CORAZZATURA (da corazza)
La sempre maggior potenza delle artiglierie moderne ha reso necessaria l'applicazione d'un sistema di lastre metalliche (corazze) a tutte quelle opere belliche per le quali i primitivi mezzi di difesa erano assolutamente inadeguati di fronte alla grande efficacia dei nuovi mezzi d'offesa.
Corazzatura delle fortificazioni.
I materiali naturali usati in passato per la difesa delle fortificazioni (terra e muratura ordinaria) avrebbero dovuto, per equilibrare in qualche modo la sempre crescente potenza dell'artiglieria, raggiungere limiti di grossezza poco o nulla compatibili con le esigenze di poco rilievo fuori del terreno proprie delle opere esterne di fortificazione. E verso il 1885, per ovviare a questo inconveniente si costruirono fortificazioni corazzate consistenti di casematte interamente metalliche o a struttura mista, parte di metallo, e parte di calcestruzzo, e cupole o torri (girevoli o ad eclissi) pure metalliche. In ragione del suo elevato costo la corazzatura è stata per solito riservata ad organi specialmente importanti all'interno dei forti.
Le corazzature dei forti hanno subito la prova della guerra, specialmente nello scacchiere franco-belga e nello scacchiere russo.
In Francia si erano per lo più corazzate le bocche da fuoco destinate al fiancheggiamento degl'intervalli fra i forti nelle linee di cintura. Nei forti belgi si era abbondato in cupole e torri girevoli in modo da garantire grandi settori orizzontali di tiro: si avevano (forti grandi) in genere 8 torri girevoli per bocche da fuoco di medio calibro (150 a 120) o (forti piccoli) 3 torri per obici o cannoni da 120. In più si avevano varie torrette a eclissi per cannoni da 57 a tiro rapido. In Germania e in Russia l'impiego delle corazzature aveva seguito sostanzialmente i criterî ora detti per le fortezze belghe. Quanto alla natura e alla grossezza delle corazze: in Francia si erano adottate in un primo tempo torri di ghisa indurita con spessore della calotta di 20 cm. Queste dimensioni non erano però apparse, negli esperimenti fattine in pace, sufficienti, e l'esperienza di guerra ne ha dato la prova. Così le corazze del forte Liouville fra Toul e Verdun, quelle dei forti Boussois e Cerfontaine a Maubeuge, quelle del forte Manonvillers, di questa natura, non hanno resistito. Dopo il 1900 in Francia era stata abbandonata la corazzatura in ghisa indurita (ne erano state costruite 25 torri) e adottato il sistema di torri a eclissi costituite con acciai speciali (acciaio al cromo e acciaio al nichelio) e con grossezza di 30 cm. più un rinforzo interno di lamiera d'acciaio di 3 cm. Questo sistema ha dato buoni risultati durante la guerra. In Germania si erano usate corazze d'acciaio al nichel di 16 cm. di grossezza, più un rinforzo di lamiera d'acciaio di 4 cm. Nel Belgio le calotte delle torrette furono di lamiera di ferro di 20 cm. di grossezza, con due lamiere di rinforzo di 2 cm. l'una; successivamente si era passati alle calotte d'acciaio al nichel di 22 cm. di grossezza. L'esperienza della guerra porta a concludere che solo gli spessori presi come base in Francia dànno garanzia di resistenza alle artiglierie d'oggi.
Corazzatura delle navi
L'idea di proteggere con piastre metalliche i combattenti (scudo) o i ripari da essi occupati a bordo insieme con le armi e le munizioni, è molto antica, ma prese sviluppo, come si è detto, solo quando l'attacco poté disporre di artifizî incendiarî o di proiettili perforanti, contro i quali gli altri mezzi di difesa erano insufficienti.
Per tutto il grande periodo velico (1550-1850) l'arma principale delle navi era rimasta quasi invariata, cannoni cioè da circa 32 libbre, che lanciavano appunto proiettili massicci sferici di 15 cm. di diametro del peso di circa 14 kg., efficaci a non più di 550- 800 m., contro le murate di legno, costruite con grossi fasciami e robuste ossature, molto vicine fra loro (distanza inferiore al diametro di quei proiettili) e quindi ad essi quasi impenetrabili. Ma verso il 1850 comparvero quasi insieme il cannone rigato del gen. Cavalli e il canon obusier del francese Paixhans, che lanciavano con grande precisione nuovi proiettili scoppianti, granate cariche d'esplosivo, dimostratesi subito efficacissime contro le navi di legno (battaglia russo-turca di Sinope, 1853, e difesa di Sebastopoli, 1854-55). Fu quindi necessario ricorrere a una protezione speciale, non infiammabile e più resistente, come poteva essere il ferro, che il Paixhans stesso aveva preconizzato, e che l'ingegnere francese Dupuy de Lôme applicò celermente ad alcune batterie galleggianti, le quali (fine del 1855) riuscirono a smantellare i forti di Sebastopoli, restando incolumi. Da questa data comincia il vero sviluppo moderno della corazza, sotto l'impulso della tecnica navale, che imponeva di trovare una protezione più efficace ma sempre meno pesante, mentre il progresso dell'offesa, specialmente delle artiglierie, svalutava a mano a mano la difesa. Ebbe allora inizio quella lotta fra corazza e cannone, che tuttora continua, e che terminerà solo quando ai sistemi attuali di offesa se ne sostituiranno altri, fondati su nuovi principî.
