Abstract
Viene esaminata la disciplina dei contributi sindacali, con particolare riguardo al rilievo costituzionale ed alla qualificazione giuridica dell’istituto dopo l'abrogazione dei co. 2 e 3 dell’art. 26 l. 20.5.1970, n. 300, con uno sguardo riservato all’esigibilità degli impegni assunti dalle parti collettive dopo il Protocollo interconfederale del 31.5.2013 ed il “Testo unico” del 10.1.2014.
L’art. 5, l. 3.4.1926, n. 563, stabiliva il diritto delle associazioni sindacali legalmente riconosciute ad imporre i contributi sindacali a tutti i datori e i lavoratori. I contributi, durante il periodo corporativo, erano obbligatori, dovuti cioè dal datore sulla base del numero di lavoratori dichiarati per il solo fatto dell’appartenenza professionale e venivano considerati vere e proprie imposte; ovvero suppletivi, dovuti dagli iscritti alle associazioni legalizzate, come quote associative private (cfr. Barassi, L., Diritto sindacale e corporativo, Milano, 1934, 305 ss.).
Dopo una fase di vuoto previsionale causato dalla soppressione dell’ordinamento corporativo e della contribuzione obbligatoria, il bisogno di contribuzioni certe portò presto i sindacati a mettere sul piatto della trattativa in sede di contrattazione l’adozione di meccanismi automatici di ritenuta delle quote associative.
I primi contratti collettivi che hanno tradotto questa esigenza prevedevano la riscossione mediante trattenuta sulla retribuzione delle quote associative degli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti (v. Prot. Olivetti 3.10.1962; Guidotti, F., voce Contributi sindacali, in Enc. dir., Milano, 1962, X, 273 ss.). L’inadempimento all’obbligo contributivo esponeva il lavoratore a sanzioni endoassociative, quali l’esclusione dall’assemblea, ovvero, nei casi più eclatanti, la radiazione dall’associazione sindacale.
La raccolta di contributi, il cd. collettaggio, è una specifica attività di reperimento delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle attività sindacali.
I contributi sindacali sono stati e continuano ad essere oggetto di aspro dibattito in dottrina e giurisprudenza. Le quote contributive in qualità di veicoli della libertà del sindacato, vengono spesso coinvolte nell’agone politico-sindacale: le facoltà e gli oneri che si ricollegano a vario titolo all’esercizio della collettazione da parte dei suoi diversi protagonisti sono essi stessi oggetto di scambio e mediazione politico-sindacale.
L’art. 26 st. lav. sancisce sia il diritto di raccogliere contributi sia il diritto di svolgere opera di proselitismo. Questi due aspetti dell’attività sindacale hanno in comune soggettività attiva e beneficiari passivi («i lavoratori … per le organizzazioni sindacali»), nonché il luogo di svolgimento e le modalità di esercizio («all’interno dei luoghi di lavoro … senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale»).
Il diritto di svolgere attività di proselitismo è attribuito ai lavoratori uti singuli a vantaggio delle loro organizzazioni sindacali. È un diritto riconosciuto sul luogo di svolgimento dell’attività lavorativa e non si esaurisce nel propagandismo mero. Ha struttura operativa, funzione inclusiva e finalità promozionali, nel senso che si concreta in condotte attivistiche di pertinenza sindacale volte ad ampliare il raggio d’azione delle idee del sindacato. Si realizza materialmente in una «presenza attuativa» (Dell’Olio, M., sub art. 26, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, Milano, 1975, II, 827) di una gamma di comportamenti che include la diffusione delle idee come l’adempimento delle formalità di adesione all’organizzazione sindacale. In tal senso l’opera di proselitismo è fautrice del successo della collettazione.
Né il proselitismo né la raccolta dei contributi possono ostacolare il regolare funzionamento dell’organizzazione imprenditoriale. Il «normale svolgimento» è il limite di tollerabilità dell’attivismo dei lavoratori all’interno dell’azienda. La norma coniuga con approccio pragmatico e coerenza sistematica due distinti nuclei di interesse, in vista dei potenziali conflitti insorgenti. Il limite in questione non esprime un valore assoluto ma relativo, variabile da azienda ad azienda, che solo in certi casi può identificarsi con il criterio relativo all’inadempimento del lavoratore attivista o dei colleghi di lavoro (cfr. la ricostruzione di Santoro Passarelli, G., Contributi sindacali. Commento all’art. 26, Commentario allo Statuto dei lavoratori, diretto da G. Giugni, Milano, 1979, 426 ss.).
