COPIA
La c. fu il principale mezzo a disposizione del Medioevo per portare nell'arte del momento elementi che erano molto lontani o che rischiavano di perdersi, oggetti distanti, opere antiche e sbiadite, lo stile di un'altra era, di un'altra cultura o di un'altra persona. Nel corso di un'epoca in cui l'innovare era reputato un'usurpazione di prerogative divine, il copiare permetteva di coniugare le novità in campo artistico con la tradizione; in breve il copiare servì ad appropriarsi di linguaggi figurativi estranei, così come a riportare in vita sviluppi interrotti, a perpetuare tecniche di bottega, ad ammaestrare gli artigiani e a rimettere a nuovo opere andate in rovina. Secondo un processo che è specificamente medievale, la c. fu anche strumento di creatività.Nel Medioevo l'uso delle c. fu talmente diffuso da far ritenere agli storici moderni che ogni opera d'arte medievale conservatasi sia, in certa misura, una replica. Köhler (1930-1933) per es. ha riconosciuto nella Bibbia di Grandval, realizzata a Tours alla metà del sec. 9° (Londra, BL, Add. Ms 10546), una fedele c. di una bibbia perduta, eseguita nel sec. 5° per il papa Leone Magno, mentre Weitzmann (1947) ha elaborato un metodo di tipo filologico per analizzare le raffigurazioni di manoscritti e di altri media nei termini di una loro ipotetica derivazione da archetipi pittorici. Sebbene tali punti di vista godano di una rinnovata diffusione grazie all'interesse 'postmoderno' per l'appropriazione artistica, essi sono nondimeno in conflitto con le odierne nozioni di originalità artistica e pertanto hanno provocato una reazione da parte di quegli studiosi che sostengono la concezione dell'artista creativo. Tuttavia nel corso del Medioevo sono scarse le testimonianze di un intendimento dell'arte in termini di originalità o individualità, cosicché il copiare va giudicato piuttosto nel contesto delle pratiche di bottega e del pensiero medievale che intendeva l'arte come verità rivelata.La fedeltà delle c. alle loro fonti fu condizionata in primo luogo dai mezzi espressivi e dalle tecniche usate nel produrle. In alcuni casi erano conservati nelle botteghe esempicampione da riutilizzare come modelli dopo che un'opera era stata inviata altrove. Nel sec. 6° Cassiodoro testimonia che modelli di questo genere erano conservati nel suo monastero a Vivarium, riferendo che agli artigiani venivano illustrati vari stili di rilegatura in un unico codice, cosicché ognuno potesse scegliere il tipo desiderato (Inst., I, 30; PL, LXX, coll. 1145-1146).All'inizio del sec. 15° un disegno di Santa Sofia a Costantinopoli eseguito da Teofane il Greco, secondo quanto riporta una lettera di Epifanio il Saggio, risultò di grande utilità per altri pittori di icone di Mosca, molti dei quali lo copiarono per uso personale, rivaleggiando tra loro e passandoselo di mano in mano (Mango, 1972, p. 256ss.). L'ausilio di modelli intermedi era particolarmente importante nella realizzazione di opere monumentali, come è attestato nella Vita sancti Pancratii, secondo la quale s. Pancrazio portò con sé nella sua missione in Sicilia l'intera raffigurazione della storia dell'Incarnazione del Signore come modello decorativo per le chiese da lui costruite (Mango, 1972, p. 137). I prodotti ottenuti attraverso tali procedimenti non erano considerati c. quanto versioni multiple di un unico esemplare.Gli oggetti a disposizione della bottega venivano direttamente replicati. Gli avori, per es., erano abitualmente copiati con precisione; una placca d'avorio degli inizi del sec. 11° raffigurante l'Ascensione (Colonia, Schnütgen-Mus.) contiene la composizione base e molti dettagli del suo modello, un avorio di Metz di grandezza quattro volte superiore, eseguito una generazione prima (Vienna, Kunsthistorisches Mus.); un altro avorio del sec. 11° con il Miracolo di Cana (Cleveland, Mus. of Art) ripete il racconto e anche certe caratteristiche dello stile di un esemplare del sec. 9° appartenente al c.d. gruppo di Liutardo (Londra, British Mus.).In alcune occasioni anche l'arte monumentale venne copiata direttamente; un documento del sec. 13° attesta come un'intera bottega fosse stata insediata a Saint Albans per fornire al re Enrico III la c. di una pala d'altare di Walter di Clochester che egli ammirava (Londra, Public Record Office Mus., Close Roll 33, Henry III, 3; Lewis, 1987, p. 423).Le miniature dei manoscritti furono particolarmente soggette alla duplicazione, essendo il copiare un procedimento usuale per trasmettere testi, quasi sempre con l'intento della fedeltà all'originale. Gli scribi che lavoravano a manoscritti miniati spesso lasciavano spazi per le raffigurazioni da inserire nelle loro c. e, a volte, anche istruzioni per i miniatori affinché riproducessero l'immagine giusta. Manoscritti del sec. 12° miniati nell'abbazia benedettina intitolata a s. Maria Maddalena in Frankenthal rivelano per es. come gli scribi, cercando i testi adatti da copiare, avessero preso in prestito manoscritti di diversi periodi e incorporato c. delle relative illustrazioni nelle loro nuove edizioni. Così uno Speculum virginum scritto e decorato nel 1155 ca. (Roma, BAV, Pal. lat. 565) si rifà a un esemplare realizzato a Maria Laach appena dieci anni prima e dato in prestito alla Liebfrauenkirche di Andernach (Colonia, Historisches Arch. der Stadt, W 276a). Serie di c. di manoscritti illustrati possono essere rintracciate in ogni periodo del Medioevo; per es. ca. venti esemplari dell'Apocalisse prodotti in Inghilterra nella seconda metà del sec. 13° possono essere ricondotti ai medesimi modelli.Per lo più le c. dovettero essere realizzate a mano libera, nel modo illustrato nel sec. 9° dai Sacra Parallela di Giovanni Damasceno (Parigi, BN, gr. 923, c. 328v), dove appare un pittore di icone che guarda il modello mentre traccia i