COPTI
Gli Arabi, dopo la conquista dell'Egitto (641 d. C.), chiamarono gli abitanti del paese, allora quasi tutti cristiani, passati poi per la stragrande maggioranza all'Islām: Qibṭ, Qubṭ "onde copti", "cofti". Qibṭ (usato come collettivo, ed anche nella forma plurale Aqbāṭ) è storpiatura del greco Αἴγυπτος. Tale nome non fu naturalmente usato dai Copti nella loro lingua; entrò bensì nell'uso corrente dell'arabo anche tra i Copti stessi, e ne divenne in tal lingua il nome ufficiale.
"Copti" è quindi espressione che ha in origine valore etnico e religioso, in quanto tutti gli Egiziani si distinguevano dagl'invasori, e per la loro origine e per la loro religione. Man mano che le conversioni assottigliavano le file dei cristiani e l'arabo penetrava egualmente tra musulmani e cristiani, il nome Copti restava caratteristico per quella parte degl'indigeni che rimaneva fedele all'antica religione e si serbava distinta dagl'invasori e dai nuovi convertiti; e diveniva così più specialmente appellativo religioso.
I Copti di oggi, per la grande maggioranza monofisiti (giacobiti: v. sotto), vantano una secolare resistenza all'assimilazione e hanno certo ben conservato il tipo della razza egiziana, che, del resto, prima della conquista araba avea subito mescolanze con elementi greci e nubiani; ma anche le unioni di Egiziani musulmani con Arabi o Turchi non furono assai numerose e in ogni modo sembrano non aver avuto effetti assai sensibili; soprattutto nelle campagne è ben difficile distinguere un egiziano musulmano da un copto.
Se il nome di Copti non appare che con la conquista araba, tuttavia una vita culturale degli Egiziani cristiani, distinta da quella greca, è più antica della conquista araba; per comprendere quindi il processo di formazione della vita copta si devono pigliare le mosse da quando si delineò una rinascenza, una nuova cultura distinta dalla greca, quando cioè il cristianesimo, nuovo fattore religioso e culturale di carattere universale, rinnovò la vita delle masse e creò le condizioni perché i valori nazionali potessero ancora una volta affermarsi. Sulle premesse cristiane di carattere universale (come quelle dell'Islām, che produrrà più tardi analoghi processi) s'innestavano le tendenze caratteristiche di singole nazioni orientali; così di quella egiziana, che maturò una cultura, che si chiama copta, sebbene i suoi fattori essenziali fossero già maturati prima della conquista araba, quando venne in uso generale quel nome.
Al risorgere della vita nazionale corrispose l'inizio di una nuova fase artistica di carattere analogo (si veda qui sotto).
Così il complesso del cristianesimo egiziano appare nelle sue origini come la risultante di elementi di carattere assai diverso: le energie religiose indigene e la chiesa alessandrina greca, in intima comunione, questa, col mondo greco, anzi centro dell'ellenizzazione del cristianesimo e dei suoi dogmi. Della chiesa alessandrina prima che si fonda in più stretta unità con l'elemento indigeno, prima cioè del concilio di Calcedonia (451 d. C.), non va fatta qui la storia. Per le sue primitive vicende si vedano quindi le voci alessandria; atanasio; ario; cirillo; clemente alessandrino; cristologia; dioscuro; egitto; eutiche; gnosticismo; monachismo; monofisiti.
Interessa qui, invece, l'elemento indigeno, il quale, quanto più lontano dalla costa ellenizzata, tanto più originalmente reagiva, e in modo consono alle proprie tradizioni, all'evangelizzazione. In alto Egitto, là ove il greco era poco o nulla compreso, sorse per la prima volta una forma di vita cristiana indigena (già delineata sicuramente verso il 250 d. C.), il cui segno non è solamente la lingua diversa, bensì uno spirito nuovo nazionale, che ha infomiato di sé la vita e la letteratura copta. Anche nelle immediate vicinanze del seggio patriarcale e della scuola alessandrina la massa dei fedeli indigeni non era certo in intima comunione col carattere della chiesa ellenizzante, il quale risaliva, nella sua più profonda ed intima essenza, a premesse del tutto diverse; ma viveva una sua vita, i cui segni apparvero chiari quando anche colà sorse, dopo il concilio di Calcedonia, una produzione letteraria nazionale, simile, nei suoi più profondi caratteri, a quella dell'alto Egitto.
Paragonando gli aspetti di questi due elementi del cristianesimo egiziano, la chiesa alessandrina greca e la massa indigena, se ne vedono agevolmente le profonde differenze; in quest'ultima nessun gusto per teologizzare, ma un profondo senso morale, una particolare sensibilità per gli affannosi problemi dell'al di là; assai sentito il culto dei morti, potente l'attrazione verso il soprannaturale e il meraviglioso, e la magia. Questa religiosità più semplice seppe però essere eroica nelle persecuzioni, entusiasta nella lotta contro il paganesimo, paziente nelle angherie dei proprietarî greci, che si valevano di ogni mezzo per ricondurre i loro servi al paganesimo. Il frutto più bello di queste energie fu il monachismo copto, sorto insieme, con aspetti differenti, ma con base analoga, nel basso Egitto (ove l'azione dell'eremita Antonio, morto verso il 350, moltiplicò i romitaggi e i monasteri a tipo semicenobitico), e nell'alto Egitto, ben presto popolato dai monasteri retti dalla regola di Pacomio (morto anch'esso verso il 350). Il monachismo riassunse in sé e diresse la vita cristiana dei Copti dei primi secoli, promosse la letteratura, condusse a vittoria la lotta contro il paganesimo, assisté il patriarcato greco nelle sue lotte (v. monachismo). Poiché questa massa indigena, sebbene lontana dalle sottigliezze teologiche, trasse norma e direzione dalla chiesa alessandrina, e costituì un fascio di salde energie nel pugno del patriarca, che, potentissimo anche economicamente (una sua flotta correva il Mediterraneo), padrone della sua diocesi per la sua diretta giurisdizione sui vescovi, ne disponeva a suo talento, alle volte con brusca energia e minacce; in ciò assistito dal senso di disciplina, vivo soprattutto nei monaci, e dalla fierezza naturale che anche il popolo nutriva per le glorie della cattedra di Marco.
Per le condizioni politiche ed economiche del paese in questo tempo, v. egitto.
Dopo il concilio di Calcedonia (451 d. C.) che condusse l'Egitto a ribellarsi a Bisanzio e a Roma e ad irrigidirsi nelle sue credenze monofisite, i due elementi del cristianesimo egiziano, l'universale ellenistico e il nazionale egiziano, si avvicinarono gradualmente per creare, nel distacco dal mondo greco, una nuova unità più omogenea, la Chiesa alessandrina copta, non più greca. Il primo però, nel languire del pensiero teologico dopo le ultime schermaglie monofisite, nella separazione sempre più netta dai Greci, perdé ogni sua forza viva e non ne rimase man mano che il ricordo e la tradizione; mentre le energie religiose indigene, partecipanti sempre più direttamente, per il carattere nazionale della reazione, alla vita della Chiesa, le diedero uno spiccato carattere egiziano, e insieme aspetti religiosi di vivo interesse; non però forza a reggere il peso di sì formidabile eredità. Al breve splendore che la conquista araba, favorendo egiziani monofisiti contro greci melchiti, diede alla Chiesa copta già chiusa nella sua nuova vita nazionale, successe ben presto una rapida decadenza, che ridusse la Chiesa egiziana a una larva del passato, da maestra universale a povera madre di un povero gregge, pur governato in nome delle auguste tradizioni dei maggiori padri alessandrini.
La Chiesa egiziana dal concilio di Calcedonia alla conquista araba (451-641 d. C.). - Alcune principalissime vicende della Chiesa egiziana dal concilio di Calcedonia alla conquista araba sono essenziali, sia perché segnano le fasi del graduale irrigidimento dell'Egitto nell'intransigenza monofisita contro Bisanzio, sia perché conducono alla definizione della confessione monofisita adottata, fino ad oggi, dalla Chiesa copta. Il monofisismo egiziano, nonostante alcune tendenze estreme che hanno lottato nel suo seno, appunto in questo periodo, non segue le opinioni estreme di Eutiche (v.) e quelle fantastiche di alcuni suoi seguaci; è bensì un monofisismo moderato.