Infatti la corazza deve possedere due qualità tra loro contrarie: grande durezza della superficie per impedire la penetrazione dei proiettili; grande tenacità della massa per evitare che essa si spacchi o si frantumi sotto l'urto delle grosse palle. Siccome la durezza porta la fragilità, e la tenacità porta la penetrabilità, così il problema metallurgico si presenta assai difficile, tanto che ancor oggi non è completamente solubile in tutti i casi. Si comprende quindi come lo sviluppo delle corazze sia stato lento, e come di fronte all'attacco sempre progrediente abbia presentato momenti d'inferiorità.
Tale sviluppo, dal 1855 a oggi, si può dividere in tre periodi: 1. corazze di ferro fucinato (1855-1876); 2. corazze d'acciaio dolce (1876-1890); 3. corazze di acciai speciali (dopo il 1890). Le corazze di ferro furono le prime a essere adoperate, naturalmente costruite con la fucinazione, allora metodo normale di fabbricazione. Le piastre di ferro in principio furono composte di alcune lamiere sottili 2 a 3 cm. sovrapposte e inchiodate insieme (pacchetti), poi vennero costruite massicce, in una sola grossezza. Per fabbricarle si seguivano due diversi procedimenti: la fucinazione al maglio o la laminazione, la prima per piastre grosse, la seconda per corazze di medio spessore. Nei due procedimenti si saldavano insieme, alla temperatura del bianco sudante, piccoli elementi di ferro formandone successivamente dei più grossi, fino a raggiungere le dimensioni volute. Si arrivava così a piastre di 35 cm. di spessore e di 50 e più tonnellate di peso, partendo da elementi di circa 300 kg. ciascuno, con un lavoro lungo e dispendioso, il quale non poteva neppure dar garanzia di evitare, nella massa metallica, discontinuità o imperfezioni, le quali ne diminuivano la resistenza al tiro.
Per questa essenziale difficoltà, che cresceva appunto con l'aumento della grossezza, si adottarono in Inghilterra piastre multiple o a sandwich, costituite da due o più strati di corazza alternati con strati di legno: la corazza elementare era così più sottile e quindi meglio lavorata. La nave britannica Inflexible (1876) aveva due strati di corazza da 305 mm. ciascuno, con interposto uno strato di legno di 279 mm. Questo fu il massimo sforzo delle corazze di ferro. Infatti quando nel 1876 la marina italiana bandì un concorso internazionale per le corazze da 55 cm. destinate alle R. Navi Duilio e Dandolo, piastre che dovevano resistere al supercannone da 457 mm. e 100 tonn. di cui le due navi erano armate, delle corazze di nuovo tipo, quelle di acciaio dolce, fabbricate dalla ditta Schneider del Creusot (Francia) si mostrarono nettamente superiori a tutte le altre di ferro, semplici o a sandwich, e di ghisa. Cominciò allora il periodo delle corazze d'acciaio, che la marina italiana adottò per prima, imitata poi da tutte le altre.
La fabbricazione delle corazze d'acciaio - resa possibile dalla rivoluzione prodotta nel campo della metallurgia dai processi Bessemer e Martin-Siemens - riusciva assai più facile di quella delle piastre di ferro. Infatti si fondeva in un forno a riverbero Martin l'acciaio, che veniva colato in una grande forma parallelepipeda. Il lingotto, così ottenuto, di grossezza e di peso circa doppio di quelli della piastra finita, era poi riscaldato in un forno a gas, portato con un maglio allo spessore definitivo, e liberato dalle materozze e dalle parti esuberanti con mezzi meccanici. Infine, ultimata la lavorazione meccanica, la corazza era sottoposta a un semplicissimo trattamento termico.
Le corazze d'acciaio possedevano una durezza assai maggiore di quelle di ferro, ma una tenacità minore: si cercò quindi, specie da parte degl'Inglesi, di riunire i vantaggi delle une e delle altre con speciali sistemi di fabbricazione, fra i quali il più diffuso fu quello cosiddetto composto, compound, che consisteva nell'unire intimamente una piastra d'acciaio dolce con una di ferro. A tale scopo vennero seguiti due procedimenti: nel sistema "Wilson" la piastra di ferro, precedentemente laminata, era scaldata al calor bianco, posta in una forma metallica di grossezza eguale a quella definitiva della corazza, e poi vi si colava sopra l'acciaio fuso fino a riempire la forma; nel sistema "Ellis" tanto la parte posteriore quanto l'anteriore erano formate da due lamiere laminate, la prima di ferro, la seconda d'acciaio duro: fra esse (portate naturalmente al calor bianco) veniva colato uno strato sottile d'acciaio fuso. Con i due sistemi però tra la superficie dell'acciaio e del ferro restavano pur sempre talune discontinuità, sorgenti di debolezza sotto il tiro. Perciò le corazze composte vennero abbandonate dagli stessi Inglesi a favore delle piastre d'acciaio, le quali avevano intanto acquistato anche tenacità.
