Contratto
Tra secondo e terzo millennio
L’immagine del contratto, che questo primo scorcio del terzo millennio ci restituisce, sembra poter essere descritta, a una prima vista di insieme, nei termini dell’accelerazione e, in alcuni casi, del compimento di talune tra le linee di sviluppo – sul versante normativo, così come su quello giurisprudenziale e dottrinale – già presenti nella fase finale del 20° secolo. Una breve ricognizione introduttiva di temi e argomenti, alcuni dei quali saranno, poi, destinati a trovare una più ampia trattazione nel prosieguo di questo saggio, pare legittimare senz’altro questa ipotesi di lettura, pur fornendo, al tempo stesso, elementi tali da imporre una maggiore problematizzazione della medesima.
Così, se la contrapposizione tra parte generale e parte speciale del contatto aveva costituito uno degli snodi sui quali si era imperniata la riflessione dello studioso del contratto negli ultimi anni del secolo scorso, essa si ripropone, anche da ultimo, all’attenzione della dottrina, ma articolandosi e complicandosi ulteriormente.
Infatti, l’ultimo periodo del 20° sec. pareva esibire senz’altro una perdita di terreno della parte generale del contratto, destinata a cedere il campo alle discipline speciali e di settore; ora, tuttavia, quel sia pure assai peculiare fenomeno di ricodificazione, che ha scandito i primi anni del 21° sec. (e che, nella materia contrattuale, trova il suo punto di emersione più significativo nel Codice del consumo, d. legisl. 6 sett. 2005 n. 206), sembra aspirare a creare una regolamentazione generale della materia dei contratti del consumatore: tale da candidarsi al ruolo di vero e proprio sottosistema, articolato su categorie che ambiscono, al suo interno, ad assumere una portata generale. Particolarmente significativa, in tal senso, la scelta del legislatore del Codice del consumo di recepire la categoria dottrinale della nullità di protezione, a essa intitolando l’art. 36, pure in presenza di meditate perplessità in ordine all’effettiva idoneità della nullità di protezione ad assurgere a categoria ordinante del sistema delle nullità cosiddette speciali.
Ancora, e del resto in termini connessi con le linee problematiche appena ricordate, anche se imperniati non più su una questione di conformazione del sistema normativo, bensì di rationes sottostanti alle scelte legislative (Roppo 2007, p. 669), l’interrogativo circa la possibilità di leggere il sistema del diritto dei contratti attraverso il prisma della suddivisione di esso in aree, definite in relazione alle qualità soggettive, o allo status, dei contraenti ovvero alla loro forza economica o informativa nella dinamica della contrattazione, si approfondisce, nei primi anni del nuovo millennio, attraverso la riflessione sulla categoria del terzo contratto. È il contratto che, giustapponendosi ai due modelli generali del primo contratto (il contratto di diritto comune tra contraenti privi di specifiche qualificazioni socioeconomiche o, per i quali, queste qualificazioni comunque non rilevino: i contraenti senza qualità, verrebbe fatto di dire) e del secondo contratto (il contratto fra professionisti e consumatori) dovreb-be comprendere l’area dei rapporti contrattuali tra imprenditori, dei quali uno non sofisticato, nonché l’area dei rapporti contrattuali tra consumatori e altre ipotesi di rapporti contrattuali, non riconducibili né al primo, né al secondo contratto (Pardolesi 2004, pp. XIII-XIV; Il diritto europeo dei contratti d’impresa, 2006; Amadio in Il terzo contratto, 2008, pp. 11 e sgg.).
Dal canto loro, i progetti di regolamentazione uniforme a livello europeo della categoria del contratto, che si sono venuti succedendo nel corso dei primi anni del 21° sec., dai Principi di diritto europeo dei contratti (2001) al Draft common frame of reference (Principles, definitions and model rules of European private law, 2008), delineano sovente un ambito in cui la nozione di contratto si presenta, come è stato efficacemente detto, prosciugata come una sorta di osso di seppia (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, p. XXIII) e, dunque, depurata da ogni elemento, quale per es., quello, fortemente denotato ideologicamen-te, della causa del contratto, in grado di renderne più difficile la condivisione a opera dei diversi sistemi giuridici; con il corollario che una nozione di contratto ridotta all’essenza della volontà di vincolarsi giuridicamente e dell’esistenza di un accordo sufficiente, risulta tale da consentire un’esplicazione assai più ampia dell’autonomia privata.
La considerazione del rapporto tra norme di derivazione comunitaria e atto di autonomia privata, sulla premessa che le prime siano finalizzate a perseguire obiettivi minimi di tutela di specifiche categorie di contraenti, e dunque inderogabili (se non in termini tali da assicurare ai beneficiari dell’esigenza di protezione, tenuta presente dal legislatore, una tutela ancora più elevata), determina, invece, un incremento quantitativo delle norme imperative all’interno dei singoli ordinamenti nazionali in sede di attuazione delle direttive. È causa poi dell’alterazione di quello che è stato definito (Roppo 20052, p. 13) come il mix che tradizionalmente componeva la disciplina legale dei tipi e delle classi di contratto e che vedeva prevalere le norme dispositive o suppletive, ora, invece, recessive di fronte alle norme di derivazione comunitaria.
Comune a tutte le linee evolutive della riflessione sul diritto dei contratti fin qui tratteggiate, e suscettibile, del resto, di essere colto anche all’interno di quelle delle quali verrà accennato più avanti è, poi, lo snodo problematico dei rapporti tra autonomia privata e tecniche di regolazione del mercato, affrontato ora con la chiara consapevolezza degli elementi di novità che determina il sempre più penetrante operare, anche in questa materia, dell’attività di regolamentazione delle autorità indipendenti (Gitti 2006, pp. 11 e sgg.) e secondo una prospettiva attenta ai rapporti tra intervento del giudice e autonomia delle parti (Albanese 2008).
Il quadro, articolato e mosso, se non per certi versi contraddittorio, che emerge dalle brevi considerazioni fin qui svolte, non potrebbe dirsi completo se non proponesse quanto meno un cenno ad altri aspetti problematici, di quello che è stato definito ‘nuovo’ diritto dei contratti (Il nuovo diritto dei contratti, 2004), che i primi anni di questo secolo hanno proposto o riproposto.
Si intende alludere, in particolare e per comincia-re, alla ripresa di attenzione per il problema del neoformalismo negoziale, ben presente, com’è noto, alla produzione normativa e alla riflessione dottrinale del 20° secolo, ma con riferimento al quale, in questo primo scorcio di 21° sec., pare essere stata acquisita una sempre maggiore consapevolezza delle nuove funzioni cui il formalismo negoziale è ormai chiamato, sottolineandosi come esso attesti «il passaggio da un tipo di regolazione giuridica del mercato fondata su norme imperative autoritative a un tipo di regolazione dal basso, che passa per la standardizzazione ed il governo degli strumenti», con un intervento regolatore destinato ad attuarsi non più in sede di predeterminazione legale degli effetti, bensì già al momento della formazione del contratto (Modica 2008, p. 301).
Il riferimento è, poi, alla rinnovata attenzione per il tema delle clausole generali che, pur affondando anch’essa le proprie radici in sviluppi caratteristici degli ultimi decenni del secolo scorso, ha trovato, da ultimo, manifestazioni particolarmente significative nella giurisprudenza della Corte di cassazione, sovente presentandosi coniugata con il problema della giustizia contrattuale e della possibilità di intervento del giudice sul contenuto dell’atto di autonomia privata (Barcellona 2006, pp. 257 e sgg.). L’intervento del giudice sul contenuto dell’atto di autonomia privata configura un’ulteriore, e concorrente, prospettiva di attacco al valore dell’intangibilità o forza di legge del contratto, pure allo stato ancora sancito dall’art. 1372 c.c., parallelo a quello che, già nell’ultimo decennio del secolo scorso, erano venute delineando le varie ipotesi di recesso di pentimento del consumatore e cioè del potere riconosciuto al medesimo di sciogliersi dal vincolo contrattuale, come reazione a una contrattazione conclusa con modalità particolarmente aggressive e tali da non permettere al consumatore un’adeguata motivazione della scelta negoziale assunta (Roppo 20052; De Nova 2008, pp. 21 e sgg.).