Il legislatore, sulla scia dei contratti collettivi già intervenuti in materia, ha quindi riconosciuto l’importanza della raccolta dei contributi per la realizzazione del principio di libertà sindacale di cui all’art. 14 st. lav., che affonda le proprie radici nell’art. 39 Cost. (Branca, G., La raccolta dei contributi sindacali, in L’applicazione dello statuto dei lavoratori. Tendenze e orientamenti, a cura di G., Pera, Milano, 1973, 333-334) quale specifica manifestazione della libertà di opinione garantita dagli artt. 1 st. lav. e 21 Cost. (già fondamento diretto dell’art. 26 secondo Freni, A.-Giugni, G., Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1971, 111; Mancini, F., in Ghezzi, G.-Mancini, G.-Romagnoli, U., Commentario al codice civile, Scialoja- Branca, libro V, Del lavoro, supplemento legge 20 maggio 1970, n. 300, Bologna-Roma, 1972, 389-390).
Il diritto a contribuire, espressione della libertà associativa degli aderenti, continua a fungere da spia della rilevanza della contribuzione in sé come forma di espressione della libertà sindacale e di crescita della formazione sociale-sindacato, nell’ambito della quale il lavoratore svolge la propria personalità (cfr. art. 2 Cost.).
I co. 2 e 3 dell’art. 26, abrogati a seguito del referendum dell’11.6.1995, attribuivano alle organizzazioni sindacali il diritto a percepire, attraverso ritenuta automatica sulla retribuzione, i contributi dovuti dai prestatori associati all’organizzazione. In entrambe le ipotesi contemplate la volontà del lavoratore rappresentava “l’asse portante del sistema” di riscossione dei contributi sindacali (Dell’Olio, M., sub art. 26, cit., 823).
Alla luce di tali disposizioni, i soggetti titolari del diritto di matrice legale a percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali che i lavoratori intendevano versare erano tanto le associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi di lavoro (co. 1), quanto quelle non firmatarie (co. 2) (cfr. Grandi, M., L’attività sindacale nell’impresa, Milano, 1976, 196; Lambertucci, P., I contributi sindacali dopo il referendum, in rappresentanze e contributi sindacali dopo i referendum, a cura di A. Maresca-G. Santoro Passarelli-L. Zoppoli, 1996, Padova, 72-73, che si esprimono a favore di una lettura unitaria dei co. 2 e 3 dell’art. 26 volta a configurare in ogni caso la ritenuta come diritto perfetto del sindacato; in questo senso anche C. cost., 12.1.1995, n. 13, in Dir. lav., 1995, II 22 ss., con nt. di Ales, E.; e in Mass. giur. lav., 1995, 11 ss., con nt. di Inglese, I.).
Il riconoscimento in capo ad una platea più vasta del diritto alla collettazione non seguiva la logica selettiva preposta al sostegno legale fornito dal titolo III dello Statuto ai sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative (per questa conclusione – inizialmente negata da Cass., 6.6.1986, n. 3778, in Foro it., 1986, I, c. 2455, con nt. di De Angelis, L. – cfr. Cass., 9.2.1989, n. 822, in Giust. civ., 1989, I, 1070, con nt. di Pascucci, P.; ed in Riv. giur. lav., 1989, II, 267, con nt. di Bianca, M.; Cass., 9.9.1991, n. 9470, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, 836 ss., con nt. di Pascucci, P.). Tuttavia l’obbligo sussisteva solamente a favore di organizzazioni costituite in associazioni.
La corresponsione dei contributi sarebbe dovuta avvenire, ai sensi del co. 2 dell’art. 26, secondo modalità stabilite dai contratti collettivi che garantissero la segretezza del versamento (su cui Dondi, G., Riscossione dei contributi sindacali e statuto dei lavoratori, in Riv. dir. lav., 1972, II, 230; Ficari, L., Modalità di riscossione dei contributi sindacali e principio di segretezza del versamento, in Dir. lav., 1974, II, 120 e ss.). Segretezza che, comunque, non costituiva imprescindibile requisito di legittimità del versamento e la cui mancanza non inficiava quindi la validità delle clausole dei contratti collettivi relative ai contributi sindacali (Santoro Passarelli G., sub art. 26, cit., 433 ss.; contra Branca, G., La raccolta dei contributi sindacali, cit., 336).
Ciò implicava, da una parte, che al contratto collettivo veniva affidato un ruolo non selettivo dei soggetti, ma delle modalità di raccolta (Romei, R., Diritto alla riscossione dei contributi sindacali e contratto collettivo, in Riv. it. dir. lav., 1987, II, 325); dall’altra, che le associazioni non firmatarie di contratti collettivi, pur avendo i lavoratori aderenti il diritto di chiedere al datore il versamento del contributo all’associazione indicata, non venivano tutelate dal regime di segretezza che le modalità definite dal contratto collettivo determinavano.
