conversione
. Della c. morale D. fornisce tre analisi. La prima, introspettiva, parte da un'esperienza propria: racconta egli stesso, nella Vita Nuova (XXXV ss.) come sorse e crebbe in lui il malvagio desiderio della gentile donna consolatrice e come, dopo una battaglia tra appetito (cuore) e ragione (anima), nacquero vergogna e pentimento, con il prevalere della costanza, grazie a una forte imaginazione di Beatrice ancora bambina innocente (XL 1 ss.). La seconda analisi, quella puramente filosofica, è ispirata al IV libro dell'Etica aristotelica, cap. 9 (1128b 10-28; cfr. il Commento di s. Tommaso, lect. XVII), e spiega che La verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso; e di questa paura nasce un pentimento... lo quale ha in sé una amaritudine che è gastigamento a più non fallire (Cv IV XXV 10).
Alla, terza analisi, riguardante la c. etico-religiosa, è consacrata la Commedia, e specialmente la seconda cantica, che raffigura simbolicamente tutto il processo dell'epistrofe - metánoia, già predicata dai profeti, da Giovanni Battista, da Gesù stesso e dagli apostoli, insegnata poi sotto il binomio c. - penitenza dai padri, dai maestri spirituali e dai teologi, nonché istituzionalizzata dai concili e dalle leggi ecclesiastiche. Il significato principale della Commedia, voluto dall'autore, è, come nelle favole de li poeti, quello allegorico, nascosto sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere... che vuol dire che lo savio uomo [cioè il poeta] con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori (Cv II I 3). Nella Commedia anche D. vuol ‛ umiliare ', cioè convertire i cuori dei peccatori che non hanno vita ragionevole alcuna (I 3), e lo fa per mezzo del suo finto viaggio nei tre regni d'oltretomba, da intendersi nel senso allegorico secondo che per li poeti è usato (I 4). Infatti, secondo il senso letterale, la Commedia vuol descrivere " lo stato delle anime dopo la morte, inteso genericamente " (Ep XIII 24); secondo il senso allegorico, invece, vuol " rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria (morale) e condurli allo stato di felicità " (XIII 39), cioè di sanità morale. Nella Commedia, come in Ps. 113, 1 " In exitu Israël de Aegypto ", per D. " è significata la conversione dell'anima dal lutto della miseria del peccato allo stato di grazia " (Ep XIII 21). A chi obietta al poeta che non ha visto il Paradiso da lui descritto nella cantica, egli risponde che Iddio " manifesta più o meno, come vuole, la sua gloria a coloro che ancora vivono per quanto male, e lo fa ora pietosamente ad conversionem, ora severamente ad punitionem " (XIII 82). Quanto allo spettacolo dell'Inferno, esso deve spaventare i peccatori e spingerli all'avversione per i diversi peccati che ivi sono puniti. Ma è nella seconda cantica che D. descrive allegoricamente tutto il processo teologico della c.-penitenza del peccatore vivente: canterò di quel secondo regno / dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno (Pg I 4-6).
I canti I-VIII della II cantica si muovono nel territorio morale dell'Antipurgatorio, perché solo nel canto IX il peccatore arriva sul sentiero della ‛ purgazione ', passando dalla porta di san Pietro, cioè confessando il peccato grave e ricevendone l'assoluzione. Si noti che il termine ‛ Antipurgatorio ' non esiste nella terminologia dantesca, come nella teologia cattolica non esiste uno stadio intermedio dell'anima tra la morte corporale e l'ammissione dell'anima nel Purgatorio. D. inventa quest'anticamera simbolica perché, psicologicamente e teologicamente, i primi passi dei peccatori fino alla c. sono diversi a seconda degl'individui. Il custode dell'Antipurgatorio è Catone l'Uticense, che per amore della libertà si tolse stoicamente la vita (Pg I 71). Egli simboleggia la libertà spirituale cercata dal peccatore, stanco di essere schiavo del male e deciso a fuggire gl'incentivi del peccato, affinché il suo arbitrio sia fatto libero, dritto e sano (XXVII 140), come ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera (Cv II I 6). Insieme a Catone, D. menziona la moglie di lui, Marzia (Pg I 79), che aveva abbandonato il suo sposo tanto amoroso, per unirsi a un altro, ma che alla fine della vita aveva voluto ritornare al primo e morire come sua legittima. Essa raffigura la nobile anima, pentita della sua infedeltà verso Dio, che desidera ritornare a lui prima di morire, e dice: Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua (Cv IV XXVIII 17).