Quanto al versante dei rimedi che possono derivare dalla violazione di obblighi discendenti dal contratto, un accreditamento sempre più convinto viene riservato al risarcimento del danno non patrimoniale (Scognamiglio in Il contratto e le tutele, 2002, pp. 467 e sgg.; fondamentale sul punto, da ultimo, Cass. sezioni unite 11 nov. 2008 n. 26972), indice sistematico sicuro, quello in esame, della sempre più marcata idoneità del contratto a farsi strumento di tutela anche dei cosiddetti valori postacquisitivi.
Non potrebbe, infine, mancare, in questa sede di prima ricognizione delle linee di sviluppo della riflessione sul tema del contratto, un cenno agli aspetti che assume, nella dimensione della contemporaneità, il rapporto tra il contratto e la realtà economico-sociale, i conflitti esibiti dalla quale esso aspira a governare. E qui assume un particolare rilievo, innanzitutto, la considerazione della dimensione globale che hanno assunto, con intensità crescente proprio nell’ultimo decennio, i fenomeni dell’economia e delle ricadute che ne sono derivate; ricadute apprezzabili, almeno allo stato, non tanto su aspetti di disciplina del contratto quanto sul modo stesso di porsi del medesimo, all’interno di un diritto che appare sempre più ‘liquido’ e fluido, come tale incapace di assolvere alla «funzione di rafforzamento delle aspettative degli attori giuridici», operando piuttosto «come uno strumento composito e pragmatico di gestione dei rischi connessi a interazioni dominate dall’incertezza» (Bauman 1999; trad. it. 20068, p. 85). Mentre, anche qui sviluppan-do e, per certi versi, esasperando tendenze in atto già nella parte finale dello scorso secolo, lo stesso strumento tecnico del contratto ‘isolato’ appare ormai inadeguato allo scopo di fronte a un referente economico dell’attività negoziale sempre più complesso e che conduce, talora, all’aggregarsi di contratti in reti, destinati a disciplinare rapporti economici tra imprese operanti in un’area determinata in modo, appunto, più liquido e fluido rispetto a quanto non fosse dato fare con strumenti già noti e collaudati nella prassi come nell’esperienza normativa, quale, per es., il contratto di consorzio (Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa, 2007).
Parte generale e statuti speciali. Verso il terzo contratto?
La figura unitaria del contratto e i contratti dei consumatori
L’esigenza di concentrare la nostra attenzione, in sede di trattazione delle questioni relative al contratto, su quelle sorte nei primi anni del terzo millennio, im-pone di considerare quali termini di un dibattito già acquisito quelli su cui si era imperniata la riflessione dottrinale in materia nella parte finale del 20° sec. e di volgerci, dunque e senz’altro, agli aspetti nuovi e originali delineatisi in questi ultimi anni.
In relazione a tale premessa, un adeguato punto di partenza della riflessione può essere rappresentato dalla notazione di chi, proprio agli albori di questo secolo, ha rilevato che, dopo l’abbandono – consumatosi nella fase finale del 20° sec. – della categoria del negozio giuridico come categoria ordinante, e l’assunzione di un ruolo analogo da parte del contratto, non si è tardato a revocare in discussione che lo stesso contratto possa assumere la funzione di figura generale e, appunto, ordinante del sistema dell’autonomia privata. Al riguardo la constatazione che si è rapidamente imposta è stata quella della sussistenza di differenze troppo grandi «tra contratti tra imprenditori, contratti del consumatore, contratti tra privati, contratti collettivi e contratti della Pubblica Amministrazione perché se ne possa trattare unitariamente» (De Nova 2008, pp. 5 e sgg.).
In effetti, una ricognizione necessariamente a campione, o per problemi sintomatici, dell’assetto della disciplina dei singoli tipi contrattuali sembra confermare la conclusione nel senso che, anche per la categoria del contratto, il diritto della modernità si caratterizza in termini di moltiplicazione, se non frammentazione, dei diversi statuti normativi, secondo una linea evolutiva analoga a quella che il Novecento aveva già conosciuto per altri istituti fondamentali del diritto privato, dalla proprietà al danno.
Si pensi, soltanto a titolo esemplificativo, al tema dell’interpretazione del contratto e cioè a quel momento del rapporto tra atto di autonomia privata e ordinamento che, attenendo alla recezione stessa del primo da parte del secondo, può assumere, per molti versi, un significato simbolico delle complessive strategie di regolamentazione dell’agire negoziale adottate dall’ordinamento.
Infatti, anche la materia della interpretazione del contratto, benché imperniata, come essa è, su una parte generale, racchiusa all’interno degli artt. 1362, 1371 c.c. di risalente e nobile tradizione culturale, pare conoscere, a sua volta, e negli ultimi anni, un fenomeno di relativizzazione dei criteri che dovrebbero governarla.
Un primo, e probabilmente il più immediato, livello di lettura della dialettica tra disciplina generale e disciplina di settore, all’interno del tema dell’interpretazione del contratto, può essere costituito dalla materia dell’interpretazione del contratto del consumatore (Martuccelli 2000). Essa, infatti, rappresenta il solo luogo normativo dove una regola ermeneutica nuova (almeno dal punto di vista della conformazione della stessa) sia stata in effetti posta, nel contesto di un sottosistema disciplinare, qual è appunto quello del diritto dei consumatori, caratterizzato, non solo, e sotto molti profili, da aspetti di specialità rispetto alla regolamentazione generale del contratto, ma anche dalla sua aspirazione a offrire le linee di ricostruzione di un – sia pure peculiare – sistema, ispirato a una finalità unitaria e che si avvale di tecniche normative o costruttive tendenzialmente ricorrenti.
L’esame del contenuto della disposizione dell’art. 35, 2° co., del Codice del consumo, al quale è affidata la disciplina dell’interpretazione del contratto del consumatore, nella prospettiva di una riflessione sui rapporti tra disciplina generale del contratto e statuti speciali dell’autonomia privata, offre, almeno a una prima considerazione, l’impressione di un significato modesto della disposizione stessa. A tal punto essa pare costituire semplicemente la replicazione di una regola ermeneutica, già da tempo presente nel sistema, qual è quella dell’art. 1370 c.c., la quale, a sua volta, disciplinando, com’è noto, il problema della contrattazione per condizioni generali o per moduli e formulari predisposti da uno dei contraenti, impone di intendere, nel dubbio, il significato della clausola in termini sfavorevoli alla parte che l’abbia predisposta.
Va tuttavia considerato che il complessivo sottosistema dell’interpretazione dei contratti del consumatore palesa, in effetti, un elemento di novità significativo e che rende conto della particolare curvatura funzionale – la tutela del contraente consumatore – assunta dalla disciplina oggetto di esame. Infatti l’art. 35, 3° co., Codice del consumo prevede che il criterio interpretativo dettato dal 2° co., nel senso di privilegiare, in caso di dubbio sul senso di una clausola, quello più favorevole al consumatore, non trovi applicazione nell’ipotesi dell’azione inibitoria collettiva disciplinata dall’art. 37 Codice del consumo. In altre parole, quando l’attribuzione alla clausola del significato più favorevole per il consumatore sarebbe tale da determinare una minore tutela per il medesimo, rispetto a quella che potrebbe derivare dalla radicale inibizione all’uso della medesima da parte del professionista, prevale il rimedio in grado di paralizzare, attraverso l’inibitoria collettiva, l’uso della clausola rispetto al rimedio che si attesti semplicemente sul piano dell’interpretazione.