La popolazione alessandrina, istigata da Timoteo Eluro che fu poi il primo patriarca dissidente, assassinò nel 457 il patriarca calcedoniano Proterio inviato da Bisanzio come successore del deposto Dioscuro, capo della parte monofisita al concilio di Calcedonia. Durante il patriarcato di Pietro Mongo, successore di Timoteo, fu emanato dall'imperatore Zenone, nel 482 d. C., l'Enotico, documento che tentava in base a formule conciliative una composizione del grave dissidio tra le chiese; ma un forte partito di monaci egiziani intransigenti (gli Acefali) osteggiò molto acerbamente l'accordo. Sotto Giustino il celebre patriarca monofisita di Antiochia, Severo, dottore del monofisismo moderato, fu deposto e inviato in esilio in Egitto; anche Giustiniano, nonostante l'influenza di Teodora, combatté i monofisiti e dopo l'incontro di Severo, chiamato dall'Egitto, con papa Agapito (che morì a Costantinopoli nel 536 d. C.) condannò quello e commise al nuovo patriarca Paolo di Tabennese, da lui scelto, la cura di sradicare l'eresia e la gerarchia dissidente che già fioriva. L'energia di Paolo le ridusse a mal partito; ma la chiesa monofisita, e non del solo Egitto, fu salvata dal monaco siro Giacomo Baradeo, che, eletto vescovo degli Arabi con il favore di Teodora, riuscì con accorta abilità e ferrea energia a rinsanguare la gerarchia, e a ricostituire, e per sempre, le chiese monofisite, che ebbero poi da lui il nome di giacobite.
Il carattere moderato del monofisismo egiziano non si affermò però che dopo vive lotte che lacerarono le comunità di Siria e di Egitto e che ebbero principale teatro l'Egitto, fin verso l'inizio del sec. VII.
Una celebre controversia, che ha a lungo diviso Egitto ed Oriente monofisita, fu causata dalle dottrine di Giuliano vescovo di Alicarnasso (che piacquero, nella sua vecchiaia, a Giustiniano), rifugiatosi in Egitto insieme con il predetto Severo; egli sostenne contro questo, esagerando le premesse monofisite, che il corpo di Cristo fu impassibile e incorruttibile. I giulianisti furon detti anche gaianiti, dal giulianista Gaiano che fu anche patriarca.
Il tentativo di conciliare la terminologia della cristologia monofisita con quella trinitaria si ebbe nel triteismo, dottrina sviluppatasi specialmente in Egitto per opera del sofista alessandrino Giovanni Filòpono, e che, dall'identificazione, stabilita dai monofisiti, tra natura individuale ed ipostasi, concluse che essendo in Dio tre ipostasi, occorre contare anche tre nature divine. Ma nonostante queste dottrine dissidenti che guadagnarono spesso il favore di patriarchi e monaci e anche del popolo egiziano (il quale, pur lontano dal comprendere siffatte logomachie, si faceva facilmente trascinare dai più abili mestatori alle loro estreme tendenze), la tendenza media severiana si affermava, come in Siria, sicuramente se anche lentamente; ed insieme la separazione da Bisanzio diveniva definitiva e irreparabile, sentita dalla nazione come unica posizione degna della tradizione di Cirillo e Dioscuro, causa di fatti politici e culturali di grande momento.
Tra gli ultimi avvenimenti degni di nota, prima della conquista araba, fu un tentativo di conciliazione sotto Giustino II (566), tra ortodossi e monofisiti, fallito per l'intransigenza dei monaci egiziani.
L'invasione dei Persiani (618-19) portò la desolazione in Egitto e tacquero le querele teologiche. Eraclio, che dopo la sua vittoria contro i Persiani tentò ancora una volta la riconciliazione delle chiese sulla base della dottrina monoteleta (affermante un'unica volontà in Cristo), inviò nel 631 in Egitto, come patriarca ortodosso, Ciro con la missione di stabilire l'unione. Mentre il patriarca giacobita Beniamino fuggiva nell'alto Egitto, Ciro giunse ad un accordo su alcune formule; ma esso fu effimero. Le lunghe persecuzioni del potere lmperiale contro gli Egiziani fedeli alle loro dottrine monofisite, l'antica gelosia verso la rivale Costantinopoli, le vessazioni dei dominatori bizantini, e insieme il senso nazionale che si ridestava, condussero a un'inevitabile conseguenza: i Copti cioè, e il loro patriarca alla testa, videro nell'occupazione araba una liberazione. Il loro contegno fu certo una delle cause delle fulminee vittorie di ‛Amr ibn al-‛Āṣ, e dei suoi luogotenenti. Un personaggio di parte imperiale detto dalle fonti arabe al-Muqawqis (che deve forse identificarsi con lo stesso Ciro o con persona a lui vicina) trattò la resa definitiva nel 641 d. C.
Per le condizioni politico-economiche di questo periodo, v. egitto; così per la conquista araba.
I Copti dalla conquista araba ad oggi. - Se l'occupazione araba portò ai Copti giacobiti un momentaneo vantaggio, per il favore accordato dall'invasore contro i melchiti bizantini e i loro seguaci, essa ebbe come conseguenza ineluttabile una lenta ma sicura assimilazione agli Arabi nelle due direzioni della lingua e della religione. Tre fattori determinano la storia dei Copti sotto gli Arabi: la mancanza presso i musulmani di proselitismo in paese giudeo o cristiano; le misure fiscali che si concretavano nelle imposte e nella capitazione, poi in una serie di spoliazioni e confische; lo zelo religioso, non raramente la crudeltà di sovrani e funzionarî, anche del popolo, che spesso richiese in tumulto l'oppressione dei Copti. La risultante è che, se non si può parlare di vere e sistematiche persecuzioni, quali quelle dei Romani, le angherie e gli eccessi, le sanguinose repressioni delle rivolte hanno causato una rapida decadenza della comunità e della chiesa copta e hanno accelerato il processo d'islamizzazione, riducendo ben presto i copti a un'esigua minoranza.
I primi rapporti tra vincitori e vinti furono regolati con un trattato che stabilì, tra l'altro, l'imposizione della capitazione, che i papiri han dimostrato esser stata proporzionale alla ricchezza; per essa e l'imposta fondiaria si veda egitto. Sotto i primi governatori s'iniziarono le vessazioni fiscali; il divieto di ricostruire le chiese distrutte sembra sia sorto solo nel sec. VIII e imposto dalla turba irrequieta dei neo-convertiti. In ogni modo, subito dopo l'occupazione musulmana, si convertirono molte chiese in moschee e se ne adoprarono i materiali per nuove moschee. Il governo degli Omayyadi (661-750 d. C.) fu duro per i Copti, sebbene non si possa parlare di abiure obbligate e la vita religiosa potesse svolgersi con qualche libertà. Furon però distrutti i segni cristiani sulle chiese, si abolì la franchigia dei monaci dalla capitazione, fu per la prima volta (706) dichiarato obbligatorio l'uso della lingua araba nelle scritture governative. S'iniziò anche l'islamizzazione dei funzionarî (v. qui sotto). Già sotto gli Omayyadi cominciarono le rivolte dei Copti, numerose e gravi, che insanguinarono a lungo l'Egitto, e specialmente il Delta: molte ne scoppiarono anche sotto gli ‛Abbāsidi, non certo più liberali degli Omayyadi. L'ultima, la più sanguinosa, fu quella dell'830. Poi i Copti, diminuiti di numero per le continue conversioni, divenuti, anche nei villaggi, minoranza, non ebbero più la forza di opporsi con le ribellioni. Rimontano al periodo abbaside, secondo alcuni, e non ai primi tempi dell'occupazione, le misure che obbligarono i Copti a distinguersi dai musulmani con speciali foggie del vestito. L'editto più celebre che le impose è quello del califfo al-Mutawakkil (842-847 d. C.). Le misure furono variamente applicate, evitate spesso dai Copti con pagamenti, abolite da Muḥammed ‛Alī; oggi ne resta avanzo nel turbante azzurro scuro che portano i preti secolari copti. La dinastia Tūlūnida (868-905 d. C.) non vessò i Copti, tendeva anzi ad appoggiarsi ai cristiani nella sua lotta contro Baghdād; così anche gli Ikhshīdidi (935-969) furon piuttosto benevoli per i Copti. Dei Fāṭimidi (969-1171 d. C.) alcuni furon tolleranti; sotto di essi i cristiani ebbero non poca influenza alla corte, e chiese e conventi ebbero periodi di fiore. Ma il fanatico al-Ḥākim li perseguitò duramente; alcune fonti musulmane, con evidente esagerazione, noverano a 30.000 le chiese fatte da lui distruggere in Siria e in Egitto. Crudele persecuzione fu anche quella sotto al-Mustanṣir per opera del visir al-Yāzūrī. Gli Ayyūbidi (1171-1250), restauratori dell'ortodossia musulmana, furon rigidi verso i Copti, ma non molto tirannici. Sotto il loro dominio furono restaurate molte chiese (furon però tolte ad altre le entrate), e fiorì una rinascenza della chiesa copta, che ebbe però la sua espressione in arabo, essendo ormai la lingua nazionale presso a morire. Saladino vietò ai Copti il mestiere di medico e di scriba, ma i funzionarî copti rimasero per la maggior parte ai loro posti. L'abilità maggiore dei Copti nelle funzioni amministrative, la loro conoscenza dei sistemi burocratici bizantini li resero a lungo indispensabili, e i draconiani provvedimenti di epurazione presi in varî periodi non ebbero effetti notevoli e durevoli. Le crociate non ebbero effetti assai gravi per i sudditi giacobiti degli Ayyūbidi.
