altri operatori del settore di riferimento e, semmai, ai modelli negoziati tra le associazioni di professionisti e di consumatori. Il riferimento alla buona fede, infatti, intende proprio scongiurare il rischio di valutazioni giudiziarie del tutto appiattite sulla prassi degli affari.
La direttiva lascia impregiudicata la possibilità di individuare due diversi livelli di vessatorietà: le clausole indefettibilmente vessatorie e quelle solo presuntivamente tali, salva prova contraria offerta dal professionista; nella disciplina italiana di recepimento, per es., è prevista l’elencazione esemplificativa di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria (cosiddetta lista grigia) e di clausole che si presumono iuris et de iure vessatorie e, dunque, non ammettono prova contraria (cosiddetta lista nera).
La vessatorietà va, dunque, valutata tenendo conto di due elementi: la contrarietà alla buona fede oggettiva e il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il primo elemento potrebbe essere considerato anche superfluo, atteso il principio generale di buona fede; qui tuttavia tale elemento gioca un ruolo importante perché concorre con l’altro, concernente lo squilibrio, per determinare un effetto che la violazione della buona fede oggettiva di per sé non ha, cioè la nullità relativa della clausola (la violazione della buona fede, nel diritto italiano, dà luogo tradizionalmente alla risoluzione del contratto, e, se del caso, al risarcimento del danno, sia in presenza di domanda di adempimento sia in presenza di domanda di risoluzione).
La direttiva insiste molto sulla trasparenza, sotto il duplice profilo dell’intelligibilità delle clausole contrattuali e della completezza delle informazioni dovute al consumatore prima della conclusione del contratto, al punto che – come già ricordato – ne sanziona la violazione estendendo il giudizio di vessatorietà financo all’oggetto del contratto se indicato in modo non chiaro e non comprensibile.
La direttiva affida ai legislatori nazionali la scelta dei congegni tecnici per il cui tramite rendere non vincolanti per il consumatore le clausole abusive. Il legislatore italiano inizialmente aveva ritenuto più opportuno adottare una figura di inefficacia con caratteri peculiari: la legittimazione relativa, perché riservata al solo consumatore; la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice ma nel solo interesse del consumatore; la parzialità in quanto «il contratto rimane efficace per il resto» (art. 1469 quinquies c.c.).
La scelta era apparsa felice perché l’eventuale ricorso alla nullità della singola clausola avrebbe sollevato il problema dell’applicabilità della disciplina della nullità parziale (art. 1419 c.c.), con la relativa prova di resistenza e il rischio per il consumatore di vedere travolto l’intero contratto, anche a causa del tenore equivoco dell’art. 6, 1° co. della direttiva secondo cui il contratto rimane in piedi per il resto «sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».
Il Codice del consumo ha sottratto la disciplina delle clausole abusive al codice civile e ha sostituito, accogliendo taluni suggerimenti dottrinali e giurisprudenziali, l’inefficacia con la nullità, mantenendone però i medesimi caratteri (art. 36). La figura in esame è così diventata una delle tante ipotesi della cosiddetta nullità di protezione che l’acquis communautaire e i successivi provvedimenti speciali a favore dei consumatori hanno espressamente consacrato, imponendo agli ordinamenti nazionali di dare cittadinanza a nuove figure d’invalidità del contratto, che erano precedentemente ignote, e tutte da rielaborare dal punto di vista dogmatico.
Contratti conclusi fuori dai locali commerciali e contratti a distanza
Per contratti ‘conclusi fuori dai locali commerciali’ si intendono, a mente della direttiva 85/577/CEE, i contratti di vendita o fornitura di beni o servizi accomunati dalla circostanza che il negozio si conclude, per es., al domicilio del consumatore o sul posto di lavoro o ancora ‘su catalogo’ (in tal caso il contratto è altresì ‘a distanza’ e si applica la relativa disciplina se più favorevole per il consumatore).