Si conferma, così, lo statuto peculiare che assume la disciplina dell’interpretazione dei contratti del consumatore rispetto alla disciplina di parte generale del contratto, benché si debba precisare che la particolare modalità di formazione dei contratti tra professionista o consumatore (o unilateralmente commerciali) non escluda la possibilità di ravvisare, nell’ambito degli stessi, una comune intenzione che si tratterà, alla fine, di ricostruire, secondo le regole generali dettate dal codice civile. In altre parole, una volta che sia stata comunque accertata la formazione del consenso, e/o l’espletamento di una trattativa individuale, sulle clausole pure predisposte dal professionista, la ricostruzione della loro portata dovrà muovere proprio dall’applicazione delle regole ermeneutiche codicistiche. Queste potranno costituire, anzi, e proprio laddove pongono l’accento sulla necessità di avere riguardo alla comune intenzione dei contraenti, un primo livello di tutela del consumatore.
Dall’angolo visuale del tema – quello dell’interpretazione – prescelto per saggiare il problema dei rapporti tra parte generale del contratto e disciplina dei contratti del consumatore, l’assetto della materia si presenta, dunque, meno univoco, nel senso della perdita di centralità della disciplina codicistica, di quello che non potrebbe sembrare a prima vista; e la regolamentazione di parte generale mantiene una sua idoneità a venire in considerazione quale referente di disciplina della materia.
D’altra parte, la circostanza che la disciplina dei contratti del consumatore si innesti, comunque, nell’alveo della regolamentazione di parte generale del contratto risulta dalla norma di raccordo tra la disciplina del Codice del consumo e quella del codice civile, che è quella dell’art. 38 Codice del consumo, in forza del quale «per quanto non previsto dal codice, ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista si applicano le disposizioni del codice civile», cui corrisponde, all’interno del codice civile, l’art. 1469 bis (secondo il quale «le disposizioni del presente titolo si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli»).
I contratti d’impresa e la categoria del terzo contratto
Un’articolazione della categoria contrattuale di sempre maggiore importanza nell’elaborazione dottrinale degli anni più recenti è quella che ha riguardo all’area dei contratti bilateralmente d’impresa; in effetti le ragioni di interesse di quest’ultima si ricollegano a due fenomeni concorrenti.
Da un lato, l’area dei contratti bilateralmente d’impresa si configura come complementare rispetto a quella dei contratti dei consumatori, nella misura in cui entrambe presidiano il corretto funzionamento dei meccanismi di mercato. Questi ultimi, infatti, possono essere alterati, sia pure con modalità e con gradi di incisività diversi, sia da accordi che compromettano la possibilità di scelta del consumatore finale, in occasione del singolo atto di scambio del bene o di acquisizione del servizio, sia da accordi restrittivi della concorrenza, come tali idonei ad alterare il funzionamento del mercato nella sua dimensione macroeconomica, accordi che si configurano ovviamente come contratti bilateralmente d’impresa.
Dall’altro lato, i contratti tra imprenditori, nei limiti in cui si tratti di contratti tra imprenditori in condizioni di asimmetria di potere contrattuale, sembrano riproporre dei temi non dissimili, per alcuni aspetti, rispetto a quelli investiti dall’area dei contratti dei consumatori.
È appunto con riferimento ai contratti tra imprenditori in contesti di asimmetria di potere contrattuale che si è sviluppato il discorso, cui si faceva cenno, del cosiddetto terzo contratto (Pardolesi 2004; Di Marzio 2007, p. 31), categoria che rinviene un proprio tratto aggregante, sul piano normativo, nell’esistenza di un corpo di regole che sono destinate appunto a reprimere l’abuso di potere contrattuale, in ipotesi posto in essere dalla parte contrattualmente più forte in danno di quella più debole.
Possono, infatti, essere richiamati, in tale prospettiva, interventi normativi che si situano, per la gran parte, proprio nei primi anni del nuovo secolo. Dopo un primo punto di emersione in tal senso, desumibile dall’art. 9 della legge sulla subfornitura (18 giugno 1998 n. 192), che sancisce il divieto dell’abuso, «da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice», con la precisazione che si considera dipendenza economica «la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi» e con l’assunzione, quale criterio di giudizio della dipendenza economica «anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti», la ratio normativa di reprimere «l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore» si rinviene chiaramente nella disciplina dettata, in attuazione della direttiva 2000/35/CE, sulla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, dall’art. 7 d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231. Quest’ultima disposizione, infatti, stabilisce la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi che, avuto riguardo «alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi nonché ad ogni altra circostanza», possa risultare «gravemente iniqua» in danno del creditore. E il 2° co. dello stesso articolo precisa che si considera «gravemente iniquo l’accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l’accordo con il quale l’appaltatore o il subfornitore principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concesso».
In un altro contesto normativo, quello desumibile dalla disciplina dell’affiliazione commerciale contenuta nella l. 6 maggio 2004 n. 129, la predisposizione di regole intese a evitare il rischio dell’abuso si risolve in una disciplina particolarmente analitica delle fasi di formazione del contratto, sia sotto il profilo degli obblighi di comportamento e di informazione gravanti sulle parti – e specificamente sull’affiliante – sia sul piano della determinazione del contenuto del contratto stesso. Possono essere, in tale prospettiva, richiamati: l’obbligo dell’affiliante di consegnare alla controparte una copia del contratto da sottoscrivere (forma e contenuto minimo del quale sono oggetto di disciplina dettagliata nell’art. 3), corredata da allegati (regolamentati all’art. 4), che consentano una piena conoscenza, da parte dell’affiliato, della natura dell’affare; gli obblighi di informazione precontrattuale (art. 6), sanzionati espressamente con l’annullamento del contratto e il risarcimento del danno secondo le previsioni dell’art. 8 e ancora la previsione di durata minima del contratto, commisurata all’esigenza di garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni.
La ricognizione di questi recentissimi dati normativi fin qui svolta consente di confermare la conclusione, persuasivamente formulata, secondo la quale gli stessi si aggregano appunto intorno al problema delle asimmetrie di potere contrattuale, che assumono un rilievo particolare «in rapporti, come quelli che corrono tra imprese verticalmente integrate, dove la dipendenza economica di una parte è frequente nella prassi e condiziona relazioni di lunga durata, caratterizzate da una pluralità di contratti conclusi in successione nell’ambito di uno specifico quadro relazionale» (Di Marzio 2007, p. 31): i relational contracts.
Individuata così la nozione di dipendenza economica come fulcro sul quale si imperniano le disposizioni appena esaminate, la stessa rinviene un tratto di regolamento unificante nella premessa, condivisa dalla dottrina pressoché unanime, che ritiene la portata applicativa generale della disposizione in tema di divieto dell’abuso di posizione dominante, contenuta nell’art. 9 della l. 18 giugno 1998 n. 192, così confermandosi la conclusione secondo la quale «nelle relazioni di integrazione e coordinamento produttivo tra imprese (che del terzo contratto tipicamente rappresentano il contenuto) lo squilibrio tenderà a realizzarsi proprio sul terreno delle condizioni economiche del rapporto» (Amadio in Il terzo contratto, 2008, p. 21).
Vi è tuttavia da dubitare se, al di là di quest’aspetto di disciplina certamente unificante dell’area dei contratti tra imprese che si trovino in una situazione di asimmetria di potere informativo, sia davvero possibile ravvisare gli elementi costruttivi idonei a delineare una categoria concettuale e, dunque, prima ancora, normativa.
