Contratto
Il contratto, così come oggi lo conosciamo, è uno sviluppo e una trasformazione dell’antica categoria del ‘patto’. Il ‘patto’, mentre lo ritroviamo al centro della moderna scienza politica, non è mai stato, né tantomeno lo è oggi, una categoria della scienza economica. Non solo perché l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, non vede normalmente relazioni tra persone ma individui, ma anche perché quando cerca di descrivere le realtà collettive o sociali (come le imprese, le organizzazioni o lo stesso scambio di mercato), lo fa utilizzando due grandi categorie idealtipiche: il contratto e la mano invisibile. La scienza economica, infatti, osservando e studiando le persone, o le vede all’interno di ambiti e rapporti formali (che normalmente durano nel tempo), il cui strumento di regolazione è il contratto; oppure le vede operare nei grandi mercati, dove miriadi di soggetti agiscono indipendentemente gli uni dagli altri e normalmente in modo anonimo, e dove il meccanismo di coordinamento è costituito dai segnali dei prezzi (quel meccanismo che Adam Smith chiamava, metaforicamente, la mano invisibile del mercato).
L’impresa è il luogo principe del primo ambito; i mercati on-line sono oggi l’immagine ideale del secondo. Certo, si potrebbe obiettare che il contratto è presente sia nel primo sia nel secondo ambito, poiché sia l’impresa sia il mercato sono dei nexus of contracts. Ciò è in certo senso vero, ma – e qui sta una differenza tra l’uso della categoria del contratto in economia e in altre scienze attigue – i contratti dei mercati e quelli interni alle organizzazioni sono diversi. In quale senso? I contratti che costituiscono l’impalcatura su cui poggia la gran parte dei rapporti più significativi di cui vive un’impresa o un’organizzazione (una ONG, un’università, ma anche un ministero del governo e così via), interagiscono e si intersecano con un altro strumento, di natura e funzione diverse, che si chiama gerarchia.
Più precisamente: mentre nei rapporti dell’impresa con l’esterno (clienti e fornitori) la gerarchia non svolge alcuna funzione (le due parti sono, normalmente, su un piano di uguaglianza), nei rapporti interni, soprattutto nei rapporti di lavoro, sebbene ci si muova sempre dentro i limiti posti dai contratti (e dalle leggi), a regolare le relazioni intraorganizzative è il comando. La gerarchia è, infatti, il principale strumento per orientare il comportamento dei membri dell’organizzazione, per far sì che il loro agire come membri dell’organizzazione si possa distinguere dall’agire al di fuori di essa e che gli obiettivi degli ‘agenti’ siano allineati – grazie a opportuni incentivi e controlli – con quelli del ‘principale’, nel linguaggio della teoria economica contemporanea. Negli acquisti quotidiani che milioni di individui effettuano nei mercati, invece, non vi è alcuna gerarchia tra gli agenti, poiché ciascuno si coordina con tutti gli altri ‘senza piano’ né pianificatore (nelle parole di Friedrich August von Hayek), seguendo semplicemente i segnali dei prezzi relativi, all’interno delle regole generali di giustizia e delle convenzioni.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, esiste una branca dell’economia, particolarmente sofisticata e matematica, la cosiddetta economia dei contratti (contracts theory), che si trova al confine tra la teoria delle organizzazioni e la law and economics, e il cui principale linguaggio di analisi è la teoria dei giochi. I suoi oggetti materiali sono la teoria degli incentivi, i costi di transazione o di contratto e la teoria dell’informazione. Anche se può apparire bizzarro e a taluni forse grave dal punto di vista epistemologico, nella teoria economica contemporanea non si trova una definizione rigorosa, né tantomeno condivisa, di che cosa sia il contratto. Lo si ritrova generalmente usato come un concetto primitivo, e si analizzano e definiscono fin nei minimi dettagli altri concetti di secondo ordine logico, in particolare contratti completi e incompleti, che sono il cuore dell’intera teoria economica dei contratti, dove però si definiscono e analizzano gli aggettivi lasciando indefinito il sostantivo. Se poi guardiamo a come gli economisti di fatto usano il contratto nei loro modelli, vediamo che normalmente l’idea di contratto che hanno in mente coincide con il consenso tra due o più parti (la prima parte della definizione sopra riportata). Il principale argomento a sostegno di questa tesi ci proviene da uno dei più importanti economisti della storia della scienza economica (e statistica), l’inglese Francis Y. Edgeworth, che così scriveva nel suo classico testo Mathematical psychics:
Il primo principio della scienza economica è che ogni agente è mosso soltanto dall’interesse individuale [self-interest]. Le modalità di funzionamento di questo principio possono essere considerate secondo due aspetti, a seconda se l’agente agisce senza o con il consenso di coloro che sono coinvolti [affected] dalla sua azione. In senso ampio, la prima specie di azione si chiama guerra; la seconda, contratto (1881, p. 16).
