SETTEMBRE, CONVENZIONE DI
È l'atto diplomatico firmato il 15 settembre 1864, che chiuse e coronò una lunga serie di tentativi fatti dopo il 1860, sia da parte di Napoleone III sia da parte del governo italiano, per giungere al risultato di porre fine alla permanenza in Roma del corpo di truppe francesi che vi si trovava dal 1849.
Al risultato erano del pari interessati i due governi: l'italiano, per far cessare una condizione di cose che urtava il sentimento d'indipendenza nazionale e rendeva più ardua la soluzione della questione romana; il napoleonico, per uscire dalla situazione imbarazzante in cui era messo dal fatto di dover restare a Roma con le proprie truppe a far da puntello alla politica papale, ostinatamente rifiutantesi alle riforme che lo stesso governo napoleonico consigliava.
I momenti più interessanti dei tentativi che precedettero la convenzione del settembre del 1864 si ebbero tra la primavera del 1860 e la primavera del 1861, per iniziativa del Cavour, e portarono all'elaborazione di un progetto in cui si trovano già tutti gli elementi e i caratteri che poi dovevano tornare nella convenzione. Arrestate per un momento per la morte del Cavour, le trattative vennero avviate di nuovo sotto i successivi ministeri presieduti dal Ricasoli e dal Rattazzi, ed ebbero in Francia un convinto assertore nel ministro degli Esteri É.-A. Thouvenel, che nell'aprile 1862 proponeva un progetto analogo a quello propugnato dal Cavour un anno prima. La ripresa di attività del partito d'azione, sostenitore di una soluzione radicale con mezzi rivoluzionarî, ostacolò lo sviluppo delle trattative, fino al punto di determinarne l'interruzione nell'autunno 1862, dopo il dramma di Aspromonte che provocò in Italia la caduta del Rattazzi, e in Francia la prevalenza delle correnti intransigenti, affermatesi con il licenziamento del Thouvenel e la sua sostituzione con É. Drouyn de Lhuys, ritenuto avversario della causa italiana.
Il compito di riallacciare le trattative interrotte fu assunto nel 1863 dal nuovo capo del governo italiano, Minghetti, convinto che lo sgombro dei Francesi da Roma potesse apparire un passo avanti nella soluzione della questione romana, e potesse quindi servire a calmare l'agitazione nazionale italiana in un momento in cui nulla si poteva fare per l'altra questione nazionale: la veneta. Il Minghetti si preoccupava anche di eliminare la possibilità che truppe straniere si trovassero in Roma al momento di un conclave, momento che nel 1863-64 era ritenuto assai prossimo, date le condizioni di salute di Pio IX. Le trattative, riprese dal Minghetti, furono condotte a Parigi col tramite di C. Nigra, e portarono, dopo non lievi difficoltà, all'atto del 15 settembre 1864. Ecco il contenuto dei suoi articoli: 1. l'Italia s'impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al papa e a impedire anche con la forza ogni attacco esteriore contro tale territorio: 2. la Francia doveva ritirare le sue truppe a mano a mano che fosse organizzato l'esercito papale, e s'impegnava a completare l'evacuazione entro due anni; 3. il governo italiano consentiva all'organizzazione di un esercito papale, anche composto di stranieri, sufficiente a tutelare la tranquillità dello stato del papa; 4. l'Italia era pronta ad addossarsi una parte proporzionale del debito dell'antico stato papale. Alla convenzione era unito un protocollo segreto, costituente una conditio sine qua non per il valore esecutorio della convenzione stessa: esso stabiliva per il governo italiano l'obbligo di trasportare entro sei mesi la capitale da Torino in altra città del regno.
