Abstract
I rapporti contrattuali paziente-struttura sanitaria pubblica o privata e paziente-medico libero professionista si atteggiano in maniera diversa.
Il primo, noto come contratto di assistenza sanitaria o di spedalità, è generalmente considerato un contratto atipico caratterizzato anche o solo da prestazioni di natura diversa da quella prettamente medica. A cagione delle sue peculiarità e della sua rilevanza pratica, ha attirato su di sé, negli ultimi decenni, l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza.
Il secondo, che qui viene indicato come contratto terapeutico, è pacificamente qualificato come contratto d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2229 ss. c.c.
Sebbene tale contratto, a prima vista, presenti minori difficoltà qualificatorie, la particolarità dell’attività medica quale prestazione contrattuale ne suggerisce un’analisi specifica anche nella prospettiva di una sua tipizzazione, sull’esempio di quanto accaduto in Germania con la codificazione del Behandlungsvertrag avvenuta nel 2013 (§§ 630a-630h BGB).
Il contratto terapeutico concluso fra paziente e medico che esercita la professione privatamente – pacificamente considerato un contratto d’opera intellettuale – risente profondamente delle peculiarità di una delle prestazioni in esso dedotte: l’atto medico o gli atti medici.
Il consenso al contratto, ad esempio, non implica automaticamente il consenso al trattamento medico.
Il sanitario, pertanto, in costanza di contratto, una volta effettuata la diagnosi, non può eseguire la prestazione terapeutica qualunque essa sia – farmacologica o chirurgica – se non ha preventivamente acquisito il consenso del paziente. In via di principio, anche la diagnosi stessa, se conseguente ad accertamenti invasivi, non può essere eseguita senza il consenso del paziente. La stessa legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale sanitario dispone che «gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari» (art. 33 l. 23.12.1978, n. 833).
Inoltre, il consenso deve essere “informato”, ossia reso dal paziente che ha preventivamente ricevuto le informazioni necessarie al formarsi di un proprio convincimento e ciò a tutela del suo diritto, costituzionalmente garantito, di autodeterminarsi (vedi recentemente Cass., 4.2.2016, n. 2177 ed ancora Cass., 9.2.2010, n. 2847; sul consenso informato quale espressione del diritto di autodeterminazione del paziente e sulla distinzione fra diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione vedi C. cost., 23.12.2008, n. 438; gli obblighi informativi a carico del medico sono previsti espressamente negli artt. 33 e 35 del codice deontologico dei medici – 2014 – oltre che da norme sovranazionali, vedi, ad esempio, l’art. 5 della Convenzione di Oviedo firmata il 4 aprile 1997).
In un tale contesto, individuare la natura giuridica del consenso informato al trattamento medico non è una mera questione dogmatica bensì un momento necessario per verificarne l’operatività rispetto al contratto sia in relazione al contenuto che alla terminazione, ben potendo il paziente decidere di non consentire al trattamento ed eventualmente recedere dal contratto.
Non meno significativa si presenta la questione della diligenza del medico, da valutare ai sensi del combinato disposto degli art. 1176 e 2236 c.c., e che materialmente è parametrata allo stato dell’arte della medicina ossia agli standard medici che la comunità scientifica via via individua come i più adeguati da applicarsi al caso di specie.
Quanto appena evidenziato testimonia, a titolo esemplificativo, che la determinazione del programma obbligatorio – che le parti contrattuali in genere compiono in occasione della conclusione del negozio – nel caso di specie avviene invece progressivamente, non esaurendosi nell’accordo contrattuale che precede l’attività informativa del medico al paziente ed il consenso di quest’ultimo al trattamento.
Proprio per queste ragioni è utile analizzare gli aspetti caratterizzanti il contratto terapeutico e verificare l’opportunità di una sua possibile tipizzazione.
La rilevanza del suddetto contratto, inoltre, prescinde dalla sfera dei rapporti paziente-medico di natura meramente privatistica, dato che viene in considerazione anche nei rapporti fra paziente-medico di medicina generale, considerato anch’esso libero professionista scelto da paziente (sul punto, da ultimo, Cass., 27.3.2015, n. 6243, che, peraltro, in netta contrapposizione con gli orientamenti precedenti, ha sancito la responsabilità solidale della ASL per gli errori medici commessi dai medici di medicina generale ad esse afferenti; in tal senso anche il d.d.l. S. 2224, noto come “d.d.l. Gelli”, in ambito di riforma della responsabilità professionale del personale sanitario, attualmente all’esame della XII commissione del Senato dopo l’approvazione della Camera dei deputati avvenuta alla fine di gennaio).