contorni su un nuovo pannello. Erano usate anche tecniche dirette, come testimonia, per es., l'incisione di alcune figure del Vergilius Vaticanus (Roma, BAV, Vat. lat. 3225), che indica come, in un'epoca imprecisata, le miniature siano state usate per un ricalco. Anche le miniature del Pentateuco di Ashburnham, del sec. 6°-7° (Parigi, BN, nouv.acq.lat. 2334), furono punteggiate, probabilmente nel sec. 12°, quando servirono come modelli per gli affreschi nel Saint-Julien di Tours; la punteggiatura si ha anche in un bestiario inglese del sec. 13° (Harvard, Univ. Lib., Houghton Lib., Typ. 101). Nell'Ermeneutica della pittura, opera del sec. 18° basata su fonti medievali, Dionisio da Furn'a descrive metodi di trasferimento diretto con l'uso della carta oleata; è inoltre probabile che siano state impiegate fusioni e altre tecniche per duplicare rilievi e sculture. I motivi decorativi di una cassetta d'argento renana conservata ad Anagni (Tesoro del Duomo), realizzati a rilievo, potrebbero essere stati ricavati direttamente dal loro modello bizantino in avorio (Vienna, Kunsthistorisches Mus.) mediante tali tecniche di fusione. Questi procedimenti diretti potrebbero spiegare perché molte riproduzioni conservino le dimensioni dell'originale e perché altre siano immagini speculari dei loro modelli.A volte alcune c. venivano realizzate anche indirettamente sulla scorta di ricordi o di descrizioni verbali. Una Crocifissione di grandi dimensioni posta a interrompere i registri narrativi, sembra abbia caratterizzato il ciclo del Nuovo Testamento che si trovava nell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano; questo particolare basta a far riconoscere come c. della venerata basilica pitture che presentino, per il resto, una esigua o anche nessuna connessione. È anche il caso del Volto Santo di Matthew Paris nei Chronica maiora (Cambridge, C.C.C., 16, c. 53v), una delle cinque c. inglesi della Veronica fatte a memoria o in base a un resoconto scritto, senza alcuna somiglianza con la reliquia di Roma, peraltro l'unica tra le miniature del codice incorniciata e inserita nelle colonne del testo.L'Ermeneutica della pittura prescrive tra l'altro l'esecuzione di c. come esercizio pedagogico; l'analoga raccomandazione contenuta nel Libro dell'arte (XXVII) di Cennino Cennini conferma la consuetudine medievale di questa pratica. Sono sopravvissute testimonianze che possono essere interpretate come un riflesso di questo uso: per es. la replica, riconosciuta come opera giovanile di Taddeo Gaddi (Cambridge, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.), della tavola di Giotto raffigurante S. Francesco (Parigi, Louvre); l'allievo ripete il maestro nel formato della tavola, nelle dimensioni e nella composizione fin nei contorni delle figure, nonché nei panneggi delle vesti, mentre in dettagli meno importanti, come il paesaggio, si ravvisa una maggiore autonomia. Iconograficamente più fedele a Giotto è il pannello di Gaddi conservato a Firenze (Gall. dell'Accademia).In un'epoca in cui erano a disposizione poche tecniche per restaurare le opere d'arte del passato, il copiare fu il principale metodo per preservare un'opera nel tempo. Nel sec. 13° fu eseguita su un rotolo (Vercelli, Bibl. Capitolare) la c. degli affreschi delle volte di S. Eusebio a Vercelli affinché la composizione potesse essere ripristinata dopo la riparazione del soffitto (come è attestato dall'iscrizione: "Hoc notat exemplum media testudine templum, ut renovet novitas, quod delet longa vetustas"). Anche Pietro Cavallini fu incaricato di perpetuare l'antico assetto figurativo degli affreschi in S. Paolo f.l.m. a Roma (oggi conosciuti solo attraverso acquarelli del sec. 17°; Roma, BAV, Barb. 4406) quando gliene venne affidato il restauro. Sebbene i mutamenti nella narrazione permettessero di abbandonare del tutto la composizione del sec. 4°-5°, egli ripeté le scene originarie, pur utilizzando il proprio linguaggio. In genere le c. di restauro erano prodotte direttamente al di sopra delle opere precedenti, seguendo le antiche linee di contorno, come nell'abside nord del S. Giovanni a Müstair, in cui le composizioni carolinge sono conservate dalle sovrapposte pitture del sec. 12°; lo stesso modo di procedere si riscontra nella Madonna della Clemenza in S. Maria in Trastevere a Roma, opera del sec. 6°-7° ridipinta nel Duecento.Nella chiesa abbaziale di Grottaferrata la riproduzione sembra invece sia stata dettata da un intento non tanto di conservazione quanto di aggiornamento; una generazione dopo che gli affreschi della navata erano stati completati, negli anni 1250-1260, vennero ridipinti da un maestro che, pur usando uno stile contemporaneo prossimo a quello di Pietro Cavallini, mantenne tuttavia la composizione esistente.L'uso di copiare al fine di ampliare un'opera può considerarsi una variante di quest'ultima pratica. Le antiche spoglie marmoree romane, probabilmente insufficienti per rivestire l'oratorio di Giovanni VII nell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, vennero replicate dall'intagliatore del sec. 8° per accrescerne l'estensione dei girali. Nel 1331, quando l'ambone di Nicola di Verdun a Klosterneuburg fu trasformato in un trittico, vennero aggiunti smalti vicini per stile, tecnica, iconografia ed epigrafia a quelli realizzati dal maestro del 12° secolo.Le condizioni che determinarono la realizzazione di c. variarono da luogo a luogo e di momento in momento, con fluttuazioni dovute alla funzione e al genere, al mezzo espressivo e alle circostanze connesse alla committenza. A Bisanzio, per es., copiare era prassi consueta e l'imitazione era reputata una qualità artistica ed etica. Nel citato codice dei Sacra Parallela del sec. 9° (Parigi, BN, gr. 923, c. 328v), la raffigurazione di un pittore che replica un'icona illustra il