Il dominio mamelucco (1250-1517) infierì sulla chiesa copta. Il decreto del 1301 che ordinava la chiusura di tutte le chiese, anche cattoliche, tranne in Alessandria, provocò due ambasciate, del re di Aragona e di Bisanzio, che ottennero la revoca del provvedimento. Il popolo obbligò il governo a gravi misure, non solo di licenziamento di funzionarî (che furon frequenti) ma anche di altra natura e gravi, riscattate spesso dai Copti con danaro. Nel 1321 il popolo in tumulto distrusse molte chiese.
Dall'occupazione araba l'islamizzazione aveva così proceduto sicuramente; si può dire che nel sec. X i cristiani avevano già perduto la maggioranza e che sotto i Mamelucchi, al sec. XIV, essi erano appena un decimo della popolazione. Ma non agevole è il calcolare la popolazione assoluta dell'Egitto nelle varie epoche (v. egitto). Le misure fiscali e le necessità prodotte dalla convivenza con Arabi e musulmani, l'arabizzazione delle amministrazioni sono tra le cause principali della conversione; ma si resta perplessi nel riflettere che lo stesso popolo, divenuto in breve e per la maggioranza musulmano, aveva così accanitamente resistito alle persecuzioni pagane. Con la conversione andò di pari passo l'assimilazione agli Arabi, nella lingua e nei costumi; ma il tipo della stirpe non fu sensibilmente alterato dagl'incroci. L'elemento di origine araba non fu del resto mai numeroso in Egitto, nonostante alcune migrazioni dopo la conquista.
Che la chiesa copta, separata da secoli da Bisanzio, sottoposta a sì dure prove, decadesse rapidamente non è meraviglia; la miseria la urgeva, la simonia figlia della miseria la corrompeva. Dal sec. VII al X però, la letteratura viveva ancora, anche nell'alto Egitto, forte delle sue tradizioni; ma nel sec. XI si scriveva comunemente in arabo, anche nel nord. La chiesa, sotto gli Ayyūbidi specialmente, ma ancora fino al sec. XIV, ebbe inoltre un periodo di risveglio, e una viva attività riformatrice e legislatrice combatté l'ignoranza, la simonia e l'indisciplina del clero, mentre eran coltivate la storia e le scienze ecclesiastiche, ed anche le filologiche (grammatiche e dizionarî miravano a salvar la lingua nazionale dall'oblio). Ma strumento di questa cultura, non del tutto indipendente dalla musulmana, era l'arabo, non più il copto. Dopo le lotte qui sopra ricordate per la formulazione delle credenze della chiesa egiziana, tacque ogni discussione teologica, se si eccettui la controversia che Marqus ibn al-Qanbar sollevò, nel sec. XII, a proposito del sacramento della penitenza, che egli voleva ricondurre all'antica austerità. Poi, nel sec. XV, il ritmo della caduta si accelerò. Il patriarcato nel 1442 aderì alle decisioni del Concilio di Firenze, ma l'unione con Roma fu effimera. Altri tentativi di unione, corrispondenza di patriarchi con papi (Clemente VIII, Urbano VIII), sforzi di missionarî non ebbero felice esito. Nel 1741 Benedetto XIV creò un vicariato apostolico, e la comunità copto-cattolica ne ebbe sviluppo; sì che Leone XIII s'indusse, nel 1895, a creare il patriarcato cattolico di Alessandria, che ha la sua gerarchia e circa 25.000 fedeli. I Melchiti, ortodossi e cattolici, sono di rito bizantino, non copto (seguito invece dai copti-cattolici), e non vanno qui considerati. (v. melchiti). Sotto il dominio dei Turchi (1517-1798) il malgoverno, poi gli arbitrî degli emiri mamelucchi resero ancor più misera, se possibile, la vita della chiesa copta.
Le idee europee, penetrate con la spedizione napoleonica e con il regno della dinastia di Muḥammed ‛Alī (dal 1805 ad oggi), assicurarono ai Copti le libertà fondamentali. Da allora la chiesa e la comunità copta si sono gradualmente sollevate dalla loro miserrima condizione. Lo zelo di alcuni dotti, una discreta attività editoriale tentano da qualche tempo di rimettere in onore gli studî copti, e la conoscenza della lingua, che in qualche famiglia è anche parlata. La solidarietà ha creato istituti di beneficenza per la comunità; anche nell'insegnamento ecclesiastico e nella cultura del clero si nota un progresso. Ma si esagererebbe se si volesse considerare ciò come una vera e propria rinascenza. I Copti nell'ultimo censimento del 1927 furono noverati a circa 1 milione sopra un totale di 14 milioni circa di Egiziani; la libertà concessa alle missioni ne ha convertito un certo numero al protestantesimo (forse 30.000). Il libero pensiero si è anche affermato, ma i Copti tengono generalmente alle loro tradizioni e, anche se non fervidi credenti, partecipano alla vita della chiesa e della comunità. Essi esercitano nelle città mestieri tradizionali, come quello di orologiaio, gioielliere, sarto, ebanista, ecc.: copti sono spesso gli scrivani, i contabili, i notai, e negl'impieghi ministeriali una buona parte dei posti è da essi occupata, per le loro attitudini a tali servizî. Ma la diffusione dell'istruzione, anche di quella professionale, tende in genere a livellare attitudini e abilità. Non pochi Copti ricoprono o hanno ricoperto altissime cariche (tra cui quelle di ministro e presidente del consiglio) e sono insigniti delle maggiori distinzioni; alcuni sono proprietarî di grandi fortune. Qualche attrito tra i due elementi della popolazione non manca, specie per gelosie di carriera nei ministeri; ma in complesso si può affermare che la maggioranza musulmana e i resti della comunità alessandrina collaborano per il progresso dell'Egitto.
La chiesa abissina dipende dalle sue origini dal patriarcato di Alessandria: v. etiopia. Per le condizioni politico-economiche di tutto questo periodo, v. egitto.
Organizzazione della chiesa copta. - La chiesa copta ha il nome ufficiale, in arabo, di "Chiesa copta ortodossa", mentre quello egiziano suona semplicemente "Chiesa degli Egiziani". Ne è a capo il patriarca di Alessandria, la cui sede dal sec. XI fu trasferita al Cairo. Il patriarca consacra direttamente i vescovi (il titolo di metropolita è onorario) ed esercita la sua giurisdizione sull'Abissinia per mezzo di un metropolita da lui scelto e consacrato (vedi etiopia). Le diocesi egiziane, già 100 ai tempi più prosperi, erano ridotte nei momenti di grande decadenza a 10. Ora esse sono 14. I preti secolari (circa 900) sono spesso in misere condizioni, e assai ignoranti; ben raramente comprendono il copto della liturgia. Vestono come gli altri egiziani, ma in colori scuri, e portano un turbante azzurro cupo. Gli antichi monasteri sono ora per la maggior parte distrutti o deserti; dei maggiori ne restano quattro, ove i monaci non sono molto numerosi, né troppo alacremente occupati nel lavoro manuale, mentre l'intellettuale è quasi nullo. Essi si rasan la testa; sono distinti dal mantello di lana bruna, la cinta di cuoio, e l'Askim (σχῆμα), banda di stoffa nera larga due dita che scende dal turbante sulla nuca. I fedeli sono circa un milione.
Liturgia. - La messa usata comunemente dai Copti è quella di S. Basilio, sostituita in alcune solennità da quella di S. Gregorio Nazianzeno, mentre più raramente è usata quella di S. Cirillo, propria al rito copto, recensione dell'anafora alessandrina detta di S. Marco. I libri liturgici (dal sec. XII prevalentemente, dal XIV solo in boḥeirico e accompagnati dalla versione araba) sono assai numerosi: l'eucologio (messa, pontificale, rituale, altri servizî) fu edito a Roma nel 1736 dal cattolico Tuki. Vi sono anche edizioni indigene assai belle. Numerosi sono gl'inni sacri e in onore della Vergine, riuniti, questi ultimi, in una collezione detta la Theotokia.
La chiesa copta è generalmente rettangolare, e divisa in quattro parti: il santuario (haikal) è chiuso da una iconostasi, e riservato al sacrificio; adiacente al santuario si trova lo spazio donde assistono al servizio preti e notabili, elevato di qualche gradino rispetto al resto della chiesa, ove si radunano i fedeli, e, divise da un cancello, le donne. Dopo il movimento iconoclasta sono rimaste nelle chiese le immagini, ma non le statue.
Credenze. - I Copti professano il monofisismo moderato; e non riconoscono i concilî ecumenici a partire da quello di Calcedonia, né l'autorità del pontefice romano. Il culto della Vergine, degli Angeli e dei Santi è assai diffuso.