A loro volta, per contratti ‘a distanza’, s’intendono, a mente della direttiva 97/7/CEE, i contratti di vendita o fornitura di beni di consumo o di servizi diversi da quelli finanziari accomunati dalla circostanza che durante le trattative e per la conclusione del contratto il professionista utilizza una tecnica di comunicazione a distanza (per es., telefono, fax, posta elettronica, Internet). La direttiva 2000/31/CEE sul commercio elettronico, infine, disciplina i profili consumeristici dei «contratti per via elettronica». Le tre direttive in discorso sono state recepite in Italia, rispettivamente, dal d. legisl. 15 genn. 1992 n. 50 e dal d. legisl. 22 maggio 1999 n. 185, i cui contenuti sono ora riversati nel Codice del consumo, nonché dal d. legisl. 9 apr. 2003 n. 70. Il consumatore ha diritto di recedere dal contratto entro dieci giorni con decorrenze che variano minuziosamente in un intrigo normativo posto a sua tutela e deve essere informato sull’esistenza stessa di tale diritto, con la conseguenza che la mancata informazione determina l’allungamento dei termini.
L’art. 64 del Codice del consumo sancisce in generale che il diritto di recesso si esercita tramite l’invio, entro il termine di dieci giorni lavorativi, di una comunicazione scritta alla sede del professionista mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. È possibile, tuttavia, inviare la comunicazione anche tramite telegramma, telex, posta elettronica e fax, ma in tali casi è necessaria la conferma mediante raccomandata con avviso di ricevimento, entro le successive quarantotto ore. Qualora sia espressamente previsto nell’offerta o nell’informazione concernente il diritto di recesso, è sufficiente, in luogo di una specifica comunicazione, la restituzione entro il predetto termine di dieci giorni della merce ricevuta. Il recesso – per quanto riguarda i contratti conclusi fuori dai locali commerciali aventi a oggetto la prestazione di servizi – non travolge le prestazioni che siano state già eseguite (Codice del consumo, art. 48).
La disciplina del recesso di pentimento non trova applicazione: a) nei contratti di fornitura di generi alimentari, di bevande o di altri beni per uso domestico di consumo corrente forniti al domicilio del consumatore, al suo luogo di residenza o al suo luogo di lavoro, da distributori che effettuano giri frequenti e regolari; b) nei contratti di fornitura di servizi relativi all’alloggio, ai trasporti, alla ristorazione, al tempo libero, quando all’atto della conclusione del contratto il professionista si impegna a fornire tali prestazioni a una data determinata o in un periodo prestabilito (Codice del consumo, art. 55, 1° co.). Salvo diverso accordo delle parti, il consumatore non può esercitare il diritto di recesso nei casi di fornitura: a) di servizi la cui esecuzione sia iniziata, con l’accordo del consumatore, prima della scadenza del termine di giorni previsto ordinariamente per il recesso; b) di beni o di servizi il cui prezzo è legato a fluttuazioni dei tassi del mercato finanziario che il professionista non è in grado di controllare; c) di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati o che, per loro natura, non possono essere rispediti o rischiano di deteriorarsi o alterarsi rapidamente; d) di prodotti audiovisivi o di software informatici sigillati, aperti dal consumatore; e) di giornali, periodici e riviste; f) di servizi di scommesse e lotterie (Codice del consumo, art. 55, 2° co.).