testo di una lettera di Basilio il Grande a Gregorio Nazianzieno: "Ac omnino, ut pictores, cum imagines ex imaginibus pingunt, crebro ad exemplar respicientes, inde formam in suum opus transferre conantur: sic etiam qui sese omnibus virtutis partibus absolutum perficere studet, ad sanctorum vitas, velut ad simulacra quaedam viva et actuosa, respicere debet, et quod illis inest boni suum imitando facere" (Ep., II, 3; PG, XXXII, col. 230).Si pone dunque la questione su cosa costituisca in effetti una replica. In generale ci si limitava a copiare gli elementi della composizione, i gesti e gli attributi, vale a dire il disegno di base, mentre nel colore e nella trattazione della superficie erano ammesse maggiori variazioni. Per es. cinque manoscritti illustrati dell'Ottateuco, strettamente simili tra loro per la disposizione della pagina e le lunghe serie di scene relative al testo biblico (Roma, BAV, Vat. gr. 746 e 747; Smirne, Scuola Evangelica, Cod. A. I, oggi perduto; Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., 8; Athos, Vatopedi, 602) mostrano ciascuno un proprio stile pittorico e indicano, per formato e contenuti, un prototipo del sec. 11°; ma poiché l'archetipo non esiste più, il rapporto delle successive versioni con esso e tra di loro potrebbe essere ricostruito con precisione solo attraverso un'accurata comparazione di tutti i discendenti.Il Menologio di Basilio II, della fine del sec. 10° (Roma, BAV, Vat. gr. 1613), è una testimonianza dell'enorme forza dei modelli. Sebbene le quattrocentotrenta miniature di questo volume dall'elaborata illustrazione siano firmate da otto diversi pittori, le differenze stilistiche, in linea generale, non corrispondono ai diversi nomi bensì alle categorie iconografiche. Ciò significa che ciascun pittore riprese lo stile dalla propria fonte di riferimento: libro dei profeti, lezionario del Vangelo e menologio. Inoltre l'attento studio della struttura del manoscritto ha rivelato che il Menologio di Basilio è esso stesso una c. e che quindi le differenze di stile riconoscibili nelle miniature risalgono già agli stessi modelli.Nell'Occidente latino i parametri nell'esecuzione di c. erano solitamente più elastici. Un esempio classico in proposito è offerto dai ritratti di Esdra nel Codex Amiatinus (Firenze, Laur., Amiat.1, c. 5r) e di Matteo nell'Evangeliario di Lindisfarne (Londra, BL, Cott. Nero D.IV, c. 25v): ambedue vennero realizzati in Northumbria all'inizio del sec. 8°, probabilmente sulla base di uno stesso ritratto di evangelista oggi perduto, ma se il primo conserva lo stile del modello, l'altro mantiene solo il soggetto, traducendolo in un nuovo linguaggio visivo.In Oriente come in Occidente la produzione di c. fu più frequente durante i periodi di revival programmatico, quando essa servì per il recupero di tradizioni interrotte. Durante il revival pagano del sec. 4° e ancora nel periodo giustinianeo vennero compilati florilegi di diversi modelli antichi, di cui è esemplare ben noto il Dioscoride di Vienna (Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1), il manoscritto farmacologico commissionato da Anicia Giuliana nel 512. Sotto l'imperatore Eraclio (610-641) fu rievocata un'età dell'oro attraverso c. di rilievi mitologici e in piatti argentei illustranti le gesta di Davide, in una maniera nella quale si fondono più antichi motivi biblici, imperiali e mitologici (New York, Metropolitan Mus. of Art; Nicosia, Cyprus Mus.). Durante il sec. 10° gli imperatori macedoni patrocinarono un revival dell'arte dell'epoca di Giustiniano e di quella di Eraclio come mezzo per restaurare la cultura antica dopo la fine dell'iconoclastia: una replica fedele del Dioscoride di Vienna venne eseguita nel sec. 10° (New York, Pierp. Morgan Lib., M.652) e nello stesso periodo il linguaggio figurativo dei piatti di Davide ricomparve nel lussuoso Salterio di Parigi (BN, gr. 139). La volontà di riallacciarsi per mezzo delle repliche artistiche a una tradizione interrotta fu caratteristica anche del periodo successivo alla conquista crociata. Al tardo sec. 13° sono datate tre c. del Salterio di Parigi (Gerusalemme, Greek Orthodox Patriarchate, Lib., Hághiu Táfu 51; San Pietroburgo, Saltykov-Ščedrin, gr. 269, che costituisce un frammento del gr. 38 della Bibl. di S. Caterina sul monte Sinai; Roma, BAV, Pal. gr. 381b), di cui quella palatina nelle due miniature con Mosè che riceve la Legge (cc. 169v-170r) riprende elementi dello stile del sec. 10° (modellato attento delle figure, paesaggi pervasi di luce) e addirittura corrisponde all'originale anche nelle dimensioni.L'epoca carolingia fu la prima e la più grande età delle c. del Medioevo occidentale. Si sono conservate in gran numero riproduzioni dell'arte antica, erbari, trattati di medicina, testi astrologici, Agrimensores, Physiologus, le commedie di Terenzio e repliche di opere paleocristiane, soprattutto intagli eburnei e manoscritti miniati. Nella stessa epoca a Roma il papato in ascesa promosse la rinascita del linguaggio figurativo costantiniano; a S. Prassede, per es., Pasquale I fece copiare il mosaico dell'arco trionfale di S. Paolo f.l.m. raffigurante i ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse. L'uso di c. fu un metodo di cui si appropriarono anche i sovrani ottoniani per riallacciare la loro cultura all'arte dei più illustri predecessori carolingi e bizantini. Così i Vangeli di Darmstadt (Hessische Landes- und Hochschulbibl., 1948), del 970 ca., si basarono largamente sull'Evangeliario di Lorsch (Roma, BAV, Pal. lat. 50; Alba Iulia, Bibl. Batthyaneum, R.II.1), un manoscritto realizzato alla corte di Carlo Magno quasi due secoli prima. In manoscritti ottoniani, inoltre, il fasto dell'impero d'Oriente è evocato dalla riproduzione pittorica di sete bizantine (Wolfenbüttel, Niedersächsisches Staatsarch., 6 