Ciò nonostante, la potenza offensiva dell'artiglieria - naturale sviluppo delle armi a retrocarica e dei nuovi propellenti introdotti dopo il 1880 - superava la capacità di resistenza delle corazze: verso il 1890 occorreva una corazza di ben 267 mm. per resistere a un proiettile di 152 mm. animato dalla velocità di soli 604 m. al secondo. Si cercarono quindi nuovi materiali (acciai al nichel, al cromo), che si trattarono con nuovi procedimenti sia termici (tempere), sia fisico-chimici (sovracarburazione). Questo metodo fu coronato da notevole successo nell'ultimo quarantennio (1890-1930), e conserva tuttora germi di ulteriore progresso.
Le principali leghe adoperate furono dapprima l'acciaio al nichel (3 ÷ 5%) della ditta Schneider, poi l'acciaio al nichel e al cromo della ditta Krupp, infine l'acciaio al vanadio della ditta Carnegie. Il nichel aumenta la tenacità dell'acciaio, evitando la fragilità, ma urta contro due ostacoli: il suo prezzo altissimo e la difficoltà di ottenere una soluzione uniforme nella massa del metallo. Il cromo accresce straordinariamente la durezza del metallo, ma rende difficile il trattamento termico delle piastre, che possono perfino spezzarsi spontaneamente. Il vanadio infine migliora in modo notevole la resistenza dinamica della corazza, fattore essenziale. Altri numerosi elementi (molibdeno, ecc.) sono stati e sono adoperati, e certamente non si è ancora detta l'ultima parola al riguardo (v. anche acciaio).
I nuovi procedimenti termici furono prima superficiali, e consistettero in energiche tempere della faccia della piastra esposta ai colpi, allo scopo di ottenere un grande indurimento locale, pur lasciando la maggiore tenacità alla massa. Prima in ordine di tempo menzioneremo la tempera a doccia, proposta dall'inglese Tresidder: essa consiste in una violenta pioggia artificiale d'acqua fredda su un solo lato della corazza, riscaldata tutta a circa 700-800° C.; venne poi la tempera differenziale del Krupp, dove la piastra, prima d'essere sottoposta alla tempera a doccia, è riscaldata diversamente nei suoi varî punti, ossia è portata a temperatura assai più alta nella zona che dovrà subire più energica tempera, e gradualmente più bassa nelle zone retrostanti.
Ma i trattamenti superficiali non bastano: bisogna che tutta la massa della piastra assuma quella struttura intima (microstruttura) che corrisponde alla maggiore tenacità; perciò il numero delle tempere e dei rinvenimenti generali, le temperature e le durate relative, in rapporto naturalmente con la composizione chimica dell'acciaio, sono stati oggetto di lunghissime ricerche. Il Krupp - che adopera acciai dolci a basso tenore di nichel (3,5%) - ricorre a successive tempere (processo così detto della "doppia tempera") nell'olio, seguite da brevi rinvenimenti, frenati da brusca tempera nell'acqua (per evitare speciali difetti, "Krupp-Krankheiten"); lo Charpy - che adotta acciai extra-dolci, ad alto tenore di nichel (6%) - consiglia una sola tempera a temperatura ben definita (675° C.). Il primo è detto metodo fisico perché fondato specialmente su trattamenti termici, il secondo metodo chimico, perché fondato anche su una particolare composizione chimica della corazza.
L'uno e l'altro dei procedimenti accennati non sarebbero stati sufficienti allo scopo, senza un terzo, di natura fisico-chimica, più importante di tutti: la sovracarburazione superficiale. Come è noto, l'acciaio prende tanto più energicamente la tempera quanto più alto è il suo tenore di carbonio. Con la carburazione, però, aumenta rapidamente la fragilità. Si è quindi cercato di avere una massa di metallo a bassa percentuale di carbonio e quindi molto tenace e di sovracarburare, per una piccola profondità, solo la superficie esposta ai colpi, in modo da avere con la tempera una specie di guaina dura, impenetrabile, attorno a una massa tenace. Questo concetto, che ha larghe applicazioni in altri rami della metallurgia con il nome di cementazione, si applica alle corazze con due procedimenti diversi: quello più antico, dovuto all'ingegnere americano Harvey (1891), nel quale il carbonio necessario alla sovracarburazione si trova allo stato solido, e quello più recente (1893), dovuto al Krupp, nel quale il carbonio si trova allo stato gassoso. Nel procedimento Harvey la corazza viene ricoperta d'uno strato di polvere impalpabile di carbone vegetale e mantenuta a elevata temperatura (800-1000° C.) per molti giorni, durante i quali il carbonio penetra lentamente nel metallo fino a una profondità di 2 ÷ 20 mm., in dipendenza della durata dell'operazione. Nel procedimento Krupp la corazza, alla medesima temperatura sopra accennata, è investita, sulla faccia da carburare, da una corrente di gasluce, il cui carbonio si combina con il ferro, fino a una certa profondità, anche qui in ragione del tempo.