E non solo.
Il contratto de quo, rectius la sua disciplina, rappresenta anche, almeno per la parte relativa alle prestazioni di carattere medico, un archetipo per il contratto di spedalità concluso tra paziente e struttura ospedaliera ricettiva – sia pubblica che privata – nonché, per quello fra paziente e medico dipendente, per chi ritiene che detto rapporto sorga per contatto sociale (in merito, va precisato che il citato d.d.l. Gelli, invece, qualifica la responsabilità del medico dipendente come extracontrattuale).
La conclusione di un contratto terapeutico presuppone la capacità d’agire di entrambe le parti e, conseguentemente, necessita, in caso di pazienti incapaci, che vengano applicate le tutele apprestate dall’ordinamento in loro favore.
Per i minori trovano applicazione le norme sulla rappresentanza legale dei genitori mentre per i maggiorenni incapaci quelle sull’interdizione e sull’inabilitazione. Per l’amministrazione di sostegno, che si atteggia in modo diverso rispetto agli istituti appena richiamati, è rilevante invece quanto determinato nel decreto di nomina.
La natura dell’oggetto della prestazione sanitaria, la salute e l’integrità fisica del paziente, potrebbe, in via di principio, sollevare il problema della natura personalissima del negozio, e, quindi, escludere la possibilità che esso venga concluso da un terzo rappresentante.
Tali valutazioni vengono in realtà operate, come si vedrà, in relazione al consenso al trattamento, ove, peraltro, la capacità d’intendimento di soggetti incapaci d’agire sembra riacquistare, almeno in parte, una sua autonoma rilevanza. Non si può in merito non osservare che la rappresentanza legale persegue finalità diverse ed ulteriori rispetto alla rappresentanza volontaria, che tende invece a veicolare interessi di natura prevalentemente patrimoniale.
Il diritto del paziente di ricevere informazioni al fine del corretto esercizio del diritto di autodeterminazione segna il passaggio da un rapporto medico-paziente paternalistico, basato sull’adesione acritica – per certi versi – fatalistica del paziente alle decisioni curative del medico, ad un rapporto paritario, contraddistinto dalla consapevolezza del paziente circa il trattamento cui sottoporsi.
Le fondamenta di questa evoluzione sono da rinvenirsi nella Costituzione che ha elevato a diritti costituzionalmente garantiti la dignità umana (art. 2), la libertà personale (art. 13) e la salute (art. 32) anche se nel panorama giuridico italiano la tematica del consenso informato si è imposta solo recentemente (nel senso di una “riscoperta“ della Costituzione e, specificamente, dell’art. 32, Alpa, G., La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 329).
Destata l’attenzione degli addetti ai lavori, il consenso informato ha rappresentato una problematica particolarmente sentita dagli operatori del diritto che le hanno dedicato un numero impressionante di contributi (già in tal senso, cui si rinvia, Palmieri, A., Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista, in Foro it., 1997, I, 771).
Ed in questa direzione, tesa allo sviluppo della personalità del singolo, s’inserisce anche la tematica, sopra accennata, della “capacità degli incapaci“ – in particolar modo dei “grandi minori” – di ricevere personalmente le informazioni al fine di prestare il proprio consenso.
Da un lato, l’ordinamento non può tollerare che manchino strumenti per consentire l’assistenza medica in favore di soggetti incapaci, per cui l’obbligo informativo che li riguarda deve essere assolto nei confronti dei rappresentanti legali (vedi art. 33 del codice deontologico dei medici).
Dall’altro, l’ordinamento stesso, attraverso una lettura dell’art. 2 c.c. meno patrimonialistica e più costituzionalmente orientata, riconosce all’incapace legale comunque dotato di capacità cognitiva l’idoneità a ricevere personalmente le informazioni che riguardano il trattamento medico che lo riguarda.
Resta però la difficoltà di conciliare queste istanze di apertura nei riguardi della volontà degli incapaci con le norme che presiedono l’attività giuridica.
Il diritto di autodeterminazione, proprio perché teso alla tutela della libertà di scelta del singolo, non può non esplicarsi anche in un corrispondente diritto di non sapere. In tale direzione, la giurisprudenza ha però chiarito che la rinuncia in tal senso del paziente deve essere chiara, specifica e consapevole (vedi, ad esempio, Cass., 15.9.2008, n. 23767).