Infatti, come è stato pressoché unanimemente notato in dottrina, al contrario di quanto accade per la disciplina dei contratti dei consumatori, l’area del terzo contratto è ancora sprovvista di una disciplina generale e unitaria, diversa e ulteriore dalla già sottolineata possibilità di applicazione espansiva della norma in tema di abuso di dipendenza economica (D’Amico in Il terzo contratto, 2008, p. 40; Di Marzio 2007, p. 32); mentre la ratio di repressione delle ipotesi di abuso del potere contrattuale, utile a descrivere l’ispirazione di fondo delle discipline normative richiamate, non è idonea di per sé a costruire una categoria, di fronte alla diversità di tecniche a mezzo delle quali quella ratio viene realizzata.
Appare, allora, pienamente condivisibile, sul punto, la conclusione, cui è pervenuta anche di recente la dottrina, secondo la quale la categoria del terzo contratto, almeno allo stato attuale dell’evoluzione normativa, non esprime «una tutela dell’impresa debole così unitaria ed autosufficiente da poterne discorrere nei termini della categoria dogmatica», integrando semmai «un insieme di regole al momento alquanto disomogenee e forse in evoluzione verso una categoria, il cui nucleo ad un tempo espansivo ed aggregante è dato dal divieto di abuso di dipendenza economica» (Di Marzio 2007, p. 32). Benché, e per così dire in ne-gativo, il valore costruttivo della categoria del terzo contratto possa dirsi confermato dalla considerazione che, quando vengano in gioco contratti tra imprese non in posizione di asimmetria di potere contrattuale, i problemi che si pongono sono radicalmente diversi rispetto a quelli fin qui esaminati, attenendo semmai, e da un lato, come in precedenza si accennava, al controllo di validità delle intese imprenditoriali nella prospettiva delle regole disciplinatrici della concorrenza, dall’altro alla collocazione del contratto all’interno delle dinamiche dell’economia globale.
Profili di diritto privato europeo dei contratti
I modelli e la causa del contratto
Tra i tanti angoli visuali che la considerazione degli sviluppi e delle prospettive del diritto privato europeo dei contratti può suggerire, la scelta di utilizzare, quale prospettiva di osservazione, quella della fisionomia assunta dall’elemento della causa del contratto appare giustificata, innanzitutto, dal rilievo che tale problema, al di là della sua dimensione più propriamente tecnica, inevitabilmente estranea alla nostra trattazione, costituisce il punto di emersione forse più significativo del complessivo atteggiamento assunto da ciascun ordinamento nei confronti dell’atto di autonomia privata.
Infatti, è proprio all’elemento della causa che è storicamente stato assegnato il momento del controllo, da parte dell’ordinamento, relativo alle vicende circolatorie della ricchezza che si attuano con il contratto: e guardare alla causa del contratto consente, dunque, di comprendere in quale modo l’ordinamento intenda in effetti regolare gli atti di trasferimento della ricchezza.
L’interesse di una riflessione condotta da questa prospettiva è, poi, rafforzato dalla constatazione del divario, all’apparenza davvero macroscopico, tra l’assetto del sistema giuridico italiano e quello che emerge dalle codificazioni colte e cioè dai progetti o modelli di regolamentazione del diritto privato dei contratti, in ambito internazionale o soltanto europeo, che si sono venuti succedendo negli ultimi anni e, in particolare, proprio nei primi di questo secolo.
Tali progetti, infatti, in materia di causa, restituiscono l’immagine di un radicale rifiuto del concetto, dal quale quei progetti sembrano, in maniera pienamente consapevole, voler prescindere: al punto che un passaggio ormai obbligato della letteratura che tenta di tracciare le linee di sviluppo della possibile disciplina unitaria, a livello europeo, della materia contrattuale è appunto quello che si cimenta con il tentativo di comprendere le ragioni della scomparsa, o della ‘morte’, per riprendere l’espressione icasticamente, e sia pure problematicamente, preferita da un autore (Breccia in Il contratto e le tutele, 2002, p. 241) della causa.
Sia i Principi dei contratti commerciali internazionali elaborati dall’UNIDROIT, sia i Principles of European contract law approntati a cura della Commissione Lando, sia il Draft common frame of reference (DCFR) individuano i requisiti costitutivi del contratto prescindendo del tutto dal profilo della causa: e si tratta, com’è ovvio, di una scelta non solo consapevole, ma anche essenzialmente giustificata proprio dall’esigenza di individuare una nozione di contratto depurata dai requisiti della causa e della consideration, rispettivamente accreditati, il primo, in diverse esperienze giuridiche dell’area di civil law, e il secondo in quella di common law.
Preziose sono, in questo senso, le indicazioni che provengono dall’apparato di commento ufficiale ai Principi di diritto europeo dei contratti (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, p. 148), dove si precisa che, all’interno della disposizione dell’art. 2:101, «le parole ‘non è richiesto alcun altro requisito’ significano che i Principi non richiedono né consideration né causa», evidenziandosi invece, in sede di commento, la centralità dell’elemento attinente all’intenzione delle parti «di essere giuridicamente vincolate», da ricostruirsi alla stregua della nozione dell’art. 2:102 («la volontà di una parte di vincolarsi giuridicamente è quella che si ricava dalle dichiarazioni e dalla condotta di essa, così come sono state ragionevolmente comprese dall’altra parte»).
In presenza di questi dati di riflessione, secondo una prima linea ricostruttiva, la scelta di rimuovere dal novero degli elementi essenziali del contratto il concetto di causa – così come quello, che riconduce a un’analoga area di questioni, di consideration nell’area di common law – e, dunque, di affermare il valore vincolante del nudo patto, si ricollega, innanzitutto, alla estrema problematicità che ha sempre caratterizzato le due nozioni: pur essendo stata la radicale opzione dei principi preparata da «atteggiamenti parimenti increduli della imprescindibilità, rispettivamente, della causa e della consideration» (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, p. XXV).
Infatti, così si osserva, la questione della causa sembra, da un lato, trovare automatica soluzione positiva «ogni volta che il contratto non abbia decampato dal tipo legale», mentre, dall’altro, «il controllo che la causa intendeva esercitare si è spostato sul terreno del contenuto, come nella disciplina delle clausole abusive» ovvero attraverso l’attribuzione di diritti e doveri accessori, come quello di recesso e quelli di informazione. Attraverso questi ultimi, pur quando il contratto non si manifesti come immeritevole di tutela, «la situazione materiale o lo status in cui una parte lo ha stipulato induce l’ordinamento a consentire a tale parte di sciogliere il vincolo, con lo stesso risultato economico che si conseguirebbe con la nullità» (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, p. XXVI).
D’altra parte, la riduzione a essenza della figura del contratto, consumatasi nell’ambito dei Principi di diritto europeo dei contratti, rendeva probabilmente necessario «il disinnesco degli aspetti di eteronomia, traducentisi in una integrazione del contratto mediante altro da ciò che sia riconducibile alla pura autonomia delle parti» e, dunque, il superamento di una considerazione del contratto come strumento di politica economica, accreditata nell’ambito della concezione originaria del codice civile italiano e sostanzialmente non superata, in un primo momento almeno, neppure dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: all’esito della quale si era potuto, sotto taluni profili, registrare «un incremento della zona controllata, che non è più soltanto quella dei fini generali dell’ordinamento, ma diventa quella dei fini specifici che al singolo tipo contrattuale l’ordinamento stesso assegna, ad essi funzionalizzando l’atto di autonomia privata» (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, p. XX).
