Abstract
Usando la distinzione tra regola e regolarità ed il concetto e la pratica della opinio, si mostra: 1) che nel diritto pubblico è presente la parola prassi e che diverse possono essere le risposte giuridiche nei confronti delle prassi; 2) che nel diritto costituzionale in particolare esistono regole non giustiziabili e non coercibili, quindi non giuridiche, che possono essere chiamate, seguendo la terminologia inglese, convenzioni costituzionali, essenziali per comprendere la dinamica costituzionale; 3) che le convenzioni costituzionali sono regole di comportamento dei e tra i soggetti della dinamica costituzionale, create, modificate, tolte, obbedite per ragioni politiche mediante accordi non formalizzati; 4) che in ogni caso non possono essere qualificate convenzioni costituzionali regole sulla cui base vengono adottati atti giuridici e prodotte conseguenze giuridiche; 5) che si danno quattro tipi di convenzioni costituzionali; 6) che anche rispetto alle convenzioni costituzionali, come rispetto alle consuetudini giuridiche, come in generale rispetto alle conseguenze che il sistema ricollega alle prassi o regolarità constatate, decisiva è l’opinio che accompagna tali prassi o regolarità.
Esistono nella esperienza costituzionale regolarità significative per la comprensione del sistema che però non sono costitutive del diritto oggettivo e neppure produttive di conseguenze giuridiche (mentre sono essenziali per la comprensione del sistema politico). Gli enunciati che vengono ricavati da tali regolarità ricevono in Gran Bretagna il nome di constitutional conventions, e come convenzioni costituzionali sono chiamate da quelle persone che più o meno consapevolmente riprendono il nome dalla esperienza britannica applicandolo alla esperienza del proprio Paese. In Italia, soprattutto in passato, ma ancora oggi, sono praticate, anche o in alternativa, espressioni diverse (la più usata è «regole della correttezza costituzionale»), talvolta per dire la stessa cosa, altre volte con la convinzione che si tratti di cosa in parte diversa. Si constata così che vi sono stati e vi sono ancora studiosi che negano la esistenza in Italia di convenzioni costituzionali nel senso usato dagli studiosi britannici, o esprimono comunque dubbi e scetticismo sul punto. In questa sede si sostiene che regole pienamente comparabili alle britanniche constitutional conventions si trovano anche in Italia, che dunque è conveniente usare lo stesso nome tradotto, anche se è innegabile, come verrà spiegato nel par. 4, che in principio gli studiosi britannici trattano di convenzioni del primo tipo che in Italia, ed in tutti gli Stati con costituzioni scritte e rigide, sono molto meno frequenti e molto più difficili da instaurare.
Il punto di partenza è la constatazione di una regolarità nella esperienza costituzionale, e cioè la constatazione nei comportamenti dei soggetti della vita costituzionale di un fatto che si ripete con costanza tale da poter ricavare da questo fatto la esistenza di una regola di comportamento alla quale quei soggetti si attengono e che spiega sia la esistenza del fatto sia il suo significato costituzionale.
Come è evidente il punto di partenza è in buona sostanza quello stesso che caratterizza (non da solo, si faccia attenzione) la consuetudine giuridica, e cioè un fatto constatabile costituito dal ripetersi nel tempo di comportamenti che hanno senso solo se interpretati e ricostruiti come comportamenti volontari in applicazione di una regola non scritta, ricavabile da questi stessi comportamenti e accolta dal sistema in base ai criteri da esso stesso seguiti come costitutiva del diritto oggettivo. Si tratta di un punto di partenza comune per arrivare a conclusioni molto diverse: se si parla di consuetudine giuridica si assume che la regola ricavata dalla regolarità riscontrata è giustiziabile e coercibile come ogni altra regola del diritto oggettivo riconosciuta dalle autorità di uno Stato; si parla di convenzione costituzionale proprio per negare queste conseguenze. Da qui l’ovvio problema del criterio o dei criteri in base ai quali distinguere tra consuetudine giuridica (e più specificamene consuetudine costituzionale o in materia costituzionale) e convenzione costituzionale, ma ancora prima il problema di distinguere convenzioni e consuetudini dai molti casi di regolarità giuridicamente significativi diversi però da convenzioni e consuetudini, ed infine i casi di regolarità giuridicamente significativi dai casi ancora più numerosi e diversificati di regolarità della vita umana associata senza significato e conseguenze giuridiche.