Specularmente, il medico può non informare il paziente allorché non vi sia la materiale possibilità di procedervi, ossia nei casi d’urgenza e di paziente incapace, che però, nel caso di contratti terapeutici, è pressoché improbabile trattandosi di attività negoziale svolta in situazione di non emergenza.
Il contenuto delle informazioni deve avere riguardo non solamente all’atto medico in sé considerato, es. tipologia e modalità di esecuzione, ma anche alle alternative, se disponibili, nonché, e questo è un punto cruciale, ai rischi connessi.
Su questo aspetto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nell’affermare che il medico debba illustrare i rischi prevedibili di un determinato atto medico (da ultimo, Cass., 4.2.2016, n. 2177).
Infine, l’informazione deve essere completa ed esauriente e deve altresì essere intellegibile per il grado di istruzione del paziente ma non deve tendere ad ingenerare paure e timori ingiustificati che potrebbero portare il paziente a rifiutare un trattamento o a viverne l’esecuzione in mancanza di serenità (da ultimo, Cass., 4.2.2016, n. 2177).
In tale prospettiva, la mera sottoscrizione di moduli precompilati non è sufficiente a ritenere adempiuto l’onere informativo.
La rilevanza dell’informativa al paziente è tale da determinare, in caso di inadempimento, una fonte autonoma di responsabilità che prescinde da quella conseguente all’errore medico.
Si è molto discusso sulla natura della responsabilità in parola.
Un primo orientamento, sul presupposto che gli obblighi in questione sorgano prima della venuta ad esistenza del contratto stesso, ritiene si tratti di responsabilità precontrattuale e che trovi applicazione la disciplina di cui all’art. 1337 c.c.
Un secondo orientamento, prevalente, li qualifica invece come obblighi contrattuali, l’inadempimento dei quali darebbe luogo a responsabilità contrattuale. Quest’ultima ricostruzione si attaglia meglio alla specifica funzione che gli obblighi informativi svolgono nel processo decisionale del paziente ed alla stessa operatività del rapporto medico-paziente (per una efficace sintesi cfr., Palmieri, A., Relazione medico-paziente, cit., 772).
Per quanto riguarda il danno che ne consegue, la Corte di cassazione distingue fra danno da lesione del diritto di autodeterminazione e danno alla salute conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione (sul punto, recentemente Cass., 4.2.2016, n. 2177 e Cass., 12.6.2015, n. 12205; ancora Cass., 9.2.2010, n. 2847).
Il primo, che per lungo tempo non ha trovato cittadinanza, consiste nella frustrazione della mancata possibilità di scegliere per se stessi. Quando si concreta in un danno non patrimoniale viene riconosciuto solamente se supera la soglia della normale tollerabilità. L’emergenza di questa tipologia di danno prescinde dalla contestuale occorrenza di danni alla salute.
Il secondo, invece, è un danno alla salute conseguente ad un’attività medica correttamente eseguita e pertanto non imputabile ad un errore del sanitario. Il danno, in tal caso, può essere risarcito se il paziente, adeguatamente informato, non avrebbe acconsentito al trattamento e, quindi, rifiutato il trattamento poi rivelatosi dannoso (sulla differenza fra i due danni e sull’importanza della prova della causalità controfattuale, vedi, Cass. n. 2847/2010, cit.; sulla diversa qualificazione delle domanda di risarcimento nella prospettiva di mutamento della causa petendi vedi, Cass., 3.9.2007, n. 18513).
Il consenso al trattamento medico, oltre ad essere espressione del diritto di autodeterminazione del paziente, costituisce un requisito di liceità dell’attività medica che altrimenti non potrebbe essere compiuta e si sostanzia in una dichiarazione – o comunque in una manifestazione – di volontà.
Rispetto all’accordo negoziale già venuto ad esistenza, individua l’ulteriore contenuto della prestazione medica che il sanitario è tenuto ad eseguire, oltre a quella già svolta, e contestualmente rimuove un ostacolo all’atto medico.
La natura giuridica del consenso al trattamento medico è stata a lungo dibattuta.
In ambito penale, ad esempio, la problematica in analisi è stata trattata in relazione alle scriminanti: quella dell’avente diritto, di cui all’art. 50 c.p.; quella dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51 c.p.; od, infine, quella dello stato di necessità, di cui all’art. 54 c.p. Le teorie in analisi si ritengono ora superate anche e soprattutto in considerazione della valorizzazione della persona del paziente rispetto ad un diritto di cura del medico (per una ricostruzione, v. Callipari, N., Il consenso informato nel contratto di assistenza sanitaria, Milano, 2012, 25 ss.).