Grazie all’elevazione al rango giuridico di diritto “in azienda” del fenomeno della contribuzione sindacale, il sindacato si approvvigionava in modo rapido e tempestivo di versamenti.
Con l’entrata in vigore della l. n. 300/1970, la prevalente dottrina (Dell’Olio, sub art. 26, cit., 859 ss.; Santoro-Passarelli, G., sub art. 26, cit., 438 ss.) individuò nel fenomeno della contribuzione sindacale mediante ritenuta una delegatio solvendi di diritto speciale, in quanto, a differenza dell’art. 1269 c.c., il datore di lavoro, delegato ope legis, a seguito della manifestazione di volontà del lavoratore – presupposto irrinunciabile per l’insorgenza dell’obbligo – non avrebbe potuto rifiutarsi di versare le somme all’associazione sindacale destinataria del contributo. Le peculiarità della riscossione dei contributi sindacali, in primis il vincolo a carico del delegato, si riflettevano perciò sulla disciplina della delegazione volontaria: nel caso del rapporto di lavoro se ne poteva dedurre l’inapplicabilità del divieto dell’art. 1271, co. 2, c.c., sia per quanto concerne l’opponibilità delle eccezioni inerenti il rapporto di provvista (ergo il credito retributivo), sia per quelle relative al rapporto di valuta (ergo al rapporto contributivo). Trattasi di una ricostruzione originale rispetto all’inquadramento in termini di delegatio accipiendi o indicazione di pagamento al terzo ex art. 1188, co. 1, c.c., (Rescigno, P., voce Delegazione (dir. civ.), in Enc. dir., XI, Milano, 1960, 941) e al contempo rispettosa della classificazione generale operata dalla dottrina precedente divisa tra chi ravvisava una delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c. (Branca, G., Osservazioni sulla riscossione dei contributi sindacali nell’esperienza italiana attuale, in Dir. lav., 1968, I, 295 ss.) e chi una delegatio promittendi prevista e disciplinata dall’art. 1268 c.c. (Cipressi, P., I contributi sindacali, in Riv. dir. civ., 1971, I, 77 e ss.; idea ripresa e sviluppata da Papaleoni, M., I contributi sindacali: profili teorici e applicativi, in Giust. civ., 1982, I, 840).
Non ebbe la medesima fortuna ma incise nel dibattito la tesi che intravedeva nello schema delineato dall’art. 26, co. 2 e 3, stante l’irrilevanza del consenso del datore, una ipotesi di cessione del credito, con l’ovvia conseguenza di ritenere il sindacato creditore di una quota di retribuzione e quindi beneficiario dei privilegi di cui all’art. 2751 bis, n. 1 c.c. (Grandi, M., L’attività sindacale, cit., 200; Aranguren, A., La tutela dei diritti dei lavoratori, Padova, 1981, 218; Alleva, P., Quesiti referendari e proposte di innovazione legislativa, in Riv. giur. lav., 1994, I 544 e ss.). In senso contrario si è obiettato che il rapporto bilaterale istituito dalla cessione mal si conciliava con la trilateralità del fenomeno della contribuzione sindacale (Cass., 7.2.1989, n. 761; Cass., 9.2.1989, n. 822; Cass., 9.9.1991, n. 9470; Cass., 9.9.1992, n. 10318; Cass., 5.2.2000, n. 1312, in Mass. giur. lav., 2000, 597, con nt. di Giovagnoli, R.), in cui al datore è consegnato un ruolo attivo di collaborazione (Lambertucci, P., Contributi sindacali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1996, 3). Al contempo la irrevocabilità della disposizione di pagamento a favore del presunto cessionario metteva a rischio proprio la libertà sindacale che nella contribuzione si esprime (Dell’Olio, M., op. cit., 847, Santoro Passarelli, G., op. cit., 440).
Le difficoltà a ricostruire la fattispecie secondo i moduli civilistici noti hanno portato a riconoscere più semplicemente la sussistenza di un obbligo di matrice legale alla riscossione, che permetteva, in qualità di vero elemento condizionante la percezione dell’obbligo di versamento, di relegare le dispute dottrinarie nel campo della pura dogmatica giuridica. Questo perché, a rigore, l’atto di disposizione del lavoratore impartito al datore di lavoro di accredito del contributo sindacale non era qualificabile né come cessione di credito in considerazione della sua unilateralità e revocabilità, né come delegatio solvendi in considerazione del suo carattere vincolante per il datore di lavoro (Cass., 19.1.1990, nn. 307 e 308; Cass., 5.2.1990, n. 778; Cass., 9.9.1992, n. 10318).