Per quanto concerne i procedimenti di perfezionamento dell’accordo, l’art. 13 del d. legisl. 9 apr. 2003 n. 70 proclama, in modo invero assai curioso, che «le norme sulla conclusione dei contratti si applicano anche nei casi in cui il destinatario di un bene o di un servizio della società dell’informazione inoltri il proprio ordine per via telematica». La norma in questione non ha altro significato che quello di segnalare che le particolarità tecniche dei sistemi informatici di comunicazione a distanza non sono tali da imporre una riscrittura delle consuete procedure di conclusione del contratto né esigono la predisposizione di procedure ad hoc. Il ricorso alle tecniche e agli strumenti dell’informatica per svolgere attività negoziali sollecita, pertanto, un’apposita regolamentazione soltanto sul diverso versante dei doveri di informazione e del diritto di recesso di pentimento, poiché è su tale piano che il legislatore ha inteso scongiurare l’abuso di potere contrattuale da parte del professionista, reputando che le tecniche di comunicazione a distanza basate sull’informatica incidano soprattutto sulla capacità del consumatore di determinarsi consapevolmente a concludere il contratto, piuttosto che presentare insidie in sede di perfezionamento dell’accordo.
L’ambito applicativo delle due discipline concernenti i contratti a distanza e i contratti conclusi fuori dai locali commerciali si arresta sulla soglia di settori particolarmente delicati, e ciò perché in tali settori la violazione dei diritti attribuiti al consumatore è sanzionata ancor più gravemente; così, per es., nei servizi finanziari a distanza, la violazione da parte del professionista degli obblighi relativi al recesso e, più in generale, dei doveri di informazione, comporta la nullità del contratto: «Il contratto è nullo, nel caso in cui il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsa le somme da questi eventualmente pagate, ovvero viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche» (art. 16 d. legisl. 19 ag. 2005 n. 190).
Discipline speciali e istituti a vocazione generale
Quanto sin qui esposto ci dice che accanto alla normativa sulle clausole vessatorie, che rappresenta il primo tassello della disciplina generale del contratto del consumatore, il diritto privato di fonte comunitaria ha sviluppato soprattutto discipline a carattere speciale, tramite interventi normativi ‘a macchia di leopardo’, ossia settoriali e privi di omogeneità, volti per lo più a regolare specifiche figure contrattuali (per es., il contratto di multiproprietà, il contratto di pacchetto turistico, il contratto di credito al consumo) oppure a introdurre nei tipi legali istituti inediti a prevalente vocazione rimediale (per es., le garanzie nella vendita di beni di consumo) ovvero procedimenti di formazione (la vendita a distanza, la vendita porta a porta) o, infine, a delineare regole idonee ad adeguare la figura del contratto alle nuove tecnologie legate allo sviluppo dell’informatica e delle tecniche di intelligenza artificiale (per es., il contratto informatico).
La natura speciale della quasi totalità degli interventi comunitari relativi al contratto del consumatore non impedisce, tuttavia, di estrapolare alcuni istituti che per la loro natura di elementi comuni a tutte le discipline in discorso si candidano ad assumere una portata ben più ampia del loro originario ambito di applicazione e a rappresentare gli elementi essenziali della figura del contratto del consumatore e, in via di ulteriore generalizzazione, del contratto con asimmetrie di potere contrattuale.
L’elenco degli istituti a vocazione generale desumibili dalle normative di settore si apre con i doveri di informazione e prosegue con gli oneri formali, il recesso di pentimento, la nullità di protezione, la garanzia di conformità e la gerarchia dei rimedi.
I doveri di informazione investono non solo la fase precedente la conclusione del contratto, ma anche il perfezionamento dell’accordo e la successiva esecuzione del rapporto contrattuale, essendo funzionali a entrambi gli aspetti della consapevole formazione del consenso e della corretta gestione per l’appunto del rapporto contrattuale. La ‘debolezza’ del consumatore si risolve infatti essenzialmente nell’asimmetria informativa (mentre, come si dirà in seguito, la debolezza dell’impresa si annida nella stessa relazione contrattuale). La disciplina comunitaria non contempla, tuttavia, sanzioni a carattere generale per le ipotesi di violazione di tali doveri, ma si limita a introdurre alcune misure specifiche quale, per es., il prolungamento del termine per il recesso di pentimento in caso di mancata informazione del consumatore sul regime dello strumento.