Un’opzione analoga sembra ora quella accreditata all’interno del DCFR il quale assume, come premessa assiologica della sistematica del contratto in esso contenuta, quella della tendenziale idoneità dell’esercizio della libertà del contratto a condurre a un assetto «giusto» (leads to justice), almeno tutte le volte in cui le parti del contratto siano pienamente informate e in una posizione simmetrica in sede di trattative (Principles, definitions and modern rules of European private law, 2008, p. 14). Di contro le tecniche di intervento sulla libertà contrattuale, giustificate in caso di asimmetrie informative e di mancanza di potere negoziale, debbono comunque essere ispirate alla regola dell’intervento minimo e, dunque, proporzionato rispetto all’esigenza di tutela.
Secondo l’impostazione del DCFR, dunque, l’intervento potrà esaurirsi, se ritenuto congruo, nell’attribuzione alla parte contraente, in posizione di asimmetria informativa, delle informazioni idonee a valutare l’affare; mentre solo se si dovesse ritenere che la parte stessa neppure sia in grado di sfruttare l’informazione che le sia stata data, si potrà ipotizzare un intervento imperativo sul contenuto del contratto. Quest’ultimo verrà comunque in considerazione come un rimedio estremo, dopo che, nel caso di specie, sia risultato insufficiente anche l’utilizzo del criterio di fairness, da intendersi, in questo caso, come obbligo di trasparenza sul contenuto della clausola, potenzialmente tale da svantaggiare la parte che la subisce. E la trattazione che il DCFR contiene delle varie articolazioni del test di fairness, diversificate a seconda che si tratti di contratti tra un professionista e un consumatore (art. 9:404), tra non professionisti (art. 9:405) ovvero tra professionisti (art. 9:406), costituisce un’ulteriore conferma, sul piano della disciplina di diritto privato europeo, della sempre maggiore importanza di un discorso attento al moltiplicarsi delle categorie dei contratti e alla loro irriducibilità a una nozione unitaria.
La causa e il problema dell’equilibrio contrattuale
L’assenza di qualsiasi riferimento alla nozione di causa nei progetti di diritto privato europeo, e la constatazione che tendenzialmente le tecniche di controllo utilizzate sono diverse nei modelli di diritto privato europeo dei contratti, non rende peraltro arbitraria un’opera di individuazione, in quell’ambito, delle tracce della presenza della causa del contratto (Ferri 2008, pp. 449 e sgg.); e da quest’angolo visuale può essere affrontato il problema del sindacato giudiziale circa la congruità dei termini dello scambio concordato dai privati, ritenuto talora praticabile proprio dalla prospettiva della causa del contratto.
Infatti, è proprio l’elaborazione del tema della causa del contratto, nell’ambito della quale, almeno fino a epoche abbastanza recenti, sembrava essere esclusa qualsiasi verifica circa il rapporto di valore tra prestazione e controprestazione pattuita, ad avere mostrato, per prima, i punti di emersione di un’attitudine diversa nei confronti del problema dell’adeguatezza dello scambio nei contratti a prestazioni corrispettive. E ciò è attestato dalle enunciazioni giurisprudenziali che, già negli anni Ottanta del secolo scorso, equiparavano, sul piano del controllo causale, le ipotesi di prezzo vile o inadeguato e di prezzo apparente, configurando entrambe come altrettanti casi di nullità per assenza di causa.
I progetti di diritto privato europeo dei contratti, ai quali siamo venuti fin qui facendo cenno, sembrano ora riproporre tecniche di controllo dell’equivalenza dei termini dello scambio, e di reazione a una non equivalenza eventualmente riscontrata, con modalità assai più penetranti di quelle che, probabilmente, lo strumento della causa avrebbe consentito.
Si consideri, in quest’ordine di idee, l’art. 4:109 dei Principles in tema di «ingiusto profitto o vantaggio iniquo», secondo il quale «una parte può annullare il contratto se, al momento della conclusione di esso: a) fosse in situazione di dipendenza o avesse una relazione di fiducia con l’altra parte, si trovasse in situazione di bisogno economico o avesse necessità urgenti [...] b) l’altra parte era o avrebbe dovuto essere a conoscenza di ciò e, date le circostanze e lo scopo del contratto, ha tratto dalla situazione della prima un vantaggio iniquo o un ingiusto profitto».
Analoga previsione è contenuta nell’art. II-7:207 del DCFR, in tema di unfair exploitation, che attribuisce a una parte il potere di annullare il contratto se, al momento della conclusione del contratto, «a) la parte era dipendente dall’altra o intratteneva con questa una relazione di fiducia; aveva una situazione di difficoltà economica o aveva necessità economiche urgenti; era stata improvvida, ignorante della situazione o priva di esperienza o di capacità negoziali; e b) l’altra parte era a conoscenza della situazione o poteva con ragionevolezza averne, date le circostanze e la finalità del contratto e sulla base di queste ha sfruttato a proprio vantaggio la situazione della controparte, garantendosi un guadagno eccessivo o un vantaggio palesemente sproporzionato rispetto al contesto», con l’attribuzione al giudice, su richiesta della parte interessata, del potere di adeguare il contratto alle condizioni che sarebbero state pattuite tra le parti in conformità ai criteri di buona fede e correttezza.
Si tratta allora di verificare se un concetto di causa, qual è quello che si è venuto delineando nella più recente dottrina sul tema (Scognamiglio in Trattato del contratto, 2006, pp. 85 e sgg.), attento all’esigenza di verificare l’effettiva razionalità dell’affare, possa offrire un contributo a un’impostazione aggiornata del tema della giustizia del contratto.
Questo interrogativo, del resto, risulta particolarmente delicato, poiché, facendo una considerazione appena più approfondita e attenta dei dati che ci vengono sottoposti dalla più recente evoluzione normativa, il quadro tradizionale, nel senso della indifferenza dell’ordinamento al rapporto di scambio tra le prestazioni, risulta ben più articolato e mosso. Esso è tale da indurre a dubitare, se non addirittura della perdurante vigenza del principio di irrilevanza di un’equivalenza oggettiva delle prestazioni, certamente della possibilità di istituire tra esso, e i casi che vi derogano, un rapporto di regola a eccezione e non piuttosto una relazione di coesistenza di due principi generali, ciascuno dei quali suscettibile di venire in considerazione come tale nell’ambito dell’area in cui è chiamato a operare.
Si tratta, a questo punto, di esplicitare la considerazione da ultimo prospettata, procedendo dunque all’individuazione degli elementi o tasselli normativi o giurisprudenziali più recenti (v., al fine di rispettare la delimitazione cronologica di questo saggio, e per i punti di emersione normativa e problematica di questo tema che si inquadrano nel secolo passato, alla trattazione di De Nova 2008, pp. 27 e sgg. nonché a quella di Albanese 2008, pp. 109 e sgg.) dell’evoluzione che concorre ad accreditare il problema della ‘giustizia degli scambi’ come uno degli snodi fondamentali – al momento attuale – della riflessione del privatista sul diritto dei contratti.
La ‘tensione’ verso l’equità dello scambio della più recente legislazione di diritto privato non è certo un fenomeno che si manifesti nel solo settore dei contratti dei consumatori, all’interno del quale il riproporsi del ‘mito’ tomistico (o forse dell’illusione) del ‘giusto prezzo’ (espressione che, singolarmente, riemerge in maniera testuale, da ultimo, nell’art. 67, 3° co., lett. c) dell’art. 67 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, così come novellato dall’art. 1, 1° co., lett. a) del d. l. 14 marzo 2005 n. 35 convertito in l. 14 maggio 2005 n. 80: si escludono, infatti, ivi dalla revocatoria fallimentare «le vendite a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado») potrebbe sembrare come il riflesso della preoccupazione del legislatore – vero e proprio fulcro del quadro normativo in materia – di assicurare una protezione effettiva del consumatore, riguardato tradizionalmente come la cosiddetta parte debole del rapporto.