I perfezionamenti così successivamente apportati alla fabbricazione delle corazze grosse e sottili hanno permesso d'ottenere insieme un grado notevole di resistenza alla penetrazione e una grande tenacità. Per dare un'idea sintetica del progresso compiuto nel cinquantennio 1855-1905, indichiamo le grossezze di piastre necessarie per resistere a un proiettile di cannone da 152 mm. animato della velocità d'urto di 700 m. al secondo:
Invece le corazze speciali cementate da 400, 320 e 200 mm. resisterebbero rispettivamente all'urto dei proiettili da 305, 254 e 203 mm., con la velocità di 700 m. al secondo. Naturalmente questi sono risultati di balipedio, quando il proiettile colpisce perpendicolarmente la corazza; in combattimento la resistenza di questa sarebbe maggiore, perché il proiettile in generale colpirà la corazza con un angolo molto diverso da 90°.
Metodi di fabbricaäione odierni: - I varî perfezionamenti che abbiamo riassunto nel loro graduale svolgimento, si trovano oggi coordinati con altri particolari o con altri concetti non molto diversi, nei varî procedimenti di fabbricazione che prendono nome dal Krupp (Germania), dallo Schneider e dal Marrel (Francia), dalla Midwale e dalla Carnegie (Stati Uniti d'America), dalla Armstrong (Inghilterra), ecc.
Descriveremo brevemente il metodo di fabbricazione seguito in massima nelle Acciaierie di Terni, e che, ideato dall'ingegnere Ehrensberger, prende il nome dalla ditta Krupp, cui ne sono dovute le prime e più importanti applicazioni.
La fusione della lega viene eseguita in forni elettrici Martin, ciascuno di 30 ÷ 40 tonn., disegnati con volte ampie e con fiamma orizzontale. La fusione si fa con la massima cura evitando sia il contatto delle fiamme con il metallo, sia l'agitazione della massa fusa, con l'aggiunta d'una piccola quantità di alluminio. Il nichel si aggiunge come metallo puro, il cromo come ferro-cromo carburato, l'alluminio come lega di manganese e silicio. Il lingotto viene colato lentamente (circa un minuto per tonnellata) in una forma piramidale tronca, a base rettangolare, con le facce non opposte diversamente inclinate rispetto alla base stessa. Il metallo ha in massima la seguente composizione chimica: C = 0,2 ÷ 0,3; Si = 0,08 ÷ 0,1; S ≤ 0,04; Ph ≤ 0,04; Mn = 0,3 ÷ 0,4; Cr = 0,7 ÷ 1,9; Ni = 3,8 ÷ 4.
Il lingotto si lascia lentamente solidificare, si porta a 1150° e si sottopone a laminazione per trasformare il massello nella piastra, per affinarne la fibra e per dargli la grossezza voluta. I treni dei laminatoi debbono essere di potenza superiore a quelli normalmente adoperati nelle ferriere, e quindi di migliaia di cavalli-vapore, perché in nessun altro caso si trattano masse di questa entità. La laminazione si eseguisce dapprima celermente, con grandi riduzioni di spessore a ogni passata, e poi più lentamente, con graduale diminuzione della velocità. Durante questa seconda fase, le facce della corazza vengono abbondantemente irrorate d'acqua, in modo che la grossezza definitiva sia raggiunta quando la temperatura è sotto i 775° C., per avere una struttura fibrosa e quindi tenacissima, nonché per evitare la formazione di minime discontinuità interne, che si renderebbero visibili solo nei trattamenti termici dopo la cementazione. Si tenga conto che per alcune piastre occorre fare la laminazione in due sensi, perpendicolari fra loro, perché la struttura fibrosa, cosi vantaggiosa alla resistenza, si formi nelle due direzioni.
La piastra esce dal laminatoio ridotta alla grossezza desiderata, quasi piana, ma naturalmente con un contorno assai irregolare e con la struttura interna, per così dire, disordinata. Si lascia raffreddare a 450° C., si sottopone a nuova cottura per circa 18 ore a 600 ÷ 620° C., allo scopo di ristabilire l'equilibrio molecolare interno, e, dopo averla bene spianata con la pressa, viene infine lasciata lentamente raffreddare.
Poiché le successive operazioni rendono la corazza durissima, bisogna a questo punto eseguire una vigorosa pulizia meccanica (picchettatura) della superficie e tutte le principali lavorazioni meccaniche occorrenti (taglio del contorno, trapanatura dei fori, esecuzione degl'incastri e delle parelle per il collegamento con le piastre vicine), lasciando una piccola eccedenza di materiale per le prove tecnologiche e chimiche e per gli appoggi durante la successiva cementazione. Anche le prove chimiche occorrenti per verificare la composizione del metallo (che deve rispondere alla formula sopra indicata) si eseguono a questo punto.