Di conseguenza il credito di un’associazione di categoria nei confronti del datore di lavoro non veniva assistito dal privilegio generale previsto dall’art. 2751 bis, n. 1, c.c. poiché privo di natura retributiva.
In definitiva può ben dirsi che i cardini della disciplina disegnata dall’art. 26 st. lav. nella formulazione pre-referendaria siano stati rappresentati da una parte dalla volontarietà e dalla non obbligatorietà – la segretezza ha costituito al massimo un limite esterno della norma – dall’altra dalla relazione giuridica di livello collettivo ma con trama legale intessuta tra datori obbligati a trattenere quote e sindacati detentori di un diritto alla percezione delle somme trattenute.
Il sistema della trattenuta legale così congegnato comportava ad ogni modo un notevole aggravio per il datore, costretto a sopportare i costi amministrativi ed economici legati alla raccolta dei contributi senza indennizzo alcuno in cambio e a vantaggio di tutti i sindacati (cfr. Cass., 8.6.1979, n. 3255).
L’intento dei promotori del referendum dell’11.6.1995 era quello di eliminare l’obbligo legale di cooperazione gravante sul datore di lavoro, ergo di restituire la materia all’autonomia privata così da evitare un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore anche indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo (C. cost. n. 13/1995).
Pur conservandosi in capo ai lavoratori il diritto a raccogliere i contributi sindacali nel testo superstite dell’art. 26, a rigore, perché il datore possa definirsi obbligato a raccogliere i contributi sindacali, è necessario rinvenire uno strumento negoziale di fonte individuale o collettiva.
Va chiarito che l’approvazione del referendum non ha determinato la caducazione automatica delle discipline collettive regolanti la riscossione, mentre ha avuto come diretta conseguenza la venuta meno del limite costituito dalla segretezza, pur sempre tutelabile a mezzo del contratto collettivo laddove le parti lo ritengano un interesse da dedurre in contratto.
Il referendum ha dunque mutato in parte il quadro di riferimento: solo le associazioni firmatarie potranno pretendere la trattenuta e solo nei limiti e con le modalità previste dal contratto collettivo.
Invero, il referendum ha mutato nei fatti la situazione delle sole organizzazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi. Infatti la grande maggioranza dei contratti collettivi di categoria disciplina le modalità di versamento dei contributi sindacali. Il problema si pone pertanto con riferimento ai soggetti che non possono contare sull’obbligo di fonte collettiva. Per i lavoratori affiliati a soggetti sindacali non stipulanti residua sicuramente la possibilità di pattuire individualmente l’obbligo o di organizzarsi autonomamente per raccogliere i contributi in azienda ex art. 26. I sindacati non stipulanti, del resto, non possono rivendicare la collaborazione del datore o l’estensione soggettiva delle clausole sulla collettazione agli altri lavoratori, se non altro poiché quelle clausole obbligano gli stipulanti tra di loro, ossia rivestono efficacia obbligatoria e non normativa (Cass., 3.2.2004, n. 1968), salvo considerarle sottospecie di clausole che assolvono una funzione normativa in ordine a rapporti obbligatori (Dell’Olio, M., op. cit., 849, nt. 152).
Cosicché, l’abrogazione dell’obbligo sancito dall’art. 26 ante referendum ha aperto un nuovo spazio di discussione sull’esatta qualificazione civilistica del diritto ai contributi.
Si tratta di accertare quale fondamento negoziale rivestano i singoli atti posti in essere dai lavoratori.
Parte della giurisprudenza, considerata l’incompatibilità tra negozio traslativo del credito e revocabilità dell’adesione e contribuzione al sindacato, nonché il notevole aggravio degli oneri e dei rischi cui sarebbe altrimenti esposto il debitore, ha ravveduto la possibilità di far uso dello schema della delegazione volontaria di pagamento ex art. 1269 c.c. (Cass., 3.2.2004, n. 1968, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, 497 e ss. con nt. di Ogriseg, C.; Cass., 3.6.2004, n. 10616, in Riv. giur. lav., 2004, II, 613 e ss. con nt. critica di Alleva, P.). Questo indirizzo trova conforto nella stessa ratio dell’abrogazione, consistente nella volontà di restituire la materia all’autonomia privata (Salimbeni, M.T., I contributi sindacali prima e dopo il referendum abrogativo dell’11 giugno 1995, in Argomenti dir. lav., 1997, 4, 253 e ss.), mentre l’applicazione delle regole della cessione comporterebbe la reintroduzione di un obbligo che il referendum aveva inteso abrogare in senso sostanziale (Lambertucci, P., Contributi sindacali, cit., 1996, 9).