Il recesso non è sempre uno strumento proficuo per il consumatore, giacché comporta la rinunzia ai vantaggi connessi all’operazione contrattuale; mentre il risarcimento del danno appare conveniente per lo meno sotto il profilo della conservazione di tali vantaggi e della loro combinazione con il risultato dell’azione risarcitoria: il risarcimento del danno è stato reputato dalla Corte di cassazione la soluzione più conveniente, per es., per il consumatore-risparmiatore nel caso di violazione degli obblighi stabiliti dalla disciplina degli investimenti prevista da regolamenti della Consob (Corte di cassazione, 29 sett. 2005 n. 19024).
Gli oneri formali, che per l’innanzi riguardavano prevalentemente i contratti relativi a beni immobili gli atti a titolo gratuito o i negozi destinati al soddisfacimento di interessi pubblici, appaiono ora rivolti a tutelare in modo più pregnante il consumatore o l’investitore nei casi di contratti di finanziamento o di assicurazione.
L’inedita finalità si collega soprattutto al connubio della forma con i doveri legali di informazione e determina una reviviscenza dei vincoli formali (il cosiddetto neoformalismo di protezione) specie in confronto al principio della libertà di forma che, per es., connota il codice civile italiano. È, dunque, lecito parlare di forma con finalità di informazione, come ulteriore profilo funzionale che va ad affiancarsi a quelli tradizionali della pubblicità-notizia, della pubblicità dichiarativa e della pubblicità costitutiva. Al riguardo è paradigmatica la multiproprietà, ma sono altrettanto significativi il contratto di pacchetto turistico e la vendita di beni di consumo: tali discipline piegano i vincoli formali alle esigenze della trasparenza e anzi si presentano come il necessario supporto del passaggio dall’informazione quale comunicazione, precontrattuale o contrattuale che sia, all’informazione quale veicolo degli elementi minimi necessari dell’offerta e, dunque, del contratto in un quadro caratterizzato dal trascolorare dell’oggetto dell’informazione in vera e propria promessa.
La forma assume, in altre parole, il duplice ruolo: a) di strumento di documentazione delle informazioni rilevanti per favorire il compimento di scelte consapevoli da parte del consumatore, secondo un modello anticipatorio di tutela del contraente debole; b) di strumento che consente al consumatore la conoscenza immediata del contenuto di un contratto che egli non ha contribuito a predisporre. La cosiddetta forma informativa può concorrere o meno con il requisito della forma scritta del contratto: i due oneri formali coesistono, per es., nel contratto di multiproprietà (Codice del consumo, artt. 69 e sgg.) e nel contratto di pacchetto turistico (Codice del consumo, artt. 82 e sgg.), sicché in tali casi si può anche prospettare un’unitaria forma scritta ad substantiam a carattere procedimentale poiché il suo assolvimento viene scandito dalla preventiva predisposizione del documento informativo e dal successivo suo riversamento nel testo scritto dell’accordo ed è possibile, pertanto, assoggettare la violazione dei due oneri alla medesima sanzione, la nullità di protezione, e proprio a motivo del loro collegamento. La forma informativa e la forma ad substantiam non convivono invece nella disciplina dei contratti stipulati fuori dei locali commerciali (Codice del consumo, artt. 45 e sgg.) e dei contratti a distanza (Codice del consumo, artt. 50 e sgg.), dov’è previsto espressamente il dovere di fornire per iscritto le informazioni relative al diritto di recesso (Codice del consumo, artt. 47 e 53) anche se il contratto viene concluso oralmente o per facta concludentia.