Urk.II).Nella seconda metà del sec. 11° la volontà di Gregorio VII e dei suoi successori di ristabilire la ecclesiae primitivae forma provocò un forte impulso verso la riproduzione dell'arte paleocristiana. Vennero ripresi il linguaggio figurativo e gli ornati di epoca tardoantica e nel grande mosaico absidale di S. Clemente a Roma venne elaborato un messaggio riformistico assemblando motivi copiati. Con la riforma gregoriana nelle chiese di Roma e dei dintorni si cominciarono a imitare le decorazioni dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, un uso di cui resta come primo esempio superstite la chiesa di S. Felice a Ceri, del 1100 circa. Le c. tuttavia divennero ancora più importanti durante l'epoca delle crociate, quando furono ampiamente utilizzate come tramite per introdurre l'arte orientale in Occidente. Per es., una grande tavola con S. Caterina affiancata da scene della sua vita, dipinta intorno al 1260 da un maestro pisano (Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo), emula un'icona agiografica bizantina non solo per quanto riguarda l'iconografia ma anche nella struttura e funzione complessiva.Nel sec. 14° l'esecuzione di c. acquistò un aspetto autenticamente archeologico. Manoscritti boemi della metà del secolo contengono espliciti riferimenti all'arte carolingia e ottoniana; il grado di precisione con cui nel 1331 gli smaltisti a Klosterneuburg imitarono ogni aspetto dell'opera di Nicola di Verdun sarebbe risultato inconcepibile in precedenza. All'inizio del Rinascimento vennero realizzate delle vere e proprie riproduzioni. Un manoscritto proveniente dal monastero di Metten, del sec. 15° (Monaco, Bayer. Staatbibl., Clm 8201), raccoglie un compendio di testi, alcuni dei quali illustrati con c.; per es. il De laudibus sanctae crucis di Rabano Mauro contiene un'accurata riproduzione della sua fonte carolingia e la sezione allegorica include una c. precisa del frontespizio con la Crocifissione dell'Evangelistario di Uta, del sec. 11° (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 13601). Non sorprende che le attività di recupero abbiano per lo più una cronologia comune: la maggior parte degli esempi bizantini sono databili in epoca paleologa, mentre in Occidente i periodi più interessati dal fenomeno delle c. sono quelli tra il 9° e il 13° secolo.Nel corso del sec. 13° l'interesse principale nell'esecuzione di c. cominciò a trasferirsi dal soggetto allo stile. Spesso l'interesse verso lo stile sembra essere in rapporto diretto con la nuova attenzione dovuta al restauro di antichi monumenti, come attesta la citata opera di Pietro Cavallini in S. Paolo f.l.m. a Roma. Anche l'accresciuta mobilità degli artigiani dell'Occidente provocò nella stessa epoca un'accentuazione del ruolo di mediazione stilistica delle copie. Così i frammenti di composizioni e figure raccolte in viaggio da un pittore veneziano nel c.d. Libro di modelli di Wolfenbüttel (Herzog August Bibl., Guelf. 61.2 Aug. 8°) trasmettono formule bizantine dell'epoca per rendere figure imponenti impegnate in movimenti complessi; quando tali figure vennero utilizzate in un evangeliario sassone (Goslar, Rathaus) ne fu variata l'iconografia. Un secolo più tardi c. di opere italiane svolsero la stessa funzione per artisti nordici: l'Annunciazione della Vergine nel Libro d'ore di Jeanne d'Evreux (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters, Acc. 54.1.2, c. 16r), basata sull'Annuncio della morte alla Vergine nella Maestà di Duccio (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), conserva il progredito spazio prospettico italiano ma normalizza l'inusuale soggetto.Poiché si credeva che la replica di un'immagine venerata ne potesse assumere l'autorità, spesso veniva esplicitamente affermato che una nuova opera era la c. di una precedente. Un'immagine della Madonna con il Bambino del sec. 14° (Praga, Národní Gal.), commissionata dal re Venceslao IV (1376-1419), reca l'attestazione che si tratta di una replica dell'immagine a Roudnice attribuita alla mano di s. Luca (Belting, 1990, p. 375). Epiteti mariani derivati da toponimi come Odighítria, dal monastero degli Hodigói a Costantinopoli, o Kykkótissa, da quello cipriota di Kykkos, svolsero la stessa funzione mettendo le c. in relazione con i loro originali, nonostante che lo stesso epiteto fosse a volte attribuito a diversi tipi di rappresentazione. Era infatti importante affermare che le immagini rimandavano a un modello illustre; per la stessa ragione erano trascritti i colofoni, cosicché per es. la Bibbia di Niceta, del sec. 10° (oggi divisa tra Firenze, Laur., Plut. 5.9; Copenaghen, Kongelige Bibl., Haun GKS 6; Torino, Bibl. Naz., B.I.2), appare fondata su un prototipo del sec. 6°, sebbene le miniature siano da considerarsi per gran parte creazioni del 10°, sia pure sulla base di fonti precedenti.Atteggiamenti diversi della committenza produssero differenti aspetti nelle modalità del copiare. Al papato interessava preservare e perpetuare i monumenti attribuibili al tempo di Costantino e Silvestro e pertanto promuoveva restauri e c. in questa direzione. Nei lussuosi bestiari prodotti per una colta élite inglese nel sec. 12° e nei codici dell'Apocalisse realizzati cento anni più tardi per un ambiente di corte simile, all'interno di una complessiva omogeneità si riflettono nei particolari gli adattamenti a esigenze diverse: differenze nella selezione dei testi mutano il tono generale, a volte più teologico, altre più scientifico. Le c. duecentesche del Salterio di Parigi vanno probabilmente messe in relazione con le iniziative 'archivistiche' della principessa imperiale Teodora Raulaina. Le caratteristiche carolinge di un vangelo boemo del sec. 14° (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 1182) furono dettate dal desiderio del committente Alberto