Per questa ragione, prima di addentrarsi nella analisi di quelle regolarità che qui vengono chiamate e definite convenzioni costituzionali (e nella analisi, inevitabilmente molto sommaria in questa sede, di quelle regolarità che danno luogo a vere e proprie consuetudini giuridiche di diritto costituzionale o comunque in materia costituzionale, per le quali si rinvia alla specifica voce) conviene dedicare qualche riflessione al punto di partenza comune, e cioè alle regolarità constatabili nei comportamenti umani.
Si tratta di un punto di partenza che è enormemente esteso e tocca praticamente tutti gli innumerevoli modi di comportamento degli esseri umani in qualche modo controllabili e quindi modificabili da essi se esiste sufficiente consapevolezza e volontà. Dalla analisi in altre parole vanno esclusi quei modi di comportamento imposti da madre natura.
Le parole mediante le quali designare i comportamenti qui ricordati sono costume, abitudine, uso, pratica, prassi, con l’avvertenza che in questa sede ci riferiamo, con una parola che le comprende tutte, a regolarità riferite a molte persone e vissute e comprese proprio perché comuni a molte persone, in numero indeterminato ed in generale molto ampio. In altre parole viene qui esplicitata una seconda delimitazione: non ci occupiamo di abitudini, costumi, usi, pratiche, regolarità se ed in quante riferite ad una singola persona o a poche persone in stretta relazione privata tra loro. Siccome le convenzioni costituzionali di cui tratteremo riguardano spesso i rapporti tra pochi soggetti costituzionali, può sembrare che proprio esse contraddicano quanto poco prima sostenuto: in realtà, come vedremo, i soggetti delle convenzioni costituzionali sono soggetti appunto costituzionali e cioè, in modo diretto o indiretto, soggetti rappresentativi di gruppi sociali entro l’insieme sociale o rappresentativi dell’intero gruppo sociale di riferimento, cosicché le convenzioni costituzionali non sono idiosincrasie o stranezze o abitudini o costumi o usi particolari di singole persone in quanto individui, ma regole di comportamento che caratterizzano il sistema politico-costituzionale, e dunque regolarità che interessano e condizionano vaste cerchie di persone.
Nel senso sopra delineato, la lingua parlata e scritta da una comunità è anzitutto un fatto, una pratica, una regolarità; ma tali sono anche i costumi alimentari, sessuali, sociali, affettivi, e così via all’infinito. Se vi sono regolarità, constatabili come un qualunque fatto, è del tutto ovvio riscrivere tali regolarità in termini di regole: chi si comporta regolarmente, per ciò solo si attiene ad una regola che esprime con parole esplicite la regolarità; chi non vuole interrompere, modificare, togliere una regolarità (che materialmente potrebbe rompere, visto che stiamo parlando di comportamenti umani controllabili dagli interessati se essi vogliono) deve attenersi alla regola che esprime, manifesta la regolarità.
Regolarità non vuol dire assoluta costanza nel tempo dei comportamenti: il solo fatto che stiamo parlando di comportamenti umani che rientrano nelle capacità di controllo e di mutamento degli interessati ci avverte subito che non stiamo parlando di automi, e che quindi possono darsi almeno due vicende significative che caratterizzano le regolarità di cui stiamo parlando: a) anzitutto è possibile e continuamente sperimentato che col tempo molte regolarità cessino ed altre subentrino, quale che sia il legame tra le prime e le seconde; b) in secondo luogo le regolarità di cui stiamo parlando si riferiscono ad una collettività, ad un gruppo sociale, e può ben accadere che insieme con la regolarità convivano ribellioni e violazioni di tale regolarità, ora casuali e intermittenti di questo o quell’individuo, ora sistematiche e continue da parte di gruppi, senza che per questo venga meno il fatto regolarità dell’intera società considerata.
Le regolarità sono un fatto constatabile dagli osservatori, ma non è detto che coloro che praticano tali regolarità ne siano consapevoli o pienamente consapevoli (può accadere ma anche non accadere); meno che mai si può assumere che gli interessati sappiano formularle (anche in questo caso beninteso è possibile che alcuni o molti sappiano formularle, magari in modo non sufficientemente chiaro e rigoroso: anche questi aspetti possono darsi o non darsi e possono diventare oggetto di indagine).