Da una prospettiva di diritto civile, si discute se configuri o meno una dichiarazione negoziale (per una ricostruzione anche nella prospettiva di differenziazione rispetto al consenso al contratto, v. Vignali, C., Il contratto di assistenza sanitaria e la protezione del minore, Milano, 2006, 199 ss.).
La teoria negoziale, in primo luogo, potrebbe contrastare col divieto di compiere atti dispositivi sul proprio corpo di cui all’art. 5 c.c. Tale divieto, in realtà, viene pacificamente interpretato come riferibile all’attività negoziale onerosa finalizzata al commercio, non ritenendosi applicabile, invece, ai negozi gratuiti, come, ad esempio, le donazioni di organi. In secondo luogo, si è rilevato che darebbe luogo a una struttura negoziale complessa composta da più negozi che via via si concludono.
Secondo altro orientamento, prevalente, il consenso al trattamento medico sarebbe invece una dichiarazione/manifestazione di volontà a carattere non negoziale cui l’ordinamento collega degli effetti giuridici. In merito si parla di dichiarazione autorizzativa.
Questa ricostruzione, sicuramente più soddisfacente per le ragioni sopraesposte, non risolve comunque il problema del rapporto fra il consenso al trattamento ed il contenuto contratto che, invece, si potrebbe meglio giustificare facendo ricorso alla teoria negoziale e, specificamente, facendo ricorso ad un contratto modificativo del precedente.
Come già visto in relazione agli obblighi di spiegazione, si tende a riconoscere agli incapaci dotati di capacità di discernimento l’idoneità ad esprimere personalmente il proprio consenso ad un trattamento medico che li riguarda a prescindere dalla volontà espressa in merito dei legali rappresentanti. Evidentemente, è possibile che si verifichino casi di volontà contrastanti, innanzi alle quali il medico, in ultima istanza, dovrà rivolgersi all’autorità giudiziaria.
Poiché, come detto, il contratto terapeutico per un soggetto incapace viene sottoscritto dai legali rappresentanti, la sua peculiarità appare ancora più marcata se si riflette sul fatto che una dichiarazione di volontà non negoziale di un minore possa influire direttamente su di esso.
Nell’eventualità, invece, che l’incapace non abbia tale discernimento, il consenso verrà prestato dai legali rappresentanti come già visto in relazione al consenso al contratto.
Anche in questo caso, si è posto il problema dell’amministrazione di sostegno, che la giurisprudenza tende a risolvere nel senso di ammettere che il giudice tutelare autorizzi l’amministratore di sostegno al fine di tutelare la salute del paziente (v., Trib. Reggio Emilia, 24.7.2012).
L’oggetto del contratto, ai sensi dell’art. 1346 c.c., deve essere lecito ed inoltre determinato o determinabile. Nel caso di oggetto determinato, la sua individuazione avviene ad opera delle parti in occasione della conclusione del contratto mentre nel caso di oggetto determinabile è rimandata ad un momento successivo e spesso anche ad un terzo arbitratore.
Nel contratto terapeutico, e questo ne è un aspetto peculiare, l’oggetto è in parte determinato ed in parte determinabile. Il contenuto della prestazione medica può variare a seconda del consenso o del dissenso del paziente al trattamento ovvero ancora del suo consenso ad un trattamento diverso; altrettanto dicasi per il corrispettivo dovuto al medico, che può risentire delle attività compiute. Si pensi ad esempio all’effettuazione di ulteriori esami diagnostici in occasione di una visita (v. anche, Vignali, C., Il contratto di assistenza, cit., 206 ss.).
Da questo punto di vista, il contatto terapeutico può configurare, ma non necessariamente, una fattispecie a formazione progressiva.
L’individuazione della causa, data la sua qualificazione quale contratto d’opera intellettuale, non presenta particolari difficoltà e si sostanzia nello scambio fra prestazione medica ed onorario. L’eventuale illiceità della causa nell’assetto concreto di un determinato contratto verrà valutata ai sensi degli artt. 1343 ss. c.c., ad esempio, potrebbe darsi il caso di interruzione di gravidanza effettuata al di fuori dei limiti fissati dalla legge.