Significativi elementi di riflessione possono, infatti, desumersi, quasi a confermare l’attenzione del legislatore contemporaneo per la contrattazione tra disuguali, dalle considerazioni in precedenza elaborate con riferimento alla categoria del terzo contratto. Qui, come si è già rammentato, vi è almeno un riferimento normativo specifico, che si può ribadire, per la sua collocazione temporale nell’area più immediatamente investita dalla nostra riflessione. Si sta facendo riferimento alla disposizione, appunto già menzionata, dell’art. 7 del d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231, in tema di nullità dell’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento, che si debba considerare iniquo, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti e ai rapporti commerciali tra i medesimi, oltre che a ogni altra circostanza, con la correlativa previsione, in termini analoghi a quelli che abbiamo visto essere propri dei progetti di diritto privato europeo, di ricondurre a equità il contenuto dell’accordo.
Giustizia distributiva e giustizia sociale
La riflessione sul rapporto tra il problema della giustizia dello scambio e il requisito della causa del contratto, che si è fin qui tratteggiata, trascende, come del resto sovente accade quando il discorso si riferisca alla causa del contratto, l’ambito della mera soluzione di un tema tecnico della scienza civilistica, e implica invece l’assunzione di opzioni di carattere ideologico vale a dire, più correttamente, di carattere assiologico e cioè attente ai valori fondamentali recepiti dall’ordinamento di volta in volta vigente. La ricognizione – necessariamente sommaria, in questa sede – dei valori fondanti il nostro sistema normativo consente di confermare la conclusione, che è stata abbozzata attraverso le esemplificazioni svolte, nel senso della inconfigurabilità del controllo che può essere realizzato attraverso la causa del contratto come uno scrutinio di merito sul modo in cui i privati individuino, in contratto, l’equilibrio delle rispettive prestazioni.
Certo, e senza voler riprendere i termini del dibattito sull’esegesi delle norme racchiuse nell’art. 41 Cost., non si potrebbe negare che, sottesa all’impostazione di questa disposizione, vi è – se non proprio un consapevole progetto dirigistico dell’economia – una sfiducia di fondo riguardo all’idoneità del mercato a realizzare assetti di distribuzione delle risorse conformi a più complessivi obiettivi di equilibrio quanto meno sociale. Ma è assai dubbio che tale sfiducia di fondo possa considerarsi tuttora un dato qualificante dell’ordinamento vigente, riguardato – come è ovvio – nella prospettiva delle fonti di diritto comunitario che sempre più intensamente concorrono a comporne il tessuto (v., sul possibile ruolo del mercato come misuratore della validità del contratto di credito, proprio dall’angolo visuale del tema della congruità dello scambio, le considerazioni svolte da Guizzi in Squilibrio e usura nei contratti, 2002, pp. 437 e sgg.).
Qualche significativo spunto di riflessione può provenire, in tale quadro, dalla ‘tavola dei valori’ desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale esprime con chiarezza il rapporto dialettico tra gli interessi sottesi alla libertà d’impresa e quelli alla base dell’istanza di tutela dei consumatori, che consideriamo, in questa prospettiva, come termine paradigmatico di riferimento della contrattazione tra parti disuguali, ovvero della contrattazione con asimmetria di potere contrattuale, anche attraverso la scelta della rispettiva collocazione sistematica delle disposizioni che a essi hanno rispettivamente riguardo: inserita nel capo II, intitolato Libertà, la regola (art. 16) che riconosce la libertà di impresa, «conformemente al diritto comunitario ed alle legislazioni e prassi nazionali»; collocata nel capo IV, dedicato alla Solidarietà, la disposizione (art. 38) che afferma la garanzia, nelle politiche dell’Unione, di un «livello elevato di protezione dei consumatori».
In tale contesto, la norma costituzionale sulla libertà d’impresa potrebbe apparire – per riprendere l’espressione proposta da un autore – ormai stanca e ‘debole’ di fronte alla realtà ordinamentale che deriva al sistema giuridico italiano dall’appartenenza all’Unione Europea, tale da prefigurare, e da avere in larga parte attuato, un mercato aperto alla libera concorrenza.
Il mercato disegnato dalle fonti comunitarie non è tuttavia un mercato ‘selvaggio’: poiché anzi, e più in generale, è proprio la raffigurazione del mercato come luogo di un confronto del tutto privo di regole – selvaggio, appunto – tra le forze che in esso agiscono a dover essere radicalmente rimessa in discussione.
In realtà, come è stato chiarito in termini assai persuasivi, «il mercato è un ordine, caratterizzato da regolarità e prevedibilità dell’agire» (Irti 1998, p. 75); né si può confondere l’assenza di certezze sugli esiti del gioco della concorrenza con l’assenza di regole del gioco medesimo.
Non è dunque possibile – fin tanto che le regole del gioco siano rispettate – respingere a priori gli equilibri del mercato, nel tentativo di sostituire a essi il diverso assetto che potrebbe discendere dall’applicazione di precetti posti (o meglio imposti) invece, dall’ordinamento giuridico: precetti destinati a turbare la regolarità dell’agire del mercato in maniera tanto più pericolosa quanto più inevitabilmente arbitraria.
La più volte menzionata disciplina dell’ipotesi dell’eccessivo squilibrio tra le prestazioni, dettata dall’art. 4:109 dei Principles of European contract law (laddove il giudice, su domanda della parte legittimata all’annullamento, può «modificare il contratto in modo da metterlo in armonia con quanto avrebbe potuto essere convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza») e ribadita in sostanza nel DCFR può assumere, in tale prospettiva, un rilievo particolare.
Qui il parametro da utilizzare per eliminare l’eccessivo squilibrio non è del tutto eteronomo ed esterno rispetto alla singola operazione economica: è piuttosto un parametro che, attraverso il rinvio alla correttezza nel commercio (o alla buona fede e correttezza), richiama modelli sociali di condotta che, in quel particolare contesto di mercato, appaiono a chi vi opera, come congrui, adeguati e ragionevoli (Commissione per il diritto europeo dei contratti 2001, pp. XXVI e sgg.). Si tratta, dunque, in questo caso, di un fenomeno che, come è stato efficacemente detto, realizza un meccanismo di autointegrazione del contratto, che si compie non più soltanto sul terreno degli obblighi accessori «ma su quello dell’assetto complessivo degli interessi, nel rispetto però di un equilibrio che il contratto non ha realizzato in partenza ma è messo in grado di conseguire ugualmente proprio mediante la buona fede».
In questa prospettiva, alla buona fede – i valori da essa richiamati, tutti interni alla realtà dei traffici – si contrappongono l’equità e l’inevitabile scarto che essa trae con sé rispetto a ciò che lealmente e correttamente si pratica nel mercato: gli squilibri del contratto rinvengono nella stessa regolarità e prevedibilità dell’agire sul mercato gli strumenti che consentono di correggerli, anche attraverso il prisma della causa del contratto.
Se questi sono i caratteri che i modelli di regolamentazione del diritto privato europeo dei contratti esibiscono quanto alla prospettiva del controllo sull’equilibrio dell’operazione economica realizzata in contratto, è solo nell’ottica di un atto di autonomia privata che, per così dire, si autointegra e si autocorregge che possono essere recepite le indicazioni provenienti dal gruppo di studio sulla giustizia sociale nel diritto privato europeo e dal ‘manifesto’ che lo stesso ha elaborato (Mengozzi 2008, pp. 63 e sgg.). Nel manifesto si legge, quale scopo delle proposte concernenti la costruzione di un diritto contrattuale europeo, quello di promuovere e identificare un quadro comune di valori fondamentali, tra i quali i valori che ricomprendano, in particolare, principi «di solidarietà sociale, che proibiscano agli individui di approfittare della superiorità di forza economica o di ignorare le pretese di giustificato affidamento in altri soggetti».