I Copti hanno i 7 sacramenti; il battesimo è per tripla immersione, ed è celebrato solo in chiesa, per i maschi al quarantesimo, per le femmine all'ottantesimo giorno dalla nascita. La cresima è sempre amministrata insieme con il battesimo. La credenza nella presenza reale nella eucarestia è sicura; non così la dottrina circa la transustanziazione. La comunione, prima frequentissima tra i fedeli, ora più rara, è data nelle due specie. La penitenza è andata assai in disuso dal sec. X, e fu man mano sostituita dalla cosiddetta confessione sul fumo dell'incenso, accusa dei peccati fatta mentalmente dai singoli fedeli al momento dell'incensamento dell'altare prima della messa, e seguita da un'assoluzione generale. Marqus ibn al-Qanbar (v. sopra) tentò nel sec. XII di restaurare l'austerità antica del sacramento, e la sua reazione ebbe qualche effetto; oggi però esso è poco praticato e in ogni modo con criterî di larga indulgenza. L'estrema unzione è amministrata in Chiesa ove è portato il malato, ed è conferita anche a persone sane, contro il peccato. Vi sonoo cinque ordini, tra minori e maggiori; inoltre l'arcidiaconato e l'igumenato (l'igumeno, in arabo qummuṣ, corrisponde al nostro arciprete, tra i monaci al superiore), il quale ultimo è sempre conferito a chi sia eletto vescovo.
Le credenze escatologiche sono piuttosto vaghe, come in Oriente al sec. V; ma sono salde quelle nel giudizio, nella risurrezione, nell'eternità delle retribuzioni, nell'efficacia della preghiera per i morti. Credenza strana, ed evidentemente collegata a concezioni degli antichi Egiziani, è quella delle telonie, specie di dogane di oltre tomba che l'anima deve passare, prima di giungere, al quarantesimo giorno dalla morte, al tribunale divino, e nelle quali è da demonî sottoposta ad esame sulle sue virtù e i suoi vizî. Il purgatorio non è menzionato, ma la preghiera per i morti è pratica comunissima.
Usi. - Gli usi che distinguono i Copti dai Musulmani sono prevalentemente religiosi o collegati con la religione. Numerose sono le solennità religiose che dànno origine a feste di popolo, che in esse ama divertirsi e fare elemosine. Tra le più caratteristiche è quella della notte del Ghiṭās o sera dell'immersione, che ricorre l'11 di Ṭūbah (18-19 gennaio del calendario gregoriano; corrisponde cioè alla nostra Epifania) e nella quale per ricordo del battesimo di Cristo i fedeli si gettano in un bacino di acqua benedetta, o anche nel Nilo. Alle molte feste, in altri tempi assai solenni e sontuose, intervenivano non di rado i sovrani musulmani con la loro corte. Numerosi e gravi sono i digiuni, ancora abbastanza osservati, specialmente da alcune classi della popolazione. La circoncisione dei due sessi è generale, ma non ha carattere religioso; è solo vietato farla dopo il battesimo. Le feste per i matrimonî sono assai solenni, e durano una settimana; molti usi presi dai musulmani sono ora sostituiti, presso le classi più alte, da quelli europei.
Per il calendario, v. calendario. Per i Copti cattolici v. sopra.
La lingua. - La lingua detta copta, rappresenta l'ultimo stadio di evoluzione della lingua egiziana. Essa ci appare per la prima volta (oltre che in qualche brevissimo testo del sec. II d. C.) nei testi cristiani tradotti dal greco nel sec. III, e accoglie una quantità assai rilevante di elementi greci, specialmente lessicali. Ciò non solo per il secolare contatto con i Greci, ma soprattutto per diretta influenza degli originali dei testi tradotti, per alcune espressioni delle quali non era agevole per gl'inesperti traduttori trovare la parola o la costruzione copta corrispondente. Tale lingua che può dirsi mista non restò irrigidita nei testi, e l'elemento greco, soprattutto il lessicale, visse anche nella bocca del popolo, la cui vita era così intimamente religiosa.
Il copto è diviso in cinque dialetti di cui i due principali sono il saidico della regione di Tebe (dall'arabo ṣa‛īd "alto Egitto"), e il boḥeirico della regione di Alessandria (dall'arabo al-Boḥeirah forse "terra bassa" o nome di una provincia del Delta). Tra di essi son varietà intermedie l'achmīmico del paese di Achmīm o Panopoli, il fayyūmico e il menfitico (nome prima dato a torto al boḥeirico) assorbiti poi dal saidico. La simiglianza assai stretta tra questi dialetti deve attribuirsi al fatto che la dinastia tebana vincitrice degli Hyksos e fondatrice del nuovo impero (verso il 1550 a. C.) portò in tutto l'Egitto il suo dialetto che, sovrappostosi agli antichi, diede luogo a nuove varietà più uniformi. Ne consegue che il dialetto copto della regione tebana è più vicino naturalmente alle forme originarie della lingua del nuovo impero; mentre il boḥeirico, p. es., ha conservato alcuni caratteri antichi. Il boḥeirico è inoltre importante, poiché è sviluppo del dialetto conosciuto dai Greci in Egitto, e alle cui forme rimontano generalmente le loro trascrizioni.
Per l'uso letterario dei singoli dialetti v. qui sotto il capitolo Letteratura. I dialetti copti cedettero man mano il passo all'arabo, dopo la conquista (ma anche il dialetto arabo egiziano subì qualche influenza del copto); nel sec. XIII almeno la lingua del paese era già l'arabo. Il copto, ormai morto, rimase fino ad oggi nella liturgia (ma accompagnato dalla versione araba) e nel dialetto boḥeirico, che il patriarcato di Alessandria, di cui era proprio, impose facilmente a tutto l'Egitto dopo la morte delle letterature provinciali.
Il copto fu scritto, fin dalle origini, con i caratteri greci unciali, a cui furono aggiunti, per suoni non conosciuti al greco, sette segni presi dai caratteri demotici. La scrittura ebbe una sua evoluzione che non possiamo qui indicare; per esempî di essa si vedano le figure alle pp. 334 e 335.
La letteratura. - La letteratura copta nacque quando la vita nuova creata dalla conversione delle masse egiziane al cristianesimo richiese che le scritture sacre (e s'intende non solo la Bibbia) non comprese nel greco fossero tradotte nella lingua nazionale. Ciò avvenne gradualmente per tutto l'Egitto e nei singoli dialetti, prima nella parte più lontana da Alessandria, nel distretto di Tebe e in quello di Achmīm (Panopolis) e nelle rispettive parlate, il saidico e l'achmīmico, con un processo che si può ritenere iniziato alla metà del sec. III. Sorse anche ben presto una ricca produzione nel dialetto del Fayyūm e sue varietà, mentre la letteratura del dialetto boḥeirico di Alessandria e dintorni nacque, con ogni probabilità, solo dopo il concilio di Calcedonia, quando la separazione da Bisanzio (v. qui sopra) diede anche alla vita religiosa del centro dell'ellenismo un carattere nazionale. A partire dal sec. XII-XIII, come si è detto, l'arabo aveva soppiantato il copto; la letteratura saidica dopo il 1000 non ha più che qualche monumento isolato (la achmīmica e la fayyūmica erano già state da questa assorbite); mentre il boḥeirico rimase nella liturgia (accompagnato da versione araba). La rilevante letteratura sacra prodotta dagli Egiziani cristiani è da questo tempo redatta in arabo (v. oriente cristiano).
La letteratura copta è per sua origine e intima ragion di vita preminentemente religiosa, e per la massima parte frutto di versioni dal greco; la produzione originale non è abbondante, ed è in ogni modo ispirata, per molti aspetti, a quella greca. Affiorano anche motivi popolari; mentre papiri ed ostraka ragguagliano sulle forme della vita privata o sui rapporti giuridici, e concernono men direttamente la storia letteraria. Così si dica di scritture di medicina e di magia.
Tuttavia la letteratura copta interessa vivamente lo storico della cultura (come l'arte copta) quale risultante dell'elaborazione greca del messaggio cristiano ed insieme di una reazione dello spirito nazionale: spirito che appare non solo nei pochi scritti non tradotti dal greco, ma anche in alcuni originali greci che, sorti in Egitto (come quello degli Apophtegmata, se è vero che la redazione originale ne è greca), portano chiara l'impronta nazionale, che meglio poi risalta nelle versioni copte; e appare anche nella scelta degli originali e nell'interpretazione di essi. Tale spirito si esprime in un fermento di fede potente ed ingenua, di speranze profonde e cupi terrori per la vita futura e nella conseguente tendenza ascetica; nell'affettuosa cura per le anime dei trapassati, nella sete di racconti meravigliosi. L'umile coraggio nelle persecuzioni di pagani, Bizantini, Arabi, e la severa intransigenza morale della predicazione dei primi monaci animano e completano il quadro. Non troviamo nella letteratura copta capolavori di valore universale; ma tali caratteri, in grande parte eredità di tipiche tendenze egiziane, così innestate nella vita cristiana, dànno alle scritture copte un vivo fascino. S'intende che critica testuale biblica, patrologia e storia ecclesiastica traggono gran giovamento dalla testimonianza resa dai monumenti copti.