Molta dell’attenzione dell’economia (se non tutta) nei confronti dei contratti cade sugli aggettivi del contratto, in particolare, come accennato, sui contratti completi e incompleti poiché, mentre quando un contratto è completo i modelli economici sono semplici e non particolarmente interessanti (in particolare, un contratto si definisce completo se prevede tutti gli stati di natura che possono intervenire durante il periodo di validità del contratto); quando, invece, è incompleto (perché non si possono definire tutti gli stati di natura possibili, legati sia all’azione delle parti sia a eventi esterni e/o aleatori), iniziano i lavori teorici più interessanti. Un altro filone di studi della teoria dei contratti è quello legato all’enforcement dei contratti stessi (alla presenza, cioè, di istituzioni e tribunali che fanno sì che le parti debbano eseguire le obbligazioni nascenti dal contratto, anche se cambiano idea ex post). I contratti più studiati sono quindi quelli incompleti (spesso l’incompletezza è legata all’asimmetria nelle informazioni tra le parti), e senza enforcement.
Per comprendere appieno l’idea di mercato tipica della tradizione italiana che chiamiamo economia civile, occorre leggere il contratto in rapporto all’altra categoria più antica e a esso sorella: quella di patto. La tradizione italiana economica classica (quella che denominiamo economia civile) è profondamente legata alla tradizione cristiana e cattolica, e al suo paradigma comunitario-relazionale. Il contratto, infatti, può anche essere letto come l’evoluzione della categoria antica dell’‘alleanza’ o del ‘patto’ (Supiot 2005, trad. it. 2006; Schiavone 2005).
Nella comunità antica la prima forma di legame formale e costitutivo è stata l’alleanza, che è concetto essenzialmente olistico-comunitario. L’alleanza era un patto tra comunità, non tra individui, e quasi mai basato su valori equivalenti e indipendenti da attributi di status. Nell’alleanza contano le persone (intese come ipostasi di communitas), e le cose sono dei mezzi. Nel contratto (scambio di mercato), invece, il rapporto si inverte: il centro lo occupano le cose, e le persone diventano mezzi per soddisfare preferenze individuali.
Se la preistoria del contratto era già segnata dall’alleanza e dallo scambio, quest’alleanza e questo scambio non operavano ancora una netta distinzione tra cose e persone e ricorrevano ad alcuni stratagemmi per garantirsi il controllo del tempo. Con l’alleanza, le cose sono colte solo per il tramite delle persone (Supiot 2005; trad. it. 2006, p. 112).
Il contratto, quindi, diventa progressivamente il tipico legame sociale della modernità, dove, diversamente dall’alleanza e dal patto, nel contratto «le persone sono colte per il tramite delle cose» (p. 113).
Il patto antico aveva però il limite (divenuto insostenibile per l’individuo moderno) di essere un tutto olistico, necessariamente gerarchico, come la comunità sacrale da cui è espresso e che a sua volta esprime: non è mai patto tra individui eguali, in quanto esseri umani distinti; l’uguaglianza la si ritrova, a volte, tra comunità o popoli, ma non tra singoli soggetti, tra individui. Il lungo processo di laicizzazione della società e il passaggio dall’alleanza (o patto olistico) al contratto individualistico, visto come il principale mezzo di regolazione dei rapporti economici (e oggi sempre più anche sociali), hanno attraversato la Christianitas medievale la quale ha rappresentato quell’universo comunitario in grado di fornire quel contesto di parentela spirituale entro il quale si svolgevano i contratti che, fino alla modernità, non si distinguono mai chiaramente (né in linea di principio né sul piano pratico) dall’alleanza o dal patto.
Nel Medioevo si stipulavano contratti e si scambiava, ma lo straniero era anche prossimo, proprio perché era cristiano. Un discorso specifico va quindi fatto per il rapporto con gli ebrei in Europa, e per i traffici con l’Oriente e con gli arabi che, in ogni caso, rappresentavano sempre l’eccezione.