All'inizio della c. il peccatore, personificato da D. stesso, si sente com' om che torna a la perduta strada (Pg I 119), porge verso Virgilio le guance lagrimose dal pentimento, perché ne venga lavato il color d'Inferno (cioè di peccato), e manifesta il sentimento simboleggiato dalla umile pianta del giunco di cui si cinge (vv. 123 ss.). I peccatori imbarcati con D. verso la montagna della purificazione cantano il simbolico salmo 113 " In exitu Israël de Aegypto "; arrivati però sul lido, non tutti riescono immediatamente a camminare avanti: alcuni sono incapaci di staccarsi dai piaceri mondani, anche se innocenti come il cantante Casella (c. II); altri sono trattenuti perché morti in ribellione contro la Chiesa, come Manfredi (c. III); altri ancora sono negligenti e pigri come Belacqua, il quale aveva procrastinato la confessione sino alla fine della vita (c. IV). Tra quelli che vanno risolutamente avanti, cantando il salmo penitenziale " Miserere ", D. incontra alcuni peccatori morti per forza, ma pentendo e perdonando e perciò a Dio pacificati, o invocando il nome di Maria (v 52 ss.); poi altri salvatisi per le preghiere dei viventi (c. VI). Il poeta vuol arrivare presto là dove purgatorio ha dritto inizio (VII 39), cioè alla porta di san Pietro (If I 134), ma incontra ancora molte anime di reggitori e di governanti, trattenute sulla via della c. dalle occupazioni politiche (Pg VII-VIII). Qui finisce il cosiddetto Antipurgatorio.
Una grazia attuale, luce (Lucia!) del cielo, fa proseguire il penitente verso l'ingresso del Purgatorio (IX 52 ss.). Ivi il peccatore confessa il suo peccato, ne riceve l'assoluzione e viene introdotto sulla via della purgazione (c. IX; v. CONFESSARE). Ora (c. XXXVII) comincia la medicazione ascetica delle sette piaghe, sequele del peccato originale, che rimangono nella natura umana non solo dopo il battesimo, ma anche dopo l'assoluzione del peccato attuale. Non si tratta delle sette specie di peccati attuali descritti nella prima cantica (c. V-IX), ma delle rispettive inclinazioni ad essi, da neutralizzare progressivamente con l'ascesi penitenziale descritta nella seconda cantica: superbia (c. X-XII), invidia (c. XIII-XIV), iracondia (c. XIV-XVII), accidia (c. XVIII), avarizia (c. XIX-XXI), golosità (c. XXII-XXIV), lussuria (c. XXV-XXVII). L'ordine non è quello filosofico adottato nella prima cantica, bensì quello tradizionale della catechesi (cfr. Tomm. Sum. theol. I II 71 ss.). Guarite le sette piaghe, la natura umana non è più schiava delle inclinazioni sregolate; il penitente purificato è atto alla vita attiva (Lia) come a quella contemplativa (Rachele); l'uomo è di nuovo padrone di tutte le sue facoltà (XXVII 100 ss.) e, grazie all'equilibrio naturale ristabilito, fruisce di una felicità paragonabile a quella del Paradiso terrestre, arra di quello celeste (c. XXVIII). Terminata l'ascesi purificatoria, il settiforme Spirito Santo abbellisce l'anima con le virtù soprannaturali: tre teologali e quattro cardinali (c. XXIX); al posto di Virgilio, simbolo della pura ragione, subentra come guida Beatrice, figura della fede ragionata, cioè della teologia (XXX 1-57). Per far dimenticare al penitente tutti i suoi errori, Matelda, simbolo della natura umana restaurata, gli fa prendere un bagno nel Lete, adoperando la formula del salmo penitenziale (50,9): " Adsperges me hysopo, et mundabor; / lavabis me et super nivem dealbabor " (XXXI 98). Con gli occhi della fede, l'anima vede tutta l'economia della salvezza (c. XXXII-XXXIII) e dopo il secondo bagno, nell'Eunoè, ricorda unicamente i benefici di Dio. Ora è pura e disposta a salire a le stelle (XXXIII 145).
L'insegnamento astratto, impartito allegoricamente, è ravvivato da esempi concreti; la teologia sistematica è confrontata con il Vangelo. A ciascuno dei sette vizi capitali da evitare, D. oppone la virtù contraria da praticare e la rispettiva beatitudine (v. BEATITUDINI) promessa nel sermone sulla montagna (Matt. 5,4-11). Da notare che, come molti autori medievali, D. interpreta la prima beatitudine nel senso di umiliazione volontaria piuttosto che di distacco dai beni materiali. Delle otto beatitudini, inoltre, D. fonde la prima con la seconda, la quinta con l'ottava, e divide la quarta in due, ma arriva lo stesso a otto beatitudini, aggiungendo alla fine (Pg XXIX 3) quella lodata nel secondo salmo penitenziale: " Beati coloro ai quali i peccati sono stati ricoperti " (Ps. 31,1), testo citato anche da s. Paolo (Rom. 4,7). Una libertà altrettanto grande di trattare le otto beatitudini si ritrova presso i teologi medievali (ad es. s. Tommaso Sum. theol. I II 69), come in certi padri, che riducono il numero delle beatitudini a quattro, sia a causa del parallelismo biblico, sia perché s. Luca (6,20-22) ne cita solo quattro, opponendole ad altrettanti " Vae " (6, 24-26).