Con questa ampiezza esistono infinite regolarità e infinite regole ricavabili da tali regolarità. È del tutto ovvio che per andare avanti nella analisi e nella comprensione è necessario distinguere con proprietà e acutezza: il linguista esaminerà le regolarità della lingua secondo criteri, strumenti, analisi e conseguenze del tutto diverse dal modo con il quale un giurista esaminerà le regolarità che trova nella esperienza giuridica che egli studia. In queste sede ovviamente gli strumenti e le finalità della indagine sono giuridici.
Come già detto, il nome “convenzioni costituzionali” e la cosa designata dal nome nascono in Gran Bretagna. A questo proposito in generale si fa cominciare la storia del nome e della riflessione sulla cosa (non sulla cosa ovviamente, che in realtà la riflessione scopre essere presente da secoli) con un famoso libro di Dicey pubblicato nel 1885 (vedi bibliografia). Da allora il tema è stato ampiamente ripreso, con non poche variazioni, sia come è ovvio nel paese di origine, sia in altri paesi. Anche in Italia si è cominciato a parlare di convenzioni costituzionali da tempo, in origine per negare la applicabilità nel nostro ordinamento di tale istituto (preferendo i più parlare ora direttamente di vere e proprie consuetudini giuridiche ora di regole della correttezza), ma oggi prevale, sia pure con molte riserve presso molti, l’opinione che anche nel sistema costituzionale italiano si danno convenzioni costituzionali, eguali o molto vicine, come tipo di regola, a quelle inglesi.
In estrema sintesi le convenzioni costituzionali come definite in Gran Bretagna sono a) regole di comportamento tra soggetti di vertice del sistema costituzionale non riconducibili ad uno specifico atto normativo e quindi per conseguenza non scritte (non esiste cioè un documento ufficiale che le manifesti); b) sono rigorosamente seguite per lunghi periodi per ragioni essenzialmente di equilibrio politico e costituzionale tra gli organi di vertice del sistema; c) non sono giustiziabili e meno che mai coercibili; d) quindi per i teorici inglesi non fanno parte del diritto oggettivo, ma restano regole essenziali per comprendere il modo di funzionare del sistema costituzionale (sulle convenzioni inglesi vedi anche quanto sarà detto nel par. 4).
Per dimostrare che regole del genere si trovano anche nell’ordinamento italiano illustro due esempi, uno antico e non più esistente (capace dunque di spiegare perché e come una convenzione scompare o comunque viene modificata) ed uno molto recente (per dimostrare che convenzioni costituzionali si trovano anche oggi).
La Costituzione prescrive che cinque giudici della Corte costituzionale vengano eletti dal Parlamento in seduta comune. La prima volta che si pose il problema concreto di eleggere i giudici di spettanza parlamentare i partiti presenti in Parlamento si chiesero come diventava possibile arrivare ad un accordo tale da raggiungere se non i due terzi degli aventi diritto nelle prime tre votazioni almeno i tre quinti dalla quarta in poi, limite al di sotto del quale la votazione non è valida. Si arrivò ad un accordo, non formalizzato in alcun documento, ma certo e consapevolmente voluto. Questo accordo può venire scritto così (si tratta in origine di due clausole): a) spetta al maggior partito del momento, e cioè la Democrazia Cristiana, la designazione di due giudici, fermo restando ovviamente che bisognava raggiungere il quorum stabilito in Costituzione e dunque con l’impegno di tutti gli altri partiti dell’arco costituzionale (altra convenzione costituzionale oggi scomparsa: erano i partiti che avevano votato la Costituzione, e che proprio per questo avevano riservato a se stessi una serie di cariche di ordine costituzionale, escludendo in particolare il Movimento Sociale Italiano) di votare il designato; una designazione spettava al Partito Comunista Italiano, un’altra al Partito Socialista Italiano, la quinta ad uno dei minori partiti (e cioè, vale la pena di ricordare, Partito Liberale Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Partito Social Democratico Italiano), con l’intesa che vi sarebbe stata una rotazione nelle successive elezioni; b) scaduto un giudice della Corte, spettava al partito che lo aveva a suo tempo designato designare il nuovo giudice, con la particolarità già detta per quanto riguarda i partiti minori dell’arco costituzionale.