III d'Asburgo di avere un codice di particolare prestigio per l'incoronazione.La categoria più importante tra le c. medievali fu quella delle icone, non solo perché comprende innumerevoli esempi, ma anche perché produsse altri tipi di copie. Come indica il già citato testo della lettera di Basilio il Grande la riproduzione di icone rafforza la pia imitazione di Cristo e dei santi da parte del cristiano. Derivando dall'uso antico di distribuire nell'ampio impero ritratti dell'imperatore con la funzione di surrogati del monarca, la pratica di copiare le sacre immagini fu corroborata dalla teologia cristiana, per la quale il potere dei ritratti non risiedeva nell'oggetto fisico come tale e poteva quindi essere replicato.Teodoro Studita (Anthirreticus, III, 9-10; PG, XCIX, coll. 431-434) usò la metafora di un sigillo intagliato per spiegare il rapporto tra c. e modello: l'originale esiste nella forma, ma si tratta solo di una forma nascente; per divenire visibile essa deve essere impressa in una matrice, non importa se di cera, argilla o piombo. La leggenda del mandilio diede forma storica a questa idea, narrando dell'acheiropóietos fatto direttamente dal volto di Cristo; quando una tavoletta d'argilla fu posta sopra la sacra icona l'immagine vi passò producendo una c., il kerámion, di uguale potere spirituale. Una raffigurazione del sec. 11° con le due icone fianco a fianco (Roma, BAV, Ross. 251, c. 12v) illustra l'essenziale identità del tessuto originale e della sua c. impressa nell'argilla. Un'altra conseguenza di tale convinzione fu l'idea che una singola immagine potesse esistere in più luoghi per mezzo delle c.; il mandilio per es. era venerato a Edessa e il kerámion a Ierapoli. Quando nel 944 il mandilio venne traslato a Costantinopoli vi erano così tante c. che il resoconto ufficiale dovette riferire delle varie repliche proprio allo scopo di dichiarare, ed era effettivamente necessario, che quella in possesso dei Bizantini fosse l'immagine originale e non una copia. Le versioni del mandilio da S. Silvestro in Capite (Roma, palazzi Vaticani, sala della contessa Matilde) e a Genova (S. Bartolomeo degli Armeni) sono quasi identiche anche nelle misure e conservano uno spiccato aspetto arcaico nel colore e nel disegno che deve risalire all'originale.Come altre c., le sacre immagini potevano variare nei particolari dell'esecuzione, purché trasmettessero fattezze e caratteristiche distintive e potessero essere riconosciute come repliche di un modello venerato. Così tra le serie di c. della Madonna advocata (Roma, S. Maria del Rosario, già in Ss. Domenico e Sisto), la versione in S. Maria in via Lata conserva gesti, abiti e ornati della fonte figurativa, ma traduce il delicato plasticismo della tavola siriaca del sec. 8° nel linguaggio piatto e lineare della Roma del 12°-13° secolo. A Bisanzio le norme che regolavano tali c. erano rigide a tal punto che, secondo quanto riporta la Vera historia di Silvestro Siropulo (Mango, 1972, p. 254), Gregorio Melisseno restò sconcertato quando nelle chiese occidentali non poté venerare, non riconoscendole, le immagini dei santi. Ma il grado di aderenza a determinati prototipi variò anche a seconda delle epoche; i contatti con l'Occidente nel corso del Duecento, per es., sono attestati a Bisanzio da nuove c. composite di sante icone.Nel Medioevo la questione principale relativa alle c. non era se esse fossero un falso artistico in senso moderno - sebbene all'immagine originaria fosse riconosciuto ovviamente maggior valore - bensì stabilire se un'icona copiata possedesse o meno l'energia sacra dell'originale. Già nel sec. 12° Michele Siro aveva affermato che la forza dell'originale poteva essere trasferita alla c.; secondo la sua Cronaca (XI, 449), Athanasius bar Gumayê aveva sostituito il mandilio originale con una sua falsificazione; tuttavia, quando l'azione venne scoperta nessuno poté distinguere un'immagine dall'altra.Il fatto stesso che un'icona fosse copiata accresceva l'autorità dell'originale e valorizzava il suo misterioso potere. Appena il mandilio 'autentico' giunse a Costantinopoli diede origine a nuove c.; esso venne subito riposto nella chiesa del Faro ed era noto solo attraverso repliche. La Vita sancti Pauli iunioris, del sec. 10°, riferisce che un pezzo di lino sottile, delle esatte dimensioni del mandilio, ricevette l'immagine quando vi fu pressato contro. Quando il Volto Santo apparve in Occidente, conservò la stessa capacità di generare repliche, considerate come vere c. che assumevano il potere dell'originale. Così nel 1249 le monache cistercensi di Montreuil-les-Dames richiesero a Roma la "Sanctam Veronicam seu veram ipsius imaginem et similitudinem" (Belting, 1990, p. 246).Il ritratto mariano di s. Luca ebbe una storia parallela: a Bisanzio cominciò a essere associato all'immagine dell'Odighítria, raffigurante la Madonna con il Bambino tra le braccia, e venne copiato in diversi media espressivi. Nell'Occidente latino esso fu identificato in un primo tempo con l'icona oggi in S. Maria del Rosario, che mostra la Vergine da sola in atteggiamento di supplica. Anche in questo caso vennero realizzate c. tra loro concorrenti; si diede così vita alla leggenda che sosteneva l'autorità della versione 'originale'. Quando papa Sergio III volle confiscare l'icona alle monache che l'avevano custodita, essa avrebbe opposto resistenza tornando poi al monastero. Oltre alla c. in S. Maria in via Lata ne sopravvivono altre e quella del sec. 12° di S. Maria in Aracoeli ha preso il posto dello stesso originale, diventando la più importante icona di Roma e guadagnando nel Trecento la considerazione di immagine acheropita.Sulla scia di tali icone e delle relative leggende, seguendo gli stessi schemi, vennero realizzate anche immagini di santi. Così le icone miracolose di s. Pietro