Le prime versioni di parti della Sacra Scrittura in dialetto saidico rimontano forse alla metà del sec. III, e verso il 350 tutta la Bibbia doveva esser già tradotta. Insieme vennero tradotti testi liturgici e disciplinari, monumenti della letteratura narrativa parenetica, omiletica, dogmatica. Versioni di Apocalissi e di Apocrifi, spesso liberamente interpretati e rimaneggiati, sentono non raramente tendenze gnostiche; di gnosi il copto ci ha tramandato monumenti insigni tradotti in questo tempo antico (tra cui la Pistis Sophia). Non sembra però doversene dedurre una grande diffusione della gnosi tra i Copti. Di padri della Chiesa anteriori a Nicea le versioni non son numerose; ma la letteratura sacra fiorita, in greco, tra Nicea e Calcedonia fu ampiamente tradotta. Un processo analogo di versioni dal greco si compieva, più o meno contemporaneamente, nel paese adiacente di Achmīm; ma l'achmīmico cedé il posto gradualmente al saidico, per il prestigio dei centri di monachismo che si propagarono nel paese dalla regione di Tebe e vi diffusero le scritture in quel dialetto; che però si venò a volte di achmīmico. Il monachismo pacomiano fu infatti un grande propulsore della letteratura, e i monasteri di Tabennesi e Pbōw frono le fucine delle più antiche versioni copte. Di Pacomio (morto verso il 350) non abbiamo scritti originali copti, ma bensì lettere di Teodoro e Horsiēsi suoi successori. I monasteri fondati nel territorio di Achmīm, tra cui famosissimi il Monastero Bianco e il Monastero Rosso, furono focolai attivissimi di vita religiosa e letteraria; fu a capo del Monastero Bianco Scenute (morto nel 451) che seppe, unico, si può dire, nella letteratura copta, farsi uno stile proprio, e creare una prosa originale. Autore di numerosi scritti parenetici ed omiletici, anche di lettere, insieme poderoso uomo di azione, diede nuovo impulso alla letteratura; sorsero nuove versioni, l'agiografia si arricchì di narrazioni originali, di eloquenti encomî. I suoi discepoli Bēsā (che ne scrisse la vita) e Mosè (verso il 500) ne subirono l'influsso nei loro scritti originali. Il dialetto saidico che guadagnava sempre più prestigio assorbì anche il fayyūmico, che si era creato una importante letteratura, analoga a quella degli altri due dialetti. Il concilio di Calcedonia rinforzò il carattere nazionale di questa produzione: più tardi, dopo la conquista araba (641), prima che l'assimilazione facesse sentire a pieno i suoi effetti, la letteratura saidica ebbe ancora un periodo di fiore, nel quale essa però ci appare più vicina al popolo, di carattere men dotto, come del resto più vicino al popolo e al mondo profano era anche la vita dei monaci. Tra il sec. VII e il X sorsero monumenti di letteratura narrativa e poetica di non poco interesse, e s'intende, anche la letteratura più spiccatamente sacra fioriva ancora. Tra le narrazioni furono amati i rifacimenti di storie antiche meravigliose, quali il romanzo di Cambise (le cui prime versioni rimontano forse al sec. VI) e quello di Alessandro. La poesia, che nel periodo più antico si era limitata a riprodurre gl'inni sacri greci, si avvicinò anch'essa al popolo, e prese carattere più originale. Sono attribuiti al sec. X circa alcuni monumenti di tal genere; rifacimenti metrici di testi biblici (genere assai popolare) o narrazioni di avventure, come quelle di Teodosio e Dionisio, poveri egiziani, di cui il primo diviene imperatore di Bisanzio. Nel racconto di Archellite e sua madre Sincletica son ripresi con semplicità non priva di fascino i motivi del contrasto tra l'affetto familiare e la rinuncia monastica. Le strofe generalmente di 4 stichi (ognuno per lo più con 3 sillabe accentate) sono composte in ischemi.
Un ultimo prodotto della letteratura saidica, sorto in pieno periodo di decadenza, nel sec. XIII, è il Triadon, lunga serie di strofe rimate (triadon significa poesia a tre rime; e la rima è forse dovuta all'influsso della poesia araba) la quale potrebbe essere definita un'enciclopedia apologetica della vita religiosa copta, sincero rimpianto di chi ne vedeva ormai l'estrema ruina.
Numerose sono le ricette medicinali, le formule magiche in copto e gli amuleti che ci son conservati; dell'interesse dei Copti per i racconti meravigliosi è anche testimonio la versione del Physiologus. Dopo il 1000 la letteratura saidica è morta.
La letteratura boḥeirica, sorta dopo il concilio di Calcedonia e la separazione dal mondo greco, ha caratteri analoghi a quella degli altri dialetti. Anche in boḥeirico il lavorio di traduzione dal greco (spesso su originali assai antichi, anche dal saidico, o dal greco con revisione sul saidico) fu assai intenso; il monastero di S. Macario nel deserto di Nitria ebbe importanza singolare per lo sviluppo di questa letteratura. Notevoli sono alcune collezioni di poesie liturgiche, quelle in onore della Vergine, la Theotokia, la Psalmodia, ecc.; che rimontano direttamente al tipo degl'inni greci e siri, ma ricordano forse, in qualche particolare, la poesia saidica popolare, a cui si è qui sopra accennato. La letteratura boḥeirica subì, poco dopo il suo nascere, il colpo dell'assimilazione e delle persecuzioni; il patriarcato nel sec. XI fu trasferito al Cairo, centro della vita araba e musulmana. L'uso del dialetto boḥeirico si limitò quindi, sempre più, alla liturgia, ma esso come si è detto s'impose come lingua sacra (accompagnata nei testi liturgici dalla versione araba) a tutto l'Egitto, ove i dialetti copti erano morti. Dal sec. XI l'arabo diveniva man mano la lingua usata, anche letterariamente, dai Copti. La rinascenza della chiesa copta dal secolo IX al XIV (v. sopra) ebbe suoi prodotti e strumenti opere arabe; e dal sec. XI al XIII fiorì anche una letteratura filologico-grammaticale copto-araba destinata a salvare dall'oblio la lingua sacra. Nel secolo XV anche la letteratura cristiana araba decadde; ma per essa si veda la voce oriente cristiano.
Bibl.: H. Hyvernat, Egypt, in Catholic Encyclopedia; M. Jugie, Monophysites, nel Dictionnaire de Théologie Catholique; G. Wiet, Ḳibṭ. in Encyclopédie de l'Islām; articoli esaurienti con ampia bibliografia. Per la lingua: I. Guidi, Elementa linguae copticae brevi chrestomathia et indice vocabulorum instructa, Roma 1924, con indicazione delle migliori grammatiche e dei dizionarî. È in corso di pubblicazione A coptic dictionary del maggiore coptologo vivente W. E. Crum, vero "thesaurus" della lingua. Per la letteratura v. J. Leipoldt, Die koptische Literatur, in Die Literat. des Ostens in Einzeldarstell., VII, ii, Lipsia 1909; A. Baumstark, Die christl. Literaturen des Orients, Lipsia 1911.
L'arte copta.
Varia come la storia della cultura fu nell'inizio del Medioevo anche la storia dell'arte in Egitto. Il dominio dei Tolomei aveva interrotto la civiltà autoctona, per far posto all'ellenismo: ma la chiesa monofisita nazionale e la sua liturgia contribuirono poi all'eliminazione graduale degli elementi culturali ellenistici e già nel sec. III d. C. si trovano preludî all'arte copta. Da principio si seguitò ad imitare le forme ellenistiche pur già modificandole con spirito propriamente egiziano. Un segno esteriore di questo ritorno alle tradizioni egizie è il riapparire sulle stoffe di antichissimi motivi decorativi, come ad esempio, quello del fiore di loto. Nella scultura la rigida frontalità degli oranti sulle stele funerarie ricorda quella delle statue di età faraonica e anche in architettura le grandi muraglie lisce dei conventi rammentano assai più i rigidi monumenti faraonici che le costruzioni ellenistiche, così ricche e così varie. Persino la cupola, la più caratteristica fra le espressioni architettoniche dell'arte copta, si ritrova in germe già nell'arte faraonica, come lo dimostra la cupola a pennacchi di una maṣṭabah a Gīzeh. E nella pittura, se negli affreschi di el-Bagauat si hanno motivi ellenistici, figure isolate vi sostituiscono le composizioni complesse e al posto dell'illusionismo subentra il distacco dei singoli elementi formali. Nel tendere all'astrazione l'arte copta seguì la stessa via dell'arte medievale dell'Europa settentrionale e mediterranea, ma ricevette impulso dal contatto con altre civiltà, principalmente da Costantinopoli e dalle provincie orientali dell'impero bizantino, di cui entrò a far parte nel 394 d. C. e specialmente dalla Siria, di cui dal sec. VI l'Egitto fu dipendente nella cultura. L'influsso della civiltà siriaca è facilmente riconoscibile in tutti i campi dell'arte. Ma accanto ad esso si trovano qua e là degl'influssi della Mesopotamia e della Persia, già prima dell'invasione persiana (699), sì che fra le stoffe rinvenute ad Antinoe si riconoscono numerosi esemplari sasanidi importati. Non altrettanto è possibile determinare le reciproche relazioni con i confinanti Nubiani e Arabi, e gl'influssi delle civiltà del centro dell'Asia, nonché della Cina e dell'India, si possono individuare solo a grandi linee; d'altra parte, il vigore dell'arte copta appare appunto nella sua azione sull'arte di altri popoli, mentre i suoi prodotti minori venivano esportati in quantità, sì che in molti tesori basilicali, a Treviri, al Vaticano, a Sens ed altrove, si trovano avorî e stoffe provenienti dall'Egitto.
