cooperazione
Associazione tra due o più membri della stessa specie (c. intraspecifica), o tra individui di specie differenti (c. interspecifica), mediante la quale tutti i partecipanti godono di qualche beneficio. Questa semplice definizione comprende una serie molto variegata di situazioni, che gli studiosi del comportamento animale provano, seppur con difficoltà, a riunire sotto un unico approccio teorico. La c. può operare a diversi livelli e in differenti sistemi biologici: per es., si potrebbe dire che i geni cooperano all’interno del genoma, così come i cromosomi cooperano nelle cellule eucariote. Inoltre, le cellule cooperano all’interno degli organismi multicellulari. Un caso particolarmente interessante è quello delle cellule nervose: per es., se viene causato un danno a queste cellule, oggi si sa che i dendriti-assoni (i prolungamenti cellulari che permettono la comunicazione tra diversi neuroni) riescono a ricostruire un legame funzionale con altre cellule non danneggiate. Gli animali non umani, come già menzionato, cooperano a livello sia intraspecifico sia interspecifico. Infine, gli esseri umani sono i viventi nei quali i comportamenti cooperativi raggiungono tali livelli di sofisticazione e complessità che non trovano pari nel resto del mondo animale.
I vantaggi della c. sono chiari: ogni qualvolta gli esseri viventi cooperano in qualche modo, in generale i risultati sono più funzionali e vantaggiosi che nei casi di azioni solitarie. Ciò, per es., è evidente quando diverse cellule collaborano per formare un organismo multicellulare o quando, in maniera ovviamente cosciente e consapevole, gli esseri umani formano società organizzate. In altre parole, ogni successivo livello di c. fornisce gli strumenti comportamentali e decisionali per meglio sfruttare le opportunità fornite dall’ambiente, rispetto a un livello di minore cooperazione. In termini evoluzionistici, le sfide proposte dalla selezione naturale vengono meglio affrontate, in generale, mediante la c. di diversi individui. Bisogna però anche rilevare che la c. spesso implica non solo benefici, ma anche costi, e quindi in natura esistono limiti alla messa in atto di comportamenti cooperativi. Spesso un individuo che coopera paga un prezzo, per dare modo a un altro individuo di ottenere un vantaggio. Perciò, nei comportamenti cooperativi, gli individui interessati devono valutare bene il rapporto costi/benefici dell’azione cooperativa alla quale vogliono partecipare. Un esempio in questo senso ci viene dal comportamento di caccia delle leonesse (Panthera leo) nelle pianure africane. Nel momento in cui una leonessa comincia ad avvicinarsi a una potenziale preda, le altre femmine del gruppo hanno la possibilità di unirsi alla caccia, e tale scelta dipende da una serie di fattori. Un primo fattore riguarda la grandezza della preda potenziale: se essa è abbastanza grande, e di solito questo è il caso, ci potrebbe essere abbastanza carne per tutte alla fine della caccia. Ciò però deve essere valutato anche in relazione alla possibilità di rimanere ferite durante l’agguato. Inoltre, se una femmina ce la può fare da sola, per le altre vi potrebbe essere la possibilità di un pasto gratis. Invece se la preda è piccola, conviene di più a una sola femmina provare a cacciare da sola, per potersi garantire un adeguato nutrimento, invece di dividere con altre femmine una quantità esigua di carne. Quindi i vantaggi della caccia cooperativa dipendono sia dalla grandezza della preda, sia dall’abilità della femmina che inizia l’agguato, abilità che, a sua volta, influisce sull’effettiva funzionalità di una caccia cooperativa.
Lo studio della c. in animali non umani può aiutare a comprendere meglio le origini evolutive dei comportamenti cooperativi degli esseri umani. Quando gli animali cooperano in natura, è difficile capire quali siano le reali motivazioni di tale comportamento, come nel caso degli scimpanzé (Pan troglodytes), che in natura partecipano a una serie di azioni collettive. Riguardo a ciò, sono stati condotti vari esperimenti in cattività, in situazioni controllate. In questi casi è possibile standardizzare una serie di variabili comportamentali e cognitive confondenti che in situazioni naturali sono in concreto molto difficili da controllare. Altri esperimenti sono stati compiuti con altre specie di primati non umani ma, generalmente, i risultati non offrono un quadro interpretativo esaustivo. Per es., è ancora difficile comprendere, nel caso in cui un particolare individuo si rifiuti di cooperare durante un particolare test, se tale individuo non riesce a comprendere ciò che gli richiede il test stesso, oppure se è semplicemente inibito dalla presenza di altri compagni, i quali potrebbero monopolizzare l’apparato sperimentale, e la seguente ricompensa. Nonostante queste difficoltà, lo studio del comportamento cooperativo negli animali non umani è importante per una serie di motivi, tra i quali la possibilità di individuare meccanismi comuni, mediante un approccio comparato, che possano aiutare a far luce sull’origine evolutiva della c. e dell’altruismo nella nostra specie. Infine, studi sulla c. animale possono essere utili per verificare l’efficacia di modelli teorici, quali il ‘dilemma del prigioniero’, che hanno lo scopo di meglio predire e comprendere le dinamiche sociali di diversi tipi di società umane. In partic. questo modello si propone di analizzare l’evoluzione della c., in un gioco nel quale due giocatori possono cooperare, oppure abbandonare il gioco, quando si incontrano. In questo gioco è essenziale intuire le intenzioni dell’opponente, e ciò è applicabile anche alle società animali non umane. La c. è vantaggiosa per entrambi i giocatori, approfittare di un altruista è perfino meglio, un rifiuto comune a cooperare non è molto vantaggioso per entrambi, essere sfruttati da un egoista è la soluzione peggiore. Nel caso della specie umana, si è ipotizzata un’innata tendenza a cooperare anche con individui non familiari. Questa tendenza si sarebbe sviluppata durante il Pleistocene, in risposta a condizioni ambientali particolarmente mutevoli, che erano causa di continue sfide ambientali per diversi gruppi umani. In questo scenario sarebbero stati selezionati positivamente istinti sociali che, in tempi più recenti, si sono istituzionalizzati. Quindi, sebbene probabilmente vi sia una componente fortemente biologica nell’evoluzione degli istinti sociali nei primati (compresi gli esseri umani), questa predisposizione è stata modulata e guidata mediante una serie di convenzioni connotate culturalmente.