La convenzione, come abbiamo detto, riprendeva le linee del progetto Cavour dell'aprile del 1861; ma le riprendeva aggravandole a danno dello stato italiano; infatti nel progetto del 1861 lo sgombro dei Francesi doveva essere immediato, mentre nella convenzione era dilazionato entro due anni, inoltre il progetto del 1861 non conteneva l'obbligo del cambiamento di capitale, che nel 1864 la Francia imponeva come condizione essenziale del patto; e ciò perché secondo la concezione francese, il trasporto della capitale da Torino, sede eccentrica, a Firenze, sede centrale, eliminava gl'inconvenienti che presentava la gloriosa città sabauda dal punto di vista geografico come capitale di un regno estendentesi fino alla Sicilia, e doveva quindi costituire la dimostrazione implicita della rinuncia a Roma, distruggendo la ragion d'essere di quella tesi che rivendicava Roma come capitale per la sua centralità.
Questa interpretazione data in Francia del protocollo annesso alla convenzione, costituì una delle cause dell'esplosione di malcontento con cui la convenzione fu accolta da gran parte dell'opinione pubblica, appena il suo contenuto fu conosciuto. La criticarono aspramente gli uomini del partito d'azione e le correnti di sinistra, che videro in essa una prova di asservimento alla Francia e un'implicita rinuncia a Roma e al completamento dell'unità. Mazzini colse motivo dalla convenzione per riprendere in pieno la propaganda repubblicana, accusando la monarchia di aver tradito la causa nazionale. A Torino si ebbero violenti moti di protesta il 21-22 settembre, determinati anche dall'irritazione della cittadinanza che, pronta a rinunciare a favore di Roma all'onore di essere la capitale, mal si piegava all'idea della rinuncia a favore di Firenze. Il rigore eccessivo con cui il ministero Minghetti represse i moti torinesi, arrivando allo spargimento di sangue, spinse il re a licenziare il ministero e a incaricare della costituzione del nuovo governo il piemontese La Marmora, che dovette anche assumere, e assolse in modo onorevole, il compito di far ratificare la convenzione dal parlamento e di attuare il trasporto della capitale a Firenze.
Il Minghetti, travolto nella bufera, difese eloquentemente il suo operato, sostenendo che la convenzione, preparando la partenza dei Francesi da Roma, aveva il vantaggio di eliminare una forza straniera dal centro della penisola, e che essa non implicava affatto la rinuncia a Roma, ma affidava la soluzione della questione romana all'azione delle "forze morali" le quali non avrebbero mancato di manifestarsi e di agire nel senso nazionale italiano. D'altra parte, secondo il Minghetti, nella situazione che era stata creata alla questione romana dal dramma di Aspromonte non sarebbe stato possibile ottenere da Napoleone III condizioni migliori di quelle contenute nel patto del 15 settembre. Quanto al trasporto della capitale da Torino verso il centro, si trattava di una necessità di ordine geografico, strategico e politico che si era fatta sentire fin da quando il regno era stato costituito. In realtà la convenzione di settembre si presenta come un compromesso, forse necessario al momento della conclusione, ma gravido d'incognite e di pericoli come dimostrarono gli eventi degli anni successivi. I "mezzi morali" a cui si faceva appello per la soluzione della questione romana, dopo che le truppe francesi se ne fossero andate da Roma e mentre il governo italiano s'impegnava a non agire con la forza e a impedire che altri agisse con la forza, erano un'illusione. Era fatale che, avvenuta l'evacuazione dei Francesi da Roma alla fine del 1866, il partito d'azione riprendesse il programma il cui sviluppo era stato interrotto ad Aspromonte, e che di fronte a tale ripresa e all'impossibilità del governo italiano di opporvisi le truppe francesi ritornassero in scena. Era fatale, cioè, che si arrivasse al dramma di Mentana, che è figliazione diretta della convenzione di settembre e che determinò nella questione romana e nei rapporti tra l'Italia e il Secondo Impero una situazione senza via di uscita, fino al momento in cui la convenzione di settembre fu virtualmente annullata dal crollo del Secondo Impero a Sedan.
Bibl.: M. Minghetti, La Convenzione di settembre, Bologna 1899; E. Bourgeois e E. Clermont, Rome et Napoléon III, Parigi 1907; P. Silva, La Convenzione di settem. alla luce di nuovi docum., in Nuova Ant., del 16 maggio 1913.