Preparata così la corazza nella forma voluta e controllata la sua composizione chimica, se la grossezza ne è superiore a 8 ÷ 10 cm., si procede alla cementazione della superficie che sarà esposta ai colpi ostili. A tale scopo le piastre vengono disposte a due a due, con le facce da cementare rivolte l'una contro l'altra, mantenute a poca distanza fra loro da regoli d'acciaio, e avviluppate da muretti refrattarî: si forma così una specie di cassa, dove s'introdurrà poi il gas illuminante, e si porta tutta insieme, su una piattaforma scorrevole, dentro un forno. La temperatura del forno è conservata a 950° ÷ 980° C., e la corazza vi si lascia per un periodo da 10 a 18 giorni, a seconda della sua grossezza e della profondità di cementazione desiderata. Durante questo tempo si immette e si mantiene nel forno una corrente di gas illuminante, il quale cede il suo carbonio al metallo, in una maniera perfettamente uniforme, fine e pura. La composizione del gas all'entrata e all'uscita del forno (Acciaierie di Terni) è la seguente:
Il consumo di gas è di circa 10 litri per minuto primo e per metro quadrato di superficie da cementare. In tal modo la carburazione penetra per una profondità variabile, a seconda del tempo, da una frazione di millimetro a qualche centimetro. Questo valore si stabilisce in relazione alla grossezza della piastra, e con analisi accurate si rileva se la percentuale di carbonio alle diverse profondità è quella voluta. Per una grossa corazza si hanno i seguenti valori, in alto e in basso:
La cementazione prepara l'indurimento superficiale, ma non migliora le condizioni della struttura della massa; infatti per migliorare queste condizioni occorrono trattamenti termici generali, che, superando le temperature critiche delle soluzioni interne dei componenti della lega (ferro-carbonio, ecc.; v. acciaio), le dia la forma più adatta all'equilibrio stabile e alla robustezza della struttura, che alla vista deve essere perfettamente uniforme, fibrosa, setacea. Questi trattamenti termici generali consistono nella cosiddetta doppia tempera - che non è poi una vera tempera ossia in due tempere per immersione nell'olio e nell'acqua. La piastra si fa raffreddare nel forno da cementazione fino a 860° ÷ 880° C., e poi s'immerge rapidamente, di costa, in una gran vasca contenente olio di colza o di oliva a 20° C., che è tenuto in movimento da apposite pompe. Essa vi si lascia raffreddare lentamente, finché la sua temperatura sia discesa a circa 300° C. (tempo necessario da 20′ a 4 ore per grossezze da 8 a 40 cm.). Poi la piastra si rimette nel forno, si riporta alla temperatura di 630° ÷ 650°, e vi si mantiene per almeno 12 ore; dopo di che si tempera nuovamente immergendola orizzontalmente in un bagno d'acqua dolce, alla temperatura ambiente, e vi si lascia raffreddare completamente. Così la microstruttura interna del metallo diventa straordinariamente omogenea e setacea, e si evitano i pericoli d'un lento rinvenimento.
Ottenuto il metallo della desiderata struttura si deve preparare la piastra per l'indurimento, per la tempera della superficie, che era stata precedentemente cementata (tempera differenziale). Prima però si sagoma alle presse (previo riscaldamento a 675° C.), dandole la curvatura più vicina possibile a quella definitiva, tenendo ben conto delle notevoli deformazioni che la tempera superficiale provocherà. La piastra è prima riscaldata differenzialmente (rispetto alla sua grossezza), mettendola sopra un letto di sabbia, in guisa che di essa affiori solo la faccia esterna e introducendola così in un forno a suola mobile. In tal modo la faccia libera e la parte più vicina saliranno a una temperatura più alta del resto, dove la temperatura sarà gradatamente minore. Per piastre grosse e piastre sottili si hanno rispettivamente temperature finali di 900° - 800° C. sulla faccia anteriore, e 500 ÷ 450 °C su quella posteriore. Le modalità del riscaldamento dipendono dal tenore di carbonio (della massa e della crosta cementata), e dalla grossezza. Trascorso il tempo stabilito per il riscaldamento, la corazza viene rapidamente estratta dal forno, tolta dalla suola e portata sotto a una violenta pioggia d'acqua fredda (tempera Tresidder), sì che la faccia anteriore, più carburata e più calda, riceve una tempera molto più energica della massa posteriore, meno carburata e meno calda. In tal modo la struttura diventa fitta e omogenea, come vellutata; la tempera penetra per circa 1/3 della grossezza complessiva e il passaggio dalla parte temperata al resto è ben graduale.
Se le tempere hanno deformato la piastra, essa viene rettificata, riportandola alla forma voluta, ma evitando assolutamente di sottoporre a tensione la parte cementata e di riscaldarla a temperature alte.
Questo complesso procedimento si può applicare integralmente solo alle piastre di grossezza superiore a 100 mm. circa; per le piastre più sottili esso darebbe un prodotto troppo fragile. Quindi per queste ultime corazze si evita la cementazione, ma siccome la tendenza delle costruzioni navali militari nel decennio dopo la grande guerra è stata verso navi relativamente piccole e con corazzatura leggiera, così si sono ricercati procedimenti che consentano di ottenere piastre sottili, omogenee, di grande resistenza, pur senza la cementazione. Del resto tale concetto potrebbe trovare vasto campo di applicazione anche alle corazze più grosse a causa del progresso dei proiettili con cappuccio. Questi procedimenti sono fondati soprattutto sulla composizion chimica delle piastre: alto tenore di nichel e aggiunte di altri elementi Vd, Mb, Cr, ecc.: e sui trattamenti termici generali. Giacché in tal caso basta una serie di trattamenti termici generali (Marrel-Charoy) per ottenere buoni risultati, i quali naturalmente variano in relazione allo scopo che si vuol raggiungere ossia a seconda che si dà prevalenza alla durezza, alla tenacità, ecc.