D. insegna, come tutti i maestri di spiritualità, che l'ascesi purificatoria diventa meno dura procedendo nella salita (XII 115-136), ma i suoi tre simbolici regni non coincidono con le tre fasi che la dotta spiritualità speculativa soleva distinguere nella c., tanto è vero che la via purgativa, sotto la guida di Virgilio, si svolge nella prima e nella seconda cantica; la via illuminativa, sotto la guida di Beatrice, s'inizia solo nel c. XXX della seconda cantica. Quanto alla via unitiva, cioè alla contemplazione di Dio, che viene concessa immediatamente quando si entra in cielo, come D. sapeva benissimo, comincia solo nel c. XXXI del Paradiso, sotto la guida di s. Bernardo. Onde è chiaro che i tre regni non sono altro che un artificio letterario mentre la dottrina sul ritorno dell'anima a Dio è quella comunemente insegnata, non quella ispirata dallo schema del mistico Pseudo-Dionigi.
Il poeta manifesta la sua metánoia personale confessando che non è tentato tanto dall'invidia quanto dalla superbia (Pg XIII 133-138), e permettendo a Beatrice di rimproverarlo per aver preferito la ragione, cioè la filosofia, alla fede, cioè alla teologia; onde è di pentimento che lagrime spanda (XXX 145). D. rileva inoltre alcune forme di c. pubblica allora in uso, ad es. quando descrive un corteo di penitenti, di vil ciliccio... coperti (XIII 58) e con manti / al color de la pietra non diversi (vv. 47-48), che cantano le litanie dei santi, come nelle processioni penitenziali dell'epoca, o quando ricorda Pietro Pettinaio, frate della Penitenza (l'unico menzionato nella Commedia), senza le cui preghiere ancor non sarebbe / lo... dover [di Sapia] per penitenza scemo (XIII 125-129). La personale metánoia di D. non tradisce alcuna tendenza per la c. pubblica, istituzionalizzata nello stato religioso, sia laicale, sia clericale. Egli infatti non si affiliò mai a una delle fraternite laicali - Umiliati, frati Penitenti, Cavalieri Gaudenti - che avevano già perso la loro primitiva freschezza evangelica, trasformandosi in ambiziosi ordini, mentre i Minori avevano finito per costituire una delle quattro grandi religioni clericali. Verso di esse, la metánoia di D. non si orientò neppure alla fine della vita: Bene questi nobili [come Guido Montefeltrano] calaro le vele de le mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo. E non si puote alcuno escusare per legame di matrimonio... ché non torna a religione pur quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore (Cv IV XXVIII 8-9). Vero è che la simpatia di D. per s. Francesco gli fece scegliere la sua tomba presso i Minori, ma vi fu sepolto " in abito di poeta e di filosofo ", come dice Giovanni Villani. Solo più tardi nacque la leggenda che, come terziario francescano, D. fu sepolto con l'abito dei Minori o con quello dei loro terziari, ma nessun documento contemporaneo lo prova.
Bibl. - A.H. Dirksen, The New Testament Concept of Metanoia, Washington 1932; C. Spicq, Benignité, mansuétude, douceur, clemencé, in " Revue Biblique " LIV (1947) 321-329; B. Poschman, Busse und Letzte Oelung, Friburgo I. Br. 1951; G.G. Meersseman, Dossier de l'ordre de la Pénitence au XIII s., Friburgo 1961; P. Aubin, Le problème de la " conversion ", Parigi 1963; G.G. Meersseman, Penitenti nei secoli XI-XII, in Atti della terza settimana internazionale di studi sul tema " I laici nella societas christiana dei sec. XI-XII ", La Mendola 1965, 306-345; ID., Penitenza e Penitenti nella vita e nelle opere di D., in Atti del convegno di studi " D. e la cultura veneta ", Firenze 1966, 228-246; ID., Un premier auctarium au Dossier de l'ordre de la Pénitence au XIIIe siècle, in " Revue d'histoire ecclésiastique " LXII (1967) 5-48. Cfr. le voci CONFESSARE; CORDA; PENITENZA; PENTIMENTO.