Architettura. - La storia dell'architettura copta è ancora da fare, e quella di molte delle chiese è incerta. Sappiamo che gli edificî di Alessandria si ricollegavano con l'arte ellenistica ed erano affini alle basiliche romane. E, ad esempio, le due antiche basiliche della città di Menas (Abū Mīnā), i cui elementi architettonici corrispondono a quelli degli scavi in Alessandria, mostrano una pianta ellenistica. Purtroppo, non rimane che il ricordo degli edifici di Alessandria (chiese di San Theonas, della Cattedrale, di San Marco, di Sant'Atanasio, ecc.).
Ad Abū Mīnā, la basilica a colonne lunga sessanta metri, che Arcadio costruì appoggiandola all'abside della chiesa sepolcrale del santo, con transetto sviluppato, con i matronei e col suo atrio, si ricollega già alle costruzioni di tipo bizantino, come la chiesa di San Demetrio a Salonicco. Le due altre chiese di Abū Mīnā si riattaccano ancor più al tipo chiesastico orientale: tanto l'abside incorporata della basilica cimiteriale, quanto le absidi duplici di una quarta basilica mostrano un'evidente parentela con le basiliche dell'Africa settentrionale. Ma fuori di Alessandria non si trova altro vestigio della diffusione del tipo basilicale ellenistico. Già le grandi chiese del sec. V presso Sōhāg - del Convento Bianco e del Convento Rosso - sono quasi completamente libere da tradizioni ellenistico-alessandrine: se pur una serie di particolarità architettoniche rivela rapporti con l'architettura della Siria e dell'Asia Minore, l'insieme dei due conventi dà l'impressione di un tipo schiettamente copto. Le masse pesanti, prive di qualsiasi modanatura, del muro di cinta del Convento Bianco di San Scenute - fondato circa il 440 - ricordano gli antichi templi egizî. La chiesa del Convento Rosso è talmente simile, in pianta ed in alzata, all'altra, che entrambe non possono essere troppo distanti di tempo. Sono basiliche a colonne ed a tre navate con presbiterio tricoro. Singolare è il doppio ordine di nicchie e di colonne nell'abside, senza paralleli nell'architettura copta, mentre al contrario la pianta tricora riappare in forma quasi uguale a Denderah, alla fine del sec. V. Nel Convento Bianco il braccio maggiore è parzialmente conservato e mostra, sopra i capitelli corinzî delle colonne, un architrave che in origine reggeva probabilmente delle gallerie superiori; sul lato nord del nartece si scorge ancor oggi una scala, mentre il lato sud era chiuso da un'abside semicircolare circondata da colonne. Nel Convento Rosso il nartece e il braccio maggiore non sono conservati, ma in compenso la forma originaria del vecchio presbiterio trilobato è rimasta integra. L'arco di trionfo era sorretto da due colonne. Il quadrato centrale è oggi coperto da una cupola aggiunta in epoca araba, poggiata su un tamburo quadrato, in origine adorno di nicchie e di finestre. La chiesa paleo-cristiana era probabilmente coperta di un tetto di legno che poggiava direttamente sul tamburo: anche la navata centrale era coperta da un tetto di legno. Anche nel Convento Bianco la cupola ad archi risale probabilmente solo al sec. XIII. Questa forma di tamburo appare piuttosto tardi in Egitto: altre cupole copte di tipo affine a questa, come quella di San Vittorio presso Naqadah, appartengono di già al Medioevo avanzato e sono forse già sotto l'influsso di prototipi sasanidi.
Della decorazione interna si sono salvate ancora le pitture dell'abside delle chiese dei conventi presso Sōhāg, che appartengono al sec. XIII: in origine tutta la chiesa sembra essere stata adorna di pitture date sullo stucco bianco. Ma le chiese dei conventi presso Sōhāg non sembra che abbiano esercitato influssi stilistici; all'infuori della pianta della chiesa di Denderah, non ne troviamo alcuna imitazione diretta.
In Egitto prevalse il consueto tipo orientale della basilica con l'abside incorporata. Una forma di transizione a questo tipo è la chiesa del convento di San Simeone presso Aswān e la chiesa di tipo affine di es-Sēhah. In questi edifizî il presbiterio ha bensì una disposizione triabsidale, ma le absidi non sono semicircolari, bensì rettangolari, quali le troviamo, in uno stadio più antico a Dēr el-Magma, e in uno stadio più avanzato, a Dēr es-Suryān. Sopra la navata centrale, che occupa quasi l'intera larghezza del santuario, s'innalzano in Aswān due cupole, in es-Sēhah una. Alla parete occidentale, dal lato opposto al santuario, si trova un abside rettangolare minore.
Accanto a queste chiese esistono ancora i ruderi di una gran quantità di chiese copte più piccole, sparse lungo il Nilo sino ad Abū Sinbel in Nubia. Si tratta generalmente di basiliche a colonne e a tre navate: le basiliche a pilastri sono rare. La pianta della chiesa è per lo più rettangolare, l'orientazione raramente così bene presa come, p. es., ad Aswān. Il santuario viene chiuso, in conformità col culto, dalla parte della navata. L'ingresso nella chiesa si trova generalmente a nord o a sud; le proporzioni variano. Purtroppo le datazioni della maggior parte delle chiese non sono ancora bene definite. Persino le piante finora sono state mal rilevate.
La chiesa del convento di San Geremia a Saqqārah, che rimonta all'incirca al sec. VIII e ha una pianta simile a quella della chiesa cimiteriale di Abū Mīnā, è basilicale a tre navate con abside incorporata ed atrio. Anche le chiese di Bāwīt esaminate dal Clédat sono basilicali e a tre navate. Come a Saqqārah, gli ornati architettonici mostrano l'influenza siriaca.
Le due chiese, con i monasteri annessi, dànno un concetto straordinario dell'architettura monastica copta dei secoli dal V al VII.
Importanti sono anche le semplici cappelle funerarie a pianta quadrata o rettangolare di el-Bagauat nell'oasi di el-Khārgāh, dove sono conservati circa duecento edifici minori, a cupola e con la facciata ad arcate cieche decorate di stucchi. Uno degli edifizî maggiori ha interessanti affreschi.
Sull'architettura posteriore prima delle invasioni arabe dei secoli VII e VIII, siamo ancora all'oscuro. Sotto il dominio arabo si mantenne il vecchio tipo di chiesa: solo alcuni particolari continuano a svilupparsi. ll presbiterio a tre absidi ebbe ulteriore svolgimento da una cupola sull'abside centrale. Altre innovazioni tecniche, come le cupole, le vòlte a botte e gli archi corrispondono ad uguali apparizioni nell'arte della Siria e della Mesopotamia. Possiamo constatare ciò nella piccola chiesa in Dēr es-Suryān, nella quale il nartece corrisponde, per le dimensioni del coro, agli edifici mesopotamici di -Tūr-‛Abdīn. All'inizio della nuova epoca, ossia al principio del sec. IX, non resta che un edificio importante: la grande chiesa a tre navate di Dēr es-Suryān nella valle en-Naṭrūn, così ricostruita al tempo del patriarca Giacobbe (circa 819-830), con presbiterio tricoro e a transetto, sul cui quadrato centrale s'innalza una cupola fiancheggiata da due semicupole, mentre un'altra cupola è sull'altare il cui vano è affiancato da due ambienti minori: schema di chiesa sviluppato dalla pianta del Convento Bianco e da quella di Denderah. Simili, ma del periodo che va dal sec. XI al XIV, sono le altre chiese monastiche della valle en-Naṭrūn, e tra altre quelle in Barūmūs, Dēr Abū Bshōi e Dūr Abū Maqār, tutte sorte dopo l'invasione araba. Le chiese a cupola di tal genere divennero normali nell'arte copta, e la pianta ne rimase invariata sino ai tempi più recenti. Delle chiese della vecchia Cairo quelle di al-Mu‛allaqah, Abū Sargah e Santa Barbara sono le più interessanti. Risalgono in parte a chiese paleocristiane, ma nell'aspetto attuale non sono anteriori al sec. XII e inoltre hanno subìto forti restauri. La meglio conservata è Santa Barbara, basilica a colonne e a tre navate, sul tipo di Dēr es-Suryān. Come esempio d'una costruzione di gusto prettamente arabo può essere citata la Sala Nuziale presso la chiesa di San Giorgio al Cairo (cfr. U. Monneret de Villard, Note stor. sulle chiese di al-Fusṭāṭ, in R. Accad. naz. dei Lincei, serie 6ª, V [1929] fasc. 7-10).
Gli edifizî più tardi, dal sec. XV in poi, al Cairo e nei conventi lungo il Mar Rosso, non hanno più alcuna importanza.