Qualche anno dopo, e da allora fino alla cessazione di questa convenzione costituzionale, venne di fatto aggiunta una terza clausola: poiché un partito si oppose alla designazione fatta dal partito a cui spettava, costringendo questo partito, dopo una lungo braccio di ferro, a cambiare designazione, e così avvenne in altri pochi casi, la terza clausola di fatto seguita diceva che: c) eccezionalmente gli altri soggetti politici potevano rifiutare la prima designazione e, se avevano abbastanza forza numerica, costringere il partito a cui spettava la designazione a designare un altro candidato. Fino al 1994, quando tutti i partiti che avevano “stipulato” questo accordo scomparvero, la convenzione ha funzionato secondo le clausole descritte.
Quello che ora mi preme di sottolineare è che la regola convenzionale descritta, ed altre che si potrebbero descrivere, nascono dall’accordo, in generale tacito nel senso di non formalizzato, si modificano in base ad un nuovo accordo, muoiono quando muore l’accordo, di per sé non producono alcuna conseguenza giuridica. Giuridicamente l’unica cosa che conta nell’esempio fatto, ed in altri casi eguali a questo, sono le votazioni; che l’accordo ci sia o non ci sia, venga rispettato o venga violato, non produce alcuna conseguenza giuridica; l’accordo non ha giudice perché per tutto quello che è stato detto non può avere giudice, dipende dalla volontà dei protagonisti. È del tutto giustificato in questi casi parlare di autonomia politica (è ovvio il parallelo con l’autonomia privata, fatte le debite e innumerevoli differenze): il diritto costituzionale implicitamente apre spazi di scelta ai soggetti della dinamica costituzionale, e questi soggetti, se vogliono e ne sono capaci, riempiono questi spazi con regole da essi stessi create e da essi liberamente modificabili (liberamente in senso giuridico, perché dal punto di vista politico le reazioni dei soggetti che non sono d’accordo possono essere così violente da costringere tutti a rispettare la convenzione fino ad allora seguita).
Illustro ora l’esempio più recente. Dal 1996, con l’instaurarsi di un diverso meccanismo politico basato sul bipolarismo, si è affermato il principio (di ordine politico e cioè anche in questo caso convenzionale) che alcune commissioni parlamentari, quelle aventi prevalentemente una funzione di garanzia, siano presiedute da un parlamentare designato dalla minoranza tra i suoi membri (con di nuovo la regola convenzionale che la maggioranza si impegna a votarlo per raggiungere il quorum giuridicamente previsto o dalla legge o dal regolamento parlamentare). Nella legislatura che comincia nel 2008 si deve eleggere il Presidente della Commissione di vigilanza sulle comunicazioni radiotelevisive. La minoranza designa il suo candidato, ma questa volta la maggioranza, quali che siano le ragioni che qui non interessano, rifiuta di votarlo. Il braccio di ferro dura a lungo, con impossibilità per la Commissione di riunirsi e cominciare a funzionare, finché la maggioranza ha una strana pensata: decide essa quale esponente della minoranza eleggere e lo elegge, contro la minoranza che, ovviamente, non accetta una tale beffa. La cosa diventa ancora più imbrogliata e grottesca dopo che l’eletto, invitato a dimettersi prima dalla minoranza e poi anche dalla maggioranza che nel frattempo aveva trovato un accordo su un nuovo nome, designato questa volta dalla minoranza come da regola convenzionale, non si dimette ed anzi vuole esercitare le sue funzioni di presidente e convoca a questo fine la commissione, i cui membri quasi alla unanimità non si presentano facendo mancare il numero legale. Situazione ridicola e grottesca che alla fine viene risolta con una invenzione giuridica dei due presidenti di Camera e Senato, i quali, costatato che la commissione non può funzionare, la sciolgono e nominano una nuova commissione (senza ovviamente il presidente della precedente commissione); la rinnovata commissione elegge il suo presidente designato dalla minoranza. Abbiamo in questo caso (anche se in chiave grottesca, ma questi sono i tempi) la ripetizione della vicenda prima raccontata; però diventa più evidente la diversità tra regola convenzionale e regola giuridica: l’accordo tra i partiti sulla elezione del presidente della commissione di per sé non ha alcun valore giuridico, perchè giuridicamente conta solo il raggiungimento del quorum legale previsto dalle norme; lo scioglimento della commissione invece, in quanto atto giuridico con specifiche conseguenze giuridiche, non può basarsi su una convenzione costituzionale, ma su una norma giuridica che fonda il potere dei presidenti delle Camere di sciogliere la commissione in caso di impossibilità di funzionamento. Non intendo rispondere qui alla domanda su quale sia questa norma giuridica; qui intendo sottolineare che non è ammissibile parlare di convenzioni costituzionali se si tratta di regole sulla cui base vengono adottati atti giuridicamente efficaci (e quindi giustiziabili e coercibili).