La fraternità cristiana è stata pertanto la grande mediazione culturale che ha consentito la lenta trasformazione del patto in contratto – e non è un caso che tale operazione sia avvenuta pienamente all’interno dell’Occidente (per es., si pensi oggi alle banche islamiche). La via antica al contratto e al diritto fondato sull’idea classica di giustizia intesa come aggiustamento (iustari, nelle parole di Tommaso d’Aquino: cfr. Mancini 1990) acquistava tutto il suo significato solo all’interno di una società intesa come corpo, come un corpo composto di persone legate da un vincolo di philia (Aristotele) o spirituale e mistico (Tommaso). L’alterità del diritto antico non è mai totalmente alterità, poiché l’altro o è un alter ego (Aristotele), o un fratello in Cristo (Tommaso). L’altro, quindi, non è un totale estraneo, un totalmente altro da me. Ma ciò che è importante rilevare è che questa fraternità e amicizia civile coabitavano con lo status, nei confronti del quale la giustizia non aveva potere di iustari: per le esigenze di giustizia il diritto aggiusta le cose, non le persone, le quali restavano definite dallo status della comunità naturale, e quindi diseguale.
La giustizia antica, quella che va da Aristotele alla modernità, via Tommaso, non poteva ‘aggiustare’ una disuguaglianza di status, non poteva far sì che la donna fosse ‘aggiustata’ e resa, sul piano dei diritti individuali, come l’uomo; che un servo della gleba uscisse dalla sua condizione di inferiorità, o che un laico fosse uguale a un vescovo. Tra queste persone sostanzialmente diverse per status non scelti ma assegnati dall’ordine naturale (gerarchico) delle cose, il diritto poteva aggiustare nell’ambito delle cose (anche un feudatario poteva, almeno in linea di principio, essere condannato da un giudice a un risarcimento nei confronti di un suo servo), ma non metteva in discussione la radicale ineguaglianza tra le persone e la mancanza di libertà di quel mondo premoderno. Al tempo stesso, le persone sono tra di loro profondamente legate le une alle altre, come l’immagine del corpo (di Cristo, ma anche del re) ci ricorda; ma proprio questa stessa immagine ci dice anche che la mano non è il cuore, e che un dito non è un piede: tra le parti del corpo non si può iustari, né c’è eguaglianza, e una parte minore può essere anche sacrificata, e senza il suo consenso, se il bene del corpo lo esige.
L’aggiustamento che arriva fino agli status, cioè sulle persone e non solo sulle cose, è il risultato dell’invenzione della tradizione moderna del contratto sociale, e del conseguente progressivo «passaggio dallo status al contratto», nelle note parole di Ancient law di Henry Summer Maine (1861). L’ethos mercantile della modernità, laico e universalistico, è stato dunque il risultato di un lungo periodo di transizione nel quale i commerci avvenivano dentro le mura della città, tra cristiani, tramite la mediazione delle corporazioni di arti e mestieri: le cum-moenia consentivano il cum-munus tra chi era dentro quelle mura. I mercanti negli scambi commerciali internazionali si basavano sulla protezione politica, sulla mediazione di parenti o concittadini, o agenzie cittadine presenti in quelle lontane regioni che assicuravano la fides anche quando si scambiava con gli infedeli.
Il passaggio dalla fides medioevale all’economia moderna laica e universalistica basata sul contratto è stato dunque un passaggio lungo, che dal Medioevo arriva alla modernità. La Riforma protestante e la conseguente controriforma cattolica hanno avuto, in tale passaggio, un ruolo decisivo. Da un lato, infatti, la Riforma, nascendo anche da una reazione a un modello comunitario dove il mercato era troppo intrecciato con il regno della gratuità e dalla charis (il ‘mercato’ delle indulgenze), ha determinato una sempre più netta distinzione tra la logica del contratto e del mercato, e la logica della gratuità. Business is business, e gift is gift, sintetizza l’Umanesimo del mercato di stampo protestante e calvinista.
Smith in The wealth of nations (1776) ben interpreta questa logica di separazione, quando descrive lo scambio di mercato come logicamente e fattualmente distinto dalla logica della sfera privata. Al mercato basta il ‘mutuo vantaggio’ assicurato tra i partner allo scambio; al bene comune, al bene dei terzi esclusi dallo scambio, pensa invece la mano invisibile del mercato, che trasforma le azioni intenzionali anche in bene comune inintenzionale. Non è richiesto, né opportuno, perché il contratto di mercato produca i suoi frutti, che gli attori interiorizzino nozioni di benevolenza nei confronti non solo dei terzi rispetto al contratto, ma neanche nei confronti dell’altro contraente, il cui vantaggio è inscritto nella logica oggettiva stessa del contratto, ma non è richiesta che sia presente anche nell’intenzione della controparte. La benevolenza, in questo contesto culturale, è sinonimo di dipendenza servo-padrone, di elemosina: «Nessuno, tranne il mendicante, sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini» (The wealth of nations, 1976; trad. it. 1976, p. 27).