Il fondamento volontaristico della delega coinvolge però anche la posizione del delegato, di tal che si assiste alla reviviscenza della necessità dell’accettazione datoriale per il perfezionarsi del meccanismo, a differenza di quanto avveniva sotto la vigenza dei co. 2 e 3 dell’art. 26 alla stregua dei quali non era necessaria l’accettazione del datore. L’applicazione dello schema della delegazione comporta che il lavoratore (delegante) ordini il pagamento a favore di una associazione sindacale (delegataria) ad un datore di lavoro (delegato), il quale, a norma dell’art. 1269, co. 2, c.c. può legittimamente rifiutarsi; la mancata ritenuta non è perciò sanzionabile come illecito civile e, di conseguenza, il sindacato non potrebbe neppure far luogo alla tutela dell’art. 28 st. lav. (cfr. Lambertucci, P., I contributi sindacali dopo il referendum, cit., 79-80). Ciò non toglie che l’uso di strumenti in astratto leciti (negare la trattenuta in mancanza di accordo individuale o collettivo) possa risultare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo a limitare la libertà sindacale (es. negarlo solo ad alcuni lavoratori iscritti a specifici sindacati) ergo a legittimare una procedura ex art. 28 st. lav. (arg. indirettamente da Cass., 3.2.2004, n. 1968; cfr. anche Esposito, M., Facoltà imprenditoriali e libertà sindacale: il controverso fondamento negoziale delle trattenute sindacali, in Dir. lav. merc., 2004, 639-640).
Ad ogni modo, una parte della giurisprudenza successiva ha riesumato la figura giuridica della cessione parziale del credito futuro ex art. 1260 e ss. c.c., che non necessita del consenso-accettazione del debitore ceduto, come si evince dall’art. 1264 c.c. e che, diversamente dalla delegatio solvendi, non presuppone una obbligazione scaduta con funzione immediatamente solutoria (Cass., 16.3.2001, n. 3813; Cass., 26.2.2004, n. 3917, in Mass. giur. lav., 2004, 469 ss., con nt. di Del Conte, M.; Cass., 26.7.2004, n. 14032, in Riv. giur. lav., 2005, II, 341 ss., con nt. di Mutarelli, M.M.).
Del resto, l’intento dei promotori (v. supra, §. 4.1.) non fu quello di evitare che attraverso altri strumenti riconducibili all’autonomia negoziale privata o a quella collettiva, il datore di lavoro fosse tenuto ad accreditare i contributi in favore delle associazioni sindacali (Alleva, P., La delega per i contributi sindacali: la cassazione e il diritto octroyeé; una svolta verso il regresso?, in Riv. giur. lav., 2004, II, 625). Tanto è vero che gli stessi promotori menzionavano, tra gli istituti utilizzabili “ai medesimi fini”, proprio la cessione di credito, accanto alla delegazione di pagamento, dimostrando così di non ritenere contrario allo spirito della consultazione popolare un meccanismo di accredito dei contributi realizzato, sul piano dell’autonomia negoziale, anche a prescindere dalla volontà del datore di lavoro (Cass. n. 3917/2004).
La giurisprudenza successiva al referendum si è quindi divisa: da una parte ha optato per la qualificazione dell’istituto come delegazione di pagamento, dall’altra ha ravveduto in quest’ultima prospettazione un rischio concreto di lesione persistente di un interesse sindacale all’approvvigionamento di risorse, e ha in coerenza preferito ricorrere alla figura della cessione del credito.
A sciogliere il nodo sono intervenute le Sezioni Unite secondo le quali il referendum abrogativo ha fatto venir meno il solo obbligo legale, ma ciò non toglie la possibilità di configurare ipotesi di cessione senza consenso del debitore, purché sussistano le condizioni di legittimità della cessione del credito, ossia la sua limitazione di durata e revocabilità ceduto (Cass., S.U., 21.12.2005, n. 28269, in Argomenti dir. lav., 2006, 1240 ss., con nt. di M. Novella). Condizioni soddisfatte poiché «la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale ed il pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce al sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del singolo lavoratore: recesso idoneo a determinare la cessazione della causa del negozio di cessione per sopravvenuta inesistenza nel collegamento con il negozio di base» (Cass., S.U., n. 28269/2005; ma già sulla questione Nogler, L., Sulle trattenute sindacali prima e dopo il referendum, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 646, secondo il quale l’irrevocabilità della cessione non è lesiva della libertà sindacale perché il lavoratore «può di anno in anno decidere se sindacalizzarsi, ed eventualmente con chi sindacalizzarsi»).
È bene precisare che le sezioni unite del 2005 si sono pronunciate sul regime normativo vigente fino al 31.12.2004, non rilevando – ratione temporis – le modifiche apportate al d.P.R. 5.1.1950 n. 180 dall’art. 1, co. 137, l. 31.12.2004, n. 311 e dall’art. 13 bis del d.l. 14.3.2005, n. 35, mediante le quali è stata estesa anche al settore privato la disciplina dell’incedibilità degli stipendi.