Il governo della complessità
Le clausole generali in quanto «esprimono punti di vista, criteri direttivi per la ricerca di valori che il giudice deve poi tradurre con un proprio giudizio valutativo in una norma di decisione», investono il problema della fondabilità conoscitiva dei valori e, in sequenza logica, della fondazione della decisione (L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, «Rivista critica del diritto privato», 1986, 1, p. 15). Questo problema che ha suscitato anche da ultimo l’attenzione della dottrina più sensibile (Barcellona 2006, pp. 25 e sgg.) e che, calato sul piano dei problemi del contratto, propone innanzitutto l’esigenza di individuare le tecniche di concretizzazione del precetto contenuto nella clausola generale.
Le considerazioni sopra svolte sui meccanismi di autointegrazione del contratto possono indurre a ravvisare, in prima approssimazione, quali standard sociali di riferimento del giudizio di concretizzazione della clausola di buona fede, le regole desumibili dai comportamenti normalmente tenuti dai soggetti operanti sul mercato. Certamente già questo potrebbe essere considerato come un risultato apprezzabile, in quanto capace di fornire una lettura ‘laica’ della clausola di buona fede, tenendo conto dell’autorevole indicazione per la quale «il giudizio secondo buona fede svolge una valutazione del contratto alla stregua di tipi normali di comportamento, riconosciuti come norme sociali» al contrario dell’equità, che presuppone lo scardinamento del caso da precedenti e modelli generali.
Appare peraltro quanto meno dubbio che la direttiva normativa impartita dalla buona fede possa essere letta a prescindere dal fondarsi della stessa su valori normativi, in grado di qualificare, in termini di recepimento o di rifiuto, gli stessi standard sociali di riferimento. Qui può venire in gioco la dimensione sovranazionale dell’Unione Europea, che ci mostra, di recente, un tentativo ‘forte’, anche se, com’è noto, assai travagliato, di affermare potentemente una Carta dei valori condivisa: il riferimento è alla Carta dei diritti dell’Unione Europea, il cui processo inteso a farla divenire un autentico testo costituzionale dell’Unione, paralizzato, a suo tempo, dagli esiti negativi del referendum a tal fine indetto in Francia e in Olanda, appare oggi riavviato dal Trattato di Lisbona.
Ora, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea esprime una direttiva forte nel senso della solidarietà, ponendola a guisa di titolo di uno dei capi – il VI – in cui si articola: e ne risulta allora confermata la principale direttiva (quella della solidarietà, appunto) nella quale si è sviluppata, nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, la clausola di buona fede contrattuale (v., per es., la sentenza della Corte di cassazione 16 ott. 2002 n. 14726) .
Potrebbe peraltro ritenersi che la solidarietà esprima una direttiva troppo sbilanciata sul polo della ‘persona’ rispetto a quello del ‘mercato’, rischiando così, da un lato, di intralciare lo sviluppo dei valori dell’efficienza e della funzionalità del mercato, dai quali pure non si può prescindere in un diritto dei contratti che voglia essere veramente ‘nuovo’ e suscettibile di inserirsi nella prospettiva del 21° sec., e, dall’altro, di disattendere quel recupero della stessa clausola generale di buona fede ai valori dell’autonomia privata, che abbiamo visto essere uno dei tratti caratteristici della disciplina dei Principles.
Sembra tuttavia che tra una solidarietà modernamente intesa e i valori di efficienza del mercato non vi sia affatto una irrimediabile antinomia, come aveva ritenuto già oltre un ventennio fa chi nella solidarietà costituzionale aveva ravvisato il possibile fondamento normativo della responsabilità oggettiva per rischio di impresa, intuendo che la stessa non poteva poggiare soltanto sulle disposizioni codicistiche dell’art. 2049 o dell’art. 2050. Ed è questa, di un raccordo tra solidarietà ed efficienza, una possibile linea di percorso e di riflessione, forse suscettibile di essere rafforzata altresì, da ultimo, dalla giurisprudenza della Suprema corte: in materia di portata applicativa della exceptio doli generalis (Cass. 7 marzo 2007 n. 5273) e da quella delle sezioni unite in tema di divieto di frammentazione di una pretesa relativa a un credito unitario in più domande giudiziali (Cass. sezioni unite 15 nov. 2007 n. 23726). È in queste sentenze che, al di là della soluzione tecnica offerta alle questioni in quella sede controverse, emerge chiaramente l’immagine di una clausola generale di buona fede ormai coniugata in pieno con i valori della ragionevolezza e, dunque, secondo l’impostazione, appena rammentata, dei Principi di diritto privato europeo, in grado di realizzare nel modo più congruo, l’obiettivo dell’autointegrazione del contratto.
Il contratto e l’economia globale
La globalizzazione e la postmodernità ‘liquida’
L’impatto delle dinamiche della cosiddetta globalizzazione sulla fenomenologia del contratto si può cogliere sotto una pluralità di angoli visuali.
Da una prima prospettiva, si può notare che l’economia globale è caratterizzata dal crearsi di uno spazio dove le regole imperative poste dai singoli ordinamenti statuali (e all’interno di questi ultimi, come già detto, in netto aumento quantitativo e qualitativo: De Nova, 2008, pp. 23 e sgg.) non riescono a spingersi, e che appare, dunque, liquido oppure fluido, dal punto di vista delle strutture normative che dovrebbero governarlo e delle quali, peraltro, secondo qualche autore, proprio nell’ambito della economia globalizzata si avvertirebbe una particolare esigenza (Rossi 2008, p. 101).
In una situazione quale quella appena evocata, si creano in effetti le condizioni per il consolidarsi delle prassi contrattuali e per il costituirsi delle medesime nei termini della lex mercatoria. E tale legge può essere descritta come un complesso di consuetudini, stabilmente praticate nel settore socioeconomico di riferimento, e alle quali gli attori del commercio internazionale riconoscono, per l’intrinseca razionalità delle medesime, un’idoneità a disciplinare i rapporti tra di essi assai maggiore di quella ascrivibile alle regole di diritto scritto di questo o di quell’ordinamento giuridico nazionale.
Non mancano, tuttavia, come si è appena accennato, anche proposte di lettura estremamente critiche del fenomeno dell’accrescersi di importanza della lex mercatoria, proposte di lettura che, seppure riferite specificamente al settore dei mercati finanziari, delineano una chiave di interpretazione del problema potenzialmente estensibile anche ad altri ambiti di mercato. In esse, la lex mercatoria è senz’altro descritta come un nemico, al quale dovrebbe essere ascritta integralmente la responsabilità per i recentissimi episodi di crisi sistemica e che dovrebbe essere rimpiazzato invece da «un diritto finalmente, autenticamente universale» (Rossi 2008, p. 101).
Le condizioni propizie al costituirsi della lex mercatoria sono le stesse che facilitano l’accreditamento dei modelli di regolamentazione ‘colta’, come i tentativi di codificazione del diritto privato europeo dei contratti, sui quali ci si è soffermati (v. Profili di diritto privato europeo dei contratti), che i privati possono scegliere di richiamare come disciplina regolatrice dei propri scambi del commercio internazionale e che assumono, a questo punto, il significato di quadro regolamentare in grado di sottrarsi ai confini degli ordinamenti statuali (e, dunque, sconfinato, nel senso sotteso alla riflessione di un’autorevole dottrina: Irti 2001, pp. 95 e sgg.). E ciò secondo modalità rese tanto più necessarie, dal punto di vista della funzionalità agli interessi degli operatori del commercio, dall’esigenza di governare il rischio che si pone come fattore qualificante dell’economia globalizzata (Beck 2000; trad. it. 2000, pp. 299 e sgg.).