e s. Paolo entrarono a far parte dei resoconti sulla conversione di Costantino e gli 'originali' bizantini conservati nel Sancta Sanctorum vennero spesso copiati. In modo analogo raffigurazioni di nuovi santi, come Francesco d'Assisi, generarono famiglie di c. autorizzate; la replica di Cambridge di Taddeo Gaddi della tavola di Giotto deve essere intesa sotto questo aspetto e non solo come una c. da apprendista dell'opera del maestro.Soprattutto nell'ambito dei manoscritti miniati vennero realizzate c. intese come vere e proprie riproduzioni di opere precedenti, senza tuttavia alcuna pretesa di essere scambiate per gli originali stessi. In ogni categoria di manoscritti miniati questo processo è tracciato da serie identificabili di c. dipendenti, dette recensioni. Del Dioscoride di Vienna sopravvivono c. sia del sec. 8° (Napoli, Bibl. Naz., ex Vind. gr. 1, già Suppl. gr. 28) sia del 10° e nove manoscritti del compendio medico dello pseudo-Apuleio, databili dal sec. 9° al 13°, possono essere fatti risalire a tre esemplari tardoantichi del 5° e 6° secolo. Non si è conservato nessun manoscritto paleocristiano della Topographia christiana, già ascritta a Cosma Indicopleuste e ora assegnata a Costantino di Antiochia. Riferimenti nel testo provano che fu illustrato già nel sec. 6° e tre c. del 9° e dell'11° consentono una ricostruzione di uno o più archetipi perduti.Sono conservati ca. sessanta salteri di lusso connessi in qualche modo l'uno all'altro; una famiglia di commentari a Giobbe comprende dieci membri; inoltre sono giunti numerosi manoscritti dell'Apocalisse in rapporto tra loro, databili all'epoca carolingia, romanica e gotica, di cui ca. venti esemplari sono riferibili alla sola Inghilterra. In molti casi le filiazioni tra le c. sono così precise che si possono costruire stemmi analoghi a quelli usati dai filologi.Nei trattati scientifici le illustrazioni erano veicolo di informazioni essenziali e pertanto dovevano essere copiate perché possedevano l'autorevolezza dell'Antichità e offrivano dettagli non accessibili in altro modo, come testimoniano per es. le raffigurazioni nei manoscritti del Dioscoride e dello pseudo-Apuleio. Importanti testi più tardi vennero trattati alla stessa maniera: un manoscritto del De arte venandi cum avibus (Roma, BAV, Pal. lat. 1071) - esso stesso c. revisionata dell'originale di Federico II, realizzata per suo figlio Manfredi nel 1258 in Italia meridionale - fu utilizzato come modello per le illustrazioni di una traduzione francese eseguita a Parigi intorno al 1300 (Parigi, BN, fr. 12400). Scopo principale in questo caso era l'esatta trasmissione di informazioni pratiche.Anche in alcuni trattati teologici, in cui le raffigurazioni erano parte integrante del testo, le c. furono essenziali, per es. nella Topographia christiana e nel De laudibus sanctae crucis di Rabano Mauro. Questo può spiegare la frequenza con cui vennero replicati i manoscritti miniati dell'Apocalisse e di Beato di Liébana, codici in cui le illustrazioni delle visioni di Giovanni erano reputate fondamentali per la comprensione del testo.Anche manoscritti di carattere inusuale, per es. testi classici come le commedie di Terenzio o testi tardoantichi riccamente illustrati, vennero spesso copiati. In definitiva, in modo implicito o esplicito, si riteneva che i manoscritti antichi contenessero un sapere autentico che doveva essere conservato. È questa sicuramente la ragione dell'esistenza di tante repliche del Salterio di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32) con la sua intricata e ingegnosa 'lettura' dei versi dei salmi e il vivace stile lineare. Il modello del Codex Amiatinus fu una bibbia eseguita nel monastero di Cassiodoro che doveva godere di una speciale venerazione nel sec. 8° da parte dei monaci di Wearmouth e Jarrow; la miniatura con il tabernacolo (cc. 2v-3r) è stata inoltre ritenuta c. da un originale di Cassiodoro realizzato con la consulenza di ebrei e perciò particolarmente autorevole.Per lo più nelle catene di c. che venivano realizzate ogni replica ne generava una nuova. Questo sembra essere avvenuto per ciò che riguarda le c. del Salterio di Utrecht prodotte e conservate a Canterbury durante l'11° e il 12° secolo. La c. più tarda (Parigi, BN, lat. 8846) si basa su un intermediario di poco precedente, il c.d. Salterio di Eadwine (Cambridge, Trinity College, R.17.1), come ampiamente attestano misure, disposizione e iniziali. Tuttavia, come in molti casi di dipendenza, il rapporto tra c. e modello non è così immediato. Per alcuni tratti stilistici e iconografici la c. di Parigi abbandona il Salterio di Eadwine per tornare all'originale carolingio.Questi esempi introducono due problemi che sorgono sempre quando si tratta di riproduzioni medievali di manoscritti illustrati: se il prototipo sopravvive quali siano le specifiche qualità della c.; se il modello è perduto come si possano distinguere le caratteristiche inventive proprie alla riproduzione dagli elementi ripresi dall'originale. Una miniatura dello Speculum virginum dell'abbazia benedettina di Frankenthal (Roma, BAV, Pal. lat. 565, c. 59v) offre alcune risposte; contenendo complessi diagrammi essenziali alla comprensione del testo, ripete la struttura di base e i dettagli del proprio modello, il codice di Maria Laach (Colonia, Historisches Arch. der Stadt, W 276a, c. 42v), anche per ciò che riguarda proporzioni e resa degli abiti estranee allo stile del maestro; nel contempo però alcuni particolari vengono modificati (per es. il tetto del portale centrale), altri omessi (per es. le fiamme delle lampade delle vergini sagge) e altri ancora aggiunti (per es. un'iscrizione sulla testa della vergine presso la porta). Una pagina quasi identica in un manoscritto precedente (Londra, BL, Arund. 