Si pone così l’interrogativo se la nuova normativa abbia o no introdotto un divieto generale di cessioni di credito di natura retributiva al di fuori dei soli casi in cui sia presente la finalità di restituzione di un prestito contratto con banche o intermediari finanziari. E, quindi, se la novella abbia inciso o no sulla qualificazione giuridica dell’istituto impedendo la ricostruzione dello stesso in termini di cessione del credito.
In effetti, gli artt. 5, 15 e 53 del d.P.R. citato, fanno espresso riferimento ai prestiti da estinguersi con cessione di quote del salario. E, secondo una giurisprudenza di merito (Trib. Torino, 4.12.2006; Trib. Torino, 6.3.2006, in Orient. giur. lav., 2006, I, 10 e ss., con nt. di I. Alvino; Trib. Torino, 18.11.2006, in Giur. piem., 2007, 2, 336), anche la cessione ammessa dall’art. 52 del d.P.R., in virtù del rinvio all’art. 51 e quindi del collegamento con gli art. 5 e 6 sarebbe esclusivamente quella conseguente alla concessione di un prestito in favore del lavoratore (Tiraboschi, M.-Fiorillo, G., Contributi sindacali: cessione del credito o delegazione di pagamento? Vecchie e nuove ambiguità, in www.bollettinoadapt.it, 11.6.2013).
A ben vedere, però, non pare possibile limitare la cessione di quote della retribuzione ai soli casi di prestito (Miscione, M., Sindacati non-firmatari, legittimazione e quote associative, in Dir. e pratica lav., 2006, 542), considerato che tale ipotesi, semmai, è specificamente disciplinata al precedente art. 51, il quale menziona espressamente le condizioni e le finalità della cessione autorizzata (“contrarre prestiti”), nel combinato disposto con gli art. 5 e 6.
Sembra piuttosto che l’art. 52, nell’ambito di una interpretazione sistematica, abbia inteso inserire una facoltà di cessione di quota di retribuzione alle sole condizioni in questa stessa norma previste, dovendosi intendere il riferimento al precedente art. 51, limitato alla sola individuazione dei soggetti interessati (tra l’altro il rinvio riguarda i datori e non i lavoratori), anche al fine di poter assegnare alle due disposizioni un diverso ambito di applicazione.
Del resto, l’art. 52 a differenza delle altre disposizioni, omette qualsiasi riferimento ai prestiti, essendo evidentemente destinato a regolare le cessioni di credito finalizzate ad estinguere debiti diversi dal prestito in denaro, come ad esempio le cessioni per il pagamento delle quote associative alle organizzazioni sindacali.
Una lettura, questa, rispettosa dell’art. 1 del d.P.R. secondo cui non possono essere ceduti stipendi, salve le eccezioni stabilite nella medesima fonte ed in altre disposizioni di legge: eccezione rappresentata, appunto, dall’art. 52 (v. Trib. Firenze, 8.6.2006; App. Torino, 14. 2.2007, in Giur. piem., 2007, 3, 437), ovvero dallo stesso art. 26, l. n. 300/1970 (in questo senso Trib. Rossano, 12.3.2007, in Argomenti dir. lav., 2008, 292, con nt. di Scarano, L.) in virtù della meritevolezza dell’interesse alla raccolta di contributi di rango costituzionale sotteso a questo tipo di cessione fermi restandone, al contempo, la piena compatibilità con la ratio della riforma del citato d.P.R. (da individuarsi nella protezione del lavoratore dall’usura) ed il pieno rispetto del disposto di cui all’art. 36 Cost. per la normale, assoluta esiguità degli stessi contributi (cfr. Trib. Bologna, 29.4.2009).
Ragionando diversamente, ossia impedendo al lavoratore di destinare una parte – in genere molto contenuta, e comunque soggetta ai limiti quantitativi (non superiore al quinto) e di durata (per un periodo non superiore ai dieci anni) previsti dall’art. 52 – della sua retribuzione al sindacato cui aderisce, si giungerebbe al paradosso «di trasformare una legislazione antiusura volta a tutelare il lavoratore, in una forma di restrizione irragionevole della sua autonomia e della sua libertà sindacale» (in questi termini Cass., 17.2.2012, n. 2314, in Lav. giur., 2013, 295 ss., con nt. di L.A. Cosattini; Cass., n. 13886/2012).