Qui siamo giunti a un passaggio centrale per comprendere lo specifico dell’economia civile italiana riguardo il contratto di mercato. La ‘benevolenza’ dei cittadini era esattamente quanto la tradizione aristotelico-tomista aveva in mente quando parlava di bene comune, che nasceva dall’azione intenzionale di persone disposte a rinunciare a qualcosa del bene privato (degli interessi propri) per poter costruire il bene comune, il quale dunque aveva origine dal sacrificio, da una sottrazione (dagli interessi privati). Per quella tradizione antica classica non si dava bene comune senza benevolenza intenzionale. Smith, dopo Thomas Hobbes, afferma invece che il bene comune nasce inintenzionalmente dall’azione tesa intenzionalmente al bene privato: la ricerca diretta dell’interesse privato produce indirettamente bene comune, il quale non solo non ha bisogno della benevolenza degli altri, ma viene tanto più e tanto meglio raggiunto quanto meno benevolenza è presente nelle intenzioni e nelle azioni dei soggetti coinvolti nella nuova relazione di mercato.
Nella sua Theory of moral sentiments (1759), Smith ci ricorda, infatti, che l’essere umano ha una naturale tendenza verso la simpatia, la benevolenza e la relazione immediata con l’altro, l’abbiamo visto; al tempo stesso, queste caratteristiche antropologiche e psicologiche non sono necessarie per il funzionamento dei mercati: «La beneficenza è meno essenziale della giustizia per l’esistenza della società. La società può sussistere, sebbene non nel modo migliore, senza beneficenza; ma la prevalenza dell’ingiustizia la distrugge senz’altro» (trad. it. 1976, p. 86). È poi su questa base che Smith può affermare: «La società civile può esistere tra persone diverse […] sulla base della considerazione della utilità individuale, senza alcuna forma di amore reciproco o di affetto» (II.3.2, corsivo mio).
L’economia civile, invece, leggendo il contratto come mutua assistenza ha voluto leggere l’economia moderna dei contratti all’interno di un registro pattizio, dove un patto sociale fonda anche i contratti.
Per andare oltre la relazionalità solo contrattuale della scienza economica è necessario guardare alla tradizione dell’economia civile, che è l’espressione economica della tradizione classica aristotelico-tomista (Bruni, Zamagni 2004, e Dizionario di economia civile, 2009). Qui l’idea-chiave è il contratto di mercato visto come espressione di reciprocità o, nelle parole di Antonio Genovesi, di «mutua assistenza». Come per i francescani del Tre-Quattrocento, il mercato è per Genovesi una faccenda di fides. Una parola-chiave dell’economia civile genovesiana è infatti «fede pubblica», vista come la vera precondizione dello sviluppo economico: «la confidenza è l’anima del commercio, […] senza di essa tutte le parti che compongono il suo edificio, crollano da se medesime» (G. Filangieri, La scienza della legislazione, 2003, p. 93). Nel pensiero di Genovesi vi è una sostanziale differenza tra fiducia privata (che è la reputazione, un bene privato che può essere ‘speso’ sul mercato) e fiducia pubblica: quest’ultima non è la somma delle «reputazioni» né degli «onori» privati, ma comprende anche l’amore genuino per il bene comune. Per Genovesi è proprio la mancanza di «fede pubblica» che spiega il mancato sviluppo civile ed economico del Regno di Napoli, un’analisi che a distanza di due secoli e mezzo non ha perso nulla della sua attualità.
In quel Regno, denunciava la tradizione dell’economia civile, abbondava la «fiducia privata» (intesa come legami particolaristici, legati al sangue o a patti feudali di vassallaggio), ma era troppo scarsa la fiducia pubblica e generalizzata, quella che nasce dalle virtù civili.
Sempre nelle sue Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile (Parte seconda, capitolo X), Genovesi spiega ai suoi studenti e ai suoi concittadini che la fede pubblica è soprattutto una faccenda di reciprocità genuina, e non solo di contratti. Per l’economista napoletano, la fede pubblica non è un capitale che si costruisce fuori del mercato e che poi il mercato utilizza; il mercato, invece, è concepito come parte della società civile. Per questo il suo discorso sulla fede pubblica è direttamente economico. Per Genovesi è impossibile che si sviluppi il mercato
dove la fede è per niente, sia in quella parte che costituisce la reciproca confidenza degli uni cittadini negli altri, sia nella certezza delle contrattazioni, sia nel vigore delle leggi e nella scienza e integrità de’ magistrati. […] perché dove non è fede, ivi non è né certezza di contratti, né forza nessuna di leggi, né confidenza d’uomo a uomo. Perché i contratti son legami, e le leggi civili [...] patti e contratti pubblici anch’esse (Delle lezioni di commercio, a cura di M.L. Perna, 2005, pp. 751-52, corsivo mio).