44, c. 57v), che non può essere considerata la fonte di entrambi, ma che si rifà a un archetipo comune, messa a confronto con le altre rivela le stesse caratteristiche nel modo di copiare, ovvero una concordanza generale con variazioni nei dettagli (per es. i capelli scompigliati delle vergini stolte). Un analogo procedimento è riconoscibile nei già citati cinque ottateuchi bizantini; nessuno di essi è una replica perfetta della fonte, ma ciascuno l'accresce, l'adatta, l'altera, la corregge e l'aggiorna.Un'ulteriore complicazione nasce dal fatto che spesso vennero prodotti due originali, c.d. gemelli o fratelli, cosicché non bisogna necessariamente presumere un'unica fonte per derivazioni multiple. Sono conservati cinque manoscritti del sec. 9° del De laudibus sanctae crucis di Rabano Mauro e varie c. databili dall'11° al 16° secolo. Un'edizione di lusso del bestiario venne creata in Inghilterra nel 1180 ca., in parte sulla base di fonti tardoantiche, per es. i manoscritti illustrati del Physiologus; le più antiche testimonianze di questo genere di produzione sono i 'manoscritti fratelli' di San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, Lat. Q.v.V.1) e di New York (Pierp. Morgan Lib., M.81); un terzo bestiario (Londra, BL, Royal 12.C.XIX) sembra essere un discendente di questo originale. Testimonianze più tarde, d'altro canto, appartengono a una 'seconda famiglia' (Cambridge, Univ. Lib., Ii.4.26; Aberdeen, Univ. Lib., 24; Oxford, Bodl. Lib., Ashmole 511), che dipende dalla prima attraverso una versione abbellita dell'originale.Il copiare comportava necessariamente delle interferenze; queste a volte potevano essere inavvertite e meccaniche, come quando lo stile locale appare attraverso la replica o un particolare iconografico è frainteso o un elemento è omesso. Più spesso tuttavia la riproduzione portò a modifiche intenzionali, come la correzione di un aspetto della raffigurazione grazie al confronto con il testo relativo o con un altro esemplare, la selezione o l'accrescimento delle immagini in base a nuovi criteri d'importanza o l'invenzione di nuove composizioni secondo una precedente maniera. Così lo stesso Salterio di Utrecht sembra essere in parte c. di un salterio più antico, ma le raffigurazioni liriche sono sicuramente aggiunte del sec. 9° realizzate alla maniera del modello. Il Salterio palatino (Roma, BAV, Pal. gr. 381b) può costituire un esempio paradigmatico dell'atteggiamento complessivo del Medioevo nei confronti delle copie. Esso fa proprie le miniature di un modello prestigioso, il citato Salterio di Parigi (BN, gr. 139), e ne emula anche lo stile; tuttavia costituisce una radicale epitome della fonte del sec. 10° e nella seconda miniatura della Consegna della Legge (c. 170r) costruisce una composizione interamente nuova nella vecchia maniera, riunendo vari elementi sparsi nel modello.L'uso delle c. non si limitò naturalmente alla produzione libraria, benché sia rilevabile con maggior frequenza nell'ambito dei manoscritti miniati. Lo stesso impulso verso l'emulazione di opere ammirate fu proprio anche di altri mezzi espressivi. Gli avori prodotti ad Amalfi nel sec. 11° furono copiati da precedenti intagli eburnei del c.d. gruppo di Grado; in questo, come in altri casi di c., le composizioni restano sostanzialmente le stesse mentre la resa stilistica rivela la cronologia più tarda e il diverso luogo d'origine. Il già citato cofanetto renano di Anagni, per es., è decorato con rilievi d'argento dorato, con Ercole e altri soggetti, copiati direttamente da avori bizantini del 10° secolo.Anche frescanti e mosaicisti emularono monumenti famosi, sebbene le esigenze dell'architettura e della posa in opera avessero reso le loro c. inevitabilmente meno precise. In alcuni casi essi si basavano su libri di modelli appositamente autorizzati, come accadde in particolare nel nuovo Ordine francescano, in rapida espansione nel sec. 13°, che mise a punto degli schemi per la decorazione delle chiese in modo da assicurare l'uniformità ai conventi dipendenti e dare così l'impressione che ciascuno di essi fosse in sostanza una c. della chiesa madre.Negli aspetti essenziali i mosaici della cattedrale di Monreale copiano la più piccola Cappella Palatina della vicina Palermo: così elementi compositivi determinati dall'architettura vengono in essi ripresi. Ma il programma di Monreale contiene anche soggetti tradizionali e dettagli che non compaiono nel ciclo della fonte e ciò suggerisce che, come nelle c. dei manoscritti, la versione più tarda si rifaccia anche direttamente all'archetipo.In un certo senso ogni c. è una versione distinta dalla sua fonte per funzione, differenze di stile o piccole alterazioni. Alcune c. tuttavia sono tanto diverse dai loro modelli da non costituire più sostituti o riproduzioni dei prototipi. Questo si verifica anche quando le immagini sono semplicemente trasferite, secondo una pratica diffusa, in un altro mezzo espressivo, perché risulta cambiata la loro funzione. La riproduzione del Rotulo di Giosuè, del sec. 10° (Roma, BAV, Pal. gr. 431), sul coperchio di una scatola d'avorio per cosmetici (Londra, Vict. and Alb. Mus.) può essere dovuta a un semplice espediente, ma lo stesso processo di reimpiego decorativo e il nuovo contesto hanno svilito il carattere trionfale dell'originale. Quando il frontespizio di una bibbia carolingia fu riprodotto in bronzo su una delle porte di St. Michael a Hildesheim vennero radicalmente alterate le condizioni del linguaggio figurativo: la sequenza della Creazione di Adamo ed Eva, che nella bibbia introduceva il Vecchio Testamento, qui accoglie il fedele che entra in chiesa e assume così un significato ecclesiologico; altri adattamenti iconografici stabiliscono un parallelismo con il ciclo della Vita di Cristo fuso sul battente contiguo. Lo stesso vale per quello che è probabilmente il caso più