Fermo pertanto l’inquadramento dell’istituto come cessione parziale del credito, residua per il datore la possibilità di dimostrare che l’esazione importa oneri tanto gravosi da potersi considerare contrari ai principi di correttezza e buon fede.Ne segue che: a) il limite della non esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa non riguarda la validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il piano dell’adempimento, del pagamento; b) l’eccessiva gravosità può giustificare l’inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a modificarne in modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto contemperamento degli interessi (Cass., S.U., n. 28269/2005; Cass., 14.3.2007, n. 5917). Conseguenza non dissimile si verifica nel caso si volesse utilizzare il diverso parametro di riferimento costituito dal limite del normale svolgimento dell’attività aziendale proprio dell’art. 26 st. lav. (su cui vedi Esposito, M., op. cit., 642 ss.).
Occorre a questo proposito precisare che il numero dei dipendenti non può, di per sé, determinare a carico del datore di lavoro un onere aggiuntivo insostenibile, pena il paradosso di voler considerare tenute a operare le trattenute sindacali solo le imprese di medie e piccole dimensioni, con un risultato palesemente irrazionale (Cass., 20.4.2011, n. 9049). Cosicché, tenuto conto che un’impresa con un elevato numero di dipendenti ha, di norma, una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione, è necessario in questi casi fondare la decisione su una valutazione di proporzionalità tra la gravosità dell’onere e l’entità dell’organizzazione aziendale (Cass., 7.8.2008, n. 21368; Cass., 20.4.2011, n. 9049, in Riv. giur. lav., 2011, II, 615 e ss., con nt. di G. Cannati; Cass. n. 13886/2012).
La giurisprudenza è in coerenza propensa altrimenti a riconoscere la sussistenza di condotta antisindacale perché il rifiuto del datore lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato (Cass., S.U., n. 28269/2005; Cass., n. 21368/2008; Cass., n. 2314/2012).
In conclusione, dalla qualificazione della fattispecie come cessione del credito deriva: a) l’applicabilità dell’art. 2751 bis, n. 1 perché il privilegio che assiste il credito del cedente si trasferisce all’organizzazione sindacale ex art. 1263, co. 1, c.c. (confermata, di recente, da Cass., 17.4.2013, n. 9325); b) il diritto alla rivalutazione ex art. 429 c.p.c. in quanto la disposizione si applica ai crediti di lavoro che hanno un nesso immediato con i rapporti indicati all’art. 409 c.p.c.
Ciò detto non sembra neppure trascurabile un dato di sistema: rinvenendo l’obbligo a prescindere dall’esistenza di una fonte collettiva si eviterebbe il problema nato intorno all’art. 19 st. lav. ossia che un sindacato solo perché non firma non riceve i contributi. Difatti, seguendo la tesi della delegazione, il lavoratore avrebbe la facoltà di avanzare la richiesta solo per le organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi, con la conseguenza che al datore verrebbe dato di scegliere anche quali associazioni possano giovarsi del meccanismo delle trattenute e quali no, con conseguente pregiudizio, nella sostanza, alla regola di libertà dell’organizzazione sindacale di cui all’art. 39 Cost., posto che detto meccanismo appare l’unico in grado di assicurare un finanziamento adeguato per consentire l’esplicazione dell’attività del sindacato (Cass., n. 14032/2004).
Il referendum non ha inciso sulla operatività del meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 4, l. 12.6.1990, n. 146 nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. Questa norma prevede, in caso di sciopero illegittimo, la sospensione dei contributi sindacali comunque trattenuti dalla retribuzione.
Alcuni recenti episodi hanno mostrato come il diritto alla collettazione, privato del supporto legale e tornato nel novero dei diritti contrattabili, possa divenire un efficace strumento di esigibilità degli impegni contrattuali assunti dalle parti collettive (v. le cc.dd. clausole di responsabilità degli accordi collettivi di Pomigliano e Mirafiori). A livello interconfederale le parti sindacali si sono inoltre vincolate con il protocollo 31.5.2013 a definire attraverso la contrattazione nazionale «le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa».
Il “Testo unico” 10.1.2014 (su cui v. Corazza, L., Il conflitto collettivo nel testo unico sulla rappresentanza: prime note, in Dir. rel. ind., 2014, 1, 7 ss.) sembra confermare questo assunto nella misura in cui abilita i CCNL a «prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa».
È ragionevole ritenere che la privazione dei contributi sia uno dei rimedi che accederà all’apparato sanzionatorio da predisporre contro le violazioni degli impegni assunti (cfr. già alla luce del P.I. 2013 Maresca, A., Il contratto collettivo nazionale di categoria dopo il protocollo d’intesa 31 maggio 2013, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 707 ss.).