Il recesso di pentimento è lo strumento di autotutela predisposto dal diritto privato comunitario per ovviare alla velocità degli scambi, che impone al consumatore di compiere scelte contrattuali spesso non ponderate a sufficienza, in un contesto negoziale in cui, peraltro, al consumatore è ritagliato il ruolo di semplice aderente a un contratto predisposto dal professionista. Tale figura di recesso di pentimento: a) si discosta nell’ordinamento italiano dal recesso convenzionale di cui all’art. 1373 c.c. perché è di fonte legale ed è attivabile anche in presenza di un inizio di esecuzione (il recesso convenzionale al contrario è invocabile giusto finché il contratto non abbia avuto un inizio di esecuzione, a meno che non si tratti di contratti a esecuzione continuata o periodica); b) è una forma di recesso ad nutum ossia senza obbligo di motivazione; c) è esperibile senza costi per il consumatore, salvo ovviamente il rimborso delle spese affrontate da controparte.
La nullità di protezione è il rimedio posto a presidio del contenuto minimo e inderogabile del contratto del consumatore e volto, innanzitutto, a reagire all’introduzione delle clausole abusive non fatte oggetto di trattativa individuale o appartenenti nel diritto italiano alla cosiddetta black list. È una forma di invalidità che ha costretto la dottrina alla correzione e all’integrazione delle caratteristiche tradizionalmente riconosciute alla figura della nullità poiché ne dismette i consueti caratteri dell’assolutezza della legittimazione ad agire e dell’inefficacia totale del contratto.
La nullità di protezione è, difatti, una forma di nullità relativa e parziale, poiché è azionabile soltanto dal consumatore e rilevabile d’ufficio ma solo nell’interesse di quest’ultimo ed è inoltre destinata a fulminare di inefficacia esclusivamente la parte del regolamento contrattuale o la singola clausola contra legem. La rimodulazione cui è sottoposto il rimedio della nullità incide anche sulla ratio dell’istituto, la quale perde il connotato della preordinazione alla tutela dell’interesse ordinamentale al rispetto degli elementi strutturali della fattispecie per acquisire l’inedita tensione alla salvaguardia dell’interesse individuale del consumatore alla protezione contro contenuti contrattuali gravemente asimmetrici.
Sono esempi di nullità di protezione nel diritto italiano di origine comunitaria il già citato art. 36 in materia di clausole abusive; l’art. 78 in materia di contratto cosiddetto di multiproprietà; l’art. 134, 1° co., in materia di vendita di beni di consumo; l’art. 143, in tema di diritti attribuiti ai consumatori (tutti nel Codice del consumo); l’art. 127, 2° co., del Testo unico bancario (TUB), in tema di contratti di credito al consumo.
Sempre a proposito degli istituti a vocazione generale, è utile ricordare che la disciplina comunitaria della vendita di beni di consumo (direttiva 99/44/CEE e, in Italia, Codice del consumo, artt. 128 e sgg.) ha introdotto un nuovo parametro di valutazione della fase esecutiva, ossia il criterio della ‘conformità al contratto’ che è rivolto a verificare se vi sia stata o meno violazione del regolamento contrattuale. Il parametro della conformità al contratto si inscrive a pieno titolo nella tendenza del diritto privato di fonte comunitaria a fissare inderogabilmente il ‘contenuto minimo’ del contratto.
Il contratto dell’impresa debole
Un cenno merita infine la questione del cosiddetto terzo contratto. La rottura del paradigma contrattuale unico si deve alla legislazione a tutela del consumatore, ma si è ora consolidata in ragione delle novità normative di matrice europea a tutela dell’impresa ‘debole’. Si pensi all’abuso di dipendenza economica o alla possibilità offerta al giudice di riconduzione a equità del contratto nell’ipotesi in cui l’impresa creditrice subisca clausole relative ai tempi di pagamento particolarmente inique.
In modo particolare, nella l. 18 giugno 1998 n.192 in virtù dell’art. 9:
«1) È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
2) L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
3) Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo».
Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni.
Conviene poi riportare il testo dell’art. 7, nel d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231 (attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali):
«1) L’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore.
2) Si considera, in particolare, gravemente iniquo l’accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l’accordo con il quale l’appaltatore o il subfornitore principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi.