Anche da questo schematico elenco di operazioni si comprende quanto complessa debba essere la produzione delle corazze. Per ottenere un prodotto uniforme e di caratteristiche sempre buone è indispensabile che la composizione chimica, i trattamenti meccanici e termici siano tutti osservati con precisione matematica al millesimo, al grado e al minuto. Gl'impianti d'una fabbrica di corazze sono qualitativamente quelli d'una normale acciaieria, salvo le necessarie grandiose proporzioni, adatte alle dimensioni delle piastre che si vogliono produrre, e che, per ragioni di costruzione navale e di efficacia protettiva, debbono essere le più grandi possibili in rapporto alla grossezza (m. 6,70 × 3,10 per 30 ÷ 40 cm.; m. 10 × 4 per 10 cm.). Gl'impianti più celebri sono forse quelli di Krupp (Essen, Germania), ma presso tutte le grandi nazioni esistono fabbriche di corazze, indispensabile complemento al sistema industriale della difesa nazionale: in Italia, p. es., abbiamo le acciaierie di Terni e quelle di Cornigliano Ligure (Ansaldo).
Prove. - La qualità delle corazze si giudica dalle prove: le più importanti sono quelle al tiro nei balipedî. Però le prove al tiro, molto costose per sé stesse, perché distruggono le piastre provate, e valevoli solo come dato comparativo, perché le condizioni di combattimento raramente rispondono a quelle di balipedio, debbono lasciȧre notevole posto a quelle chimiche, tecnologiche e micrografiche, più celeri, più economiche, che soprattutto consentono di studiare e correggere il prodotto a mano a mano che la fabbricazione procede.
a) Prove tecnologiche. - Comprendono: 1. prove di trazione, per determinare il limite di elasticità, il carico di rottura, l'allungamento e la strizione; 2. prove di resilienza; 3. prove di piegamento a caldo e a freddo; 4. prove di durezza.
I risultati raggiungibili sono naturalmente diversi secondo le diverse qualità di corazze: per grosse piastre Krupp si hanno i seguenti valori:
Per piastre omogenee si può avere (Ansaldo):
Fra queste prove la più importante sembra quella di resilienza. giudicata insieme con quella di durezza, perché meglio di ogni altra lascia prevedere il comportamento della piastra al tiro.
b) Prove chimiche. - La composizione chimica delle corazze, che deve restare rigorosamente costante e costituisce uno degli argomenti più gelosi per il fabbricante, non è in genere imposta nei collaudi, che prescrivono solo la verifica dell'assenza, o della limitazione al disotto di valori ben definiti, degli elementi dannosi, soprattutto S e Ph. In ogni modo l'analisi è eseguita con i metodi comuni: così per il controllo del tenore di C. si usa il metodo di determinazione volumetrica di Strohlein, o quello più celere del Corlais, direttamente sull'acciaio; per il controllo dello S si adopera l'apparecchio Rollet-Campredon; per il controllo del Ph il cosiddetto metodo di Pittsburg; per il controllo del Mn il metodo dell'Osmond, ecc. Ricordiamo solo la necessità che queste analisi si eseguano in più zone della piastra, giacché alcuni elementi (p. es. il Ni) stentano a diffondersi uniformemente nella massa del metallo.
c) Prove micrografiche. - Le forme micrografiche della lega ferro-carbonio nell'acciaio, sono, come è noto (v. acciaio), essenzialmente tre: ferrite (ferro praticamente puro); cementite (carburo di ferro Fe3C) e perlite (mescolanza delle due precedenti). Durante i successivi trattamenti termici si presentano forme micrografiche diverse, che per salti di temperatura più alti e per tenori di C. crescenti, sono successivamente: la sorbite, la martensite, la troostite, l'austenite, ecc. Quando negli acciai oltre il Fe vi sono altri elementi, si presentano naturalmente carburi più complessi della semplice cementite e delle altre forme accennate.
È quindi evidente che l'esame micrografico indicherà esattamente la sequenza e il risultato delle operazioni termiche eseguite. Quando si cola la corazza nel lingotto, si ha la struttura perlitica granulare, che si conserva nella laminazione; dopo la cementazione, presso la superficie carburata si ha prevalenza di cementite, la quale gradualmente diminuisce verso l'interno; dopo la tempera all'olio, alla cementite si aggiunge la martensite; dopo la tempera all'acqua la sorbite succede alla martensite; la tempera differenziale infine fa ricomparire la cementite immersa nella massa martensitica. Le micrografie indicano questi varî aspetti, quali si debbono rilevare nei varî momenti della lavorazione.
d) Prove al tiro. - Sono intese a verificare se la corazza resiste in modo soddisfacente all'urto d'un dato proiettile animato da una velocità prestabilita. Esse dovrebbero riprodurre le condizioni esatte del fenomeno che si presenta in combattimento, ma, data la variabilità dei fattori che entrano in giuoco, sia per le piastre (struttura di sostegno e modo di applicazione), sia per il proiettile (natura, forma, velocità; incappucciamento, ecc.), sia infine per la sua posizione relativamente alla traiettoria (angolo di imbatto), bisogna che queste prove si facciano in condizioni prestabilite e uniformi, per poterne trarre utili elementi di confronto. In balipedio si eseguono poi altre prove con altri criterî, per studiare la natura delle corazze, le strutture delle navi, la forma dei proiettili e averne ammaestramenti per le caratteristiche delle piastre e dei proiettili.