Il fenomeno dell’impossibilità di contenere il singolo contratto all’interno della disciplina dettata da questo o quell’ordinamento giuridico risulta, del resto, ancora più accentuato dalla presenza di contratti per i quali è difficile in concreto individuare un radicamento in questo o in quell’ordinamento giuridico nazionale, come accade, in modo particolare, e in relazione alle modalità di conclusione del contratto, per la contrattazione on-line.
In un quadro così fortemente caratterizzato dalla scelta autonoma dei contraenti in ordine al modello normativo che essi reputino maggiormente adatto a soddisfare le esigenze di regolamentazione dei propri affari, la via attraverso la quale talora si procede al recupero del diritto dei singoli ordinamenti giuridici statuali è quella della scelta dell’uno o dell’altro, in relazione al maggiore grado di efficienza regolamentare che lo stesso pare in grado di assicurare nel caso concreto. Si tratta del fenomeno della concorrenza tra ordinamenti giuridici, che propone, ovviamente, il problema dei limiti all’autonomia delle parti sul punto, allorché l’applicazione della disciplina normativa che si ritenga di richiamare vada a incidere su aspetti oggetto di regolamentazione a opera di norme imperative dell’ordinamento giuridico che, in base agli ordinari criteri di collegamento, dovrebbe disciplinare l’operazione contrattuale in questione (La concorrenza tra ordinamenti giuridici, 2004, pp. V e sgg.; Nicolussi 2006, pp. 83 e sgg.).
La globalizzazione e il contratto alieno
La dimensione sempre più globale e mondializzata che assumono le operazioni economiche contrattuali consente di delineare anche un ulteriore fenomeno, che la più recente dottrina ha descritto nei termini suggestivi del contratto alieno (De Nova 2008, pp. 44 e sgg.) e cioè il contratto che corrisponde a un modello della prassi internazionale (o di quella dei Paesi economicamente più forti), che, pure ignorando, a livello delle clausole concretamente predisposte dai contraenti, il diritto italiano, finisce, poi, per richiamarlo.
Una situazione del genere, apparentemente contraddittoria, si può avere quando, nel quadro di un contratto stipulato tra un imprenditore italiano e un imprenditore straniero, il primo, pur dovendo recepire il modello contrattuale proposto dall’altro contraente, proprio perché conforme alla prassi del commercio internazionale largamente accreditata, ha la forza contrattuale sufficiente «per imporre come legge contrattuale il diritto italiano»; ovvero ancora quando non è neppure dato sapere, al momento della predisposizione del testo contrattuale, quale sarà la controparte contrattuale del soggetto italiano, dovendo lo stesso essere individuato all’esito di una gara internazionale (De Nova 2008, p. 48).
Di qui appunto il delinearsi di un contratto estraneo, e dunque alieno, rispetto al diritto italiano ma che si assoggetta alla regolamentazione disposta da quest’ultimo, sulla base della quale deve, dunque, essere svolto il procedimento di valutazione e di qualificazione del contratto stesso, anche sotto il profilo della struttura e dell’interpretazione.
Quest’ultima prospettiva appare, di nuovo, di particolare interesse ai fini dell’indagine, proprio perché il momento dell’interpretazione è quello nel quale l’ordinamento giuridico recepisce per la prima volta l’atto di autonomia privata, laddove il contratto alieno contenga la clausola, ricorrente appunto nella prassi del commercio internazionale, che prefigura, in termini vincolanti per le parti, il significato delle singole clausole ovvero che, attribuendo rilevanza a fini ermeneutici alle sole clausole rivestite di forma scritta, protegga il testo da interpretazioni contrarie alla lettera contrattuale.
Anche sotto tale profilo, questo primo scorcio del 21° sec. sembra potersi racchiudere nella formula del dibattersi del contratto tra continuità dei fenomeni e dei problemi e accelerazione, o articolazione, degli stessi. Infatti, se il tema della derogabilità a opera dei privati delle norme dettate in tema di interpretazione del contratto costituiva un luogo classico della riflessione sull’argomento, lo stesso assume un significato originale, e più complesso, nel momento in cui il contratto divenga strumento di disciplina giuridica di contratti alieni, nel senso sopra illustrato.
La soluzione, classica, della questione, imperniata sulla preclusione a che i privati impartiscano al giudice direttive vincolanti, nel momento in cui questi si volge alla ricostruzione della portata giuridicamente rilevante del contratto, potendo le parti «sottoporre al giudice elementi fattuali preinterpretati, tramite le premesse e le definizioni» ma non «i criteri per l’interpretazione complessiva del contratto» (De Nova 2008, p. 55) può trovare con buone probabilità, a questo punto, una più persuasiva sistemazione alla luce del limite che all’autonomia dei privati dettano le regole ermeneutiche imperniate sulla clausola di buona fede, regola, a sua volta, considerata inderogabile anche dai progetti di codificazione del diritto privato europeo (art. 1:201 dei Principi di diritto privato europeo dei contratti; art. II, 1:102 del DCFR).
Bibliografia
N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari 1998.
Z. Bauman, In search of politics, Cambridge 1999 (trad. it. La solitudine del cittadino globale, Milano 20068).
U. Beck, The risk society and beyond. Critical issues for social sheary, London 2000 (trad. it. Bologna 2000).
S. Martuccelli, L’interpretazione dei contratti del consumatore, Milano 2000.
Commissione per il diritto europeo dei contratti, Principi di diritto europeo dei contratti. Parte I e II, a cura di C. Castronovo, Milano 2001.
N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari 2001.
Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino 2002 (in partic. U. Breccia, Morte e resurrezione della causa. La tutela, pp. 241 e sgg.; C. Scognamiglio, Il danno non patrimoniale contrattuale, pp. 467-78).
Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. Vettori, Padova 2002 (in partic. G. Guizzi, Congruità dello scambio e contratti di credito, pp. 437 e sgg.).
R. Pardolesi, prefazione a G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, Torino 2004.
Il nuovo diritto dei contratti, a cura di F. Di Marzio, Milano 2004.
La concorrenza tra ordinamenti giuridici, a cura di A. Zoppini, Roma-Bari 2004.
V. Roppo, Il contratto del Duemila, Torino 20052.
M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Torino 2006.
G. Gitti, L’autonomia privata e le autorità indipendenti, Bologna 2006.
A. Nicolussi, Europa e cosiddetta competizione tra ordinamenti giuridici, «Europa e diritto privato», 2006, 1, pp. 83-136.
Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, a cura di P. Sirena, Milano 2006.
Trattato del contratto, 2° vol., Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano 2006 (in partic. C. Scognamiglio, Problemi della causa e del tipo).
F. Di Marzio, Contratti d’impresa, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, Torino 2007.
V. Roppo, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul ‘terzo contratto’), «Rivista di diritto privato», 2007, 4, pp. 669-700.
Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa. Riflessioni di una ricerca sul campo, a cura di F. Cafaggi, P. Iamiceli, Bologna 2007.
A. Albanese, Contratto mercato responsabilità, Milano 2008.
G. De Nova, Il contratto alieno, Torino 2008.
G.B. Ferri, Il potere e la parola e altri scritti di diritto civile, Padova 2008.
P. Mengozzi, Il Manifesto sulla giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo e la preconizzazione di un principio di ‘interpretazione comparativa orizzontale’, «Contratto e impresa/Europa», 2008, 13, 1, pp. 63-103.
L. Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, Milano 2008.
G. Rossi, Il mercato d’azzardo, Milano 2008.
Il terzo contratto. L’abuso di potere contrattuale nei rapporti tra imprese, a cura di G. Gitti, G. Villa, Bologna 2008 (in partic. G. Amadio, Il terzo contratto. Il problema, pp. 9 e sgg.; G. D’Amico, La formazione del contratto, pp. 37 e sgg.).
Principles, definitions and model rules of European private law. Draft common frame of reference (DCFR), ed. Ch. von Bar, München 2008.