noto tra le c. medievali: i mosaici duecenteschi nell'atrio di S. Marco a Venezia, esemplati su ca. centodieci scene del Genesi Cotton, del sec. 5° (Londra, BL, Cott. Otho B.VI). Forse a causa della presunta provenienza egiziana del codice, che potrebbe essere stato associato alla missione di s. Marco, i mosaicisti si attennero molto strettamente al modello, replicando anche le caratteristiche dell'abbigliamento e dell'architettura: aggiornarono però alcuni elementi e, dove il manoscritto era lacunoso, inventarono nuove scene secondo i modi dell'originale. La traduzione in mosaico e la collocazione in cupole e lunette portarono tuttavia inevitabilmente a variazioni negli schemi compositivi e nella selezione e accorpamento delle scene; ma più importante fu il fatto che l'inserimento di un ciclo narrativo in uno spazio pubblico e nel vasto programma decorativo di una chiesa avesse mutato la narrazione e trasformato i suoi fruitori. Al contrario, quando le icone venivano riprodotte sulle pagine di manoscritti bizantini tardi (per es. Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll., 3) conferivano al testo un carattere privato e devozionale.In alcuni casi opere decisamente nuove vennero create partendo dal 'riciclaggio' di forme. Come si è accennato, la seconda raffigurazione della Consegna della Legge nel Salterio palatino (Roma, BAV, Pal. gr. 381b, c. 170r) non è, come la prima (c. 169v), una fedele riproduzione della pagina corrispondente nel Salterio di Parigi (BN, gr. 139); usando citazioni da altre miniature della stessa fonte e trasformando l'arido Sinai in un verde prato, la scena presenta una versione moderata del messaggio fondamentale della composizione originaria, alla quale viene data un'interpretazione cristiana: la consegna della Legge diviene un patto con un nuovo Israele in una nuova Terra Promessa. Lo stesso tipo di trasformazione si riscontra nel frontespizio del Levitico nella Bibbia di Leone sakellários (Roma, BAV, Reg. gr. 1, c. 86r), in cui l'immagine dei leviti che portano l'arca dell'alleanza, ripresa da un ottateuco illustrato, viene posta in una nuova ambientazione che si riferisce al significato tipologico della scena.Spesso dunque le c. richiesero adattamenti intenzionali. Quando i pittori duecenteschi dell'arco trionfale di S. Maria di Grottaferrata scelsero come modello per la raffigurazione della Trinità un manoscritto greco (Vienna, Öst. Nat. Bibl., suppl. gr. 52), ebbero l'acutezza di adattare il rapporto tra Padre, Figlio e Spirito Santo per rendere l'immagine conforme all'interpretazione latina seguita alla controversia del Filioque. A Pisa la lieve modificazione di un'icona agiografica bizantina (Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo) per l'impiego come pala d'altare in una chiesa latina trasformò del tutto la c. da immagine devozionale a oggetto di culto.La riproduzione fu anche un mezzo per incorporare citazioni significative in contesti più ampi. Una riconoscibile replica della Madonna dei Ss. Domenico e Sisto nella narrazione pittorica della leggenda dell'icona nella chiesa di S. Gregorio Nazianzieno a Roma non solo identifica la giusta icona per il racconto, ma convalida anche la c. di tale santa immagine custodita nella stessa chiesa. Più espliciti intenti politici vennero affidati alla citazione nella cappella di S. Nicola, un tempo nel palazzo Lateranense, dove la tavola paleocristiana della Madonna della Clemenza venne riprodotta come fulcro di una composizione celebrante la vittoria del papato nella lotta per le investiture. Uno dei più efficaci esempi di questa riproduzione simbolica si trova nell'abside di S. Maria in Trastevere a Roma. Il mosaico (1143 ca.), progettato secondo schemi convenzionali, tipici delle absidi delle più antiche chiese romane, introduce per la prima volta l'immagine della Vergine seduta accanto a Cristo sullo stesso trono. I protagonisti tengono in mano iscrizioni basate sul Cantico dei Cantici, derivanti dalla liturgia della festa dell'Assunzione e, circostanza più importante, le loro figure - che risaltano rispetto alle altre per lo stile - sono copiate da antiche icone impiegate a Roma durante questa festa: la Madonna advocata e il Cristo nel Laterano. In questo caso la riproduzione delle icone usate nella liturgia evocava la celebrazione degli originali. Come accadde per molte altre c., il mosaico di S. Maria in Trastevere divenne esso stesso un originale, che generò una c. altrettanto importante nell'abside di S. Maria Maggiore.L'assimilazione delle icone nella decorazione della chiesa attraverso la mediazione della liturgia è solo uno degli esempi di come lo stesso atto di copiare contenesse i tipi di trasformazione che riguardarono la Chiesa medievale. La citata riproduzione dei leviti nella pagina del Levitico nella Bibbia di Leone sakellários ne è un altro, poiché ancorando il nucleo dell'immagine alla scrittura ebraica permetteva al miniatore di mettere in scena la lettura tipologica. Un uso ancora più sofisticato della c. si registra nella Bibbia di Viviano (Parigi, BN, lat. 1), dove i miniatori del sec. 9° rimodellarono le figure di s. Paolo e dei suoi seguaci sulle rappresentazioni di Enea e dei suoi compagni del Vergilius Vaticanus. Ne risultò che il personaggio-guida della Roma cristiana aveva sostituito il fondatore della città pagana, ma è ancora più significativo che lo stesso atto di copiare un modello antico per l'apostolo Paolo e i suoi discepoli desse ulteriore forza al tema della conversione dei pagani al cristianesimo.L'uso di c. nel Medioevo fu dunque un modo per evitare il sospetto d'originalità in una cultura scettica nei confronti dell'autorità e della paternità individuale e allo stesso tempo e per la medesima ragione fu veicolo di creatività.
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