In massima per le prove di tiro si seguono questi concetti: 1. La corazza si prepara sopra un conveniente cuscino di legno duro (quercia o teak), della grossezza di 15 ÷ 20 cm., applicato a sua volta sopra una lamiera (cosiddetta frontale) d'acciaio, di 12 ÷ 20 mm., il tutto collegato con robuste chiavarde sufficientemente vicine fra loro (2 a 3 per mq.). 2. Questo elemento è fissato, inchiavardato, sopra un bersaglio molto robusto, costituito da pesanti travature metalliche, sostenute da una vasta fondazione, in cemento armato, assai rigida. 3. Il calibro del cannone, per le prove a tiro normale, è in massima poco diverso dalla grossezza delle piastre, p. es.:
Invece, per prove di tiro inclinato, il calibro è notevolmente superiore alla grossezza della piastra; p. es.:
4. I proiettili debbono essere i migliori esistenti, giacché solo in tale modo si può trarre una deduzione probatoria circa il valore della piastra. Le prove di collaudo in Europa si eseguono generalmente con proiettili perforanti, ma senza cappuccio per non introdurre un'altra variabile. Il cappuccio è un'appendice d'acciaio dolce o duro, di forma quasi tronco-conica, che si applica all'estremità anteriore di un proiettile per aumentarne la capacità di perforazione, specialmente quando urta la corazza con angolo diverso da 90°. Naturalmente prove di perforazione con proiettili incappucciati vengono poi fatte in balipedio per lo studio completo del fenomeno. 5. L'angolo di attacco (imbatto) che l'asse del proiettile forma con la faccia della corazza è uguale a 90° per le prove di perforazione e per le corazze di medio o grosso spessore, che saranno disposte verticalmente; ed è diverso da 900 per le corazze sottili, che in genere saranno sistemate orizzontalmente (ponti corazzati, cieli delle torri, ecc.). 6. La velocità - elemento predominante - con la quale il proiettile arriva sulla piastra, può essere determinata in due modi: o se ne stabilisce a priori il valore, in base a precedenti esperienze di balipedio e in relazione allo scopo che si vuol raggiungere, e allora si verifica se proiettili animati da questa velocità, nelle condizioni prefisse, vincono o no la corazza; oppure si attacca la piastra con proiettili d'un dato calibro e con velocità crescenti e si trova quella di minima perforazione, la quale non deve essere inferiore a quella desiderata. In Italia si segue generalmente il primo metodo, in Germania il secondo. Qualunque sia il concetto adottato, bisogna prestabilire, con le cosiddette "formule di perforazione" (v. sotto), la velocità di perforazione, e poi rilevare esattamente con i cronografi (v. cronografo) la velocità effettiva del proiettile all'istante dell'urto. 7. Qualunque sia il metodo seguito nel collaudo, per ogni lotto costituito da un certo peso (p. es., 200 a 500 tonn.) di piastre, se ne sceglie una, sulla quale si eseguono (generalmente a temperatura non inferiore ai 17 °C.), le prove di tiro, il cui risultato, con opportuna modalità, viene esteso a tutto il lotto. Quando si segue il primo criterio la prova è considerata favorevole se nessuno dei tre proiettili, tirati con la velocità prestabilita, perfora la lamiera frontale e se la piastra non presenta fessure, sfaldature o peggio frantumazioni; quando si segue il secondo criterio, bisogna che la perforazione alla velocità prestabilita avvenga in modo netto, senza spaccature o rotture della piastra. Si giudicano con analoghi concetti le prove eseguite a tiro inclinato.
Per dare un'idea della capacità di resistenza di corazze moderne, in rapporto ai varî fattori sopra accennati, ricordiamo alcune cifre: una corazza da 300 mm. cementata, attaccata a 90° con proiettili nudi di 305 mm. del peso di 420 kg., li frantuma fino alla velocità di 610 m/sec., ma viene attraversata verso i 650 m/sec.; attaccata allo stesso modo con proiettili incappucciati, viene attraversata a proiettile intero, a circa 410 m/sec.
Una corazza di 150 mm. cementata, attaccata a 30° dalla normale con proiettili incappucciati da 203 mm. e del peso di 113,7 kg., viene attraversata alla velocità di circa 490 m/sec., e attaccata a 15° dalla normale con proiettili incappucciati di 152 mm. del peso di 49 kg., viene attraversata alla velocità di circa 590 m/sec.
Una corazza di 100 mm. cementata, attaccata con proiettili incappucciati da 152 mm. e del peso di 49 kg., è perforata alla velocità di circa 470 m/sec. con angolo di urto di 15°, e a quella di circa 49° con angolo di 20° (angoli misurati dalla normale).
Una corazza omogenea da 70 mm., d'acciaio speciale "Ansaldo", attaccata con proiettili nudi di 203 mm. e del peso di 113,7 kg. con un angolo della normale di 65°, resiste alla velocità di circa 390 m/sec.
Possiamo accennare che si sono fatti studî sulla perforazione e specialmente sul comportamento al tiro di strutture complesse, applicando la legge di similitudine meccanica, cioè facendo esperimenti contro corazze di grossezza ridotta, contro le quali si tirava con cannoncini (subcalibri) che avevano un dato rapporto con il cannone vero.