Il contratto de quo non necessita della forma scritta anche se, quanto meno ai fini di prova, l’informativa al paziente ed i referti degli esami e degli accertamenti è opportuno vengano archiviati su supporti durevoli.
Il rifiuto al trattamento medico può operare anche come dichiarazione unilaterale di recesso allorché non vi sia un ulteriore interesse all’esecuzione del contratto.
In tal senso viene in considerazione la disciplina dettata dall’art. 2337 c.c. in tema di recesso delle parti del contratto d’opera intellettuale, che distingue il recesso del cliente da quello del prestatore d’opera.
Il cliente – paziente – può recedere dal contratto liberamente previo rimborso delle spese sostenute dal prestatore d’opera e previo pagamento del compensi per l’opera svolta. Il prestatore, invece, può recedere solamente per giusta causa ed il recesso deve essere esercitato in modo tale da evitare pregiudizio al cliente. Il prestatore, in questo caso, avrà diritto al rimborso delle spese sostenute ed al compenso per l’opera svolta con riferimento al risultato utile derivato al cliente.
Altrettanto si può inferire dalla revoca del consenso (vedi Vignali, Il contratto di assistenza, cit., 201, che ritiene che il recesso dal contratto implichi anche revoca del consenso al trattamento).
Mediante il contratto terapeutico il sanitario si obbliga ad eseguire diligentemente la prestazione medica ivi dedotta ma non può garantire, salva espressa pattuizione in tal senso, il risultato utile perseguito dal paziente ossia, generalmente, la sua guarigione.
La diligenza del prestatore d’opera intellettuale viene valutata ai sensi dell’art. 1176, co. 2, c.c. e dell’art. 2236 c.c.
Il primo richiama il concetto di diligenza richiesta dalla natura dell’attività esercitata, il secondo limita la responsabilità del prestatore d’opera intellettuale ai soli casi di dolo o colpa grave se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (per una disamina sull’interpretazione dell’art. 2236 c.c. in relazione alla vexata quaestio degli interventi di facile routine ed alla summa divisio tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, vedi Franzoni, M., La responsabilità del medico fra diagnosi, terapia e dovere di informazione, in Resp. civ., 2007, 584).
Va precisato che la colpa di cui all’art. 2236 c.c., che caratterizza la disciplina del contratto d’opera professionale, fa riferimento alla sola imperizia e non anche alla negligenza ed alla imprudenza. Non è, quindi, inteso come uno strumento per limitare la responsabilità del medico ma per evitare che lo stesso risponda a fronte di situazioni particolarmente complesse.
In ambito medico, la valutazione della perizia del prestatore d’opera, non può prescindere dal riferimento allo stato dell’arte medica raggiunto al momento dell’esecuzione della prestazione nello specifico settore disciplinare interessato. Con terminologia moderna (ma in realtà antica), si fa riferimento agli standard medici, alle buone pratiche dell’attività medica, che, peraltro, sono strettamente connesse anche alle – spesso – limitate disponibilità economiche.
Il Behandlungsvertrag è stato codificato nel BGB nel 2013 dopo un dibattito ultracinquantennale e diversi tentativi legislativi. La disciplina recepisce il montante giurisprudenziale che, sin dai primi anni del Novecento, si è formato in ambito di responsabilità medica e che ha determinato il crearsi di una sorta di settore disciplinare a sé stante, caratterizzato da elementi peculiari. La codificazione è stata accolta con critiche anche molto severe che muovono, sostanzialmente, dalla circostanza che non sono state tenute in considerazione talune criticità più volte portate all’attenzione dagli operatori del diritto. A prescindere dalle critiche, strettamente connesse con la specifica realtà del diritto tedesco e del sistema della responsabilità medica, la disciplina, contenuta nei §§ 630a-630h BGB, offre diversi spunti di riflessione.
Il Behandlungsvertrag è una species di Dienstvertrag (contratto di servizio) cui si applica, per quanto non specificato nel sotto titolo dedicato, la disciplina dei Dienstverträge, ma non è definito. Il § 630a individua le obbligazioni principali che da esso scaturiscono: la prestazione curativa ed il suo pagamento e chiarisce che la prima deve essere eseguita secondo gli standard riconosciuti al momento dell’esecuzione della prestazione.
Il legislatore tedesco ha specificamente normato gli obblighi informativi, facendo espresso riferimento al loro contenuto, pur non distinguendo in maniera chiara quelli a servizio del diritto di autodeterminazione da quelli volti a garantire la corretta gestione della fase successiva al trattamento (§§ 630c-630e).