Posto che gli accordi interconfederali prevedono una rilevazione della rappresentatività basata anche sul conferimento delle deleghe al versamento dei contributi, si pone un dubbio nell’ipotesi in cui la collettazione risulti sospesa al momento della misurazione del dato associativo. Ove si riconoscesse alla sanzione della sospensione dell’obbligo a trattenere e versare anche l’effetto di impedire il computo della delega al sindacato sanzionato, la misura evocata dalla parte quarta, comma quarto, T.U., assumerebbe per il sindacato un effetto ben superiore alla mera perdita economica dei contributi. Tuttavia, le clausole sulla misurazione della rappresentatività e sulle sanzioni a garanzia dell’esigibilità perseguono interessi diversi e non sovrapponibili. Di conseguenza, il datore di lavoro, pur senza dare seguito alla trattenuta ed al pagamento del contributo in applicazione della misura sanzionatoria, potrà (e dovrà) comunque ricevere e conteggiare le deleghe ai soli fini della misurazione della rappresentatività del sindacato.
Sono da considerarsi in vigore, in quanto non intaccate dal referendum, le disposizioni di legge che disciplinano le modalità di riscossione dei contributi in caso di cessazione o sospensione del rapporto di lavoro (art. 23 octies, d.l. 30.6.1972, n. 267, conv. in l. 11.8.1972, n. 485), nonché quelle disposizioni che permettono agli enti previdenziali, sulla base di apposite convenzioni soggette ad approvazione ministeriale, di fungere da esattori per conto dei sindacati in determinati settori produttivi (in generale: art. unico l. 311/1973; nel settore dell’agricoltura: art. 11, l. 12.3.1968, n. 334 e art. 19, co. 2, l. 23.12.1994, n. 724).
Presupposto imprescindibile per operare la trattenuta è l’espressione di una volontà originaria del lavoratore. È perciò condivisa l’idea che le parti collettive non possano disporre autonomamente della collettazione. Sia infatti che si faccia uso dello schema della cessione, sia che si adotti il diverso schema della delegazione di pagamento, la manifestazione di volontà del delegante ovvero del cedente è un prius rispetto alla serie degli obblighi e dei diritti in capo a datori e organizzazioni sindacali che ne sono la conseguenza.
Secondo certa dottrina le cd. quote di servizio, e cioè i contributi dovuti da tutti i lavoratori iscritti e non per l’assistenza contrattuale, non presuppongono che il lavoratore si sia espresso (Dondi, G., Riscossione dei contributi sindacali e statuto dei lavoratori, in Riv. dir. lav., 1972, II, 226 ss.; Ficari, L., Modalità di riscossione dei contributi sindacali e principio di segretezza del versamento, in Dir. lav., 1974, II, 122). Esse risulterebbero alla luce di questa interpretazione difficilmente inquadrabili nelle strette maglie della normativa statutaria post referendaria (Gottardi, D., I contributi sindacali: un tema negletto non ancora assestato e attratto nel diritto comune, in Dir. lav. merc., 2010, 846), giacché costituiscono forme di finanziamento indipendenti dalla appartenenza sindacale. In effetti la fonte di questa specie di trattenuta non è da rinvenire nel rapporto associativo tra lavoratore aderente e associazione sindacale, bensì nell’accordo collettivo che sancisce l’obbligo datoriale di trattenere somme a carico della generalità dei lavoratori.
Più spesso le quote di servizio rappresentano nella visione negoziale delle parti collettive il corrispettivo per i servizi che le associazioni sindacali prestano erga omnes. Per tale ragione esse vengono imposte alla generalità dei lavoratori. Tali clausole, in quanto riconducibili alla parte obbligatoria del contratto collettivo, non sono vincolanti per il lavoratore per effetto della sola recezione del contratto collettivo stesso, ma è necessario che il prestatore autorizzi, anche implicitamente, il datore di lavoro a trattenere le somme ovvero che esista una prassi circa il concorso di tutti i lavoratori alle spese di rinnovo dei contratti collettivi, idonea ad integrare un uso negoziale (Cass., 28.5.1992, n. 6394, in Giust. civ., 1993, I, 99, con nt. di Pizzoferrato, A.). L’accordo collettivo che invece comprima la libertà sindacale del lavoratore al punto da precludergli la scelta dissenziente è evidentemente invalido (Lambertucci, P., Contributi sindacali, cit., 5; secondo Barbieri, M., Sulla legittimità dei contributi per assistenza contrattuale, in Riv. it. dir. lav., 1987, II, 288 ss., tali clausole sarebbero sempre e comunque nulle perché costituiscono una forma di pressione sul lavoratore).
Artt. 1260, 1269 c.c.; art. 26, l. 20.5.1970, n. 300; d.P.R. 5.1.1950, n. 180; d.P.R. 28.7.1995, n. 313.
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