Si tratta di una delimitazione fondamentale, che segna la linea di confine tra convenzioni costituzionali e consuetudini giuridiche o comunque fatti normativi. Se una regola, quale che sia il suo fondamento, costituisce a sua volta fondamento di un atto giuridico, tale regola comunque non è una convenzione costituzionale.
Accertato che anche in Italia vi sono nella dinamica costituzionale alcune regole convenzionali, come prima descritto, esse sono tutte dello stesso tipo? L’analisi da tempo condotta mostra che vi sono almeno quattro tipi di convenzioni costituzionali (la classificazione delle convenzioni costituzionali in quattro tipi venne formulata da Rescigno, G.U., Le convenzioni costituzionali, Milano, 1972; è stata ripresa da autorevoli costituzionalisti e sembra ormai pacifica per quei giuristi che accolgono la nozione e le definizioni di convenzioni costituzionali: vedi Guastini, R., Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 658; Pizzorusso, A., Delle fonti del diritto – Art. 1-9, inCommentario Scialoja-Branca, Milano, 2011, 647).
Nel primo tipo (che costituisce il caso fondamentale e caratterizzante nell’ordinamento inglese, e che a rigore, dove c’è una costituzione scritta, diventa violazione o aggiramento di questa e dunque in principio è inammissibile) una regola convenzionale prende di fatto il posto di una regola legale, che viene rispettata per la forma, ma svuotata nella sostanza. In Gran Bretagna, secondo la ricostruzione che gli stessi giuristi inglesi danno, giuridicamente la regina vuole la legge, e così suona la formula ufficiale di promulgazione, e cioè giuridicamente potrebbe non volerla; però da secoli la regina vuole costantemente la legge approvata dalla Camera dei comuni e, nei limiti oggi previsti, dalla Camera dei Lords, e non può non volerla; la regina scioglie la Camera dei Comuni, e cioè giuridicamente decide sul punto, però è stata convenzione pacifica per decenni che la Regina scioglieva anticipatamente la Camera dei Comuni se e solo se lo richiedeva il primo ministro (questa convenzione è stata sostituita recentemente da una legge, e per questo solo fatto non esiste più; oggi in base al Fixed-term Parliament Act 2011, del 15.9.2011, lo scioglimento anticipato del Parlamento è ammissibile solo in due ipotesi tassative: a) una richiesta dei 2/3 della Camera dei Comuni; b) incapacità di formare un nuovo governo entro 14 giorni a seguito di un voto di sfiducia).
Anche nell’ordinamento italiano si trovavano (quando il sistema elettorale era proporzionale) e si trovano oggi alcuni casi che rientrano nel tipo e che vengono descritti dagli osservatori, in particolare per quanto riguardava un tempo la nomina dei ministri, che nella sostanza erano di esclusiva pertinenza dei partiti di maggioranza che sceglievano in piena autonomia i propri ministri, anche se formalmente i ministri venivano nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, come prescrive il testo costituzionale; ed oggi la nomina del Presidente del Consiglio, che è e politicamente non può non essere (se il sistema politico rimarrà quello attualmente praticato) la persona designata prima delle elezioni dalla lista o coalizione che ha vinto in seggi, anche se formalmente la decisione spetta al Presidente della Repubblica (con controfirma del Presidente neonominato).
Le convenzioni del secondo tipo sono state già schematizzate descrivendo i due esempi prima illustrati: sono regole desumibili da regolarità mediante le quali i soggetti politico-costituzionali, nel loro rapporti, riducono ad una o poche regole il fascio di possibilità che stanno all’interno di una regola giuridica (la regola giuridica consente molte possibilità, la convenzione costituzionale integra la regola giuridica prescrivendo una o poche soltanto tra le molte possibilità).