Il diritto di autodeterminazione del paziente è richiamato nel § 630d, ove si dispone che il prestatore delle cure sia obbligato, prima di effettuare un trattamento medico ed in particolar modo prima di eseguire interventi sul corpo o sulla salute, ad ottenere il consenso del paziente preventivamente informato ai sensi del § 630e, n. 1-4. Viene previsto anche che il consenso per i soggetti incapaci sia prestato dal rappresentante legale o tratto da una precedente dichiarazione in tal senso.
Vale la pena specificare che il successivo §630e, ancorché in maniera non immediata, specifica che le informazioni devono essere rese anche al soggetto incapace in base alla sua capacità di discernimento.
Non meno rilevanti sono i due articoli che stabiliscono l’obbligo della tenuta di una cartella clinica (§ 630f) nonché il dritto del paziente di prenderne visione e di farne una copia (§ 630g).
Da ultimo, nel § 630h, viene trattata l’annosa questione della distribuzione dell’onere della prova in relazione agli errori nelle cure e nelle spiegazioni. A carico del medico è posto l'onere della prova dell’avvenuta acquisizione del consenso informato. Lo stesso medico potrà però appellarsi al consenso ipotetico, ossia al fatto che il paziente avrebbe comunque consentito al trattamento. Inoltre, sempre a carico del medico sono previste presunzioni nei seguenti casi: 1) rischio completamente governabile che ha cagionato un danno alla vita, al corpo o alla salute del paziente; 2) mancata registrazione nella cartella clinica dell’esecuzione di una misura necessaria per le cure o mancata registrazione dei risultati o mancata tenuta della cartella clinica (si presume che la detta misura non sia stata adottata); 3) prestazione eseguita da un non esperto, errore grossolano ed infine mancata effettuazione di un accertamento che avrebbe evitato l’errore o indotto ad ulteriori accertamenti, se tale mancanza è stata grossolana.
La disamina operata, anche con riguardo ai §§ 630a-630h BGB, consente di trarre alcune conclusioni.
La disciplina del contratto terapeutico risente fortemente delle garanzie di tutela che devono essere apprestate in favore dei pazienti al fine del corretto esercizio, da parte di questi, del loro diritto di autodeterminazione, costituzionalmente garantito.
Espressione massima di tale esigenza è il consenso informato e la rilevanza che esso assume rispetto all’accordo contrattuale che ne viene, inevitabilmente, influenzato.
Un’influenza diversa da quella esercitata, ad esempio, dalle informazioni in ambito di contratti del consumatori chiamate ad operare, in prevalenza, prima che il contratto venga ad esistenza.
Ma, anche, un’influenza che necessiterebbe di un ancoraggio diretto ed esplicito al contratto. Come del resto sarebbe opportuno che venga qualificata la natura giuridica del consenso informato con specifico riguardo alla questione degli “incapaci capaci”.
L’eventualità di disciplinare il contratto de quo come tipo contrattuale a sé stante potrebbe sopperire alle lacune della disciplina di cui agli artt. 2229 ss. c.c.
Si pensi ad esempio alla codificazione degli obblighi d’informazione e della tenuta della cartella clinica con il correlato diritto di ottenerne copia, ma anche, allo stesso riferimento degli standard come parametri di valutazione della prestazione medica.
Indubbiamente, e lo dimostra anche l’esperienza tedesca, la codificazione in un tale contratto non è affatto semplice e sussiste sempre il rischio, come del resto accade in ogni operazione di codificazione, di fissare regole che vengono poi avvertite come superate o non più idonee, talvolta, anche inutili.
Ma, non per questo, una codificazione non sarebbe utile anche in chiave transnazionale.
Il contratto de quo è disciplinato nel BGB, ma anche, da tempi più remoti, nel codice civile dei Paesi Bassi (art. 7:446) ed è espressamente regolato anche nel Draft Common Frame of Reference (libro IV, parte C, capitolo 8, artt. 101-111) quale tipo di contratto di servizio.
La strada è quindi in parte già battuta.
Diritto italiano: artt. 2, 13 e 32 Cost.; artt. 1218, 1343, 1346, 1376, 2229, 2236, 2237 c.c.
Diritto tedesco: §§ 630a-630h BGB.
Draft Common Frame of Reference, libro IV, parte C. Artt.8:101-8:111.
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