Pittura. - Le origini della pittura copta non sono chiare. Purtroppo non abbiamo più quell'importante esempio di pittura ellenistica ch'erano gli affreschi delle catacombe di Alessandria (Bull. di arch. cristiana, 1865), prettamente affini alle pitture sepolcrali di Roma, ma superiori nell'iconografia. Della miniatura alessandrina non conserviamo che repliche delle pitture dei manoscritti più importanti, come la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste appartenente alla metà del sec. VI, riprodotta abbastanza bene nel codice Vaticano greco 699, del sec. VIII o IX. In questo manoscritto gl'influssi bizantini sembrano già mescolarsi con la tradizione alessandrina. Il primo segno del distacco dal comporre ellenistico e il passaggio allo stile lineare-narrativo si vedono in un manoscritto del sec. V a Napoli (coll. Borgia, 25). Poi lo stile copto si mostra sviluppato nel manoscritto su papiro del Museo di Mosca, già nella coll. Golenischeff (una cronaca alessandrina del sec. V) proveniente forse dall'Alto Egitto. Il miniatore rinunzia a ogni particolare realistico; colloca le figure una accanto all'altra, separandole con contorni crudi ed evitando ogni sovrapposizione; lo stile dà l'impressione di un ritorno alla primitiva arte egizia. Nella pittura monumentale il trapasso allo stile copto è rappresentato dagli affreschi di el-Bagauat nell'oasi di el-Khārgah.
Le pitture della cupola con scene del vecchio e del Nuovo Testamento superano per ricchezza di contenuto le pitture cimiteriali romane. Può darsi che la loro iconografia ripeta quella dell'arte cimiteriale alessandrina; lo stile corrisponde di già a quello, ingenuamente narrativo, della Cronaca alessandrina: manca la prospettiva, la composizione si dissolve in singoli elementi, le figure sono applicate alla superficie una accanto all'altra, senza nesso fra di loro. Gli affreschi delle chiese copte di Bāwīṭ, Saqqārah, Abū Girgis e Dēr Abū Ḥennes, non mostrano più le reminiscenze ellenistiche degli affreschi di el-Bagauat: sono schiettamente copti, e l'iconografia ci mostra già influssi della Siria e della Palestina. Gli affreschi nelle piccole cappelle di Bāwīṭ, di cui una parte appartiene ai secoli VI e VII, ripetono il repertorio corrente paleocristiano. La decorazione delle pareti si ritrova simile anche in altre chiese copte, p. es. a S. Simeone presso Aswān. La gamma limitata al rosso, al verde ed al giallo, dati a toni crudi e a contorni netti esprime già da sola la primitività dell'arte copta. Le figure, specialmente quelle dei singoli santi, sono collocate quasi frontalmente dinanzi allo sfondo indefinito, variato al più da qualche motivo architettonico o paesistico. Di stile simile sono gli affreschi del convento di San Geremia a Saqqārah, i cui resti si trovano ora quasi tutti al Cairo ed appartengono press'a poco alla stessa epoca di quelli di Bāwīṭ, ossia probabilmente ai secoli VI e VII; tra le altre rappresentazioni vi è la prima sicura raffigurazione della Madonna allattante. Ancora più rigidì, nella loro monumentale semplicità, sono gli affreschi di Abū Girgis, rappresentanti l'Annunciazione e la vita di San Mena, che dimostrano, anche nelle vicinanze immediate di Alessandria, l'arte del sec. VI-VII già pervasa dallo spirito copto. Inferiori nello stile e più primitivi gli affreschi, assai semplici, di Athribis, appartenenti al sec. VII-VIII; altri, come quelli della chiesa di Esneh, edificata verso il 786, oppure il ciclo maggiore di Dēr Abū Ḥennes, che va collocata verso il sec. VII, non escono dallo stretto canone dell'arte copta.
Con la conquista araba la tradizione copta non si interruppe del tutto. Gli affreschi più inoltrati nel Medioevo mostrano certe affinità stilistiche con le opere paleocristiane; l'iconografia si arricchisce; le composizioni hanno maggiore libertà: gli schemi troppo rigidi vengono abbandonati per un sistema di rappresentazione più vivace. Stile ed iconografia dipendono dalla Siria; ma sembra che siano esistiti anche dei rapporti con la pittura armena e della Cappadocia. Gli affreschi in Dēr es-Suryān con l'Anmunciazione, la Nascita, l'Assunzione e la Morte di Maria mostrano l'influsso della tradizione siriaca. Certamente al sec. XII appartengono gli affreschi nelle absidi dei Conventi presso Sōhāg ed Aswān. Le pitture dell'abside del Convento Bianco sembra che siano state iniziate verso il 1076 da Teodoro l'Armeno e compiute verso il 1124 da Teodoro il Copto. Un poco più tarde sono alcune pitture del Convento Rosso, forse opera di un Merkurios, che lavorò colà nel 1301. Affine a questi affreschi dell'Alto Egitto è un Pantocratore dell'abside di Esneh. Le rappresentazioni nella piccola cappella della torre di Abū Maqār nella valle en-Naṭrūn, assai vivaci, appartengono forse già al sec. XIV. Le pitture nelle chiese dello stesso convento dipinte in gran parte su legno - angeli o piccoli episodî delle leggende dei santi - mostrano una stretta connessione con la pittura fāṭimita. Dopo il sec. XIV è una forte decadenza. Fra le opere più notevoli dell'età tarda non c'è perciò da ricordare altro che gli affreschi della cupola del convento di Mār Bōls sul Mar Rosso rappresentanti dei Santi Cavalieri (eseguiti nel 1713) e simili opere dell'attiguo convento di Sant'Antonio.
La pittura su tavola si svolge da principio parallelamente alla pittura monumentale. Il ritratto dell'abate Abraham da Bāwīṭ, ora a Berlino, è già prettamente copto nell'aspetto e ha già superato il tipo dei ritratti ellenistici del Fayyūm. Altre iconi eseguite nella stessa tecnica a tempera piuttosto rude si conservano al Louvre e nella Bibliothèque Nationale a Parigi: e non è difficile riconoscere i rapporti che le legano con le iconi provenienti dal Sinai, ora a Kiew. Poi sembra che la produzione si sia interrotta. Le iconi che ancora oggi si vedono in gran quantità nei musei, nei conventi e nelle chiese copte, appartengono per lo più ai secoli XVII e XVIII, e per arte sono quasi tutte insignificanti, a eccezione di un piccolo gruppo, di cui alcuni esemplari si trovano ad Abū Seifein e altri nel museo copto al Cairo. La maggior parte delle iconi sono dipinte in toni crudi e lasciano riconoscere l'influsso della pittura greca su tavola, soprattutto della scuola di Creta.
A compiere la storia della pittura copta è necessaria la conoscenza della miniatura. Purtroppo il materiale non è stato ancora studiato a fondo. Si tratta generalmente di semplici disegni a penna, che sono in stretto legame con le altre scuole dell'Oriente cristiano e soprattutto con la scuola armena. La massima parte dei manoscritti proviene dal Fayyūm; una gran quantità se ne trova nella biblioteca Pierpont Morgan; ma anche il Vaticano, la Bibliothèque Nationale di Parigi ed il British Museum ne possiedono parecchi esemplari. I santi dipinti sopra la copertura di un libro ora a Washington e le miniature del Pentateuco Vaticano - che risale al sec. IX-X - si riallacciano ancora strettamente con l'arte paleocristiana. Le miniature più tarde non si distinguono troppo per lo stile da queste opere primitive, benché siano più libere e più vivaci.
Plastica. - Anche nella plastica è facile seguire le origini dell'arte copta. Mentre Alessandria restava fedele sino al sec. V allo stile ellenistico, sorgeva nell'interno la reazione locale copta: lungi da grandi centri, nei quali l'elemento ellenistico resisteva, l'elemento egizio indigeno creava opere più consone alla propria natura. Così si inizia già nel principio del sec. IV, ad Ahnās, a Medīnet el-Fayyūm, a Menfi e in altre parti il processo di trasformazione. Si sarebbe tentati di vedere nella severa e stilizzata plastica in porfido i primi segni del nuovo stile, ma molti scultori erano certamente Bizantini immigrati. In tutti i modi, la scelta nell'arte ufficiale di quel materiale che per la sua stessa natura obbligava ad una schematizzazione delle forme, è un sintomo del cambiarsi del gusto. Un buon esempio per lo stile della plastica in porfido è dato dalla grande statua d'imperatore che si trova nel Museo d'Alessandria, cui succedono le figure d'imperatori presso la basilica di S. Marco in Venezia e le statue di tipo simile provenute da Alessandria al Museo di Berlino, mentre i grandi sarcofagi di lusso di Santa Costanza a Roma e a Costantinopoli derivano ancora le loro scene di puttini dal mondo ellenistico.