L’idea smithiana di mercato è ben sintetizzata dalla categoria di «mutuo vantaggio» su basi strettamente individuali (non vi è nulla nel suo pensiero che faccia pensare all’esistenza di soggetti collettivi, di ‘noi’), e da questa prospettiva Smith è in linea con la tradizione del contratto sociale, dove la vita in comune è giustificata dall’interesse reciproco, dal mutuo vantaggio dei singoli partecipanti al contratto. La visione di contratto di mercato di Genovesi, in linea con la tradizione italiana classica, è caratterizzata invece dalla «mutua assistenza», dove il contratto è iscritto all’interno di un patto sociale, come abbiamo potuto intuire accennando al ruolo che svolge la categoria di fides nel suo sistema.
La tradizione genovesiana dell’economia civile ha influenzato l’intera tradizione italiana. Nell’Ottocento il tema dell’incivilimento, caro a economisti come Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo o Giuseppe Toniolo, è una diretta continuazione dell’economia civile e della sua visione comunitaria. È una visione comunitaria e sociale che domina la scena, poiché la stessa nozione di incivilimento rimanda all’appartenenza a un popolo e a un destino comune. Nonostante il tentativo operato da Francesco Ferrara a metà Ottocento di creare una cesura tra la nuova e ‘vera’ teoria economica nordica (francese, tedesca, inglese) e la tradizione italiana classica, considerata non sufficientemente scientifica, l’economia civile e la sua idea di contratti visti dentro un patto appaiono vive fino ai giorni nostri nell’opera di importanti economisti. Marco Minghetti, Fedele Lampertico, Toniolo, sono stati economisti che hanno ricollegato la loro opera direttamente alla tradizione cristiana del bene comune e delle virtù civili. Va poi notato che la versione italiana del movimento cooperativo presenta caratteristiche sue proprie, che ne fanno una realtà in parte diversa dalla tradizione francese o inglese. E una nota di diversità va fatta risalire proprio alla maggiore enfasi «pattizia» e alla conseguente visione positiva del mercato, non visto come sfruttamento del forte sul debole, ma come espressione di reciprocità e di cooperazione. Infatti, a differenza della tradizione francese, quella italiana vede la cooperazione come un’applicazione concreta della vocazione generale dell’intera economia.
Per i cooperatori italiani l’impresa cooperativa era la versione, più semplice, di quella cooperazione che è alla base della divisione del lavoro, e quindi del contratto di mercato visto, sulla scia della tradizione dell’economia civile, come mutua assistenza. L’operazione tentata dunque dai teorici della cooperazione non era quella di contrapporre la loro visione mutualistica a quella economica dominante, ma quella di leggere e interpretare l’economia di mercato come una faccenda di cooperazione o di mutua assistenza (secondo la visione di Genovesi) e non di confitto di interessi (come faceva invece la tradizione marxista). Ugo Rabbeno specifica che la funzione industriale «esercitata collettivamente serve a soddisfare soltanto i bisogni di coloro che la esercitano» (1889, p. 434). Ghino Valenti sottolinea che la differentia specifica dell’impresa cooperativa la si trova nell’intento «di ristabilire l’equilibrio distributivo» (1902, p. 43). Non quindi soppressione del profitto, ma un’esigenza di maggiore equità nella distribuzione del sovrappiù aziendale: «Non, dunque, lotta di classe, ma collaborazione degli operai coi contadini e con la borghesia» (Virgilii 1924, p. 14).
Da un certo punto di vista si può dunque condividere la critica che Maffeo Pantaleoni (1925) rivolse alla cooperazione, quando affermava che in essa non si ritrovava un principio specifico rispetto all’impresa ‘normale’; ma, diversamente da Pantaleoni, che rintracciava questo unico principio nell’egoismo (‘individuale’ nell’impresa tradizionale, ‘di specie’ in quella cooperativa), nella prospettiva dell’economia civile quello stesso principio va individuato nella mutua assistenza.
Il contratto di mercato interpretato e vissuto come mutuo vantaggio si pone, allora, al cuore dell’intera tradizione civile italiana, rappresentandone il suo muro maestro.
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