Le convenzioni del terzo tipo non si appoggiano ad alcuna regola legale, limitano, se convenzioni esistono, possibilità di fatto giuridicamente lecite. Non è giuridicamente vietato al Presidente della Repubblica chiedere pubblicamente le dimissioni del Governo con un suo discorso pubblico contro la maggioranza parlamentare che invece continua a manifestare fiducia nel Governo: non è mai avvenuto, sono certo che non avverrà finché resterà questa Costituzione, perché tutti sanno che il Governo è responsabile politicamente davanti alle Camere e non davanti al Presidente della Repubblica. Ma di per sé, a meno che sia un sintomo (ma solo un sintomo) di attentato alla Costituzione, nessuna regola giuridica vieta al Presidente della Repubblica di chiedere pubblicamente le dimissioni del Governo contro la volontà della maggioranza, e se dovesse accadere sono certo che vi sarebbe un putiferio politico ma non conseguenze giuridiche (l’attentato alla Costituzione esige ben altro che una semplice dichiarazione).
Infine vi possono essere convenzioni di un quarto tipo quando i politici attribuiscono costantemente uno specifico significato politico ad un evento giuridico che mantiene le sue specifiche caratteristiche giuridiche, cosicché si ha la sovrapposizione di due regole, quella giuridica e quella convenzionale, ciascuna produttiva di specifiche conseguenze. Caso tipico è il voto contrario alla legge di bilancio, che di per sé è e resta un voto negativo su una proposta di legge, ma convenzionalmente viene inteso come sfiducia nei confronti del Governo, che in tal caso presenta le sue dimissioni (o comunque viene invitato a dimettersi).
Ma vi possono essere casi di regolarità che possono essere interpretate sia come manifestazioni di convenzioni costituzionali sia come manifestazioni di consuetudini costituzionali. Ad es., è un fatto che dopo le elezioni il Governo presenta le dimissioni, se non era già dimissionario, o non ritira le dimissioni, anche nel caso in cui le elezioni abbiano confermato la precedente maggioranza e quindi confermato politicamente il governo in carica. Si tratta di una convenzione costituzionale (che sul piano giuridico, e non però sul piano politico, può essere modificata o violata liberamente dalle forze politiche) o di una consuetudine giuridica (come tale giuridicamente obbligatoria e giustiziabile)? È prassi consolidata che il Presidente della Camera o del Senato non voti: è una convenzione o una consuetudine (cioè giuridicamente vincolante, e quindi giustiziabile)? Si sostiene che non è ammesso dare sfiducia al Presidente della Camera o del Senato, e cioè chiedere con un voto le sue dimissioni, e neppure direttamente revocarlo, e quindi una eventuale richiesta di voto in tal senso va respinta in limine. Che tipo di regola è questa, una volta riconosciuta che esiste in tal senso una regolarità di comportamenti? In sintesi, in base a quale criterio decidere in casi del genere?
Conviene allargare il discorso e collocare queste domande all’interno di un tema più vasto. Esiste da tempo nel diritto pubblico (raramente nel diritto privato) una parola molto comoda per indicare qualcosa che si ripete con sufficiente regolarità nella attività di organi ed enti pubblici ma non si vuole (almeno inizialmente) qualificare sul piano giuridico: la parola prassi. Ci si limita a descrivere ciò che l’organo o l’ente fa regolarmente rispetto ad una determinata questione (che ovviamente va previamente descritta e delimitata).
Le conseguenze possibili sul piano giuridico rispetto ad una prassi accertata sono diverse secondo il sistema giuridico praticato.
Il caso più semplice, e molto frequente, è quello di una prassi giuridicamente non significativa: c’è ma non produce di per sé alcuna conseguenza giuridica. Basta tener presente che le modalità mediante le quali ogni persona può esercitare un diritto o un potere, oppure adempiere ad un obbligo o dovere, sono nei fatti infinite e che il diritto si limita ad imporne, se le impone, soltanto alcune, per accorgersi di quanto ampia resti sempre la libertà umana rispetto ai particolari che appaiono e restano senza significato rilevante rispetto alla esistenza ed all’esercizio di quel diritto o potere o obbligo o dovere. Un esempio per tutti: che un collegio debba riunirsi per decidere è ovvio; che debba riunirsi almeno una volta a settimana, può essere disposto, ma le norme possono anche tacere sul punto: il collegio si riunirà talvolta due volte a settimana, talvolta una volta dopo quindici giorni e così via; se il diritto prescrive che si riunisca almeno una volta per settimana, potrà riunirsi ogni giovedì, ma giuridicamente la cosa è del tutto irrilevante: importante è che si riunisca almeno una volta ogni settimana.