La maggior parte dei lavori in osso provenienti dai dintorni di Alessandria, dal Delta e da Fosṭāṭ, con rappresentazioni di scene nilotiche, di Nereidi, puttini, Bacco, Venere e di altre divinità, è ancora prettamente ellenistica. Meno fiequenti vi sono le rappresentazioni cristiane che mostrano già la transizione allo stile copto: p. es., il Sacrificio di Abramo o un Angelo del Museo di Berlino. Con questi lavori in osso si accompagnano alcuni dei primi intagli in avorio, come i rilievi del pulpito di Aquisgrana, la figura femminile del Museo di Cluny, il rilievo di Apollo e Dafne in Ravenna, il Ratto di Europa in Trieste e la pisside di Wiesbaden. Un gruppo di pissidi cristiane, di cui si trovano esempi a Bonn, a Parigi e a Berlino e che si ricollegano con il dittico in cinque parti della Bibliothèque Nationale di Parigi, possono essere stati eseguiti proprio per l'esportazione. Anche la pisside di S. Mena a Londra e alcuni rilieví di apostoli a Tongern e a Bruxelles appartengono a questo gruppo alessandrino. Di un'epoca più tarda, soprattutto per il modo del comporre, è l'interessante rilievo rappresentante la Predica di San Paolo, ora al Louvre, certo egiziano come dimostra l'affinità col rilievo in legno, ora a Berlino, databile nel sec. IV, rappresentante la conquista di una città.
Gl'intagli in legno mostrano ugualmente il trapasso dall'arte ellenistica all'arte copta. Molte di queste opere sono ancora radicate profondamente nella tradizione ellenistica.
Completamente copta già sin dal principio del sec. V è la scultura negli edifizî di Ahnās, Denderah, Bāwīṭ, Saqqārah, Luxor, Sōhāg e di altre chiese del Medio e dell'Alto Egitto. Subentra al senso plastico una tendenza all'appiattimento: la scultura a tutto tondo - conformemente al sentimento artistico di tutto il Medioevo - scompare quasi del tutto e non rimane che l'arte del rilievo, come parte di un complesso architettonico. Già le prime sculture decorative in Ahnās mostrano una angolosità sempre crescente, una crudezza di forme, un allontanarsi dallo spirito realistico dell'ellenismo verso l'astrattismo orientale, accanto al quale però sussiste sempre un legame di contenuto con la plastica alessandrina: sono rappresentati infatti puttini, scene di caccia e di genere, Venere, Leda, Ercole, Orfeo, il ratto di Europa; le stesse scene cristiane sono imitate da quelle pagane, come a Bāwīṭ gli angeli che portano una croce. Il passaggio al gusto schiettamente copto e cristiano lo si può constatare nelle porte di legno di Santa Barbara, ora al museo copto al Cairo. La loro parentela con le porte del Sinai ne dimostra la dipendenza dall'arte siriaca. Ancor più evidente è il distacco dall'ellenismo nel rilievo in legno di al-Mu‛allaqah con l'Ingresso di Cristo in Gerusalemme. Anche il rilievo nel timpano con Sant'Apollo da Daschlug (Bāwīṭ) conserva solo negli angeli una certa tradizione ellenistica; ma nel trattamento assai piatto del rilievo e soprattutto nel motivo ornamentale della cornice è già completamente copto. Il distacco dall'ellenismo è ormai compiuto nella Madonna fra angeli del Cairo e nel Cristo cavalcante fra angeli in Berlino, proveniente, a quanto si dice, da Dēr Abū Shenūdah: ambedue queste opere rinunciano a qualsiasi veduta di tre quarti e a qualsiasi effetto di prospettiva.
Tra le pietre sepolcrali, di cui i musei del Cairo, di Berlino, di Londra, di Parigi e di Torino possiedono raccolte abbastanza cospicue, poche sono quelle di qualche importanza artistica. Interessante è la stele sepolcrale di San Scenute a Berlino, nella quale la personalità del gran santo copto ha trovato degna espressione artistica.
Anche nel Medioevo inoltrato la scultura seguita in funzione puramente ornamentale. I lavori di quest'età sono pochi; i più caratteristici sono piccoli rilievi in legno con scene del Nuovo Testamento, provenienti da al-Mu‛allaqah ed ora nel British Museum, che appartengono probabilmente già al sec. XIII, nonché dei bassorilievi dell'iconostasi di Abū Sargah al Cairo, che mostrano uno stile simile. Gl'influssi arabici sottolineano ancora maggiormente la rigida stilizzazione; la maggior parte dei lavori d'intaglio in legno, come le porte di alcuni conventi nella valle en-Naṭrūn, si distinguono dai lavori arabici contemporanei solo per la presenza di simboli cristiani. Le più antiche di queste porte sono quelle di Dēr es-Suryān, probabilmente contemporanee dell'abside (circa 907-944).
Arte industriale. - Di prodotti dell'arte industriale si sono trovati in Egitto stesso esemplari assai più numerosi che in tutti gli altri paesi riuniti. Si tratta di oggetti sia di culto sia di uso comune e di ogni specie, dagl'istrumenti più semplici sino alle opere più ricche in metalli preziosi: lucerne, cassette, vasi di bronzo sparsi oggidi da per tutto, al Cairo, a Parigi, a Berlino. Di lucerne in terracotta ne sono state trovate a migliaia, dalle forme ellenistiche simili a quelle d'Italia, sino alle lucerne con la ranocchia, tipiche dell'arte copta. Caratteristiche in modo speciale sono le ampolle con l'immagine di San Mena, rinvenute in gran quantità nello scavo di Abū Mīnā.
Assai caratteristiche sono pure le ceramiche piuttosto grosse, generalmente in terra rossa e con decorazione figurata costituita da animali, da oranti e da intiere scene. Dei vetri, numerosi esemplari, del Fayyūm e d'altrove, si conservano nei musei del Cairo, di Parigi, di Berlino e di altre città. Hanno generalmente forme semplici e pesanti: rari sono i pezzi più ricchi, quali se ne produssero a Colonia e in Siria, e vasi vitrei dipinti li conosciamo solo in pochi esemplari isolati.
Stoffe, generalmente di lana lavorata ad ago, più raramente di lana o di seta tessute, se ne trovano molte in tutti i cimiteri copti; ma soprattutto furono i cimiteri di Achmim e di Antinoe che ne fornirono tante da provvederne tutti i maggiori musei, a Parigi, a Torino, a Firenze, a Lione, a Bruxelles, a Londra, a Berlino, a Dusseldorf, a Mosca, consentendo di comprendere bene lo svolgimento dell'arte tessile copta, la ricchezza delle stoffe del Basso Impero e l'importanza delle manifatture egizie. Per lo più si tratta di parti di vestimenti, ornamenti da applicare - i cosiddetti clavi od orbiculi - qualche volta di panni interi, destinati ad avvolgere le salme. Ancora di gusto completamente ellenistico sono i grandi tessuti lavorati ad arazzo, come il grande drappo con pesci nel museo di Lione proveniente da Antinoe, o le stoffe delle danzatrici a Berlino. Anche stoffe lavorate a giorno con ritratti e motivi decorativi appartengono a questo stadio primitivo e risalgono forse in parte al secolo III. Il gruppo più numeroso è quello delle stoffe ad arazzo di colore purpureo, con scene mitologiche, mentre le scene cristiane vi sono assai rare e compaiono solo in età tarda. In esse ben presto le forme s'irrigidiscono; le immagini si isolano e diventano lineari, sì che a stento vi si possono rintracciare i prototipi ellenistici. Le grandi città ellenistiche, come Antinoe, conservarono più a lungo la tradizione ellenistica e solo di rado rappresentavano scene di contenuto cristiano. Anche nelle stoffe policrome il processo trasformativo cominciò già nel sec. IV. Le figure vi si isolano, i colori divengono più vivaci, senza sfumature: come nella pittura, il contorno chiude le singole superficie colorate. Il contenuto raramente è riconoscibile, giacché vengono sovente messe insieme senza alcun nesso figure tratte da composizioni differenti. Le scene di contenuto cristiano si trovano soprattutto nelle stoffe policrome di Achmīm, e dipendono strettamente dall'iconografia siriaca-palestinese, forse copiate dalle stoffe della Siria, mentre altre, come quelle di Antinoe, derivano da prototipi persiani e asiatici. Persino il taglio di alcune vesti rinvenute ad Antinoe corrisponde alla foggia persiana; p. es., fra le stoffe di Antinoe se ne trova una rappresentante un duello con un re persiano, che ha tutta l'aria di essere schiettamente sassanidica: e ancor più chiaramente appaiono influssi sassanidi nelle stoffe di seta rinvenute ad Antinoe. Influssi delle lontane civiltà asiatiche si riconoscono anche in alcune stoffe di lino stampate, che si trovano a Berlino, al Cairo ed a Lione, da confrontare con lavori cinesi o dell'Asia centrale.
Le stoffe copte di epoca araba, nelle quali, in contrasto con le abitudini del primo Medioevo, si preferì il lavoro di ricamo, si adattarono alla tecnica araba, pur continuando ad adoperare i vecchi tipi. Una buona raccolta di questi paramenti di epoca tarda, è nel museo copto del Cairo.
V. tavv. XXXIX-XLVI e tavv. a colori.
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