3) Il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo e, avuto riguardo all’interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed alle altre circostanze di cui al comma 1, applica i termini legali ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo».
Infine, si deve ricordare come la legge imponga una durata ‘sufficiente’ del contratto di franchising a garantire l’ammortamento degli investimenti sostenuti da chi si inserisca in una rete di distribuzione commerciale (art. 3 nella l. 6 maggio 2004 n. 129): nonostante il silenzio del legislatore, tale prescrizione ha fatto ritenere la nullità dell’accordo che preveda una durata non sufficiente.
Ciò su cui allora attualmente può riflettersi è in che modo il giurista europeo possa o debba procedere a un riordino della nuova costellazione di segmenti normativi in ambito contrattuale. In questo senso, possono già intravedersi e delinearsi due diversi modelli: uno di tipo tedesco che mira a una sistemazione caratterizzata dall’incorporazione nel codice civile delle novità provenienti dai diritti di settore; l’altro di stampo francese e italiano, propenso invece ad affiancare al codice civile (e al suo contratto) un Codice del consumo (e dunque un contratto del consumatore). Si tratta allora di capire se la frammentaria disciplina di derivazione europea del contratto d’impresa possa candidarsi a paradigma di un ‘terzo contratto’, il contratto dell’impresa debole, che si affiancherebbe al tradizionale contratto liberale del codice civile e al contratto del consumatore.
Andando oltre, sembra poi possibile registrare nella riflessione dottrinale dell’ultimo decennio due opzioni di fondo. Per un verso, come si è anticipato, un tentativo di agglutinamento delle novità normative di matrice europea in un’unica macrocategoria, quella del contratto con asimmetria di potere contrattuale: qui il contraente debole è il consumatore, ma anche l’impresa.
Per altro verso, la tendenza a edificare un paradigma autonomo del contratto dell’impresa debole. Quest’ultimo, secondo la teorica del ‘terzo contratto’, non condividerebbe con il contratto del consumatore in primo luogo le modalità della contrattazione, poiché la ‘debolezza’ dell’impresa non presuppone l’eterodeterminazione del regolamento contrattuale. Tale ‘debolezza’ inoltre implicherebbe un’asimmetria anche solo potenziale se si guarda, per es., alla circostanza che, nell’abuso di dipendenza economica, l’impresa forte non deve aver determinato uno squilibrio normativo, ma ‘deve essere in grado’ di determinarlo. Ancora, malgrado vi sia una tendenziale convergenza verso una ratio di tutela del mercato concorrenziale, la disciplina consumeristica «prescinde dall’effettiva esistenza di un vantaggio anticompetitivo» (Villa in Il terzo contratto, 2008, p. 117): a ben vedere, infatti, l’apparato rimediale da essa approntato è indifferente alla circostanza che in concreto nessuno si avvantaggia perché tutti gli imprenditori utilizzano una certa clausola abusiva (la quale sarà pertanto egualmente nulla); né può dirsi che i rimedi a tutela del consumatore operino soltanto in presenza di un’alterazione significativa del mercato, come accade invece rispetto all’impresa debole. Per contro, il contratto ‘terzo’ del contraente imprenditore debole conoscerebbe un controllo dell’equilibrio (anche) economico dello scambio, quando invece è noto che il contratto del consumatore è sindacabile solo in punto di equilibrio tra diritti e obblighi, cioè di equilibrio ‘normativo’. Infine, la normativa a tutela dell’impresa debole non può che risentire della relazione tra gli attori del mercato, per cui in essa il contratto è soltanto uno dei momenti di tale relazione (Amadio in Il terzo contratto, 2008, p. 16).
Bibliografia
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Il terzo contratto, a cura di G. Gitti, G. Villa, Bologna 2008 (in partic. G. Amadio, Il terzo contratto. Il problema, pp. 9-30; G. Villa, Invalidità e contratto tra imprenditori in situazione asimmetrica, pp. 113-36).