La prassi può rivelarsi banalmente un comportamento conforme al diritto (anche se mi pare inusuale e strano usare la parola prassi per indicare un caso del genere).
La prassi può essere il risultato di una circolare del ministro, cioè di un atto concettualmente normativo che però secondo il sistema giuridico italiano vincola i dipendenti pubblici ai quali si rivolge, ma non il giudice.
La prassi può diventare il criterio in base al quale accertare che un atto amministrativo è viziato da eccesso di potere, se l’atto senza motivazione sufficiente non ha seguito la prassi fino a quel momento seguita dall’autorità che ha emanato l’atto.
La prassi può rivelarsi in realtà la manifestazione di una vera e propria consuetudine giuridica, costitutiva di diritto oggettivo, sulla base naturalmente dei criteri che il sistema ha adottato per qualificare una prassi (e cioè una regolarità, un uso) come fatto produttivo di diritto oggettivo; se si accetta l’opinione prevalente in Italia per cui non sono ammesse consuetudini contra legem, ma sono ammesse consuetudini secundum ed extra legem, e si ha consuetudine quando l’uso è accompagnato dalla opinio juris ac necessitatis, questi diventano i criteri, ovviamente da accertare nel caso concreto, in base ai quali alcune prassi, se sostenute dalla opinio juris et necessitatis, vengono potenziate a fatti produttivi di diritto oggettivo.
Infine, senza nessuna pretesa di aver esaurito l’indagine intorno alle possibili qualificazioni giuridiche di una prassi accertata, esistono nel diritto costituzionale le convenzioni costituzionali, con i caratteri prima descritti. In particolare ribadisco che non è possibile qualificare una regolarità come convenzione costituzionale se essa diventa il fondamento di conseguenze giuridiche: in ogni caso siamo al di fuori del tema convenzioni costituzionali.
Insieme con la parola regolarità in questo scritto ricorre una seconda parola chiave e cioè opinio (e quindi anche assenza di opinio).
È necessario, affinché si possa concludere che vige una specifica regola giuridica consuetudinaria, che la cerchia dei soggetti implicati nella vicenda descritta siano convinti della opportunità e quindi della necessità sociale che la regola consuetudinaria venga obbedita e se del caso sanzionata come qualunque altra norma di diritto oggettivo.
Ma anche nelle convenzioni costituzionali domina l’opinio, e una opinio, e cioè una consapevolezza, che si affida alle ragioni politiche e costituzionali, e non al diritto coercibile: una opinio diversa da quella juris et necessitatis sulla cui base nasce la consuetudine giuridica.
Ma anche gli altri casi prima schematicamente ricordati nei quali, data un prassi accertata, si trae una specifica conseguenza giuridica, si basano su una opinio, e cioè su un giudizio intorno alla natura giuridica ed alle conseguenze giuridiche di tale prassi accertata.
Come tutte le cose di questo mondo, anche rispetto alla opinio si tratta di qualcosa che può venire indagata, con tutti i mezzi di prova di cui si dispone; trattandosi di atteggiamento mentale, è ovviamente più difficile da riconoscere e provare di quanto sia riconoscere e provare un fatto materiale, visibile, palpabile; non più però di quanto sia difficile accertare e riconoscere fenomeni individuali quali il dolo o la colpa, o fenomeni collettivi quali la responsabilità politica o la rappresentanza politica.