Si deve anche aggiungere che sembra si voglia tornare a un'antica idea, lanciata da alcuni nostri artiglieri, per la quale si hanno da superare, peraltro, grandi difficoltà pratiche; si tratta di determinare cioè la velocità di stretta perforazione con il rilevamento delle velocità del proiettile prima e dopo l'attraversamento di una corazza.
Formule di perforazione. - Queste formule debbono dare la velocità minima di perforazione, o, come si dice, di stretta perforazione, in relazione alla grossezza e alla natura della piastra, all'angolo di urto e al calibro e al peso del proiettile: quindi, per corazze di natura differente, esse indirettamente ne indicheranno la qualità relativa, qualità che può essere espressa come rapporto delle grossezze necessarie per resistere a uno stesso modo d'offesa, oppure come rapporto delle velocità d'urto occorrenti per vincerle, a pari proiettile. Le formule di perforazione sono numerosissime, e sebbene basate su concetti più o meno teorici, sono tutte essenzialmente sperimentali, per non dire empiriche. Esse si ottengono mettendo in relazione la forza viva del proiettile all'urto con il lavoro di perforazione e trascurando ogni altro fattore. Si ha così una relazione fra l'energia del proiettile, la grossezza della piastra e il calibro del proiettile, cioè il diametro del foro.
Per il tiro a urto perpendicolare alla faccia della corazza, le formule hanno la forma comune
dove K è una costante, P il peso del proiettile in kg., A il suo calibro e G la grossezza della piastra nel punto colpito in dm., V la velocità all'urto in m/sec., m, n e p tre esponenti. Le tre formule fondamentali sono:
"Krupp", nella quale il lavoro di perforazione è dato in proporzione del quadrato della grossezza e del diametro del foro, ossia della superficie laterale del foro: PV2 = K.A.G.2 (dove K = 24082); essa vale per piastre non cementate sottili;
Tresidder", nella quale al concetto precedente si aggiunge l'elemento "durata della perforazione": quindi la velocità entra alla terza potenza:
dove K - 31,6;
"De Marre", nella quale n e p hanno valori intermedî fra quelli delle due formule "Krupp" e "Tresidder", valori desunti da prove numerose: PV2 = K • A1,5 G1,4, dove K = 1530 per l'acciaio dolce, e K = 2450 per corazze cementate.
Nella R. Marina italiana si segue in massima la formula De Marre, e da essa si traggono le velocità d'urto per le prove, sostituendo a G un valore fittizio G' = k. G: dove K è appunto quel fattore di qualità sopra indicato. Esso fattore, per piastre al Cr Ni cementate, è variabile con la grossezza, e raggiunge in massima i valori della seguente tabella:
Ciò vuol dire, p. es., che una corazza di 150 mm. K. C. (Krupp cementata) ne vale press'a poco una d'acciaio comune del 58% più grossa.
Le formule precedenti valgono per urto normale, con proiettili senza cappuccio. Quando si adoperano proiettili incappucciati, la velocità così calcolata deve essere diminuita del 20-24%.
Deduzioni abbastanza precise si possono anche trarre, come si diceva, dal confronto del comportamento di calibri diversi, applicando ai risultati noti d'un certo calibro la legge della similitudine meccanica. Tutte le formule e le deduzioni indicate valgono per tiri perpendicolari alle piastre, ma quando l'angolo che forma l'asse del proiettile con la loro superficie esterna è diverso da 90° (il che si verifica generalmente per i proiettili che colpiscono una nave in combattimento), la resistenza della corazza è notevolmente più grande, tanto per la maggiore grossezza che essa presenta alla penetrazione, quanto per le peggiorate condizioni di attacco dei proiettili (forma dell'ogiva, movimento rotatorio, azione giroscopica, ecc.): condizioni che solo parzialmente sono migliorate dal cappuccio. In prima approssimazione, si ritiene che fino a 50° dalla normale il proiettile lavora con effetto punzonante e oltre i 50° con effetto contundente, quantunque in questo secondo caso il fenomeno possa essere complicato da un cedimento iniziale della piastra, che aumenta l'angolo di attacco del proiettile, e ne favorisce l'azione.
Nel primo caso (angolo dalla normale a 〈 50°), siccome il proiettile attraversando la corazza si avvicina alla normale ad essa, si può considerare come efficiente la componente della velocità
(Tresidder). Nel secondo caso (a 〈 50°), nonostante l'importanza fondamentale che presenta il problema per la difesa delle parti orizzontali delle navi contro le artiglierie, non esistono ancora formule generali che lascino prevedere esattamente il risultato del tiro: in tal caso solo l'esperienza può dare gli elementi ricercati.
Per l'applicazione delle corazze delle navi e per la loro distribuzione v. nave. V. anche artiglieria; munizioni; ecc.
Bibl.: U. Gregoretti, Corazze per navi, Roma 1907; E. Bravetta, Origine e progressi delle corazze per navi, in Riv. di Art. e Genio, 1910, III; Ehrensberger, Aus der Gsch. der Herstellung der Panzerplatten in Deutschland, in Stahl. u. Eisen, agosto 1922; P. Bertagna, Man. del tiro, Firenze 1929-30.