È anche possibile scoprire che rispetto ad una regolarità non sussiste alcuna specifica opinio, nel senso che la regolarità non è accompagnata da una convinzione specifica intorno ad essa tale da permettere a coloro che pure materialmente vivono la regolarità di ricavare una consapevole regola di comportamento. In altre parole la regola sta nella testa dell’osservatore che ha indagato sulla regolarità, ma non nella testa di coloro che praticano la regolarità. Così può accadere, ritornando alle convenzioni costituzionali, che vi sia in una cerchia politica scarsa o nessuna consapevolezza della esistenza e della natura di tali convenzioni, con la conseguenza che l’osservatore assiste ad una serie confusa di comportamenti che alludono ad una possibile regolarità e conseguente regola, ma così debole e così slegata da una chiara e responsabile consapevolezza da far concludere che in realtà nel caso esaminato non c’è neppure una convenzione costituzionale. Si spiega così perché era molto più facile trovare convenzioni costituzionali nella “prima repubblica” e molto più difficile nella “seconda repubblica”; perché le convenzioni costituzionali siano ampiamente conosciute e praticate in Gran Bretagna, poco e male conosciute in Italia (e quindi meno praticate).
Il caso che dimostra quanto poco siano conosciute e praticate le convenzioni costituzionali, e quali danni gravi può provocare questa ignoranza, è quello intorno al potere di grazia deciso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200/2006 (sulla base peraltro della dottrina dominante che egualmente intende irrigidire in regole giuridiche l’insieme dei rapporti tra Capo dello Stato e ministro incardinati sull’istituto della controfirma). Con quella sentenza la Corte pretende di decidere una volta per tutte che il potere di grazia spetta soltanto al Presidente della Repubblica e che il ministro ha l’obbligo giuridico (si noti bene: giuridico) di controfirmare, con una prima conseguenza grottesca, e cioè la aperta violazione dell’art. 89 Cost. che, facendo responsabile il ministro per la apposizione della controfirma, chiaramente non può poi imporre al ministro l’obbligo giuridico di controfirmare su imposizione di un altro; una seconda conseguenza, altrettanto grave, è che, contro ogni principio democratico, si assiste alla creazione di un potere (quello di dare grazia) senza connessa responsabilità (non risponde il Presidente della Repubblica, perché risponde solo per attentato alla Costituzione e alto tradimento, non risponde il ministro che, secondo la Corte; è obbligato a controfirmare). In realtà la pratica ha poi subito smentito la Corte costituzionale: essa, per dare un minimo di credibilità e consistenza alla sua tesi, aveva sostenuto, contro millenni di storia politica e costituzionale, che la grazia può essere concessa solo per ragioni umanitarie; non è passato molto tempo per vedere, come è politicamente giusto che sia, una grazia concessa per ragioni di politica internazionale, cosicché il Presidente della Repubblica, per il momento, si è appropriato di un potere grazie alla Corte costituzionale, senza però rispettare le condizioni che la Corte aveva indicato; in una parola il Presidente della Repubblica si comporta come ci si comporta con le convenzioni costituzionali. Del resto è tutto da verificare come in concreto si comportano Presidente della Repubblica e ministro nei confronti dell’atto grazia: non mi stupirei affatto di scoprire che questo rapporto resta, come prima, al di là degli aspetti procedurali, un rapporto tutto politico.
Insomma, sia per la grazia sia in generale per tutti gli atti controfirmati, esaminerei se in pratica vi sono regolarità che atto per atto delimitano i rispettivi poteri in termini politici, e quali sono queste regolarità constatabili se regolarità esistono (potrebbero anche esserci atti rispetto ai quali non si è creata alcuna convenzione costituzionale), e lascerei al diritto quello che la Costituzione dice espressamente, e cioè che gli atti del Capo dello Stato, tutti, vanno controfirmati per essere validi, e che naturalmente la controfirma non è adempimento di un obbligo giuridico ma un atto giuridico mediante il quale si manifesta un potere del ministro (e attraverso il ministro del Governo) previsto dalla Costituzione (fatte salve le eventuali regole convenzionali in materia, risultanti dalla pratica dei rapporti tra ministro e Presidente della Repubblica, con il consenso tacito magari di tutti gli altri attori costituzionali). Ne guadagnerebbe sia il diritto costituzionale, sia la vita costituzionale, sia la consapevolezza in tutti del confine tra politica e diritto, sia la serietà dei soggetti politici richiamati al loro senso di responsabilità in termini di diritto costituzionale e in termini di politica (che non è e non può essere la lotta selvaggia e grottesca a cui assistiamo in questi tempi).
Naturalmente la definizione delle convenzioni costituzionali spiega perché non ha senso per esse indicare le fonti normative.
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